Casa Rosier-Baker

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    a graziosa casetta, di proprietà della famiglia Rosier da generazioni, si trova a Forest Dale Street 21, in prossimità di una piccola foresta e nella prima campagna circostante Hosgmeade. Si tratta di un cottage a tre piani, costruito in pietra e legno, parzialmente ricoperto da fitta edera; vi si accede attraverso una strada sterrata privata che, dopo aver superato la casa dell'anziana Mrs Stevenson, conduce ad un patio in legno su cui sono state sistemate alcune poltroncine di vimini. Il piano terra, ampio e luminoso grazie alle grandi finestre, ha uno stile rustico e semplice, confortevole ed accogliente. Dall'entrata sul salotto, l'ambiente è unico e si snoda attraverso la cucina abitabile; il bagno di servizio è sistemato accanto alle scale. Al primo piano si trovano le camere da letto (Daffy, June), sistemate ai lati opposti delle scale e ciascuna dotata di bagno privato. L'ultimo piano, invece, ospita la vecchia soffitta trasformata in una vera e propria camera da letto; è qui che June dormiva durante la convivenza con Caesar ma, al momento, la porta è sigillata con la magia e viene usata per lo più come ripostiglio. Al piano interrato è presente una piccola cantina, ma la zona più bella è la veranda sul retro, da cui è possibile ammirare la vista sul giardino e sulla foresta. Un tempo adibita a serra, viene chiusa e riscaldata durante l'inverno e scoperta in estate, andando così a formare un prolungamento della zona verde. Assieme al giardino, è il luogo ideale in cui rilassarsi, chiacchierare o concedersi un bicchiere di vino.

    Questa discussione rientra nel progetto quotidianità


     
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    La sua mano cercò alla cieca la sveglia riposta sopra il comodino. La trovò, nel buio della stanza, e, sempre tastando con la mano, trovò il pulsante per spegnerla. La luce filtrava dalle tapparelle chiuse, infastidendo lo sguardo assonnato di Daffy Baker. Si rigirò nel letto, svariate volte, mugolando e stiracchiandosi come un gatto pigrone. Rannicchiò le gambe contro il petto, scoprendosi la faccia dal lenzuolo e restando per un po’ ad osservare il soffitto della sua stanza il quale era costellato da stelline adesive che la ragazza aveva appiccicato poco dopo essersi trasferita lì, dopo aver chiesto il permesso a Junie. Erano di quelle che si caricavano con la luce del sole e quando si faceva buio pareva di guardare un bel cielo stellato. Daffy si stropicciò gli occhi con le mani, per poi raccogliere tutta la forza che aveva e scivolare giù dal letto. Si chiuse in bagno, dove legò i capelli con un elastico e si sciacquò la faccia con l’acqua fredda. Si catapultò in cucina. Junie non era ancora scesa e, per qualche motivo, ciò le fece abbassare un po’ la guardia. Da quando erano tornate a casa, da quando stavano cercando di riprendere in mano le loro vite, non avevano mai affrontato il discorso Capodanno. Le parole che si scambiavano erano leggere. Fingevano che non fosse successo niente, indossando una maschera e seguendo un copione che si sentivano costrette a recitare. Se prima il rapporto con Junie era estremamente semplice, adesso le pareva di far parte di una commedia tragicomica dalla quale non riusciva ad uscire. Si sentiva a disagio in presenza dell’amica, forse per paura di dire qualcosa di sbagliato, toccando tasti e corde che non avrebbe dovuto neanche sfiorare. La cosa non le piaceva per niente. Accese il fornello sopra il quale era posata la moka che aveva preparato la sera prima. Afferrò una tazza, la posò sul tavolo e si sedette. Si sentiva irrimediabilmente stanca, come se non fosse mai andata a dormire. Era stanca di comportarsi in quel modo con Juniper, era stanca di fingere che non fosse accaduto nulla, quando la verità era che quella notte sul treno l’aveva segnata in modo perenne, scolpendo un’altra tacca nella sua anima, impossibile da rimarginare. L’avrebbe affrontata. Sarebbe stata dura, per entrambe. Forse avrebbero alzato la voce, forse si sarebbero ferite, ma era una cosa che andava fatta. Sentì i passi di Junie, passi leggeri come quelli di un gatto che scendevano le scale. Tirò un profondo sospiro ed alzò lo sguardo, giusto in tempo per vedere Juniper spuntare davanti ai suoi occhi. «’ngiorno. Vuoi del caffè, Jù?» Scattò in piedi, andando a controllare la moka. Il caffè non era ancora uscito. Respira. Non ci riusciva. Continuava ad avere stampato in faccia quel sorriso innaturale, fingendosi felice come nessun essere umano poteva esserlo, soprattutto a quell’ora del mattino. Il silenzio regnò nella stanza, scandito pesantemente solo dal ticchettio dell’orologio.
     
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    Normalità. Nel corso degli ultimi mesi quella parola aveva perso ogni significato per Juniper, riducendosi ad un concetto totalmente astratto e, a tratti, quasi dimenticato. Non vi era stato nulla di normale in ciò che era accaduto a Capodanno, né nel ricordo di quella notte e dei giorni seguenti, marchiati a fuoco nella sua memoria. Eppure, a dispetto di tutto ciò, la vita di June aveva ricominciato a scorrere come se nulla fosse successo, almeno all’apparenza. Al ritorno da Berlino, i giorni si erano susseguiti, uno più insopportabile dell’altro, talvolta conditi dagli articoli pubblicati dalla stampa, talvolta in rigoroso silenzio. Anche Daphne era tornata nel piccolo appartamento di Hogsmeade, qualche giorno dopo di lei, come l’ennesimo tassello del puzzle che, sino a poco tempo prima, aveva fatto da sfondo alle loro vite: un puzzle che entrambe si erano ostinate a completare, indipendentemente dai pezzi mancanti, ostinandosi ad unire quelli a loro disposizione con la forza anche quando i bordi non combaciavano. “Vuoi un po’ di birra? Ti va una pizza? Guardiamo un film? Come è andato l’allenamento?” Le poche parole che avevano scambiato da allora erano state frivole, superficiali, forse perché nessuna delle due si sentiva ancora pronta ad esporsi. In un certo senso, parlare di ciò che era accaduto significava riviverlo accettare di essere vulnerabili o, peggio ancora, impotenti nei confronti di chi aveva ideato quel gioco perverso. Per la prima volta da quando le due Grifondoro avevano iniziato a vivere insieme, June si era sentita a disagio in presenza di Daphne. Non era certo colpa sua ma, quando erano in compagnia l’una dell’altra, ignorare l’enorme elefante nella stanza diventava più difficile. D’improvviso, il tirocinio al Ministero e l'inizio del nuovo semestre universitario le davano conforto, mantenendo la sua mente impegnata, lontana dall'indugiare su pensieri sin troppo assidui e, al contempo, le fornivano la scusa perfetta per rinchiudersi in camera, con il naso tra i libri, ed isolarsi dal resto del mondo. Purtroppo, non poteva dire lo stesso per gli allenamenti. Il mondo del Quidditch professionistico aveva espresso più volte cordoglio per la tragica fine di Eric Donovan e, pur innocente, June non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcuno tra i suoi compagni di squadra avesse cominciato a trattarla con improvvisa diffidenza. Non che potesse biasimarli; a ruoli inversi, anche lei sarebbe stata sfiorata dal seme del sospetto. “Non puoi farci niente. Gli Auror stanno facendo del loro meglio, risolvere questa situazione non è compito tuo. L’unica cosa che puoi fare è affrontare un giorno alla volta, a testa alta.” Le parole di suo padre quando era venuto a prenderla a King's Cross continuavano a rimbombarle in testa come un mantra. Ne aveva fatto una regola ferrea, il precetto con cui aveva condotto la propria esistenza, giorno dopo giorno. « Un giorno alla volta. » Ripetette, tra sè e sè, mentre l'acqua bollente le scrosciava sulla schiena, lungo il corpo, sino a depositarsi sul fondo di ceramica e venire risucchiata nello scarico, incapace di lavare via la sensazione di smarrimento. Chiuse l'acqua e si rivestì, soffocando uno sbadiglio. Quella notte aveva dormito male, rigirandosi di continuo senza trovare pace sino a quando, dopo una quantità di tempo che le era parsa infinita, si era infilata le scarpe da ginnastica ed era sgattaiolata fuori per una corsetta notturna in solitaria. Era tornata prima che facesse giorno, attenta a non produrre rumori che potessero disturbare la pace che regnava nel piccolo cottage. Dopo aver ripescato un elastico dal cassetto del bagno, forse in origine di proprietà di sua cugina Maddie a giudicare dall'enorme fiore che lo accompagnava, aveva raccolto i capelli umidi ed era scesa di sotto. Non aveva fame, ma sapeva che non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Tanto valeva rendersi utile e stilare la lista della spesa, prima di uscire. «’ngiorno. Vuoi del caffè, Jù?» Il saluto assonnato di Daffy la colse alla sprovvista; aveva dato per scontato che dormisse ancora. June si fermò sulla soglia della cucina, spostando il peso da un piede all'altro. « Ehi. » Mormorò, debolmente. “Andiamo, Rosier. Puoi fare di meglio.” Accennò ad un sorriso nervoso, annuendo con il capo. « Sì, grazie. » Si avvicinò, le dita che si chiudevano sul bordo delle maniche del maglioncino stropicciato che indossava, in un primo segnale di nervosismo. Daffy continuava a sorridere, le labbra tese in maniera forzata, gli occhi spenti. Si sedette sullo sgabello, incrociando le braccia sul legno del bancone di fronte alla coinquilina. « Hai qualche impegno oggi? » Era una domanda piuttosto debole ma Daffy l'aveva colta alla sprovvista e June non aveva potuto preparare qualcosa di più naturale. Si rialzò immediatamente e si diresse verso la credenza, con la scusa di prendere il barattolo dello zucchero. Il sorriso di Daphne la stava mettendo a disagio, l'intera situazione era più artefatta di una moneta da trenta galeoni. “Ti prego, smettila di sorridere.” Le passò lo zucchero, avendo cura di evitare il suo sguardo, e afferrò un block-notes ed una penna, aggirandola nuovamente per sedersi. « Stavo pensando di fare la spesa. » L'atmosfera era talmente pesante che le sembrava di soffocare. Deglutì, sforzandosi di assumere un tono di voce leggero, allegro. Come se qualcuno potesse davvero essere così entusiasta di andare a fare compere alimentari. « C'è qualcosa di particolare che vorresti? » Tamburellò con il tappo della penna sul foglio, senza alzare lo sguardo su Daffy. « Il latte ed i biscotti sono quasi finiti, l'insalata è andata a male, non abbiamo più pane da toast e credo che la torta di tua madre si sia seccata. » Tremò appena, un singhiozzo incastrato in gola. « La torta si è seccata. » Ripetette, gli occhi fissi sul foglio. Battè ripetutamente le palpebre, nel vano tentativo di scacciare le lacrime che le stavano annebbiando la vista. « T-tua madre ci ha portato la torta e io non l'ho mangiata. Me ne sono... dimenticata. » Lentamente, alzò lo sguardo sulla compagna, gli occhi lucidi e le labbra che tremavano. « Mi dispiace, io n- » Balbettò, senza riuscire a scandire le parole. Il suo respiro si era fatto più veloce, udibile. « Deve sapere che mi dispiace. Devi dirglielo, i-io... » Guardò Daphne, boccheggiando. “E' stata tutta colpa mia. Io ti ho chiesto di partecipare. Io ti ho messa in pericolo.” Le parole le rimasero incastrate in gola, assieme al senso di colpa. June tossì, cercando di schiarirsi la voce. « Scusa, ho dormito poco e... forse avrei dovuto asciugare i capelli. » Scivolò giù dallo sgabello e riempì un bicchiere d'acqua, evitando lo sguardo di Daphne per l'ennesima volta nel giro di pochi minuti.


