Punto d' impatto.

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    Fin dall’antichità le più grandi menti pensanti ritenevano che ad ogni azione corrispondesse una reazione uguale o contraria a quella che l'aveva provocata. Ogni emozione, ogni atto, ogni gesto compiuto porta inesorabilmente ad un qualcosa che l’essere umano avrebbe potuto prevedere, riflettendo abbastanza profondamente. Ma il mondo che conosciamo, a dirla tutta, è diviso a metà tra due fazioni: i coscienti e gli incoscienti, ovvero chi è in grado di analizzare lucidamente una situazione sotto svariati punti di vista per poi essere in grado di saper affrontare il tutto con il maggior numero di informazioni e chi, mosso invece dal sentimento e dalla passione, agisce nella frazione di un attimo, pensando, forse, solo successivamente a ciò che il suo gesto può aver provocato. A volte può sbagliare, altre volte può aver semplicemente risparmiato tempo rispetto al pensatore. Se c’era una cosa che Daffy Baker sapeva fare particolarmente bene era agire d’istinto. Fin da piccola non era mai stata una che riflette troppo. Suo padre la chiamava “la mia piccola capocciona”, perché quando si metteva in testa qualcosa era difficile farle cambiare idea. Andava e partiva con l’intento di tornare vincitrice. Daphne era una di quelli secondo i quali siamo venuti al mondo accidentalmente in un universo governato dal caso. Le nostre vite sono decise da combinazioni puramente fortuite di geni. Tutto quello che accade, accade per caso. I concetti di causa ed effetto sono sofismi. Esistono solo cause "apparenti" che portano a effetti "apparenti". Dal momento che niente dipende realmente da qualcos'altro, navighiamo ogni giorno in oceani di caos e non si può predire nulla, nemmeno quello che succederà tra un istante. Daffy non si riteneva una che impara in fretta. Non aveva imparato che se fai la gatta morta con uno già impegnato c'è la possibilità che la fidanzata di quest'ultimo provi a strapparti tutti i capelli durante il Ballo di fine anno e non aveva imparato che se fai una gara a chi beve più whisky incendiario direttamente dalla botte il giorno prima dell'interrogazione di Storia della Magia è molto probabile che, nella migliore delle ipotesi, tu possa vomitare sul banco di Johnatan Martin, il giovane Corvonero occhialuto della prima fila. Daffy amava il suo stile di vita. Si riteneva una rivoluzionaria, una pioniera che avrebbe voluto convincere tutti a guardare il mondo dal suo punto di vista. Era un’inguaribile ottimista e pareva che niente e nessuno avrebbe mai gettato a terra il suo buon umore. Ma non era così. Era stato un accumularsi silenzioso, una serie di episodi che l’avevano intaccata, un po’ alla volta, come il gocciolare dell’acqua che finisce per bucare una superficie. Goccia dopo goccia anche la sua mente era stata intaccata ed ora sentiva solo tanto freddo. Era tornata da Berlino insieme a suo fratello. Da quando lo aveva ritrovato, in mezzo a quella marmaglia di gente, non era più riuscita a staccarsi da lui. Aveva trovato June, Lympi e Fawn nella banchina, quando gli Auror erano venuti a prelevarli per portarli al sicuro. Erano susseguiti dei giorni particolarmente strani, giorni in cui la stanchezza prendeva di colpo il sopravvento e in alcuni momenti, la giovane Baker non avrebbe saputo dire con esattezza se fosse sveglia o stesse sognando. Crollava senza accorgersene, senza particolare preavviso, vittima di un insano indebolimento per niente associabile ad una persona come lei. L’interrogatorio era stato pesante. Aveva risposto con estrema sincerità, dichiarando di non aver visto comportamenti sospetti, asserendo che lei si trovava nel vagone della festa insieme a quella che nella recita era sua sorella e che in verità di era dimostrata Junie, sostenendo che non aveva idea di chi avrebbe potuto commettere una cosa del genere. Aveva messo a disposizione i propri ricordi, aveva acconsentito a rispondere sotto l’incantesimo che obbligava a dire solo la verità, ma a quanto pare i suoi ricordi erano annebbiati. E più si sforzava di comprendere, più questi si dipanavano nella sua mente. Metteva in dubbio