call me a safe bet, I'm betting I'm not

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    Winter Bouchard non era mai stata una ragazza semplice — rifuggiva la monotonia come fosse una malattia infettiva, e non voleva ammettere che la sua, di vita, si era ridotta alla mera speranza di una dose in pace. L’ennesima presa in giro dell’universo, un misero sfottò.
    Da quando era tornata da Berlino, aveva attraversato le giornate come un sonnambulo — senza orari fissi, senza comprendere veramente tutto ciò che la circondava: le persone diventate mere maschere di cera, il tempo un concetto labile e malleabile.
    C’era una sottile linea che Winter non aveva deciso di superare, ormai da anni, dai tempi dell’overdose, quando sua madre l’aveva trovata stesa sul tappeto di camera sua con la bava alla bocca.
    Non lo faceva per lei — Winter era ormai scesa a patti con l’irrecuperabile rapporto che la stringeva a sua madre come un cordone ombelicale mai reciso con determinazione. Voleva proteggerla ed allontanarla allo stesso tempo, perché fidarsi di suo padre — la faccia pulita, ora, senza più toccare un goccio di alcol, concentrato sul perdono verso se stesso e da parte della sua famiglia — era impossibile.
    Ciondolava con la testa per i corridoi del campus, Winter, gli occhi appena socchiusi per via delle sole quattro ore che era riuscita a dormire quella mattina — viveva di notte, senza curarsi del normale sorgere e tramontare delle giornate. Ormai passata l’ora di pranzo, Winter si era svegliata di soprassalto, colta da un dolore inaspettato al polpaccio. Sapeva perfettamente di cosa si trattasse — il suo corpo stava già smaltendo il ricordo della cocaina che restava, causando un irrigidimento doloroso ma non sospetto dei muscoli.
    Doveva aspettare, però — la paranoia dei decreti riguardanti il Wiznet non era ancora scemata, non del tutto, soprattutto in mezzo agli spacciatori. Il ragazzo che solitamente gliela vendeva non l’avrebbe avuta fino a due giorni più tardi.
    Troppo stanca ed indolenzita per mangiare qualcosa, lo stomaco chiuso da fin troppo tempo, Winter si era alzata a fatica, ed aveva infilato la cosa più semplice che avesse pescato nell’ammasso di vestiti che popolava il suo armadio.
    Borsetta appesa alla spalla, che picchiettava contro il suo fianco, in cui fedelmente si trovava l’ultimo pezzetto di stagnola e tutto l’occorrente, in caso di necessità. Le sigarette, un pacchetto di Lucky Strike, anche quelle racchiuse all’interno del piccolo scrigno.
    Sull’altra spalla pendeva lo zaino, che non aveva preparato, già convinta di trovare al suo interno il volume per prepararsi alla prossima sessione d’esame — quella passata non era andata così male, nonostante con gli esami fosse andata a rilento. Non aveva voglia di impegnarsi, non in quel periodo — eppure la sua attenzione e la sua costanza erano cruciali per poter finire il prima possibile ed iniziare a lavorare, così da essere abbastanza indipendente da potersi finalmente staccare dai suoi genitori. Ne aveva bisogno, Merlino solo sapeva quanto ne avesse bisogno.
    Per tutto il tragitto dalla sua camera, Winter era stata pienamente convinta a voler arrivare fino alla biblioteca e mettersi in pari con lo studio — non aveva ancora imparato, in così tanti anni, quanto facile fosse ingannarsi da soli. Faceva un sacco di cose senza rendersene conto, Winter — come contare i soldi dividendoli per l’esatta cifra che le costava un quartino, il minimo indispensabile; oppure, ancora, scandagliare in ambiente alla ricerca di un posto abbastanza appartato. Non era con cognizione di causa che Winter si era diretta ed infine ritrovata di fronte al primo bagno delle ragazze che le fosse capitato davanti — in fondo, aveva capito ancora dal momento in cui aveva messo piede fuori dalla sua stanza che sarebbe andata a finire così.

    Con lo sguardo fisso sulla porta del gabinetto, che aveva controllato più volte di aver chiuso, Winter se ne stava inginocchiata davanti alla tazza con la tavoletta abbassata. Aveva preparato il tutto con estrema meticolosità — e Winter non era precisa in nulla, tranne che in quello —, le orecchie tese per sentire il rumore della porta principale che conduceva ai gabinetti aprirsi.
    Finalmente lì, di fronte a lei, una striscia, più piccola di quant’era abituata in periodi migliori. Socchiuse gli occhi, avvicinando il capo, pregustando già l’effetto con un formicolio allo stomaco. Poi, tirò.

