Old friendships.

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    Con "ataxofobia" si indica la paura del disordine, del contrattempo, di qualcosa che non è al posto in tutti ci aspetteremmo di trovarla. Astoria Greengrass odiava quelle sensazioni: il cuore che aveva cominciato ad accelerare, i muscoli che guizzavano impazienti sotto la sua pelle candida, le mani sudavano e la mente non riusciva a costruire qualcosa di concreto senza richiedere un grosso sforzo psicologico. Fin da quando aveva memoria, gli imprevisti l’aveva sempre messa di cattivo umore. Detestava trovarsi faccia a faccia con una situazione che non era capace di fronteggiare. L’idea di affrontare l’ignoto la rendeva ciò che non avrebbe mai voluto essere: impreparata. Il rumore dei suoi tacchi si udivano fin fuori dal suo ufficio. Continuava a camminare, avanti e indietro, ormai da più di cinque minuti. La testa bassa, le braccia incrociate al petto, l’espressione pensierosa, concentrata, arrabbiata. La stessa espressione che esibiva fin dai tempi della scuola, ai suoi compagni, quando qualcosa non andava come voleva. La stessa faccia che li faceva scappare a gambe levate. Se era arrivata dov’era non era certo per essere andata in giro a perdonare. Perdonare è per chi non sa gestire le situazioni. Perdonare è più facile che agire. Aveva perdonato fin troppo, in tutti quegli anni. Aveva voluto lasciar perdere situazioni che le avevano lacerato l’anima, il cuore, l’avevano fatta sentire privata di dignità e di amor proprio. Lo aveva fatto per tenere l’immagine pubblica della famiglia perfetta, immagine alla quale si era aggrappata con le unghie e con i denti. “L’importante è che tutti credano ciò che tu vuoi far credere loro”. Gli insegnamenti di suo padre risuonavano nella sua testa, con la voce imponente e profonda dell’uomo, quasi come se lui fosse ancora lì, vicino a lei, a rimproverarla ogni volta che la sua ormai fragile mente cominciava a vacillare.
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    Si fermò davanti alla scrivania, fissando ancora una volta la prima pagina del caso sui rapporti con il Ministero Tedesco. Era stata avvertita di tutta quella faccenda il giorno dopo Capodanno. Il suo telefono aveva cominciato a vibrare ed era stata sollevata nel sentire la voce di sua figlia. Le aveva mandato almeno una decina di messaggi, messaggi che a Lyra non erano arrivati se non nel momento stesso in cui l’aveva finalmente sentita al telefono. I dettagli di ciò che era accaduto le avevano raggelato il sangue. C’era un cadavere nel treno dove viaggiava la sua bambina. Avrebbe voluto raggiungerla, fiondarsi da lei, ma non sarebbe stato un gesto cauto. Sapeva che Lyra era in buone mani, ormai al sicuro, e che l’avrebbe riabbracciata non appena rimpatriata. Ancora una volta aveva percepito quanto fragile fosse la volontà di una madre di fronte ai figli in difficoltà. Dopo il Lockdown, dopo che aveva avuto paura di perdere entrambi, si era detta che Scorpius e Lyra non avrebbero dovuto muovere un passo senza tenerla aggiornata sui loro movimenti. Aveva sviluppato una forma più acuta di ansia, rendendosi lentamente consapevole di quanto fosse faticoso il ruolo di una madre. Finchè i bambini sono piccoli puoi impegnarti a tenerli lontani da ogni tipo di pericolo. Sono facili da controllare, non è difficile tenerli a bada. Ma quando crescono le cose si fanno immediatamente più difficili. I figli cominciano a cercare la loro indipendenza, bramandola, allontanandosi sempre di più dal genitore che pare volergliela negare. Desiderano camminare con le loro gambe, senza aver paura di cadere, coraggiosi come se nulla potesse scalfirli, immortali come solo i giovani sanno sentirsi. Come poteva impedirgli di farsi male? Come poteva superare la paura costante ed opprimente di perderli? Era un dolore fisico, all’altezza del petto, che le premeva sul cuore facendole mancare l’aria. Quando pensava che tutto fosse apposto ecco che compariva qualcos’altro, un altro problema, un altro pericolo dal quale proteggere la sua famiglia. La sua interlocutrice sarebbe arrivata da un momento all’altro. Le aveva accuratamente spedito una lettera dove era richiesta la sua presenza nel suo ufficio alle sedici in punto. Aveva scelto quell’ufficio perché era l’ufficio di suo padre e inoltre la visuale da lì era eccezionale. Oltre la sua finestra, diversi piani più in basso, si trovava l'Atrio, un'enorme sala al cui centro si trovava la Fontana dei Magici Fratelli, una grande costruzione la cui acqua sgorga dalle statue dorate che rappresentano un mago, una strega, un centauro, un goblin ed un elfo domestico. L'Atrio era in fermento. I