qualsiasi cosa. Quel cameriere somigliava davvero a Johnny Gaunth, quello di Serpeverde? C’era davvero una che faceva il bagno nuda in piscina? Era tutto vero oppure la sua mente la stava prendendo in giro, aggiungendo e sottraendo dettagli con l’unico scopo di farla dubitare persino di sé stessa? I suoi genitori avevano insistito perché rimanesse con loro, per qualche giorno, finchè non si sarebbe ripresa. Anche se titubante, aveva acconsentito. Fino al ritorno di Juniper, così aveva detto loro. Era perfettamente conscia di non riuscire a fare molto da sola. Sapeva di aver bisogno di aiuto e nonostante l’orgoglio, aveva deciso di accettarlo. Sua madre continuava a sfornare torte al cioccolato, ogni giorno, tentando di curare quello stato innaturale della figlia con ciò che amava di più, il cibo. Suo padre, invece, era riuscito a trascinarla fuori di casa portandola allo stadio ad assistere ad una partita di Quidditch. Ma Daffy, la loro bambina sempre così solare e che non si abbatteva davanti a niente, era diversa. Era stato come essere rigettata con forza indietro nel tempo, nel Lockdown, quando tutto ciò che riuscivi a percepire era la morte intorno a te. Potevi trovarla ovunque, dietro un angolo o nel posto dove eri consono andare a bighellonare. Attendeva, silenziosa, conscia di avere a disposizione tutto il tempo del mondo. Te la sentivi gravare sulle spalle, premere sulla testa e ciò ti portava a chiederti se saresti stato il prossimo. Daphne aveva l’impressione di vivere sott’acqua: i suoi gesti sembravano rallentati, i suoni ovattati, la vista che a volte deformava le cose. Era terribilmente stanca come non lo era mai stata in vita sua. Le ci erano voluti mesi per andare avanti, dopo il Lockdown. Mesi durante i quali si faceva carico di mostrarsi coraggiosa, forte per gli altri, ma che poi una volta che si trovava da sola, nel proprio letto, al buio, gli incubi le tempestavano la mente, impedendole di dormire. Le poche volte che riusciva ad addormentarsi si svegliava gridando, la fronte imperlata di sudore, le lacrime che le rigavano il viso arrossato. C’era voluta un’incredibile forza di volontà per non lasciarsi trascinare giù da quella energia misteriosa che pareva volerla schiacciare con tutta la sua prepotente forza. Ne era uscita, piena di cicatrici che non se ne sarebbero mai andate. L’avrebbero accompagnata per tutta la vita, condizionandola inconsciamente in molte cose, più di quante lei ne immaginasse. L’assassinio sul treno l’aveva catapultata con prepotenza indietro nel tempo, facendo breccia in quell’armatura che si era costruita addosso e che proteggeva le sue ferite. Era tardo pomeriggio e la pioggia scendeva fitta sulla cittadella. Daffy fissava le gocce scivolare sul vetro della finestra. Creavano un percorso a zig-zag, incorporando altre gocce durante il loro passaggio e diventando sempre più grosse e pesanti. I suoi genitori erano usciti. Era stata lei ad insistere perché se ne andassero entrambi. Non aveva bisogno di una balia. Era stanca di ritrovarsi mamma e papà ovunque, continuamente, son quei sorrisi apprensivi, trattandola come una malata, evitando l’argomento come la peste. Non ne poteva più. Aveva bisogno di evadere da lì, fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Durante quei giorni aveva escluso chiunque dalla sua vita. Non aveva mai risposto alle chiamate dei suoi amici, neppure a quelle di Aleksej e lui non se lo meritava proprio quel trattamento. Furono le sue gambe ad agire prima della sua mente. Scese dal letto, infilandosi di corsa le scarpe ed una felpa. Uscì dalla sua stanza, scendendo le scale, ritrovandosi al piano di sotto, aprì la porta ed uscì fuori. Il freddo le paralizzò immediatamente le guance e la pioggia le bagnava la faccia. Si portò il cappuccio sulla testa e cominciò a correre. Correva sentendo i muscoli tirare ed il freddo penetrare nelle ossa. Correva, cercando di liberare la mente, di non pensare. Il suo cuore batteva forte, percuotendo con prepotenza contro la sua cassa toracica. Aveva le guance arrossate, il fiato le usciva dalla bocca sottoforma di una nuvola bianca. Perché aveva aspettato così tanto?