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    Non sapeva quantificare da quanto se ne stava in piedi di fronte allo specchio che correva quasi lungo tutta la parete, le mani poggiate ai bordi del lavandino.
    Osservava il suo riflesso, Winter, che per la prima volta da qualche giorno non le sembrava più così patetico, così imbruttito.
    Non pensava a come si fosse giocata l’ultima dose nel bel mezzo del pomeriggio, Winter, e a ne avrebbe trovata un’altra — quelle erano preoccupazioni da lasciare per dopo, di cui scrollarsi di dosso nel momento in cui le avessero solleticato il cervello, fino alla fine dell’effetto.
    Si sentiva finalmente bene, pacificamente euforica, il naso così vicino a quello nel proprio riflesso, le pupille grandi come chicchi di caffè. I suoi occhi erano più belli, più magnetici, con quel filo di iride a coronare l’enorme buco nero.
    Non c’era niente che poteva andare storto, non in quel pomeriggio — tranne la porta del bagno che si aprì, costringendola a raddrizzare la schiena di scatto.


     
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    Fawn Byrne, è ormai risaputo, aveva sempre vissuto la propria vita seguendo ritmi che chiunque altro nella sua stessa posizione avrebbe trovato come minimo folli. Ma, ancora una volta, in una situazione di estremo stress psicologico come quella da lei vissuta al momento, quei ritmi folli, per paradossale che possa suonare, si stavano rivelando la sua ancora di salvezza. La stessa che le evitava di andare alla deriva, naufragando in una serie di domande. Senza risposta, quelle domande, nel migliore dei casi; dalla risposta poco rassicurante, nel peggiore. Il suo intero essere era, nell'ultimo periodo, particolarmente in tumulto; si sentiva come se la terra le venisse di continuo tolta da sotto i piedi, senza che lei potesse fare nulla per opporsi. E se non poteva neppure opporsi, allora come avrebbe mai potuto pensare di potersi ribellare? Soprattutto: per attuare una ribellione, perché questa avesse quantomeno inizio, non avrebbe dovuto sentire in petto almeno la parvenza di una scintilla, la stessa che si sarebbe poi trasformata in rabbia, per divampare alla stregua di un incendio che non poteva più essere contenuto? Non aveva le energie per un incendio. Ma, allo stesso tempo, non aveva nemmeno voglia di mollare l'osso. Non avrebbe saputo dirlo, se si trattasse di testardaggine, effettivo desiderio di continuare ad esistere in qualche maniera, oppure forza dell'abitudine. La mora, dopotutto, non aveva certo la fama di una che si arrendeva facilmente. Non si era arresa durante il lockdown, non si era arresa dopo. Aveva continuato a remare, con testardaggine, con la sola differenza che in quel periodo della propria vita osava ancora sperare in qualcosa di positivo. Ora, in un risvolto comico, sembrava sperare che qualunque cosa accadesse, almeno, non fosse così terribile. E in quella speranza un po' patetica, nella quale rivedeva una versione accartocciata di sé, si teneva stretta la propria quotidianità come mai prima - alla stregua di una madre col proprio bambino. Era più irritabile del solito. Improvvisamente più prona a commenti taglienti, irritati, cattivi quasi. Erano segnali sottili di un malessere che tentava di contenere. Sottili abbastanza perché sfuggissero ad un occhio inesperto. La parte divertente, un interessante effetto collaterale forse, era che la sua resa ne avesse risentito nel migliore dei modi: era diventata più precisa, sembrava meno frettolosa, riusciva a rispettare tutte le scadenze imposte senza nemmeno lamentarsi troppo. Un risvolto inatteso quello, ma più piacevole di tanti altri.