    breve ma non brevissimo (?).
    Chiedo perdono, al prossimo giro mi contengo #feels
     
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    Era scattata in piedi nel momento in cui Juniper era entrata nella stanza, correndo verso il fornello, come se avesse appena sentito odore di bruciato. Aveva aperto il coperchio della moka, anche se era certa che ancora il caffè con fosse salito. Non sapeva perché l’aveva fatto, semplicemente aveva bisogno di tenere impegnate le mani. « Ehi. Sì, grazie. » La voce di Junie era un flebile mormorio, le ci volse un attimo per realizzare che la ragazza aveva davvero parlato. Daffy si sporse verso lo sportello di fianco, aprendolo e tirandone fuori due tazzine. Il quel momento la moka iniziò finalmente a gorgogliare. Qualcosa dentro di lei esultò. Era come se avesse atteso quel momento dall’attimo in cui la sua coinquilina aveva messo piede nella stanza. Da quando erano tornate a vivere sotto lo stesso tetto, le cose tra le due erano incredibilmente diverse. Se prima quella casa era piena di risate, prese in giro, di piedi scalzi che sgattaiolavano da una parte all’altra, ora si era ridotta in un ambiente silenzioso. E nessuna delle due ragazze aveva ancora osato infrangerlo, quel silenzio. Era come se riparlarne significasse riaprire la ferita, quella ferita che con tanta fatica si era rimarginata, in alcuni punti ancora scoperta e facilmente infettabile. Era difficile da immaginare che qualcosa si fosse incrinato dentro di loro, due ragazze all’apparenza così forti, sempre sorridenti e con la soluzione pronta per ogni situazione. Scosse la testa quando Junie le chiese se avesse impegni. «Niente di organizzato.. Forse andrò a fare due passi tra un po’.. E’ una così bella giornata.» Versò il caffè nella tazza della Rosier e gliela passò, insieme allo zucchero. La sua guancia tremò appena. Tenere quel sorriso finto stampato in faccia era più faticoso di quanto immaginasse. Si sedette davanti alla coinquilina, tenendo gli occhi fissi sul suo caffè. Annuì ascoltando il desiderio di Juniper nel recarsi al supermercato. Aveva dannatamente ragione. Da quanto tempo non andavano a fare la spesa? Ma mentre la sua mente rimuginava sul cosa segnare nella lista le parole di Juniper la colpirono dritte allo stomaco. Fu come gettare un sasso nell’acqua, così quella sensazione si irradiò in ogni singola parte del suo corpo. « La torta si è seccata. » Daffy alzò lo sguardo. Gli occhi di Juniper erano spalancati, lucidi, fissi su di lei, ma Daphne non sapeva se la stesse veramente guardando oppure no.
    Trattenne il respiro. Fu come se ogni muscolo del suo corpo fosse teso, in attesa, proiettato verso la giovane seduta davanti a lei. La granata stava per esplodere e la spoletta era stata una semplice torta al cioccolato. « Deve sapere che mi dispiace. Devi dirglielo, i-io... » Daffy non riusciva a muoversi. Il suo corpo era diventato una statua di sale. Sentiva le gambe pesanti ed un enorme vuoto all’altezza del petto che si estendeva fino allo stomaco. «Non.. Non importa, Junie.. Davvero..» Come poteva una torta al cioccolato far crollare in pochi attimi due persone che per settimane si erano tenute tutto dentro. Il tempo. Era come lasciar cadere delle pietre dentro una bacinella mezza piena d’acqua. Solo questione di tempo, prima o dopo la bacinella traboccherà. « Scusa, ho dormito poco e... forse avrei dovuto asciugare i capelli. » Erano riuscite a sfiorarlo, il punto di non ritorno, quel momento in cui si sarebbero sentite costrette a parlare. C’erano andate vicine, dannatamente. Ma con una maestria invidiabile, Juniper era riuscita a riprendere fiato e a cambiare discorso. Era stata dannatamente brava, non c’era che dire. Daffy però, non era stata altrettanto brava. Aveva i pugni stretti e le braccia le tremavano appena. Non riusciva a deglutire. Si sentiva mancare l’aria. La vista si era appannata , complice una patina acquognola che le si era creata sulla pupilla. «Io..» Aveva la gola secca. Era come se la lingua si fosse addormentata, impedendole di parlare. Ci riprovò. «Io non ce la faccio più a continuare così, Junie..» Ce l’aveva fatta, ci era riuscita. Aveva sganciato la bomba e ora doveva affrontare le conseguenze. Tanto valeva continuare. Era stato come togliere un sasso in una diga poco stabile. L’acqua aveva era uscita con forza inaudita, una forza che la stessa Daffy non riusciva a fermare. «Non ce la faccio più a far finta che non sia successo niente, non ce la faccio a comportarmi come un’estranea con te, non ce la faccio a far finta che in quel treno a Capodanno non sia morto un ragazzo..» Soffocò un singhiozzo, alzandosi in piedi ed incrociando le braccia al petto. «Io.. Sto impazzendo.» Non riusciva a sostenere lo sguardo della coinquilina. Continuava a guardare i suoi piedi che cominciarono a vagare avanti ed indietro, davanti ai fornelli. «Non riesco più a fingere.. Non riesco..» Si fermò sul posto. «Non riesco più…»
     