    Perché aveva deciso di chiudersi in sé stessa quando era certa di poter trovare una spalla in lui? Si fermò solo quando si ritrovò a fissare il portone d’ingresso di casa di Aleksej. Il cuore palpitava velocemente nel petto, risuonando lungo la gola e lo stomaco. Cercò di calmare il respiro, ma prima ancora che ricominciasse a respirare normalmente bussò alla porta. Tre colpi, belli decisi e la mano cadde nuovamente lungo il fianco. Attese qualche secondo e la pazienza svanì in un attimo. Battè altri tre colpi. Le nocche delle dita le dolevano leggermente. Poi la porta si aprì, prima che lei potesse bussare di nuovo. Sbattè gli occhi, i capelli ormai fradici le si appiccicavano al viso. Il suo respiro si era tranquillizzato. «Scusa se non ho risposto alle tue chiamate.» Fu la prima cosa che le venne in mente. Il fatto che in quei giorni avesse evitato chiunque, compreso il suo migliore amico, la faceva sentire terribilmente in colpa. «Ho provato tante volte a richiamarti, ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sentivo.. male.. Volevo solo stare da sola.. Poi mi sono resa conto che più escludevo gli altri più stavo peggio.. E’ stato difficile uscire dalla porta.. Ma sono qui. Ci sono riuscita.» Sorrideva, ma allo stesso tempo, il labbro inferiore cominciò a tremare ed improvvisamente scoppiò a piangere. Chinò la testa, la pioggia le aveva infradiciato i vestiti. Piangeva, gettando fuori tutto ciò che si era tenuta dentro in quei giorni. «Scusa Alek..» Singhiozzò. Era così pessima come migliore amica?
     
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    Aleksej caro, io e tuo padre siamo molto felici di sentirti. Come vanno le cose? Noi stiamo bene, il lavoro procede per entrambi. Con le nuove disposizioni ministeriali è probabile che tuo padre avrà parecchio da fare in ospedale, nelle settimane a venire. Ero certa che questa tecnologia babbana non avrebbe portato nulla di buono, è un bene che abbiano preso questi provvedimenti. Ci teniamo a farti sapere che puoi dirci qualsiasi cosa, tesoro, e che se dovesse esserci qualcosa, qualunque cosa, tuo padre non esiterebbe a farti avere ciò di cui hai bisogno. So che spesso può sembrare duro, ma ti vuole bene, ricordalo sempre. Parlando di cose più allegre, la zia Adele è passata da noi, l’altro giorno. Voleva che ti ricordassimo che lei ha sempre un posto per te, nel suo ufficio, se dovessi aver problemi con il college o se dovessi cambiare idea. È una buonissima opportunità, sai che la sua casa editrice si è posizionata tra le prime cinque di Inghilterra?



    Aleksej smise di leggere, nauseato da quelle parole vergate con grazia e precisione. Aveva smesso di scrivere ai genitori con frequenza per quell’esatto motivo e ormai cominciava a chiedersi per quanto ancora le cose sarebbero andate avanti a quel modo e se mai si sarebbero arresi all’idea che lui non fosse affatto come loro. Inquadrati, tradizionalisti, quel tipo di persone dabbene che rispettavano le regole e che vedevano tutto ciò che esulava dalla rispettabilità come qualcosa di fuorviante e da evitare. Non erano persone cattive e Aleksej gli voleva bene, lo avevano cresciuto con amore, senza mai fargli mancare nulla, ma senza mai nemmeno assecondare troppo quella vena creativa, fantasiosa e avventurosa che il ragazzo aveva iniziato presto a dimostrare. Dapprima interpretata come il gioco di un bambino, poi come il capriccio di un adolescente ribelle, non avevano mai preso troppo sul serio le sue passioni, spronandolo piuttosto a seguire un percorso più raccomandabile, più sicuro, che gli avrebbe permesso di costruirsi una vita benestante, tranquilla e rispettabile. Così, quando il ragazzo aveva iniziato a prendere la propria strada e a scegliere per sé stesso, era stato come se li avesse traditi. O quanto meno, era questa l’impressione che ne aveva il ragazzo. Una volta finita la scuola si erano aspettati di vederlo lavorare, un lavoro onesto, che non dovesse per forza essere un ruolo di spicco, ma che avesse tutte le caratteristiche idonee a rientrare negli accettabili ranghi della società. Che lo omologasse. E non c’era pensiero che Aleksej odiasse e temesse di più. Per questo aveva scelto di partire, di allontanarsi da quella che era stata la sua vita fino a quel momento, fatta di pressioni, aspettative, incomprensioni e troppe indecisioni. Per trovare sé stesso, per capirsi un po’ meglio, per andare incontro ai suoi sogni. Ma i genitori non avevano capito. Lo avevano interpretato come un atto di ribellione, un capriccio, qualcosa da cui sarebbe presto rinsavito, e lo stesso avevano pensato della sua iscrizione alla facoltà di Arte. Era già più accettabile, meglio del girovagare per il mondo senza meta, ma non abbastanza. Che futuro gli avrebbe mai permesso? Sapeva che era questo ciò che i suoi genitori pensavano, lo sapeva perché lo ritrovava in ogni loro lettera, sotto forme diverse, con parole differenti, ma era lì, ogni volta. E Aleksej avrebbe voluto poter dire che la cosa non lo ferisse.