    In quello stato - qualunque esso fosse - si era trovata a dover prestare più attenzione a cose alle quali di solito non faceva caso. Il trucco, per esempio. Non che prima non avesse mai sofferto d'insonnia, era sempre stato un suo problema, ma ne era divenuta improvvisamente cosciente. Se non dormo abbastanza, allora avrò le occhiaie. Se ho le occhiaie, penseranno che io abbia qualcosa che non va. Una cazzata. Nessuno gliele guardava neanche, con ogni probabilità. E se ci facevano caso, di sicuro non era nella misura nella quale ci faceva caso l'americana. Ma è la consapevolezza di un problema a fotterti, non tanto il problema stesso. È l'importanza che gli dai. E lei, non avendo nemmeno l'ombra di una soluzione ai veri crucci della sua vita, sembrava essere entrata in una condizione dove, non potendo risolvere ciò che effettivamente la mangiava da dentro, si concentrava su tutto il resto. Ed era proprio per controllare lo stato della propria faccia che la Byrne si era diretta in bagno.
    E ti pareva che non ci beccavo già qualcuno dentro, un pensiero che le nacque dal cuore, suo malgrado. Non ce l'aveva con la ragazza in questione ma, allo stesso tempo, era sempre circondata di gente e, per via del suo stato d'animo, cominciava a soffrirne un po' le conseguenze. La sua prima reazione, dopo averle rivolto una rapida occhiata e stirato un sorriso a mo' di saluto, fu quello di dirigersi rapidamente verso un lavello, alla ricerca di uno specchio e constatare che la sua faccia non stesse cadendo a pezzi, almeno. Investire in cosmetici di qualità aveva pagato. Tuttavia ci fu un attimo in cui lo sguardo di Fawn cadde sul suo viso riflesso nello specchio e lei, che nel frattempo aveva tirato fuori il piccolo sacchetto adibito a trousse, si trovò ad assottigliare appena lo sguardo. Questa ha qualcosa che non va, concluse dopo qualche secondo, nell'osservarne il riflesso. C'era qualcosa, negli occhi di lei, che non la convinceva. Per niente. A questo punto che dovrei fare?, si chiese. Ciao! Mi sembri fatta come una pigna, ti è mai venuto in mente di riservare certe attività ricreative per luoghi che non fossero un bagno pubblico?, non era certo papabile come inizio di conversazione. Inoltre, se proprio si doveva essere pignoli, la Byrne non era sicura di come comportarsi anche per via della spilla di Senior appuntata sul maglioncino.
    Non era moralmente corretto ignorare la situazione, ma lo era forse di più prendere una sconosciuta per un orecchio e trascinarla nell'ufficio del Preside, senza per altro averla colta in fallo? Ad un breve esame, in fondo, in quel bagno non c'erano tracce. Di fatta, però, mi sembra fatta.
    Se fosse stata ubriaca, d'altra parte, si sarebbe comportata in modo del tutto differente, su quello non ci pioveva. Fawn decise di prendersi un attimo per riflettere, nel riapplicare il rossetto. Una volta finito, tuttavia, si voltò in direzione della compagna. L'aveva vista qualche volta, a lezione. Non era del suo giro però, per cui proprio non riusciva a ricordare quale potesse essere il suo nome. Ne osservò i tratti per qualche istante ancora. « Ti consiglio di restare in bagno finché non ti cala almeno un po'. » Un'osservazione incredibilmente pacata, se si considerava il rapporto - per nulla buono - della rosso-oro con le sostanze di un certo tipo. Fece spallucce, lanciandole un'occhiata piuttosto eloquente affinché l'altra non avesse dubbi riguardo l'oggetto di quell'osservazione. Sei fatta lercia, lo vedrebbe pure un cieco. « Ho visto un po' di professori in giro, non so quanto saranno propensi ad ignorare la cosa. » Con tutta la merda successa ultimamente, poi... Inclinò la testa di lato, scoccando un'ultima domanda. Una curiosità che non si era mai tolta, forse perché non ne aveva mai avuto l'occasione, esternata senza il minimo astio. « Ti posso chiedere che ci trovi? » Ne vale veramente la pena?