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    «Non.. Non importa, Junie.. Davvero..» La voce di Daffy si spense nell’aria densa che soffocava la stanza, il silenzio interrotto unicamente dallo scorrere dell’acqua. “Importa, invece. A me importa.” Avrebbe voluto pronunciarle ad alta voce, quelle parole, smettendo di nascondersi dietro stupide scuse e l’improbabile metafora di una torta al cioccolato. Temeva, però, che se avesse cominciato a parlare non sarebbe più riuscita a fermarsi, che le emozioni che aveva imbottigliato e soffocato dentro di sé sarebbero riaffiorare in superficie e, in seguito, non sarebbe più stata in grado di domarle. Fingere era più semplice: rifugiarsi nella quotidianità le impediva di pensare, zittiva angosce e paure, cullandola in una fragile ed artefatta illusione. Malgrado ciò, era evidente che qualcosa dentro di lei si era irrimediabilmente incrinato. «Io non ce la faccio più a continuare così, Junie..» Fu Daphne a interrompere il silenzio, con parole cariche di tensione, come se pronunciarle una ad una le riportasse indietro, nella sfarzosa sala da pranzo dello scompartimento adibito per la notte di Capodanno. Le dita pallide di June si strinsero spasmodicamente attorno al bicchiere. Non fiatò, lo sguardo fisso sul fondo del lavello dove tante goccioline d’acqua trasparente disegnavano un mosaico senza senso. Lasciò che la coinquilina finisse di parlare, immobile davanti al lavandino, mentre alle sue spalle avvertiva i familiari passi di Daphne, affrettati e nervosi, fare avanti e indietro in quel breve spazio. Avrebbe voluto fermarla e abbracciarla, ma non lo fece. Provava la strana sensazione che la voce di Daffy giungesse da lontano, come se quel momento non fosse reale e nessuna di loro si trovasse lì, nella piccola cucina, sui fronti opposti di un invisibile campo di battaglia, l’una agguerrita ad abbattere il muro di ipocrisia di cui si erano circondate, l’altra ostinatamente passiva. « Lo so. » Appoggiò il bicchiere sul bordo del lavandino. Sentiva un fastidioso ronzio nelle orecchie e la testa leggera, troppo per essere certa di riuscire a mantenere la presa salda. Prese un respiro profondo, la cassa toracica che limitava dolorosamente l’espansione dei polmoni. Fuori dalla finestra, il sole splendeva sul giardino e un leggero venticello smuoveva le fronde degli alberi sul limitare della foresta. « Mi dispiace. » Pronunciare quelle due parole non fu più semplice di quanto non fosse stato qualche istante prima. « Mi dispiace per… per averti portata su quel treno. » Si voltò lentamente a guardarla, improvvisamente stanca, annichilita. I grandi occhi azzurri, circondati da occhiaie scure, erano spenti. « E per non averti riconosciuta. » La voce si affievolì, ridotta quasi ad un sussurro. « Io non… Non sarebbe dovuto succedere tutto questo. » Si inumidì le labbra in un gesto nervoso. Attraverso lo strato di lacrime, Daffy appariva sfocata. « Io.., Non riesco a smettere di pensare che al posto di… sarebbe potuto accadere a te o a Olympia, oppure a F- » Si coprì il viso con le mani, asciugando le guance con il dorso. Non riusciva nemmeno a dirlo. Chiuse gli occhi e deglutì, la gola arida come carta vetrata. « Non devi fingere con me. Non era mia intenzione e non voglio che tu ti senta costretta a farlo. » “Così non va.” « Ma io non riesco a smettere di pensare e ripensare a tutto quello che è accaduto e non riesco a trovarci nessun senso. Più ci penso e più ho paura, e » Si strinse nelle spalle, un movimento leggero, privo di energia. « non volevo parlarne perché non voglio che anche tu ti senta così. » Tirò su con il naso, abbassando lo sguardo sulle mani che, nel mentre tormentavano il bordo delle maniche. « Mi sembra tutto un incubo e non so da dove iniziare a sistemare le cose. » Ammise infine, riportando lo sguardo su di lei.

     
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    « Lo so. Mi dispiace. Mi dispiace per… per averti portata su quel treno. » Juniper aveva la faccia stanca, di chi dormiva male da giorni, di chi veniva piano piano corroso dall’interno di qualcosa di troppo grande per essere contenuto dentro un corpo così piccolo. A quelle parole Daffy aggrottò la fronte, arricciando il naso e socchiudendo appena le labbra, presa alla sprovvista da quella colpa e responsabilità di troppo che la coinquilina si stava addossando. ...Cosa? La sua mente stava lavorando ad un ritmo particolarmente veloce, un ritmo al quale la spensierata e leggera Daphne Baker non era abituata. « E per non averti riconosciuta. » «Neanche io l’ho fatto!» Rispose d’istinto, lasciando alla Rosier a malapena il tempo di concludere la frase. «Non addossiamoci colpe inutili, Jun.» « Io.., Non riesco a smettere di pensare che al posto di… sarebbe potuto accadere a te o a Olympia, oppure a F- » Juniper si prese il volto tra le mani. Daffy sarebbe voluta andare da lei, abbracciarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, ma la verità era che il suo corpo non riusciva a muoversi. Era diventata una statua di sale. Si sentiva le braccia pesanti. Le girava la testa, presa da quel turbinio di emozioni che le ribollivano dentro, in contemporanea. Prese un profondo respiro, chiedendo gli occhi, ed espirando con il naso. Doveva stare calma. Non era Juniper, era la situazione. L’assurdità di tutta quella cosa, di tutta quella situazione. Se la sentiva addosso, come una seconda pelle che non riusciva a togliersi di dosso. Ogni singola cellula del suo corpo era in allerta, pronta a scattare come una molla da un momento all’altro. Non aspettava altro. Troppo tempo in cui il suo corpo era rimasto assopito. Era come una bibita gasata, con il tappo chiuso, agitata da un ragazzino dispettoso. « Mi sembra tutto un incubo e non so da dove iniziare a sistemare le cose. » «BASTA, JUNE, BASTA.»
    Si prese posò le mani sopra le orecchie. Nella sua testa non c’era solo la voce di Juniper. In quel momento, a tener tono alla voce della coinquilina, c’era la voce di sua madre, che le diceva che sarebbe andato tutto bene; c’era la voce di suo padre, che le diceva che era arrivato il momento di combattere; la voce del suo allenatore, che le spiegava perché avrebbe dovuto starsene in panchina. Le grida, le grida di terrore dopo che la Branwell aveva trovato il cadavere di Donovan. «BASTA, BASTA, BASTA!» Strinse gli occhi più forte che poteva. STATEVENE ZITTI, TUTTI QUANTI! Stava impazzendo. Non le restava che una sola cosa da fare, l’ultima ed anche la più vera. Doveva dirle tutto, svuotarsi come un palloncino, finchè non sarebbe rimasto solo l’involucro vuoto del suo corpo. «Non è colpa tua se sono salita su quel treno, June! Ho libero arbitrio, non mi hai trascinata, sono venuta di mia spontanea volontà e ne ero anche parecchio contenta! Non stavo nella pelle, la notte prima non riuscivo a chiudere occhio dall’emozione! E mi stavo divertendo! Tutti ci stavamo divertendo, MERLINO!, ero così eccitata da tutta quella situazione che ero terrorizzata dall’idea di fare un passo falso e venire squalificata!» Aveva cominciato a camminare avanti e indietro per la stanza, gli occhi fissi sul pavimento. Calmati Daffy. Conta fino a dieci! Uno.. Due.. Tre.. «I sorrisi tirati di questi giorni, se ho finto che stesse andando tutto bene era perché stupidamente speravo che prima o poi sarebbe tornato tutto come prima! Si lo so, è una cosa estremamente stupida!» Ma d’altronde tu sai fare solo cose stupide, vero Daffy? ... Quattro.. Cinque.. Sei.. «Le cose non si aggiustano così, non si sta semplicemente ad aspettare che le cose succedano, che si rimettano a posto da sole!» Aveva il tono più alto del normale. Sentire quelle parole uscire dalla sua stessa bocca sembravano darle la certezza che tutto stava accadendo davvero. ... Sette.. Otto.. Nove.. Dieci. Si fermò di scatto. Tirò un sospiro. «Scusa. Non volevo gridare.» Fu solo dopo quelle parole che alzò lo sguardo, avvicinandosi alla Rosier, senza toccarla. Forse aveva esagerato ad alzare la voce. Non ce l’aveva con lei, e sperava che June lo sapesse. «Non lo so perché è accaduta una cosa del genere. Non lo so e non è giusto. Non è giusto che ci sia accaduto questo, a noi, a tutti gli altri, al povero Erik. Ma è accaduta. E dobbiamo farci i conti.» Si sedette, nello sgabello accanto a June, gli avambracci posati sulle cosce. «Lo supereremo June. Come abbiamo superato tutto il resto.»