camini lungo le pareti continuavano a bruciare di fiamme verdi mentre i dipendenti Ministeriali intraprendevano quel va e vieni come facevano ogni giorno. Tutti avevano i loro compiti. Tutti si sbrigavano per eseguirli alla perfezione. Si muovevano meccanicamente. Parevano non sfiorarsi neanche in mezzo alla folla. Le pareva di poter leggere le loro menti, proiettate verso un qualcosa da costruire, da perfezionare. Questo le dava sicurezza. Questo le piaceva. Tendeva a considerare le persone delle semplici unità, ognuna delle quali aveva un compito da eseguire. Tutto ciò in previsione di un disegno troppo grande per loro. Erano tutti niente poco di meno che ingranaggi di un enorme meccanismo che ultimamente si muoveva a fatica. C’erano troppe cose a cui pensare. Non erano ancora stati archiviati tutti i documenti sul Lockdown - testimonianze, decessi di giovani ragazzi e processi di genitori infuriati -, che già un altro orrore era arrivato a far tremare il Mondo Magico. Roteò le spalle, raddrizzando la schiena ed ispezionando la sua immagine riflessa nel vetro della finestra. Aveva le guance arrossate e il resto del volto estremamente pallido. Doveva calmarsi. Doveva smaltire quella rabbia come una brutta sbornia. Doveva farsi vedere come sempre: imperturbabile ma risolutiva. I capelli ordinati le lasciavano scoperto il viso spigoloso, ricadendole sulla schiena con delicatezza. Indossava un elegante abito color porpora, aderente che le fasciava le braccia e le lasciava scoperte le gambe. Ai piedi, come al solito, un paio di tacchi alti. Aveva le braccia incrociate al petto. Il suo sguardo si soffermò per un attimo sul proprio viso. Somigliava terribilmente a suo padre. Gliel’avevano detto sempre, fin da quando era piccola e per lei era sempre stato un punto di vanto. Suo padre era un uomo incredibilmente affascinante, dai tratti severi e l’espressione di chi sa perfettamente cosa fare in ogni situazione. Le mancava. Le mancava tanto, ogni giorno. Le piaceva pensare che fosse fiero di lei e di dove fosse arrivata. Suo padre le aveva insegnato tante cose, ma soprattutto a farsi rispettare. Avrebbe dovuto affrontare la situazione con fermezza, senza farsi influenzare troppo dal passato. Eppure, l’idea di rivederla la rendeva nervosa. Lei ed Andromache non si parlavano da anni, da quando lei aveva perso il lavoro al Ministero, schierandosi dalla parte dei Ribelli, destabilizzando le idee che Astoria si era fatta su di lei fino a quel momento, facendola sentire confusa e imbrogliata. Le due donne avevano sempre condiviso molto. Avevano entrambe un carattere forte ma che invece di farsi energia contraria, avevano cominciato a remare nella stessa direzione. Andromache era la sua compagnia durante le serate dell’Astra ogni volta che Draco non si presentava insieme a lei. Ma da quando la Kane aveva riottenuto il suo lavoro all'Ufficio per la Collaborazione Internazionale Magica, le due non si erano ancora rivolte la parola. Astoria ignorava la sua esistenza, fingendo di non vederla quando si incrociavano per i corridoi. Si sentiva ferita, forse egoisticamente. Le donne sapevano di pensarla diversamente per quanto riguardava le vicende politiche, ma durante la loro ultima conversazione Astoria l’aveva accusata di ipocrisia. Forse aveva esagerato. Forse parlava la sua parte ferita perché in un periodo della sua vita dove si sentiva abbandonata da tutti, anche lei, aveva deciso di abbandonarla. Eppure dovevano incontrarsi. Dovevano parlare di quei documenti, di cosa il Ministero Tedesco e la Kane si fossero detti e vedere di concludere quel fascicolo. Qualcuno bussò alla porta. Lanciò uno sguardo fugace all’orologio. Le sedici erano già arrivate, cogliendola del tutto impreparata. Si rizzò nella schiena, voltandosi verso la porta del suo ufficio. Si schiarì la voce. «Avanti.» La porta si aprì mostrando la figura di Andromache Kane in tutto il suo splendore. Astoria serrò la mascella. «Miss Kane si accomodi.» Il tono era estremamente formale. Si rivolse alla donna dandole del “lei” ed indicandole la poltroncina difronte alla sua scrivania. Si avvicinò verso una vetrinetta. L’aprì, rivelando al suo interno delle bottiglie assieme a dei bicchieri. «Gradisce qualcosa? Bourbon? Whisky Incendiario? Acquaviola?» Si versò quest’ultima in un bicchiere basso di vetro spesso. «Sono certa che lei sappia perche siamo qui. Il treno che ha portato degli studenti a Berlino. Un uomo ucciso. Vorrei sapere se ha avuto notizie dal Ministero Tedesco.» Si fermò, accanto alla scrivania e solo allora, per la prima volta da quando la Kane era entrata nella stanza, Astoria puntò gli occhi glaciali su quelli della donna.