    Avrebbe voluto parlarne con Daffy. Lei, la sua migliore amica, che lo conosceva come nessuno e con la quale sapeva di poter parlare di tutto. Lei, che non rispondeva alle sue chiamate da quella che gli sembrava essere una vita, ormai. Era preoccupato. Cercava di nasconderlo, ovvio, perché non era il tipo a cui piaceva andare in giro a sbandierare i propri turbamenti, aveva sempre preferito accantonarli, reprimerli, evitarli. Erano poche le persone che riuscivano a farlo aprire, che sapevano vedere oltre il sorriso, l’allegria e la vivacità di sempre e capire che qualcosa non andava. Daffy era tra queste, se non la persona che ci riusciva meglio di tutte. Perché in fin dei conti la loro amicizia non era solo follie, spaghettate alle tre di notte davanti qualche brutto film dell’Asylum, serate di karaoke volutamente stonato, stupide prove di coraggio finite tra lividi e risate, ma era anche questo. E ora non voleva parlare con lui. Aleksej aveva provato a chiamarla negli ultimi giorni, ma lei non aveva risposto. Aveva smesso solo quando si era accertato che stesse bene, se bene si poteva definire, dopo che in preda all’angoscia aveva finito per fare una chiamata a casa dei suoi genitori. Allora si era arreso all’idea che lei non volesse parlargli e, anche se aveva capito che qualcosa di molto brutto doveva essere successo la sera di Capodanno, anche se immaginava che avesse solo bisogno di stare da sola e riprendersi, il ragazzo non aveva smesso di chiedersi il perché di quel suo allontanamento. Una parte di sé continuava a dirgli che la ragazza sarebbe tornata a farsi sentire presto, che gli avrebbe semplicemente spiegato di aver avuto bisogno di allontanarsi da tutto e tutti, come alle volte succedeva, come era capitato anche a lui, ma l’altra parte, quella che spesso si lasciava divorare dal dubbio e dall’insicurezza, non riusciva a non domandarsi se la colpa non fosse sua. Era davvero un buon amico per Daphne? Dopotutto, era stato via per anni. Le aveva scritto costantemente, molto più di quanto avesse scritto ai propri genitori, aveva trovato il modo di esserci per i suoi compleanni e altri eventi importanti e si era materializzato da lei più di una volta, quando aveva avuto il sentore che lei ne avesse bisogno, ma restava il fatto che se ne fosse andato. Era tornato pensando di poter ricominciare da dove aveva lasciato, pensando di poter rientrare nella vita di Daphne e riprendersi il suo posto, ma forse si era sbagliato. Forse aveva finito per perdere qualcosa che aveva già, qualcosa di importante, in quella sua egoistica ricerca di sé stesso che lo aveva portato lontano per così tanto tempo.