    Edited by anagapesis - 2/4/2020, 05:21
     
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    La sballata da cocaina era qualcosa di sacrosanto, per Winter — aveva provato svariate droghe, tra quelle magiche e non, ma, alla fine, tornava sempre da lei.
    Ricordava chiaramente un pomeriggio soleggiato tra le strade di Vancouver, l’estate ormai esplosa come una bomba, l’asfalto bollente sotto alle scarpe di tela. Aveva quindici anni, e girava la città con Zip per i suoi affari. C’era una ragazza, che avevano incontrato, non troppo più grande di loro — Winter non sapeva il perché, ma sembrava interessata esclusivamente a lei, oltre allo scambio che aveva appena sigillato con Zip. Forse vedeva la curiosità nei suoi occhi, forse prevedeva il futuro, Winter non l’aveva mai chiesto. La ragazza l’aveva fissata per dei lunghi istanti, prima di soffiare tu scegli la prima volta, poi sceglie lei ed andarsene.
    Nel profondo delle sue interiora, Winter sapeva che quella ragazza avesse ragione — eppure il cervello e la convinzione erano fin troppo labili, e la furbizia di Winter riusciva spesso ad incantare i più deboli: lei stessa compresa. Smetto quando voglio, sì. Eppure non voleva, nemmeno dopo la tremenda overdose e i disastri che ne erano conseguiti.
    Non quando continuare significava sentirsi così — non era completamente assente, Winter, ma al contrario concentrata su ogni minimo rumore o sensazione del suo corpo.
    L’aprirsi della porta che conduceva ai bagni l’aveva fatta sobbalzare, ma riusciva, ormai, a mantenere la calma.
    Si trattava di una ragazza mora, pelle olivastra, una bella spanna più bassa di Winter — occhi verdi, attenti e fossilizzati tra il curioso ed il seccato. Non ricordava il suo nome, ma era sicura di averla già vista — forse a qualche corso, in biblioteca, o semplicemente per i corridoi.
    Meglio andarsene con calma, prima che incominci a rovinare il divertimento — questa era la premessa, la decisione definitiva. Cercando di muoversi in fretta, ma non troppo, per sembrare il più composta possibile, si adoperò per infilare nella trousse — un astuccio in cui teneva dei trucchi per ogni emergenza — il rossetto, il mascara e ogni arma femminile che aveva tirato fuori poco prima per rendersi più presentabile.
    Finire nel letto di qualcuno, ecco cosa voleva — o, più precisamente, fare finire qualcuno nel suo. Era quasi imperativo, per Winter, esaurire la sballata con un’epocale scopata.
    La cocaina le dava più energie, la faceva sentire più bella, sia dentro che fuori — una persona nuova, una persona migliore del guscio vuoto che si portava dietro ogni giorno come un carico troppo pesante. Ormai, la droga era ciò che la faceva sentire più se stessa.
    Stava per allontanarsi in silenzio, voltata di tre quarti verso la porta, ma prima di poter allungare un solo passo, la ragazza di cui proprio il nome non riusciva a ricordarsi parlò. Era divertente come Winter riuscisse a sentire il suono della sua voce ancora prima di vedere le sue labbra muoversi — era buffo, ma si morse una guancia per non ridere.
    «Come, scusa?», il tono non era d’accusa, ma di puro stupore — la finta tonta, uno dei numeri che le uscivano meglio. Il tono e l’occhiata della mora, tuttavia, non lasciavano spazio ad errori di valutazione — restò in silenzio per un tempo indefinito, Winter, il più lungo che le riuscì.
    «Non ti preoccupare», una voce più tagliente, ma non rude, «so come cavarmela», e di nuovo, pensò di aver trovato il momento propizio per afferrare le sue cose e svignarsela senza problemi — secondo tentativo, come il primo, fallito miseramente.
    Cosa vuoi, da me?, avrebbe voluto chiederle, Winter, la mascella contratta ed un pizzicore al naso che tentava di ignorare per non inspirare forte, in maniera inequivocabile. Se non sei uscita ad avvisare professori e cavalleria pesante vuol dire che non lo vuoi fare, quindi lasciami andare e facciamo finta che questo non sia successo. Era pronta a dirglielo, e stava proprio per aprire bocca, forte della sensazione di sicurezza e potere che la cocaina le donava, ma un’altra domanda arrivò prepotente.
    « Ti posso chiedere che ci trovi? »
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    Le venne da ridere — in una situazione del genere, Winter si ritrovò a lasciarsi scappare l’inizio di una risata, «Perché, ti interessa provare?», un’ammissione di colpa ed una curiosità estremamente sorpresa popolavano la sua voce, leggermente più alta del normale, «Se è così, posso metterti in contatto con qualcuno», un sorriso, quasi sincero.
    Gli occhi della mora, a Winter così somigliante ad un cerbiatto, in quel momento, le lasciavano intendere che non l’avrebbe lasciata andare così facilmente — meglio ingraziarsela prima di andarsene.
    Con un sospiro, appoggiò a terra la borsa, seguendola poi poco dopo — si sedette, guardando l’altra dal basso in alto, picchiettando sul pavimento del bagno per indicarle di seguirla. Era pur sempre un pavimento di un bagno pubblico, ma per Winter, in quel momento, quella era l’ultima preoccupazione di una lista fin troppo corta.
    «Non ti preoccupi di nulla», incominciò proprio così, il suo inno alla cocaina, «non hai paura, sei più simpatica, più socievole, puoi passare da quella ragazzina che alle feste se ne sta nell’angolo sorseggiando il suo succo di frutta fino ad essere quell’altra che balla sul tavolo», scoccò un sorriso, e quello che sembrava fin troppo un occhiolino, «parli meglio, pensi meglio, scopi meglio», un’altra occhiata, più diretta e divertita, «e… ti lasci andare», un altro sospiro, Winter appoggiò il capo contro il muro, lasciando che il rumore ovattato della sua testa la sovrastasse per qualche secondo.
    Certo, ognuno aveva la propria risposta a qualsiasi sostanza, e Winter non aveva sprecato nemmeno una parola sulla possibile paranoia, tristezza e terrore che potevano sopraffarti — ma non avrebbe avuto senso spiegarglielo.


     
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