     
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    Era con il sapore di un’altra tragedia che Andromache Kane aveva accolto il mattino, una manciata di giorni prima.
    Più lavoro, relazioni diplomatiche da proteggere, questioni internazionali da sbrigare — tutto ciò aveva portato un’aria tesa all’interno del Ministero, che già di suo si trovava sempre in fermento.
    I suoi sogni erano stati popolati da incubi, nonostante avesse appurato che Cassandra non si trovasse su quel treno — il pensiero di averla potuta perdere, ancora una volta, non allentava la morsa allo stomaco che aveva provato nel sentire di quel ragazzo assassinato.
    Eric Donovan non era molto più grande di sua figlia — un promettente giocatore di quidditch, un fascio di muscoli aitante e veloce. Ma era più di questo, ed Andromache non l’avrebbe mai saputo — era più di tutto ciò che avevano scritto su di lui nella Gazzetta del Profeta ed in altre testate di varia importanza.
    A quel punto, Eric Donovan era una tragedia — un terrore che dilagava tra gli uffici e all’interno dei dormitori.
    Non era raro che Andromache avesse brutti presentimenti — ma quella notte, quella notte se lo sentiva, mentre consumava il Capodanno davanti ad una bottiglia di spumante. I festeggiamenti non l’avevano mai entusiasmata, ma, tra i Kane, era tradizione riunirsi ad ogni possibile occasione in Irlanda.
    Cassandra si era ribellata alle sue direttive, ed Andromache si era ritrovata a cedere, dopo settimane di litigi — l’aveva lasciata uscire con i suoi amici, a patto che tornasse a casa sana e salva ad un orario decente della mattina, perché Andromache l’avrebbe aspettata, tornando a Londra con la metropolvere.
    Tuttavia, Andromache era stata chiamata al lavoro con urgenza assoluta, la mattina del primo gennaio. Non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere Cassandra rientrare — le aveva lasciato un biglietto, ma, appena uscita dalla porta di casa, aveva deciso di telefonarle. Aveva risposto alla seconda chiamata, in maniera scocciata e saccente, dicendo che stava bene e sarebbe tornata a breve.

    Doveva vedere Astoria alle sedici — se l’era appuntato su un post-it, che aveva lasciato in bella vista sulla scrivania. Nonostante questa fosse ricoperta di documenti e scartoffie, trasudava un ordine impeccabile anche solo ad una breve occhiata.
    Era stata impegnata per tutti i giorni seguenti alla tragedia riguardante il treno arrivato a Berlino e Donovan sin dal primo gennaio, raccogliendo le informazioni centellinate che gli auror tedeschi si degnavano di comunicare — erano orgogliosi, in Germania, fiduciosi di risolvere il caso da soli. Tuttavia, erano comunque consapevoli dell’imperativo comando di riportare le loro indagini al Ministero inglese, in quanto esso fosse ingarbugliato in quella catastrofe quanto loro. Il treno era giunto a Berlino, ma a bordo c’erano dei ragazzi britannici.
    La soglia che la separava dall’orario in cui avrebbe dovuto raggiungere l’ufficio della collega si avvicinava inesorabilmente, finché non arrivò, cogliendola impreparata, almeno sul piano emotivo.
    Non parlava con Astoria da quando era stata reintegrata al Ministero — o ancora da prima, da quando aveva scelto di unirsi ai Ribelli.
    Erano simili, la Kane e la Greengrass, per quanto venissero da ambienti diversi. Entrambe testarde, entrambe orgogliose, ognuna con le proprie idee ed i propri principi. Erano quelli, il vero problema — i valori fondamentali, da sempre inculcati, a forza o meno, dalle famiglie.
    Si dice che al mondo non ci sia forza più modellante di quella famigliare ed ambientale — Andromache ed Astoria erano un prodotto delle loro esperienze e vicissitudini, il loro carattere si era fondato su di esse ed aveva continuato imperterrito a farsi strada in mezzo alla vita. Ma i loro pensieri, ciò in cui credevano era stato consegnato come un pacchetto pronto dal modo in cui erano cresciute, e, Andromache ne era sempre stata consapevole, questo non poteva essere più diverso.
    Il lusso contro la restrizione, la tradizione conservatrice contro l’apertura mentale.
    Andromache si era sempre chiesta esattamente come fosse riuscita ad avvicinarsi ad Astoria, viste le loro idee così divergenti, ma era contenta di averlo fatto. Aveva trovato in lei un’amica ed una confidente fidata — ed aveva osservato tutto sgretolarsi in un battito di ciglia nel momento in cui avevano preso posizioni diverse.