    Ripiegò la lettera e la buttò dentro uno dei cassetti della scrivania. Avrebbe risposto, prima o poi, ma in quel momento non era affatto dell’umore adatto. Era solo, e le stanze erano più silenziose e vuote di quanto il ragazzo riuscisse a sopportare. Non gli era mai piaciuta troppo, la solitudine. Per questo recuperò la giacca abbandonata sul letto, fregandosene della pioggia che scrosciava oltre il vetro delle finestre. Sarebbe andato da qualche parte, così, per distrarsi, perché sapeva che i coinquilini non sarebbero rientrati prima del giorno successivo. Ecco perché i colpi alla porta lo sorpresero, lasciandolo interdetto e bloccato nell’atto di mettersi la sciarpa attorno al collo. Cercò di fare velocemente mente locale, provando a ricordare se avesse preso appuntamento con qualcuno o se avesse organizzato qualcosa per quella sera, ma no, niente, nulla che riuscisse a ricordare, almeno. Altri colpi, più insistenti, risuonarono nell’appartamento e il ragazzo parve riscuotersi all’improvviso. «Eccomi, arrivo arrivo.» Aleksej uscì dalla propria camera e raggiunse velocemente la porta, ma niente avrebbe potuto prepararlo a ciò che vide quando la aprì. Una serie di emozioni lo invasero in contemporanea, passando anche sul suo volto. Sorpresa nel trovare Daphne lì, sollievo nel rivederla e preoccupazione nel notare l’espressione sul suo viso. «Scusa se non ho risposto alle tue chiamate.» La sentì dire, prima ancora che il ragazzo potesse togliersi dal volto quell’espressione allucinata e recuperare il dono della parola. Vederla a quel modo, con le guance arrossate, completamente fradicia e con quel sorriso che non lo convinse nemmeno per un secondo, lo straziò oltre ogni dire. «Ho provato tante volte a richiamarti, ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sentivo.. male.. Volevo solo stare da sola.. Poi mi sono resa conto che più escludevo gli altri più stavo peggio.. E’ stato difficile uscire dalla porta.. Ma sono qui. Ci sono riuscita.» La lasciò parlare, perché poteva avvertire il suo bisogno di spiegarsi, così come avvertiva che non stesse affatto bene. Lo aveva immaginato, certo, ma vederlo con i propri occhi era tutt’altra cosa. Fu per questo che, quando lei gli chiese scusa, il ragazzo non esitò a farsi avanti per abbracciarla. La tenne stretta, cullandola appena e accarezzandole la schiena al fine di tranquillizzarla. Era felice che fosse lì, ma vederla piangere, improvvisamente così piccola e fragile davanti a lui, gli strinse il cuore in una morsa dolorosa. «Non devi chiedermi scusa di nulla, Daffy. Va bene così, va tutto bene.» Glielo sussurrò contro i capelli e forse no, per lei non andava tutto bene, ma il ragazzo voleva farle capire che ora che era lì, l’avrebbe aiutata in ogni modo possibile. «So come ci si sente, a voler scappare da tutto e da tutti almeno per un po’. Non devi sentirti in colpa per aver fatto qualcosa che pensavi ti avrebbe aiutato a stare meglio. È tutto ok.» Si allontanò un po’, per poterla guardare e rivolgerle un piccolo sorriso. «Io sono qui. Ci sarò sempre. E sono felice che tu sia riuscita ad uscire da quella porta.» Il sorriso si addolcì e lo sguardo che cercò il suo si fece un poco più allegro. «Anche perché, se non l’avessi fatto, nel giro di un paio di giorni probabilmente ti sarei piombato in casa come un matto. Con un paio di birre, delle pizze e un sacchetto di caramelle sgraffignate da Mielandia.» Sperò di farla sorridere e le diede anche un piccolo buffetto sul naso. Probabilmente lo avrebbe fatto davvero, alla fine, mandando al diavolo il buon proposito di aspettare e darle tempo, semplicemente perché non era mai riuscito a farsi da parte quando le persone a cui teneva stavano male.
    Il sorriso sfumò in un’espressione più impensierita e uno sguardo più attento si andò a posare sui suoi capelli e i vestiti completamente zuppi. «Ma guardati, sei completamente fradicia, starai congelando.» Senza troppi complimenti, lasciò scivolare la propria mano in quella di lei e se la tirò dietro fino ad uno dei divanetti che occupavano il piccolo salottino, chiudendosi la porta alle spalle. «Mettiti comoda, ok? Ti porto degli asciugamani. E un cambio. E della cioccolata calda. E poi mi racconterai ogni cosa, va bene? Torno subito.» Si allontanò senza neanche darle il tempo di replicare, ormai completamente in modalità mamma chioccia, distratto a tal punto dal prendersi cura di lei, da dimenticarsi che c’era un semplice incantesimo che avrebbe potuto asciugarle i vestiti in men che non si dica. Ma Aleksej faticava a ragionare lucidamente, sotto stress, le idee si accavallavano e perdeva di vista la soluzione più semplice. Quindi sì, andò a recuperare degli asciugamani, una sua felpa e un paio di pantaloni della tuta che le lasciò poggiati sul divano, poi andò a chiudersi in cucina, per darle il tempo di cambiarsi e nel frattempo preparare una cioccolata che avesse almeno una parvenza di decenza. Tornò con due tazze fumanti e qualche biscotto che sistemò sul tavolino antistante il divano, in cui si lasciò sprofondare. Solo allora si ricordò di togliere giacca e sciarpa che aveva indossato per uscire. «Onestamente, la cioccolata potrebbe fare schifo. Però i biscotti sono favolosi, quelli non li ho fatti io.» Che non sapesse cucinarsi nemmeno un uovo al tegamino, questo Daphne in fin dei conti lo sapeva. Si fece silenzioso, poi, prendendo ad osservarla con un’espressione questa volta più seria e pensierosa. Si sentiva più sollevato, ora che Daphne era lì, ma sapeva che il problema era stato a malapena scalfito. «Sai che puoi parlarmi di tutto, vero?» Le chiese, gentile, curioso, ma al tempo stesso accorto. «Ma non devi farlo, se non vuoi. Possiamo parlare d’altro, o giocare a qualcosa, o sfondarci di cibo, o quello che vuoi, davvero. Qualunque cosa ti faccia stare meglio.» Anche se credeva che parlare di ciò che la faceva stare male fosse la cosa migliore e la sola in grado di aiutarla davvero, non le avrebbe fatto pressione alcuna, non se non era questo quel che voleva. Le sarebbe stato semplicemente accanto, al meglio delle sue possibilità.