    Edited by peppermint. - 24/3/2020, 21:21
     
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    « BASTA, JUNE, BASTA. » La voce di Daphne vibrò nell’aria e June sobbalzò appena, stringendo il tessuto delle maniche tra le dita. Da qualche parte dentro di lei, soffocata dal groviglio di emozioni che aveva tentato di ignorare con tanta ostinazione, la sua parte più razionale, consumata e dilaniata sino ad essere ridotta ad un ammasso di brandelli, sapeva che Daphne aveva ragione. Nessuno di loro avrebbe potuto immaginare ciò che li aspettava e, soprattutto, nessuno avrebbe potuto fare alcunché per cambiare le cose. Non erano stati altro che pedine, burattini mossi da fili invisibili stretti nelle mani di un nemico senza volto che si dilettava nel giocare con le loro vite. Li aveva attirati con l’inganno, privati della magia e confinati su un treno in movimento dal quale non avrebbero potuto chiedere aiuto. Aveva creato per ognuno una nuova identità, indissolubilmente legata a quella di altri secondo una costellazione di casualità e contingenze accuratamente pianificate il cui fine ultimo sembrava essersi esaurito con la tragica morte di Donovan, ed era entrato nella loro mente, cucendo loro addosso una seconda pelle impregnata di sospetto e diffidenza. «BASTA, BASTA, BASTA!» Trovò infine la forza di sollevare il capo, gli occhi azzurri che si soffermarono su Daphne con la stessa impotenza con cui aveva passivamente trascorso l’ultimo periodo della sua vita. Vederla così le faceva male. Ogni singola parola che lei pronunciava, con la voce incrinata ed alterata dall’impeto, affondava dentro di lei come una lama, ripetutamente, senza che June tentasse di opporre resistenza. La guardò muoversi nella stanza in preda a movimenti quasi maniacali, percorrendo e ripercorrendo l’esigua distanza sul pavimento di legno scricchiolante, mentre le parole sgorgavano dalle sue labbra, una dopo l’altra, inarrestabili. “Che cosa ci hanno fatto, Daphne?” Come erano riusciti a spezzarle a tal punto da trasformarle in un pallido riflesso di sé stesse? Perché June si sentiva così: un riflesso, pallido e stanco, in cui non riusciva a riconoscersi. E rimase così, immobile, mentre Daffy dava sfogo a tutto ciò che aveva silenziato sino a quel momento. Paura, rabbia, forse persino insofferenza. La piccola Baker rigurgitò tutto in quella piccola cucina e June non la fermò perché, anche se non voleva, in quel momento più che mi aveva bisogno di sentire quelle parole. Dopotutto, Daphne non era il nemico. « Scusa. Non volevo gridare. » June scrollò appena le spalle, un movimento leggero, accompagnato da un tremolio nel labbro inferiore. Attese che l’altra finisse di parlare e sospirò, silenziosamente. « Lo credi davvero? » Domandò, dopo qualche istante di silenzio. « Pensi davvero che ci riusciremo? Perché io non ne sono così sicura. » Scosse il capo, in segno di negazione, a testa bassa. « Anche se ci provo, anche se voglio farlo… continuo a sentirmi come su quel treno, senza alcuna possibilità di scendere o di scappare o di… » La sua voce si era incrinata e le mani tremarono mentre gesticolava, nel tentativo di spiegarsi. Chiuse gli occhi e si inumidì le labbra, alla ricerca delle parole giuste. Lentamente, inclinò il viso di lato, gli occhi azzurri ora fissi in quelli di Daphne. « Mi sento impotente, Daffy. » Ammise infine. « Non lo sopporto. Lo odio. E forse è proprio così che chi ci ha voluti su quel treno vuole farci sentire. » Prese a sfregare i palmi delle mani sul tessuto dei pantaloni, d’un tratto incapace di stare ferma. « Quello che ci hanno fatto, il modo in cui lo hanno fatto… non è normale, nemmeno con la magia. » “E non è neanche la prima volta.” Non appena era stata in grado di pensare lucidamente – più o meno – i suoi pensieri erano subito corsi all’orribile gioco di cui era stata costretta ad essere spettatrice, giudice e giuria, poco prima dell’estate. Quante altre volte ancora sarebbe successo? Quanto sarebbero stati in grado di sopportare? Inspirò, stringendosi nelle spalle. « È per questo che non volevo parlarne. Se mi concentro su altre cose è più facile, almeno per un po’. Non sono sicura che sia il modo giusto e forse cambierò idea dal giorno alla notte, oppure all’improvviso mi darò al bricolage o agli esperimenti culinari. Non posso prometterti nulla, per ora. » Accennò ad un debole sorriso, allungando una mano verso la sua. « Però non voglio che tu debba fare altrettanto, se non ti fa stare bene. Non dobbiamo affrontare le cose allo stesso modo per forza, ma » Deglutì, insinuando le dita tra quelle di Daphne. « sono contenta che tu sia qui. » Probabilmente quella risposta non era ciò che Daffy si aspettava ma, per quanto incerta, era sincera.
     
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    Aveva alzato la voce. Era stata una sensazione terribilmente sgradevole, che le dava la nausea. Daffy era abituata a gridare, lei gridava sempre: quando parlava, quando rideva, perfino quando sussurrava. I suoi amici la prendevano in giro dicendole che probabilmente quando era piccola si era ingoiata uno di quegli aggeggi che i babbani chiamano “megafono” oppure che qualcuno le aveva lanciato un “Sonorus” ed ancora nessuno aveva provato a spezzare l’incantesimo. Ma quella volta era diverso. Quella volta l’aveva fatto intenzionalmente contro una persona alla quale voleva bene. Tutto ciò che desiderava era far sparire quelle voci che gridavano nella sua testa, urlando ancora più forte di loro. Junie non aveva colpe. Era indifesa, impaurita, era stato come lanciare un incantesimo contro qualcuno disarmato e ciò la faceva sentire ancora di più uno schifo. Si passò una mano sul volto, premendo forte le dita sulla pelle, sospirando a bocca aperta. Percepiva il sangue fluirle nelle vene, pulsare sulle sue tempie, annidandosi nelle sue guance paonazze. Respira. Era come se il suo corpo rimasto per troppo tempo atrofizzato avesse ora un’incredibile voglia di muoversi. Distendeva e ripiegava le dita con gesti quasi robotici, tenendo i polsi incollati alle cosce. Respira. « Lo credi davvero? » I suoi occhi si mossero prima della sua testa, trovandosi a guardare la giovane distrutta seduta al suo fianco. « Pensi davvero che ci riusciremo? Perché io non ne sono così sicura. » Lo spero.. Rimase in silenzio, ascoltando le parole di Juniper. Sentiva ogni parola entrarle dentro, come uno spillo incapace di farla sanguinare, ma producendole dolore in tutto il corpo. Era come un desolante déjà-vu che aveva riportato a galla le sensazioni del Lockdown, quelle che aveva provato a seppellire sotto la corazza in quegli anni. Ma ciò che in quel momento le pareva lampante era che doveva smettere di seppellire. Doveva affrontare quelle emozioni perché altrimenti non se ne sarebbero mai andate. Potevano assopirsi, addormentarsi per anni, ma prima o poi sarebbero tornate e lei non poteva farci niente. « È per questo che non volevo parlarne. Se mi concentro su altre cose è più facile, almeno per un po’. [...] Però non voglio che tu debba fare altrettanto, se non ti fa stare bene. Non dobbiamo affrontare le cose allo stesso modo per forza, ma » Il suo corpo si irrigidì appena quando la mano della Rosier si ancorò alla sua. Era da Capodanno che aveva evitato tutto questo: il contatto umano. Ma in quel momento si rese conto di quanto le fosse mancato. Ricambiò la stretta dell’amica, sorridendole.
    «Mentirei se dicessi che un giorno ci sveglieremo e tutto questo sarà stato solo che un brutto sogno..» Si inumidì le labbra, cercando di trovare le parole giuste. Non era mai stata brava nei discorsi. Forse avrebbe deluso Junie con la sua risposta. Magari lei sperava che Daffy avesse una soluzione, qualcosa che le estirpasse tutto il dolore, ma purtroppo non ce l’aveva. «Per un bel po’ quello che è successo influenzerà le nostre vite, condizionandone le scelte. Magari ci metteremo un po’ prima di dare confidenza a qualcuno. Magari scatteremo come molle ogni volta che qualcuno griderà per poi accorgerci che non è successo niente..» Si strinse leggermente nelle spalle. Non sarebbe mai sparito tutto quanto. A volte, se chiudeva gli occhi, le sembrava di essere ancora chiusa dentro il castello, circondata da cadaveri. «Ricorderemo tutto, sempre, ma farà mano male. Il tempo spesso non guarisce le ferite, piuttosto ci fa abituare. Magari non oggi, non domandi. Ma siamo scese, Junie. Non siamo più dentro quel treno.»