    Se fosse stata meno orgogliosa, sarebbe andata a parlarle prima — se solo anche Astoria fosse stata meno testarda, avrebbero potuto chiarire le loro idee davanti ad un bicchiere di vino, com’erano sempre state solite fare.
    Ma il mondo al di fuori di loro stesse le aveva forgiate in quel modo, e forse niente avrebbe potuto cambiare.

    Era alle sedici in punto che le sue nocche si scontrarono piano contro il pezzo di legno che la separava dall’ufficio di Astoria. Dopo aver udito il cenno di permesso dall’altra parte, Andromache si era palesata nella stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
    Il tono era tagliente, formale — Andromache si sedette con un cenno del capo, la cartella con i documenti stretta al petto, quasi fosse un tesoro inestimabile, l’unica ancora che aveva per restare a galla.
    Astoria non la guardava, continuava a riempirla di domande con una tranquillità glaciale, a cui Andromache decise di abituarsi ed adattarsi.
    «Bourbon», acconsentì — un aiuto per superare la chiacchierata. Attese che il bicchiere le fosse servito, ma non lo portò ancora alle labbra — preferiva aspettare, vedere che piega avrebbe preso il discorso.
    Ed immediatamente esso venne indirizzato verso il lavoro, quasi con una punta di tristezza al fondo del suo stomaco — ma si riprese presto, conscia che, d’altronde, il motivo della visita era precisamente quello.
    «Il Ministero tedesco non ci sta aiutando molto — almeno, non più di quanto siano obbligati a fare», ammise, quindi, poggiando la cartella con i documenti sulla scrivania immacolata, «Gli auror hanno interrogato i ragazzi, uno ad uno, e questi hanno potuto scegliere di sottoporsi al Veritaserum e a fornire i propri ricordi al pensatoio per avere delle informazioni più dettagliate riguardo all’accaduto, ma… il problema si incontra qui», prese una pausa, ancora confusa e guardinga dalle stesse notizie che aveva letto e catalogato più volte, «I ragazzi non riescono a comunicare ciò che ricordano — il pensatoio non ha lasciato alcun indizio sugli avvenimenti, semplicemente perché le loro memorie… non funzionano. Gli auror stanno ancora cercando di capire come sia possibile, ma è come se i ragazzi fossero consci di ciò che ricordano, ma non riuscissero a comunicarlo. La loro memoria è stata manipolata».



    Edited by fighter of men - 1/4/2020, 00:40
     
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    Aveva sempre trovato piacevole la compagnia di Andromache Kane. Era una donna incredibilmente bella, dal carattere forte, sapeva muoversi con grazia e risolutezza in quel mondo ministeriale colmo di maschilismo e arrivisti. Tutt’ora, nonostante fossero passati anni da quando Astoria si era guadagnata quella scrivania, a volte le sembrava di non essere ancora presa sul serio. Pareva inconcepibile che una bella donna potesse avere anche altre qualità come intelligenza e polso fermo. “Le donne sono troppo emotive. Non potrebbero mai prendere una decisione razionale”. Ridevano. Ridevano dentro la sala riunioni quando ancora le colleghe non erano arrivate. Sapeva che sarebbe stato difficile, ma non credeva che avrebbero continuato così a lungo. Andromache era un’ottima compagnia, con la quale poteva sfogarsi parlando di quanto fossero idioti i loro colleghi. Si capivano su molte cose, anche per quanto riguardava l’essere madre. Vederla nel suo ufficio le fece uno strano effetto. Se da una parte si sentiva a disagio, dall’altra pareva che non fosse passato neppure un giorno dalla loro ultima chiacchierata. «Bourbon» Annuì, versando il liquore in un bicchiere basso e di vetro robusto. Lo porse alla donna per poi indietreggiare, poggiandosi alla scrivania e sorseggiando la sua Acquaviola. Tirò fuori da un cassetto due sottobicchieri sopra uno dei quali posò il suo bicchiere. «Il Ministero tedesco non ci sta aiutando molto — almeno, non più di quanto siano obbligati a fare» La Kane poggiò i documenti sulla scrivania e fu allora che Astoria allungò la mano, posando le dita sulla cartellina e facendola scivolare verso di sé. Cominciò a sfogliare le pagine, mentre la mora parlava dei problemi che gli Auror avevano riscontrato con i ricordi degli studenti. Annuiva lentamente, mentre il suo sguardo scorreva tra le righe, velocemente. «I ragazzi non riescono a comunicare ciò che ricordano [...] La loro memoria è stata manipolata» Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un lungo sospiro. Un attento osservatore avrebbe notato l’espressione preoccupata che si era creata sul viso della signora Malfoy, anche se lei cercava di mascherarla. «Tua figlia era su quel treno?» Uno squarcio di umanità su quella maschera di pregiudizio. Perché Astoria era una donna in carriera, ma soprattutto, prima di ogni cosa, Astoria Greengrass era una madre. Per la prima volta da quando Andromache era entrata nella stanza, il viso della signora Malfoy si lasciò sfuggire un’espressione diversa rispetto a quella maschera di pura indifferenza che si era calata sul viso nel momento in cui la Kane aveva aperto la