    Edited by Novae - 23/2/2020, 20:08
     
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    All’improvviso e quasi senza che se ne rendesse conto, le braccia di Alek la stavano avvolgendo. Si irrigidì, involontariamente, contraendo ogni singolo muscolo del corpo, spiazzata da quel contatto inaspettato ed imprevisto. Rimase immobile, trattenendo il respiro. Da quando le porte del treno si erano aperte, donandole la libertà, la vicinanza con gli altri era qualcosa che la metteva a disagio, come se avesse paura di essere toccata, di essere ferita. Se ne stava sempre sull’attenti, scattando per ogni minimo rumore, come una molla. Arrivava ogni sempre alla fine della giornata completamente esausta, senza aver combinato nulla. Lentamente, però, il suo corpo e la sua mente cominciarono ad abituarsi, come ci si abitua ad una medicina, che all’inizio può sembrarci un po’ amara. E’ Alek, si ripeteva. Non ti farebbe mai del male.. Le sue braccia salirono, raggiungendo la schiena dell’amico, e lo strinse leggermente a sé. La sua anima era un mare in tumulto e le braccia di Alek erano un porto sicuro. Sprofondò con il viso sull’incavo del suo collo, mordendosi il labbro inferiore che non riusciva a smettere di tremare. Aveva evitato quel contatto troppo a lungo ed ora si rendeva conto che era la cosa di cui aveva maggior bisogno. «Non devi chiedermi scusa di nulla, Daffy. Va bene così, va tutto bene.» Va tutto bene. Le parole del ragazzo, il suo tono gentile e avvolgente come una coperta calda. Va tutto bene Era vero. In quel momento non c’era nulla che avrebbe potuto farle del male, ferirla. Eppure c’erano dei momenti in cui Daphne aveva l’impressione di non essere mai scesa da quel treno. Io sono qui. Ci sarò sempre. Per quanto si sentisse patetica a farsi vedere in quelle condizioni, Daffy aveva bisogno di quelle parole. Le assorbiva, come le foglie assorbono i raggi del sole per farsi più forti. Non le piaceva autocommiserarsi, non le piaceva la pietà delle persone, ed era certa che quello fosse ben altro. Cominciò a ridacchiare mentre Alek le spiegava cosa avrebbe fatto da lì a poco se non fosse uscita di casa. Rideva e nel frattempo si asciugava gli occhi con il dorso della mano, come una vera e propria signorina di altri tempi. «Mia mamma sarebbe stata contenta..» tirò su con il naso «.. dice sempre che come le dai soddisfazione tu quando mangi, nessuno mai.» Una risata mista ad un singhiozzo. La sua mente era confusa. Un turbinio di emozioni. Aveva l’impressione di essere dentro uno di quei sogni dove al posto del pavimento c’è un enorme tappeto elastico. Lasciò che Aleksej la trascinasse dentro, senza fare nessuna resistenza. Ed eccola lì, davanti all’ingresso con gli abiti che le gocciolavano sul pavimento. Le volte in cui lei e suo fratello rientravano in casa in quelle condizioni la mamma si infuriava così tanto che si dilettava in quella che - a parere di Daffy ed Olly - ai suoi tempi doveva essere stata una disciplina olimpionica in cui mamma Baker era eccelsa: il lancio della ciabatta. Quante volte si era precipitata a casa di Alek, anche senza previsto? Una confezione di birra in una mano e una busta piena di schifezze nell’altra. Ridevano delle cose più stupide, ingozzandosi di patatine e dolcetti di Mielandia e guardando pessimi film di serie “c”. Daffy gli raccontava di tutto, dalla sua cotta del momento ai trip mentali che si era fatta con gli ultimi funghetti che aveva preso. Si sentiva libera di parlare di tutto, dalle cose più leggere a quelle in cui, in realtà, le parole non servivano affatto. Eppure, in quel momento, non riusciva a smettere di sentirsi a disagio. Le sembrava di aver invaso con forza la sfera domestica del giovane ex Tassorosso, elemosinando attenzioni