     
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    La pressione delle dita di Daphne attorno alle sue fu rassicurante, come se d'un tratto June si fosse tolta un peso soffocante dal petto e, finalmente, potesse riprendere a respirare, i polmoni che si estendevano naturalmente all'interno della cassa toracica, senza risultare compressi, schiacciati, da quell'invisibile ammasso di cose non dette. Un tentativo incerto e tremante nella giusta direzione. Ascoltò le parole di Daffy in silenzio, i denti che affondavano nel labbro inferiore, conscia che aveva ragione. Si trattava di una verità che il suo lato più codardo avrebbe preferito non ascoltare, scomoda e dolorosa da accettare e, soprattutto, da affrontare. Per superarla non sarebbe bastato un giorno, né una settimana, un mese o forse nemmeno un anno. Una parte di ciò che avevano vissuto sarebbe rimasta con loro per sempre, rinchiusa in qualche angolo della loro mente, in attesa di tornare a galla nel sonno o davanti ad un imprevisto sospetto ed inaspettato. Ma Daffy aveva ragione: non erano più sul treno. Che lo volesse o meno, la loro vita aveva ripreso a scorrere e rimanere inerme, in balia delle correnti, non avrebbe cancellato quei ricordi dalla sua mente; al contrario, avrebbe alimentato l'uomo nero sino a trasformarlo in un'ombra insormontabile, invincibile. Deglutì e annuì, piano. « Non so te, ma io non salirò più su un treno per un bel po'. » Avrebbe dovuto essere una battuta, ma suonò ben più fiacca di quanto June desiderasse. Cazzo, Rosier. Fai davvero schifo. « Scusa, pessimo umorismo. » Aggiunse, quasi immediatamente, sfregandosi il naso con il dorso della mano nel tentativo di scacciare i residui della sensazione opprimente antecedente il pianto. Aveva la voce roca e leggermente incrinata ma aveva smesso di piangere, per lo meno. « Merde! Il caffè! » Sbottò all'improvviso, sentendo odore di bruciato. Si slanciò verso la moka, spense il fornello e aprì il coperchio, scrutandone il contenuto con occhio critico. « Non sembra troppo bruciato... » Decretò, per poi versarlo direttamente nel lavandino, scuotendo il capo. Non ho intenzione di avvelenarmi da sola. Meglio non rischiare. « Lo rifaccio. » Annunciò, alzando lo sguardo verso Daphne. « Potresti... ti va di venire con me a fare la spesa? Volevo fare un po' di scorta così non dovremo tornarci in settimana e se ti va stasera potremmo fare il pollo al curry. » Non era un'offerta imperdibile, ma il riso con il pollo al curry era il piatto da battaglia di June, assieme a crepes e omelette. Un piatto che aveva cucinato spesso insieme a Daffy prima di Capodanno, con un bicchiere di vino in mano e della musica di sottofondo. Un'implicita offerta di scuse e, al contempo, un primo passo verso loro stesse.
     
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    20 giugno 2020, passate le 23



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    « Ok, vino rosso o bollicine? » Dondolò le bottiglie che reggeva per il collo, mostrandole entrambe a Fawn, mentre i titoli di coda di Chicago sfilavano sullo schermo della televisione, accompagnati dalle note di All That Jazz. Avevano cenato con riso e pollo al curry - il piatto da battaglia di June - insieme a Daffy ma, poco dopo le dieci e mezza, la giovane Baker le aveva salutate con espressione assonnata ed occhi arrossati, trascinandosi al piano di sopra per un'ultima canna ed un lungo sonno di bellezza. Ora, l'orologio alla parete segnava le 23.07: mancavano sì e no 53 minuti allo scoccare del 21 giugno e, di conseguenza, all'entrata di Fawn nel suo diciannovesimo anno d'età. Forse un pigiama party non era il massimo del divertimento per celebrare un evento tanto importante, ma June aveva fatto del suo meglio per rendere la serata divertente: cibo, vino, musical e persino la torta preferita di Fawn, accuratamente riposta nel secondo ripiano del frigorifero in attesa di essere divorata. Stappò la bottiglia di vino rosso - lo spumante si accostava meglio al dolce, decisamente - e ne versò una generosa quantità nel calice dell'amica, prima di lasciarsi ricadere al suo fianco sul divano. « A noi! » Brindò, facendo tintinnare il bicchiere contro quello di lei e portandolo alle labbra. « Allora » Riprese, inumidendosi le labbra. « adesso che siamo solo io e te, con quale spirito hai deciso di affrontare il ballo? » Inarcò entrambe le sopracciglia, con espressione eloquente. Avevano girato intorno a quell'argomento in chat, ma Fawn si era sbottonata poco circa la caccia e Juniper non le aveva ancora raccontato i dettagli del piano elaborato da Mun. « Purificazione spirituale o sesso tantrico? » Lo disse in maniera talmente stupida che scoppiò a ridere immediatamente, scrollando le spalle. « Ok, forse avrei potuto trovare un paragone più azzeccato, ma comunque » Incrociò lo sguardo dell'amica, fissandola di sottecchi. « sono davvero, davvero curiosa di scoprire cosa hai in mente. » Perché lo so che hai già pensato a qualcosa, ti conosco troppo bene! « Perciò dammi uno spoiler, avanti. Anche solo uno piccino picciò. » Sporse leggermente il labbro inferiore, sfoggiando un broncetto infantile. « Anzi, ancora meglio. Tu parli, io ti metto lo smalto. » Appoggiò il calice sul tavolino da caffè, mettendole davanti la scatola piena di diverse boccette di smalto. Infine, quando Fawn le ebbe passato quello prescelto, lo svitò e prese la mano dell'amica tra le proprie, dipingendole minuziosamente le unghie. « Per esempio... non mi hai ancora spiegato perché il nostro allenamento è stato completamente inutile alla caccia. » Anche se Fawn aveva sorvolato sull'argomento, June era piuttosto sicura che, in fondo in fondo, una minuscola parte del suo orgoglio da Grifondoro fosse ancora infastidito dall'aver fatto tanta fatica per nulla. Come darle torto, d'altronde. Spennellò l'unghia del dito indice ed alzò lo sguardo su di lei, fissandola con i grandi occhioni azzurri.
     