porta. Si ricordava di Cassandra. Lei e la madre erano state a cena al Malfoy Manor qualche volta, quando tra le due donne correva buon sangue. Cassie era una bambina solare, dai capelli biondi e gli occhi azzurri come quelli di Andromache. Aveva un nodo allo stomaco pensando a sua figlia. Lyra era forte. Proprio come sua madre, tendeva a tenersi tutto dentro, rischiando di esplodere, in silenzio, in un modo che avrebbe fatto male solo a lei. «Sarà diventata grande. Quanti anni ha?» Afferrò nuovamente il bicchiere, portandoselo alle labbra e bevendo un sorso. Era il momento di allontanare i sentimentalismi e ricominciare a parlare di cose di lavoro. Chiuse un attimo gli occhi, come se quel piccolo gesto le servisse ad allontanare quel momento di morbidezza, per recuperare il velo di serietà che aveva contraddistinto l’inizio della loro discussione. Come era possibile tutto quello che era uscito dalla bocca della Kane? Come potevano i pensatoi e il Veritaserum non essere in grado di estrapolare i ricordi ai ragazzi? Che tipo di magia era quella? Se c’era una sicurezza, era che il Ministero non si trovava difronte ad una difficoltà mondiale simile da un sacco di tempo.
    «La situazione è peggio di quanto potessi immaginare. Questi documenti vanno terminati il prima possibile e consegnati alla Ministra quanto prima. Ci servono innanzitutto i nomi di tutti i partecipanti. Deve esserci un elenco, per forza. E’ importante sapere anche se sono tutti rimpatriati o c’è ancora qualcuno a Berlino. Dobbiamo capire tutti gli spostamenti, se qualcuno è salito e non è mai sceso o viceversa.» Svuotò il suo bicchiere, con velocità, come si era abituata troppo a fare negli ultimi tempi quando era sola a casa. Posò l’indice della mano destra sulla tempia, massaggiandola delicatamente. Improvvisamente aveva un gran mal di testa, forse dovuto alla marea di pensieri che le turbinavano in mente. Aprì un cassetto dal quale tirò fuori una pergamena. Afferrò la piuma, intinse la sua punta nell’inchiostro e mentre scriveva cominciò a parlare. «Scriverò una lettera la Ministero Tedesco. Ci serve sapere ogni informazione possibile. Non accetterò un no come risposta. Sono i nostri ragazzi. Hanno il diritto di dirci tutto ciò che li riguarda.» Anche le cose peggiori. Rimase in silenzio per qualche secondo, mentre la piuma scorreva veloce sul foglio di carta. La sua calligrafia era lineare, ogni parola pareva composta da una sola linea elegante. Quando terminò, infondo scrisse la sua firma, per poi marchiarla sopra con il timbro ministeriale. La infilò in una lettera e a passo rapido si diresse verso la porta. L’aprì. «Stevenson?» Si guardò intorno. Un uomo sulla sessantina arrivò a passo svelto. Aveva gli occhi piccoli, nascosti dietro un paio di occhiali dalle lenti spesse. «Miss Malfoy?» «Porta questa lettera a chi di dovere. Dovrà essere spedita al Ministero Tedesco il prima possibile.» Porse la busta all’uomo e questo l’afferrò con le dita callose, annuendo, per poi darle le spalle e sparire lungo il lungo corridoio circolare che lo separava dall’ufficio che si occupava dello smistamento della posta. Si richiuse la porta alle spalle, tornando difronte alla Kane, poggiandosi alla propria scrivania ed osservando il suo bicchiere vuoto. Seguirono dei momenti di silenzio. Avrebbe voluto dire tante cose. Ci aveva pensato, qualche volta, a tutte le cose che avrebbe voluto dirle in faccia, ma ora che era arrivato il momento, queste parevano non voler uscire. Perciò decise di proiettarsi ancora una volta sul lavoro. «Come hanno fatto ad impedire l’estrapolazione dei ricordi? Non conosco questo tipo di magia..» Era una cosa che detestava. Stava parlando a sproposito, cercando di nascondere il disagio che quella situazione le portava. Era infastidita. Sia dall’episodio di Capodanno che da Andromache seduta nel suo ufficio. Il motivo era, in entrambi i casi, che non sapeva come comportarsi. Astoria Greengrass odiava sentirsi persa, come invece dava l’idea di essere in quel momento. Perciò, fece l’unica cosa che valeva la pena di fare: si versò un altro bicchiere. Ma fu in quel momento, dopo che le papille gustative saggiarono nuovamente il sapore di quella sostanza violacea, che le parole scivolarono dalle sue labbra con la stessa velocità di un pensiero. «Sono molto arrabbiata con te, Andromache.» L’aveva chiamata per nome, riversandole addosso ciò che si era tenuta dentro dall’inizio di quella discussione, piantando gli occhi sui suoi, un’espressione indecifrabile sul viso. Più che rabbiosa pareva solo frustrata. Perché mi hai abbandonata pure tu? Non bastavano i suoi figli che se ne andavano al College, suo marito che tornava una sera si ed una no.. Anche lei se ne era andata, lasciandola sola, ferita. «Dammi pure dell’egoista, della stronza, ma Merlino solo sa quanto mi abbia fatto sentire sola il tuo comportamento! Cosa sarebbe successo se ci fossimo trovate una davanti all’altra durante quel periodo? Mi avresti ammazzata?» E tu, tu lo avresti fatto Astoria? Avresti messo il tuo sangue prima dell’amicizia?