che di sicuro, dopo il comportamento evitante di quei giorni, non meritava. Si sentiva terribilmente in colpa. Alek era una delle cose più sincere e pure che ci fossero nella sua vita e Daffy non solo si era comportata di merda, ma adesso le pareva pure di essere sul punto di approfittarsi di lui. Biascicò un ringraziamento quando il ragazzo le portò degli asciugamani e dei vestiti asciutti. Si sfilò i suoi, appoggiandoli con attenzione sopra lo schienale di una sedia, distendendo il tessuto alla bene e meglio, sperando che così si sarebbero asciutti prima. Infilò la felpa ed i pantaloni per poi poggiare l’asciugamano in testa e strofinarsi i capelli con energia. Proprio in quel momento Alek sbucò dalla cucina, portando in equilibrio due tazze fumanti di cioccolata calda e dei biscottini al burro. «Onestamente, la cioccolata potrebbe fare schifo. Però i biscotti sono favolosi, quelli non li ho fatti io.» Una risatina le si arrampicò per la gola, alzandole i lati della bocca, facendola sorridere. Si sedette nel divano, la schiena poggiata sul bracciolo, dalla parte opposta rispetto a dove si trovava Alek. Ritirò le ginocchia al petto, muovendo le dita dei piedi, rendendosi conto solo in quel momento di non essersi ancora tolta lo smalto dalle unghie. Ne rimanevano solo poche macchie nere, qua e là, soprattutto nell’alluce. Borbottò un “grazie” mentre il ragazzo le passava il cioccolato, allungando le mani e stringendo la tazza con le dita.
    «Sai che puoi parlarmi di tutto, vero?» Tu-tum Era certa che il suo cuore avesse perso un battito mentre le sue viscere si attorcigliavano intorno allo stomaco, facendole venire la nausea. Teneva lo sguardo fisso, osservando la superficie della bevanda fumante. Certo, certo che lo sapeva. Era stato lui il primo a cui aveva dato la notizia di essere entrata nelle Holyhead Harpies, quello con cui si confidava quando veniva a conoscenza di un battibecco succulento e quello che aveva chiamato per chiedere aiuto quando, dopo aver fatto sesso per la prima volta, lei e Jesse Puckerman si erano accorti che il preservativo era sparito e c’era un solo posto dove poteva essere rimasto. Il resto della nottata l’aveva passata in ospedale. Aleksej non aveva mai smesso di ridere. All’inizio aveva fatto la permalosa, ma alla fine si era lasciata coinvolgere pure lei. “Avanti Baker! Se fosse successo a me saresti la prima a prendermi per il culo!” le aveva detto l’ex Tassorosso. Ed aveva ragione. «Ma non devi farlo, se non vuoi. Possiamo parlare d’altro, o giocare a qualcosa, o sfondarci di cibo, o quello che vuoi, davvero. Qualunque cosa ti faccia stare meglio.» Cosa ti fa stare meglio, Daffy? Si era sentita fare quella domanda decine di volte da parte dei suoi genitori. Avevano provato con qualsiasi cosa: il cibo, il Quidditch, la tv, lunghe passeggiate.. Cosa ti fa stare meglio? Più ci pensava, più si rendeva conto che in realtà stava già meglio. Voleva bene a mamma e papà, avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, ma le stavano incredibilmente addosso, soffocandola. Era stato difficile convincerli a darle più libertà dopo i fatti del Lockdown ed ora ecco che si trovavano di nuovo nella stessa situazione. Avevano rischiato di perdere i loro figli per ben due volte ed ora i signori Baker vivevano nel terrore perenne. Avrebbero voluto arrotolarla nella plastica da imballaggi, quella con le bollicine che Daffy amava tanto scoppiare. Avevano riempito la sua camera con qualsiasi cosa la figlia avesse bisogno, facendolo sembrare un nido, dicendole che se non voleva uscire andava bene così. Va tutto bene. «Mi andrebbe tanto uno spinello, ora.» Alzò lo sguardo, fissando gli occhi azzurri del giovane seduto davanti a lei. «Sono quasi due settimane che