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    Da un paio d'anni a quella parte, Fawn aveva cominciato a provare un inspiegabile astio nei confronti del suo compleanno. Gira che ti rigira, per un motivo o per un altro, ho sempre un diavolo per capello. La serie di sfortunati eventi, per così dire, era cominciata anni prima, quando le era stato negato il viaggio a New York per la prima volta. Poi c'era stata la guerra civile e la morte di suo padre. Poi il peso psicologico delle conseguenze dello Shame. Quell'anno, invece, non capiva una ceppa di dove stesse andando a parare con la propria vita sentimentale, ed in più c'era quel ballo. Se succede di nuovo qualcosa, mi do per dispersa da sola e l'identità segreta di Pablito, la tiro fuori per davvero. L'ottimismo è il profumo della vita, eh? Eppure ci stava provando. Era a casa di June e Daffy, dove aveva passato la serata in ottima compagnia e guardando quello che, secondo il suo non troppo modesto parere, era uno dei migliori musical mai prodotti.
    « Le bollicine direi di lasciarle per dopo. » Fu la sua risposta alla domanda dell'amica, mentre attendeva pazientemente che l'altra versasse le bevande nei calici e le allungasse il suo. Per ingannare l'attesa, si trovò a canticchiare sommessamente la melodia dei titoli di coda del film che, come da manuale, le era rimasta in testa. Dopo un rapido cin-cin, si trovò a bere qualche generoso sorso, concludendo con sé stessa che l'alcool poteva anche non essere la soluzione ad ogni problema, ma di sicuro era una delle più papabili. Nonché un ottimo diversivo per non pensare troppo, così come la compagnia di June. . « Allora » Fawn annuì brevemente, incitandola così a continuare. « adesso che siamo solo io e te, con quale spirito hai deciso di affrontare il ballo?
    Purificazione spirituale o sesso tantrico
    Lo spirito del voglio una gioia va bene lo stesso? E quello del 'magari è tempo di capirci qualcosa'? « Ok, forse avrei potuto trovare un paragone più azzeccato, ma comunque [...]» La mora lasciò che l'amica terminasse quella parte del discorso e, con l'aria di chi sta palesemente riflettendo sulla risposta da darti, le indicò uno smalto rosa antico. « Mi ammazzi, se ti dico di non aver pensato a niente? Cioè, lascia che mi corregga: ho pensato fino alla corsa e poi nulla perché, come ti dicevo, non ho familiarità con la tradizione. E boh, i balli non mi sono mai nemmeno piaciuti. E mi sento sotto pressione. E... e boh. Sono stupida? » Decisamente. In più, aveva esposto soltanto metà del proprio problema poiché. giustamente, non poteva dire all'amica di essere ancora molto confusa e, soprattutto, di sentire di essere molto vicina allo sbrocco da confusione perché una Byrne confusa era automaticamente anche una Byrne nervosa e scostante. Un inferno di essere umano. « I tuoi programmi, invece? Voglio sapere tutto. Soprattutto perché temo di essermi persa un bel po' di pezzi, di tutta questa faccenda. » Le scoccò un sorriso. Cambiano i tempi, cambiano le cose, ma una Fawn in difficoltà tenterà sempre di spostare la tua attenzione da lei a te stesso.
    All'asserzione dell'amica sull'allenamento, tuttavia, si strinse semplicemente nelle spalle. « Non ho tenuto conto del fatto che non tutto vada come dico io. Al solito. Però lui è stato molto carino, eh. » Mea culpa. « Non ci crederai ma, in true Marchand fashion, non puzzava nemmeno. Ma che dico puzzare - non era nemmeno sudato. Me lo sono scelto bene! » Stirò un sorriso.
    Pausa. « June, ma secondo te, hm... io sono una persona fastidiosa? Intendo sul serio. Tipo... credi che prenda la gente per sfinimento? »
     
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    June non era mai stata una persona particolarmente perspicace quando si trattava di intuire cose non dette; era troppo distratta, sempre di corsa e impegnata a passare da una cosa all'altra per soffermarsi stabilmente a riflettere su dettagli che, nella maggior parte dei casi, le sfuggivano come sabbia tra le dita. In poche parole, Juniper Rosier non possedeva un'intelligenza logica, bensì emotiva e conosceva Fawn abbastanza bene da aver notato l'improvviso senso di apatia con cui la Byrne reagiva a tutto ciò che, solitamente, avrebbe accolto con entusiasmo. « Mi ammazzi, se ti dico di non aver pensato a niente? Cioè, lascia che mi corregga: ho pensato fino alla corsa e poi nulla perché, come ti dicevo, non ho familiarità con la tradizione. E boh, i balli non mi sono mai nemmeno piaciuti. E mi sento sotto pressione. E... e boh. Sono stupida? » Attese che l'altra finisse di parlare e rimase in silenzio per qualche istante, i grandi occhi chiari fissi su di lei. Il suo ragionamento aveva senso, eppure vi era qualcosa di strano nel fatto che Fawn non avesse semplicemente colto quell'occasione per divertirsi in compagnia. Esattamente come il suo compleanno. « Non sei stupida. » Replicò, scuotendo il capo. « E ci sta non aver programmato nulla, ma non lasciarti mettere sotto pressione da una cosa così. Alla fine è solo un ballo, un'occasione per divertirsi e passare del tempo insieme. » Si strinse nelle spalle e soffiò sulle unghie della mano destra di Fawn, per velocizzare l'asciugatura dello smalto. Era consapevole che dire 'stai tranquilla' era più semplice che metterlo in pratica. Dopo Capodanno, lei stessa aveva faticato a sentirsi a suo agio nelle occasioni sociali, in particolare quando molto affollate: la paura che potesse succedere qualcosa di terribile da un momento all'altro non se ne andava mai realmente, restava latente, nascosta sotto la superficie e pronta a riaffiorare ad ogni imprevisto. Le prese delicatamente la mano sinistra ed iniziò a dipingerle le unghie partendo dal mignolo, incapace di reprimere un sorriso. « Potresti essere rimasta un po' indietro, sì. Ad essere sincera nemmeno io mi aspettavo questo tipo di sviluppi, ma poi... » Esitò per un istante, mordicchiandosi l'interno della guancia. « La sera dell'omaggio ho incontrato Mun ad Hogsmeade e mi ha proposto di scambiarci con la Polisucco alla caccia, per movimentare un po' le cose e renderle più divertenti. »Scosse il capo, divertita. « Giuro che da sola non ci avrei mai pensato. » Ridacchiò. « Comunque, Polisucco a parte, la foto ha fatto il suo dovere. Anche se Sam non ha propriamente giocato pulito, ha finto di essersi preso una storta per stanarmi e mh, ha quasi funzionato. » Arricciò il naso, un po' contrariata. « Non so come ma mi ha riconosciuta prima ancora che l'effetto della Pozione svanisse del tutto, sono riuscita a darmela a gambe e l'ho fatto correre un po'. » Ridacchiò, concentrandosi sul dito indice e ripulendo le sbavature di smalto. « Se non fosse stato per i nostri allenamenti sarei inciampata nel giro di cinque minuti. Non mi stupirei se Charlie decidesse di includere il jogging nella Foresta Proibita come allenamento extra. » Roteò gli occhi al cielo, fingendosi allarmata. « Ad ogni modo, mi ha placcata - letteralmente - e domani sera verrà a prendermi. » Si strinse nelle spalle, concentrata sullo smalto. In realtà era piuttosto nervosa ma stava cercando di non pensarci. « Uhm, in realtà ci sono stati anche un paio di messaggi ma non vorrei turbare la tua più che vivida fantasia, perciò... » Lsciò cadere il discorso, nascondendosi dietro il bicchiere di vino e concedendosene un lungo sorso. « [...] Non ci crederai ma, in true Marchand fashion, non puzzava nemmeno. Ma che dico puzzare - non era nemmeno sudato. Me lo sono scelto bene! » Sgranò gli occhi, fingendosi sconvolta e annuì con aria comprensiva. « Il fatto che Marchand abbia questa fortuna e che io sembro uno Schiopodo Sparacoda dopo dieci minuti di corsa è un tantinello ingiusto. Le botte di culo sempre agli altri. » Ironizzò, intingendo il pennellino nello smalto. « June, ma secondo te, hm... io sono una persona fastidiosa? Intendo sul serio. Tipo... credi che prenda la gente per sfinimento? » Si bloccò immediatamente, la mano sollevata a mezz'aria. Che cazzo vuol dire? Ripose il pennello nella boccetta e la avvitò, quindi si raddrizzò. Stava cercando di mantenere l'espressione più neutra possibile, tuttavia le sopracciglia si erano lievemente sollevate, originando una piccola ruga nel mezzo, segno che era preoccupata. Non era da Fawn parlare così, proprio come tutte le altre stranezze degli ultimi tempi. « Come ti è venuta in mente questa cosa? » Si bloccò quasi immediatamente, scuotendo il capo con convinzione. « Lascia perdere, non è questo il punto. » Sospirò e sfregò i palmi delle mani sui pantaloni del pigiama, tentando di riordinare le idee. « Non so perché tu ti stia ponendo questa domanda, se sia successo qualcosa o altro, ma la risposta è no. Non sei una persona fastidiosa, assolutamente. E, soprattutto, non sfinisci in alcun modo chi ti circonda. » Allungò le mani verso le sue, stringendole delicatamente. « Sei una delle persone più pazienti ed empatiche che conosca e puoi essere contagiosa, ma in senso positivo. Non mi sono mai sentita pressata da te, nemmeno per un minuto. » La guardò, cercando di capire da dove provenisse quell'insicurezza. « Non sono la persona più indicata per parlare di certe cose o dare consigli, ma se c'è qualcosa che non va » Le scoccò un'occhiata. « e non sto dicendo per forza che sia così, io posso ascoltare. Prometto di fare del mio meglio per essere d'aiuto, se vuoi. » Era seria e anche preoccupata, ma non l'avrebbe forzata a parlare, se non si sentiva pronta a farlo.
     