     
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    Spesso pensava di sapere cosa passasse nella testa di Astoria — erano state amiche per molto tempo, nonostante le differenze, nonostante i principi e le idee completamente opposte. Le univa quel desiderio di rivalsa nei confronti di un mondo fin troppo maschilista — stringere i denti e tirare fuori le unghie, una pantera ed un lupo che si aggiravano, solitari, all’interno di un mondo di leoni. Avere una posizione di rilievo al Ministero era così — nonostante la Ministra fosse, appunto, una donna, Andromache non si era mai sentita abbastanza importante. Risolini camuffati con colpi di tosse, commenti bisbigliati tra i denti sulla sua forma fisica, sul come la gonna del tailleur le fasciasse le curve. Non era così che Andromache immaginava fosse il mondo all’infuori dei suoi libri di testo — ma se n’era fatta una ragione, aveva camminato a testa alta, il naso all’insù, le orecchie che tentavano di restare al di sopra delle dicerie. Non era una donna sposata — forse quello aveva un peso, forse un uomo al suo fianco avrebbe allentato le pressioni, ma Andromache aveva abbandonato l’idea tempo addietro. Non si sarebbe accontentata di trovare un uomo che la oscurasse, non si sarebbe rilegata nella sua ombra portandogli una bottiglia di birra fino al divano.
    Era scesa a patti con l’essere una madre single più di dieci anni prima, dopo storie finite male e impossibili da recuperare.
    Sapeva che per Astoria fosse diverso — lei un marito ce l’aveva, la facciata della famiglia sempre perfetta, non un capello fuori posto, una macchia sui vestiti. Aveva conosciuto Scorpius e Lyra, ma soprattutto Draco — non era un uomo pieno di parole, ma sapeva come attirare l’attenzione verso di sé. Andromache, tuttavia, non riusciva a sopportarlo, per via degli sfoghi che Astoria le aveva propinato davanti ad un bicchiere o due.
    Come stai?, avrebbe voluto chiederle, per l’appunto — come ti senti, cosa ti passa per la testa, com’è la situazione in famiglia.
    Ma, dopo due anni senza parlarsi a meno che non fossero questioni di lavoro, Andromache aveva perso le parole — la gola secca, la lingua impastata, che si scioglieva solo parlando del misterioso caso di Capodanno.
    Quella domanda su Cassandra colpì dritta il cuore di Andromache, accendendo una fiammella di rabbia e di speranza — «No, non era sul treno», rispose, una smorfia di sollievo che ancora le coronava le labbra, «So che Lyra, però, era presente», affermò, uno sguardo che cercava un’intesa forse impossibile da ritrovare, «Come si sente?».
    Era sinceramente interessata all’incolumità di Lyra, ma, egoisticamente, voleva anche mostrare ad Astoria che le importava, ancora, dopo tutto quel tempo.
    L’espressione glaciale di Astoria si era sciolta, nel nominare Cassandra — Andromache immaginava che, proprio come il suo, il pensiero della donna fosse andato a sua figlia.
    «Sedici quest’anno», rispose, un piccolo sorriso ad incresparle le labbra, la tenerezza nel tono di voce, «Dovresti vederla, è diventata così bella», ma lo è sempre stata, avrebbe voluto aggiungere.
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    Comprendendo, però, che il momento per le distrazioni fosse finito, raddrizzò la schiena, smettendo di appoggiarsi allo schienale della seduta — prese il bicchiere, e lasciò scivolare in gola un goccio di bourbon, imitando Astoria.
    Annuì, alle parole dell’interlocutrice, «Sono i nostri ragazzi», ripeté, «La lettera potrebbe aiutarci affinché ci forniscano un elenco. Possiamo chiamare le famiglie, chiedere se i figli sono tornati a casa, se dovessero essere minorenni — anche se mi risulta che la festa fosse riservata ai soli studenti del College, ma i ragazzi trovano sempre un modo per imbucarsi», sospirò, la testa che di nuovo viaggiava verso Cassandra.