non fumo, ci credi?» Quella era proprio la prova che Daffy Baker era stata decisamente di merda. Scoppiò in una risatina prima di prendere un lungo sorso di cioccolata. La bibita le scaldò l’esofago, fino a crearle una piacevole sensazione di tepore giù per lo stomaco. «Sai, questa roba non è male.. Insomma, voglio dire, non sembra esattamente cioccolata calda.. Ci si avvicina, però.» Si stava sforzando di scherzare, ma il suo tono era solo una copia farlocca della voce allegra e spensierata di Daphne. Se ne rese conto quasi subito. «Scusa io.. E’ buona, davvero.» Ne bevve un altro sorso, in silenzio. Come stai, Daffy? Di cosa hai voglia di parlare? «Sono terrorizzata.» Quelle parole le scivolarono dalle labbra con la stessa velocità di un pensiero, destabilizzando anche lei. Cercò di riordinare le parole dentro la sua testa, poi parlo. «Sono terrorizzata, ma allo stesso tempo.. E’ come se uscire, correre fino a qua.. E’ strano da spiegare.. E’ come un’iniezione di adrenalina. Sento che il cuore potrebbe scoppiarmi in petto. Ho paura. Mi sento in colpa, terribilmente in colpa. Una voce nella mia testa mi dice che devo alzarmi, devo muovermi, che con questo atteggiamento del cazzo sto rischiando di perdere tante cose.. Ho rischiato di perdere te!» Si rannicchiò nelle spalle, abbassando lo sguardo e sentendosi incredibilmente piccola e giudicata. No, non da Alek, ma da sé stessa. «Ma un’altra vocina dice che Eric Donovan è morto e noi siamo degli ingrati ad andare avanti con le nostre vite.» Un tuffo al cuore, un brivido lungo la schiena. Non è colpa tua. Non è colpa tua. Si ripeteva quelle parole come un mantra, come se un dottore le avesse detto di farlo come terapia. Era caduta. Si era fatta male e aveva paura che cercando di risalire si sarebbe fatta peggio. Perciò si era chiusa in sé stessa, rannicchiata in un angolino, aspettando che la vita facesse semplicemente il suo corso senza far niente per poter cambiare le cose. Vittima di sé stessa. Non c'era nulla che le impedisse di reagire. Solo Daffy Baker impediva a Daffy Baker la risalita. Si morse le labbra, incapace di reggere lo sguardo dell’amico. Si sentiva come una bambina che era stata beccata con le mani infilate dentro al barattolo di marmellata. «Ho paura Alek. Ho paura di essere cacciata dalla squadra perché mi sto allenando poco, ho paura che alla mia famiglia possa accadere qualcosa, ho paura..» Le parole le morirono in gola. Chiuse la bocca, stringendo le labbra in una linea sottile. Sbattè velocemente gli occhi per cacciare via quel velo che le stava offuscando la vista. Prese un profondo sospiro e poi continuò. Ora il suo tono era più serio. «Perché ci sta accadendo tutto questo Alek?» Sospirò, passandosi una mano sulla nuca. «Siamo adolescenti. Dovremmo andare ad una festa ogni sera, sballarci senza pensare al giorno dopo, pensare al modo più facile per copiare al prossimo compito..» Abbassò lo sguardo sul tessuto del divano. «Vorrei solo che avessimo una vita normale..» Chiuse per un attimo gli occhi. Respira. Li riaprì solo quando fu certa che facendolo non si sarebbe trovata davanti nessuno scenario disastrato ma solo il volto rassicurante del suo migliore amico. «Perciò scusa se ti ho ignorato. Scusa se mi sono comportata come se fossi l’unica persona al mondo ad avere dei problemi. Mi dispiace per essere piombata in casa tua senza neppure chiederti come stai.» Scusa per essermi comportata da bambina viziata «Perché mi interessa saperlo. Parlami, perfavore.» Ti prego non compatirmi. «Mi piacerebbe sapere cosa hai combinato mentre io ero fuori combattimento..»
     
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2 replies since 16/2/2020, 12:35   142 views
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