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    « E ci sta non aver programmato nulla, ma non lasciarti mettere sotto pressione da una cosa così. Alla fine è solo un ballo, un'occasione per divertirsi e passare del tempo insieme. » Lo so che non ha senso... si trovò a pensare mentre si mordicchiava l'interno guancia, tentata di distogliere lo sguardo da quello dell'amica. Eppure, nonostante il cervello le dicesse, da un lato, che non fosse il caso di appesantire troppo l'atmosfera, dall'altro sentiva che a fare spallucce e distoglierlo per davvero, lo sguardo, avrebbe fatto un torto molto più grande ad entrambe. Facile fare sempre finta che tutto vada bene; poi ti stupisci se ti senti incompresa. Dunque, prese semplicemente un grosso respiro. « Il fatto sai qual è, June? Che tutto sembrava solo qualcos'altro, sulle prime. » Il lockdown, per dirne una. O la festa sul treno. « E lo so, lo so che razionalmente il tuo discorso ha tutto il senso del mondo. Però... però ho paura lo stesso. » Si ritrovò ad osservare le unghie che l'altra stava smaltando, prendendosi un attimo per rendersi conto di aver pronunciato davvero quelle parole. Poi aggiunse: « No, forse non si tratta propriamente di paura o terrore. È come avere la sensazione che qualcosa possa andare storto, anche quando hai controllato in prima persona ogni dettaglio. Si potrebbe dire, con questi presupposti, che si tratti soltanto di paranoie, credo. » O di un trauma mai affrontato come si deve. Forse, effettivamente, con certe cose bisognava rassegnarsi a convivere e basta, sperando che il tempo fosse clemente. Con quel pensiero, si allungò verso il calice che aveva poggiato per terra, prendendo un sorso generoso del vino che la Rosier aveva versato. E per sorso generoso, si intendeva "quel che ne era rimasto". Quindi, dopo una piccola smorfia, fece cenno a June di riprendere il proprio discorso. Ascoltò con attenzione - ed un certo grado di stupore - il piano partorito dalla mente diabolica della Carrow, le sopracciglia inarcate all'impossibile. « Comunque, Polisucco a parte, la foto ha fatto il suo dovere. Anche se Sam non ha propriamente giocato pulito, ha finto di essersi preso una storta per stanarmi e mh, ha quasi funzionato. » « Cioè, fammi capire - tu sei quella che si è polisuccata e lui, poro stronzo, è quello che non ha giocato pulito?! Buongiornissimoooo, Rosier! » Nonostante i pensieri cupi espressi appena qualche minuto addietro, la giovane non poté far altro che scoppiare in una grossa e grassa risata. Quell'accusa era così assurda - e nella sua assurdità, divertente - che dovette letteralmente schiaffarsi una mano sulla bocca nel tentativo di smetterla di sghignazzare. « Volo così alto che mi serve dell'altro vino per non finire nell'iperspazio, scusami. » Le fece cenno di smetterla per un attimo di trafficare con la sua manicure, per allungarsi a riempire i calici di entrambe. Poi le scoccò un'occhiata a metà tra le scuse e la curiosità più totale, lasciando che riprendesse.
    « Uhm, in realtà ci sono stati anche un paio di messaggi ma non vorrei turbare la tua più che vivida fantasia, perciò... » Fawn le scoccò un'occhiata eloquente. « Tranquilla, ormai sono un Buddha. Non c'è assolutamente niente che possa turbarmi. » Questo perché sono già turbata e mi turberei peggio se mi lasciassi da sola con me stessa. « Sexting, quindi? » Fece scattare le sopracciglia verso l'alto con fare allusivo, come per invitarla ad esprimere come si sentisse in proposito. Cioè, non ci posso credere che tu stia per cuccare e non mi dica niente se non che ci sono stati un paio di messaggi.
    Poi l'ennesima virata di argomento. E il complimentone espresso dalla francese, che portò Fawn a sentirsi insieme rincuorata e come se si fosse espressa malissimo. Diventa problematico quando non puoi spiegare il problema effettivo. E a ben vedere non vuoi. Perché di Fawn si poteva dire tutto, meno che avrebbe mai messo il proprio ragazzo in una posizione compromettente, viste le circostanze. Era dell'idea, comunque, che i panni sporchi andassero lavati in casa. Però non sarebbe stato giusto - né corretto nei confronti di June, evidentemente preoccupata - sorvolare del tutto sulla questione. « Crisi esistenziale. » Le spiegò alla fine. « Stavo ripensando alle mie relazioni interpersonali passate, e... non lo so, cercavo di capire dove stesse la mia fetta di errore, capisci? Cosa posso migliorare in me. Se sbaglio qualcosa, ecco. » Lo sguardo era trasparente, sincero. Sebbene non potesse entrare nelle specifiche, ognuna delle parole che stavano uscendo dalla sua bocca rappresentavano la più pura verità, per lei. « Non lo so, a 'sto giro non mi va proprio che finisca male. Non lo reggerei. Voglio prevenire. »


    Edited by anagapesis - 15/6/2020, 02:52
     
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    Rimase in silenzio ad ascoltare Fawn parlare, annuendo appena. Sapeva a cosa si riferiva, sebbene l'altra non lo avesse detto apertamente. « La realtà non è sempre razionale. » Sospirò, stringendosi nelle spalle. « Lo so che non è una frase da me ed è decisamente riduttiva in questo caso, ma è vero. Le cose non vanno sempre come immaginiamo, anzi. Ad essere sinceri non succede praticamente mai. » Si inumidì le labbra. « Se dovessimo pensare ad ogni volta che qualcosa potrebbe finire davvero male non vivremmo più, persino a prescindere da... dagli ultimi imprevisti. » Scosse il capo, comprensiva. Lei stessa si era sentita come Fawn e, in parte, non era riuscita a scrollarsi del tutto quella sensazione di dosso. « Però questa volta non saremo su un treno e non saremo soli. Ci sarà il corpo docente ed ogni cosa sarà controllata. » Era una rassicurazione debole ma, nel profondo, June era grata di essersi occupata in prima persona dell'allestimento di Portland. « E se dovessi sentirti a disagio o cambiare idea e abbandonare la festa, nessuno te ne farà mai una colpa. Non devi obbligarti, se non te la senti. » E il fatto che tu sia disposta a parlarne non è cosa da poco, credimi. Lo so per esperienza. Non voleva sminuire i timori di Fawn o liquidare bruscamente la questione, al contempo però era convinta che alimentare la sua preoccupazione fosse controproducente. Era normale che fosse spaventata e restasse all'erta - avrebbero dovuto esserlo tutti - ma farsi condizionare da eventi passati le avrebbe impedito di sentirsi a suo agio ovunque, non solo al Midsummer. Ed è proprio così che ci spezzerebbero. La osservò finire in un solo sorso il vino rimasto nel bicchiere e, senza dire nulla, gliene versò altrettanto. Pensieri cupi o meno, era pur sempre il compleanno di Fawn. Concentrarsi sulle sue unghie le fu d'aiuto per raccontare quanto accaduto alla caccia con aria quasi impassibile, tradita unicamente dal piccolo sorriso che non voleva saperne di sparire dalle sue labbra. « Cioè, fammi capire - tu sei quella che si è polisuccata e lui, poro stronzo, è quello che non ha giocato pulito?! Buongiornissimoooo, Rosier! » Si bloccò mentre le spennellava l'unghia del mignolo, alzando lo sguardo su Fawn con espressione sorpresa ed incerta. Era evidente che non avesse considerato la situazione da quel punto di vista ma, indipendentemente da quell'improvvisa realizzazione, June annuì, stringendo appena le labbra. Sta a vedere che ora sono io quella che ha giocato sporco. « Beh, comunque se lo è meritato. Lui bara sempre a Risiko. » Replicò, con un moto d'orgoglio ferito piuttosto infantile, bevendo un altro sorso di vino ed intercettando l'occhiata maliziosa di Fawn. « Sexting, quindi? » La francese arricciò il nasino in una smorfia colpevole, sollevando entrambe le mani. « Elementare, Watson. » Ammise, con una risatina. « In realtà non si tratta di nulla di troppo spinto, ma ci sono state delle foto e qualche allusione non troppo implicita mentre mi trovavo nella vasca da bagno. » Era arrossita leggermente nel parlare. « Proprio quello che ci voleva per tormentarmi dopo... » Iniziò a contare sulle dita di una mano e poi lasciò perdere, scuotendo il capo. « Troppi mesi di calma piatta. » Come se non stessi soffrendo abbastanza. Se le teorie di Freud erano corrette - e per la comunità scientifica lo erano - era una stramaledetta fortuna che giocasse a Quidditch: per lo meno poteva incanalare le sue pulsioni nello sport. « [...] Stavo ripensando alle mie relazioni interpersonali passate, e... non lo so, cercavo di capire dove stesse la mia fetta di errore, capisci? Cosa posso migliorare in me. Se sbaglio qualcosa, ecco. » Se c'era qualcuno che poteva comprenderla da quel punto di vista, si trattava sicuramente di June. Merlino solo sapeva quante volte si fosse ritrovata a riflettere sulla sua relazione con Caesar, su come e perché fosse finita in maniera tanto orribile e, soprattutto, su quali fossero le sue responsabilità al riguardo, tutti interrogativi destinati a rimanere senza una risposta certa. « Non credo che tu possa ottenere risposte specifiche basandoti su altre relazioni. Ogni persona è diversa e i motivi per cui non ha funzionato con qualcuno in passato potrebbero non avere nulla a che fare con te ed Erik, oggi. » Incontrò il suo sguardo, fermamente convinta di ciò che stava dicendo. « Ma se c'è qualcosa di cui senti il bisogno di parlare o se hai dei dubbi, dovresti dirlo a Marchand. E' l'unico modo per ottenere una risposta sincera, no? » Io avrei voluto rendermene conto prima. Smise di dare l'ultima passata di smalto e richiuse la boccetta, rivolgendo a Fawn un sorrisino furbo. « Mi sono ricordata di una cosa. » Si alzò e raggiunse il cassetto del tavolino da caffè, da cui estrasse un pacco rettangolare avvolto in carta da regalo rosa, con tanto di cuoricini. « Non potevo certo dimenticarmi del regalo! » Glielo allungò e si sistemò sul divano al suo fianco, in attesa che lo scartasse. Dovette mordersi il labbro inferiore per impedirsi di ridere, consapevole di cosa si trattava. Se all'inizio aveva scherzato sulla nottata tranquilla di Fawn in seguito alla caccia, con il passare dei giorni l'idea di regalarle qualcosa di piccante era divenuta sempre più concreta e, infine, aveva fatto un salto veloce al sexy shop dove una commessa molto gentile l'aveva aiutata a trovare il regalo perfetto: un rabbit glitterato della collezione Gentlemen 2.0. Scoppiò a ridere nel vedere l faccia di Fawn. « Ho pensato che potesse essere una buona idea per svagarti un po', da sola o in compagnia. » Le indicò la scatola. « Si chiama Henry e la commessa ha detto che è incredibile. » Forse avrei dovuto comprarmene uno anche io.
     