    Osservò Astoria, le sue movenze così eleganti, tanto da sembrare che fluttuasse sul pavimento, mentre si dirigeva al di fuori dell’ufficio, per consegnare la lettera.
    Finché non tornò al suo posto, ed Andromache notò un’espressione differente — tese le orecchie, pronta al cambiamento d’aria. Ma la conversazione piegò di nuovo sul lavoro, per la sua delusione — sei qui per discutere di lavoro, Andromache, le ricordò la sua coscienza, Non per sistemare il vostro rapporto.
    «Non ne ho idea», rispose, una nota di frustrazione nella voce, «Nemmeno io conosco questo tipo di magia, e non mi piace l’idea che qualcuno la utilizzi per fare del male ai nostri figli», rincarò la dose, gli occhi che saettarono verso il bicchiere, di cui finì il contenuto, e poi verso Astoria, «Se ne sta occupando l’Ufficio Applicazione della Legge Magica».
    «Sono molto arrabbiata con te, Andromache.» — quella frase la colpì nel profondo.
    Si alzò, senza chiedere il permesso, riprese la bottiglia di bourbon e si versò un bicchiere.
    «Lo so», rispose, un tono quasi mesto — sentì, tuttavia, la rabbia che le montava nello stomaco. «Certo che no!», afferma, appoggiando il bicchiere sul tavolo, con una forza maggiore della mera casualità, «Non ti avrei mai ammazzato».
    «Anche io mi sono sentita sola!», punta gli occhi nei suoi, ghiaccio contro acqua, «Siamo diverse, Astoria. Abbiamo idee diverse», asserisce, «Io sono cresciuta in campagna, in Irlanda, in una famiglia di sei figli, in cui a fatica si sbarcava il lunario», le ricorda, «Tu, invece, non sei nata nel mio ambiente, sei nata Purosangue, sei nata nel lusso — e non è colpa tua! Io non te ne darei mai una colpa», sottolinea, guardandola con disperazione, quasi, «Ma devi capire perché non avrei mai appoggiato la tua fazione — sono una mezzosangue, Astoria. Mi hanno licenziato per questo. Cosa dovevo fare?!»



    Edited by fighter of men - 1/4/2020, 00:42
     
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    «No, non era sul treno. So che Lyra, però, era presente» Astoria annuì, lo sguardo fisso su di un punto indefinito nella trama del grande tappeto persiano ben disteso difronte alla propria scrivania. Era stato Cornelius Greengrass a metterlo lì, quando quell’ufficio gli apparteneva. Glielo aveva suggerito sua moglie. Per ravvivare la stanza, aveva detto. A Cornelius non importava assolutamente nulla, ma aveva ceduto sotto lo sguardo della donna. Astoria ricordava quando avevano comprato quel tappeto. Era accaduto durante una vacanza con la sua famiglia, ad Istanbul. Aveva sette anni. Ne era sicura perché era l’anno che mamma l’aveva portata a fare i buchi alle orecchie. La loro casa in affitto si trovava in Piazza Taksim. Una cosa che l’attraeva di quella casa era che dalla finestra del loro salotto era possibile accedere silenziosamente alla vista su un piccolo cafè. Astoria passava un sacco di tempo affacciata a quella piccola persiana, con le braccia incrociate sotto il mento, a rubare interessata un piccolo momento della vita di quegli uomini di cui non sapeva il nome. Ricordava drappeggi colorati attaccati alle pareti e bicchieri pieni di liquidi ambrati. Al centro dei piccoli tavolini vi erano quelli che alla bambina parevano dei grossi birilli di vetro colorato con dei piccoli tubi. Parevano tante piovre con lunghi tentacoli. Gli uomini seduti al tavolo si portavano questi tubicini alla bocca e l’aria si riempiva improvvisamente di fumo dai tanti aromi dolciastri. Durante quella vacanza papà si slogò una caviglia e la mamma dovette trascinarlo in ospedale. Angelina diceva che si stava comportando come un bambino. Lei e Freddie, alle loro spalle, ridevano come matti. Drappeggi colorati, fumo al sapore di vaniglia. Drappeggi colorati. Avrebbe voluto portarci Scorpius e Lyra, una volta. Era certa che a loro sarebbe piaciuta. «Come si sente?» Le parole di Andromache la riportarono alla realtà, non più tra le strade colorate di una città straniera, bensì tra le mura del suo ufficio, a Londra. «Lyra è una ragazza incredibilmente forte. Sta bene. Grazie per l’interessamento.» Era sincero, quel grazie. Lyra ormai era una giovane donna e come tale era poco incline a confidarsi con sua madre, come quando era solo una bambina e Astoria controllava sotto il suo letto, comunicandole che non c’erano mostri nascosti lì sotto. Magari avrebbe dovuto parlarci. I suoi figli le mancavano. Aveva avuto così poco tempo per loro e temeva che un giorno li avrebbe persi per sempre. «Sedici quest’anno. Dovresti vederla, è diventata così bella» Astoria annuì. Cassandra era sempre stata una bimba molto bella, così simile a sua madre. Riusciva perfettamente a credere che fosse sbocciata in una splendida ragazza. Stavano crescendo, i loro figli, ed un giorno si sarebbero dovuti far carico del retaggio dei loro genitori, compresi gli errori. Rimase ad ascoltare la collega, dicendosi che si aveva ragione, probabilmente ci sarebbero stati degli imbucati. Dovevano scoprire tutto. La cosa che però continuava a chiedersi era come fossero potuto sparire nel nulla il treno ed il corpo del ragazzo. Non sapeva se il giovane avesse famiglia, se così fosse stato non voleva neppure lontanamente immaginare come potevano sentirsi i suoi genitori. Perdere un figlio doveva essere il dolore più grande di questo mondo. Da certe cose non ci si può riprendere. Ce le portiamo dentro per tutta la vita, ferite impossibili da rimarginare, anche con il tempo. «Nemmeno io conosco questo tipo di magia, e non mi piace l’idea che qualcuno la utilizzi per fare del male ai nostri figli» Astoria si ritrovò nuovamente a muovere il capo in segno di assenso. «Ero solo una ragazzina durante l’ultima Guerra Magica. Non si può chiedere a dei bambini di combattere una guerra. Se penso a quello che ho provato.. Nel vedere i miei compagni morire davanti ai miei occhi..» Fu quella la prima volta che Astoria Greengrass posò meglio gli occhi su Draco Malfoy. Lui che se ne andava, scortato dai suoi genitori. Non poteva biasimarlo, anche lei lo avrebbe fatto. Ma la sua famiglia era lì, Daphne era vicino a lei, con le guance sporche di fuliggine e un rivolo di sangue che le rigava il mento. Aveva visto il Signore Oscuro venire annientato sotto i propri occhi e niente l’avrebbe mai privata di quel ricordo, quella paura che le avvolgeva le ossa come uno strato di ghiaccio. «Sta accadendo di nuovo. Qualcosa di più grande di noi e il non sapere cosa ci lascia completamente privi di informazioni.» Si versò un paio di dita di Acquaviola, il liquido dentro al bicchiere che cangiava di sfumatura ogni qualvolta lei lo facesse roteare. Qualcosa di troppo grande stava arrivando, oscillava sopra le loro teste come un’ascia, pronta ad abbattersi su di loro. Forse tra poco avrebbero dovuto nuovamente decidere da che parte schierarsi. Le sue parole avevano colpito Andromache. Se ne accorse con uno sguardo e le parole della donna confermarono la sua ipotesi. «Lo so»
    Astoria rimase in silenzio, la mascella serrata in un’espressione dura, le braccia incrociate al petto, un po’ per darsi un tono, un po’ per tenere una distanza da tutta quella situazione. L’ultima cosa che voleva era far capire ad Andromache quanto quella situazione la ferisse. Non avrebbe mai saputo la verità, nessuna delle due l’avrebbe mai saputa. Non si poteva essere certi che non si sarebbero fatte del male, lottando per due fazioni opposte. Neanche Astoria avrebbe mai voluto, ma tra dire e fare c’è differenza enorme. E se fossero state costrette? E se si fossero trovate con le spalle al muro dove solo una delle due poteva uscirne viva? «Ma devi capire perché non avrei mai appoggiato la tua fazione — sono una mezzosangue, Astoria. Mi hanno licenziato per questo. Cosa dovevo fare?!» «Venire da me.» Quelle parole uscirono come un ringhio, una voce che le saliva su dal petto, arrampicandosi per la gola lasciandosi dietro una scia di fuoco. Fu solo a quel punto che sciolse le braccia, facendole sciogliere rigidamente lungo i fianchi, le mani erano strette in dei pugni. «Avrei potuto aiutarti, tu e Cassie sareste potute stare da noi!» Le avrebbe nascoste, le avrebbe tenute al sicuro. Anche Draco sarebbe stato d’accordo. Forse stava delirando. Probabilmente stava costruendo un castello di carte, facile da buttare giù con un soffio. Si bloccò, di scatto, circumnavigando la scrivania e lasciandosi scivolare sulla sedia. «E’ tutto sbagliato.» Sospirò posando il gomito sul bracciolo e stringendosi la fronte con la mano. Chiuse gli occhi. «Non facciamo in tempo a superare una minaccia che subito se ne presenta un’altra.»

     
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