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    3 settembre. 9 AM.

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    Osservava Juniper Rosier, Leonard, mentre portava alla bocca carnosa, ancora un po' gonfia, cucchiai di latte e cereali con fare scandito dalle volte in cui si accertava che l'amica non stesse per spalancare i suoi fari blu; la bruna era assorta in un sonno profondo, tra le lenzuola del proprio letto, nella camera al primo piano della sua abitazione. Leo masticava lentamente, seduto sulla sedia di fronte al letto, aspettando che la sua migliore amica si svegliasse in totale autonomia. Non aveva il fegato di svegliarla, sapendo quanto lui stesso ci avesse messo per riconciliarsi con Morfeo dopo il rave party. Non sapeva se lei avesse avuto gli stessi problemi a trovare pace durante la notte, ma non se la sentiva comunque di prendersi quella responsabilità: era già tanto sperare che non gli avrebbe lanciato i cornetti addosso, sapendo che si era presentato a quell'ora del mattino senza un chiaro preavviso. Era ormai mezz'ora che Daffy Baker gli aveva aperto la porta del loro cottage nei pressi di Hogsmeade: gli aveva offerto dei cereali dalla dispensa, sbadigliando mentre lo intimava a restare ed era tornata a dormire, lasciandolo indeciso sul da farsi. Aveva dunque raggiunto la camera della Rosier, guardandosi intorno un po' spaesato nel constatare lo stato dormiente dell'amica, decidendo infine che non avrebbe rinunciato a vederla: era mosso da quelli che lui percepiva come sensi di colpa. Anche nei suoi confronti. Quanti ne aveva? Avrebbero potuto formare un esercito! Lui invece si era svegliato molto presto: aveva indossato un paio di jeans ed una giacchetta leggera, che l'avrebbe accompagnato tutto il giorno, fino alle lande della Scozia dove si sarebbe recato qualche ora più tardi. Aveva deciso di andare a trovarla tre giorni dopo l'intero misfatto, la notte in cui l'aveva vista l'ultima volta, prima che rifiutasse la sua proposta di accompagnare lei e Fred Weasley al San Mungo; dopodiché, la giovane lince aveva sperato nel buon senso dell'amica ed aveva soltanto sperato che fosse andato tutto per il meglio. Si erano scritti, certo, ma aveva ricevuto informazioni sommarie e poco chiare, e voleva accertarsi di persona che stesse meglio dell'ultima volta in cui ci aveva parlato. L'incontro della sera prima con Lympy da Starbucks e le spiegazioni sulla presenza di questi fenomeni strani ed inspiegabili a cui Leo non aveva nemmeno dato credito prima di allora, anche se confuse, erano stati decisivi nello spingere Leo a fare tutte quelle cose a cui si era sottratto i primi due giorni, chiuso nella sua roccaforte, nella speranza di trovare risposte da solo. Era fatto così: quando era mosso da profondo sentimenti di rabbia, preferiva starsene per le sue, per ricaricarsi. Era certo che se l'avesse incontrata prima, non sarebbe stato d'alcun conforto, né aiuto. Senza contare che il rave party sanciva un momento di forte cambiamento nella sua giovane vita: alcune dinamiche e relazioni si stavano ancora chiarendo, nella speranza di assestarsi il prima possibile. « Buongiorno Miss Rosier. » disse quando, tra un'occhiata e l'altra, si era accorto che fosse tornata nel mondo dei vivi, con un sorriso sulle labbra su cui era ancora visibile una piccola voragine con del sangue denso a farle da tappo, mentre l'occhio sinistro era messo molto meglio rispetto ai giorni precedenti. Sherlock se ne stava appollaiato sulla sua spalla, silenzioso. « Ha dormito bene? » le chiese continuando a sorridere, mentre la luce che entrava dalle finestre si faceva sempre più calda, illuminando anche ogni livido visibile sulle sue parti di pelle scoperte. Lei l'aveva già visto in quelle condizioni, quella sera: di certo il Dittamo di Olympia, di cui aveva fatto uso la sera prima, aveva aiutato il rimarginarsi della ferita sul suo occhio, pesto e gonfio come una manifestazione di gotta. Ancora un tantino violaceo, ma sulla via di guarigione. « Ho portato cornetti e caffè da Starbucks, quando vuole possiamo fare colazione. » le disse, indicando con il mente il sacchetto che aveva poggiato sul bordo del suo letto candido, rialzato rispetto al pavimento. « Ho un paio d'ore, poi devo andare in Scozia. Ho delle cose che devo recuperare, altre che devo consegnare. » Chiarì, sorridendole. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a vederla, anche se si sarebbe potuto trattenere meno di quanto avrebbe voluto. Una colazione insieme sembrava il giusto compromesso. « Mentre aspettavo che si svegliasse dal suo sonno, Bella Addormentata, la sua coinquilina mi ha offerto questi... cereali, credo? Hanno la forma di piccoli cereali ma sanno di altro, secondo me vengono da Mielandia. Troppo zucchero. » Asserì in modo ironico, mentre Sherlock era già saltato sul suo letto, prendendo ad annusare le guance chiare della Rosier. Se aveva ancora intenzione di dormire, Sherlock stava scombinando prepotentemente tutti i suoi piani: Leo gli rivolse un'occhiata di rimprovero, portando alla bocca un'altra cucchiaiata di quegli strani cereali, mentre per sbaglio colpì la ferita ancora aperta. « Cazzo, fa ancora male. » si ritrovò a dire anche se avrebbe preferito mostrarsi meno delicato, mentre la sua espressione era leggermente contratta da un dolore più tenue, ma sempre presente. Fece per toccarsi il labbro delicatamente con la mano destra, per assicurarsi che la crosta non fosse saltata durante l'urto, visto il bruciore che percepiva. Dopodiché si alzò per poggiare la ciotola con il cucchiaio su un piano, incrociando nuovamente il suo sguardo ancora sonnolento. « Tu come stai piuttosto? E come sta il tuo amico? » chiese, riferendosi a Fred, curioso di conoscere i dettagli di come avesse vissuto Junie quella serata. Se per caso aveva visto anche lei un qualche genere di fantasma. Leo non aveva ancora menzionato @stregamoderna, che aveva scritto sul presunto bacio tra lei e Fred, ma d'altronde, non era sicuro nemmeno di crederci. Se ci fosse stato del vero, gliel'avrebbe raccontato lei stessa: non aveva senso affondare il dito nella piaga. « Questa è la prima sera in cui dormo come si deve. » disse con aria di sconforto, avvicinandosi all'amica, per poi andarsi a sedere sul bordo del suo letto.
     
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