I've got a hundred thrown-out speeches I almost said to you

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    L’orologio segna mezzanotte meno un quarto — è tardi, normalmente Ella sarebbe rannicchiata nel letto, le ginocchia strette al petto in un effimero tentativo di proteggersi.
    Ma il letto è vuoto e disfatto, le coperte rovesciate alla rinfusa sul materasso, da un lato pendono fino al pavimento.
    Non è nel suo letto, Ella, non quella notte — non è un giorno come un altro, ma qualche ora prima non l’avrebbe mai potuto sapere, o solo immaginare.
    Rudolph è entrato come un tornado, spalancando la porta della camera di Ella fino a farla sbattere contro la parete adiacente.
    Se n’è accorta immediatamente, ma è successo tutto così velocemente che non ha potuto rendersene conto — sapeva solo di non sentire più quel peso sulla cassa toracica.
    Si è alzata, Ella, incespicando in vestiti che non erano suoi. Ha corso.
    Un pugno, che Alastor cerca di parare, ma gli arriva dritto in faccia — è l’unico dettaglio che Ella riesce a vedere quando sfreccia fuori dalla sua stanza per raggiungere il corridoio.
    I suoi fratelli sono vicini alla scalinata che porta al piano di sotto, così vicini, troppo vicini.
    «Per favore, smettetela!», è un urlo spezzato, un piagnucolio che la attraversa da parte a parte. Troppo piccola, Ella, nessuno l’ha mai ascoltata — nessuno la ascolterà mai, finché non si scrollerà di dosso i panni della sorellina insignificante di Rudolph ed Alastor Black.
    Non sa come Alastor sia riuscito a stringere Rudy al muro, ma la mano che gli tiene alla gola continua a stringere — a stringere, a stringere.
    Non è mai stato bravo con la violenza, Alastor — da che Ella ricorda, ha sempre preferito mandare terzi a risolvere le sue questioni: ha la stoffa del leader, Alastor, non del combattente.
    «No, smettila!», quello è un urlo, un urlo che le scuote le interiora, il cuore che le pulsa forte nelle orecchie, «Smettila, gli fai del male!».
    L’ultima cosa che la visuale di Ella scorge sono gli occhi di suo fratello mentre cade — giù per tutte le scale, rovinosamente, in modo scomposto.
    E lei è lì, le mani tese in avanti, gli occhi fissi sul punto in cui Alastor picchia la testa e si ferma ai piedi degli ultimi scalini.
    Non c’è sangue — solo il collo piegato in una posa innaturale, e quegli occhi spalancati che la fissano mentre gli corre incontro.

    È un urlo quello che squarcia la notte — sono passati quasi cinque anni, eppure di tanto in tanto quel sogno la raggiunge durante le più tranquille delle giornate. Un ottimo modo di concludere un susseguirsi di momenti di festa, proprio come oggi, il venticinque dicembre che scivola lentamente nel ventisei.
    Si tira a sedere di scatto, Ella, scaccia le coperte di dosso e asciuga con il dorso della mano la fronte sudata — gronda completamente di sudore, Ella, il pigiama pesante fradicio. Soffre il freddo, normalmente, ma non quando gli occhi di suo fratello popolano i suoi sogni — no, in quei momenti brucia.
    Impiega qualche frazione di secondo a ricordare di non essere sola — un’abitudine ormai sedimentata nel suo cervello, quella di restare immobile ad aspettare che tutto passi, perché nessuno ascolterà le sue preghiere silenziose.
    Nonostante fatichi a reggersi sulle gambe, che le sembrano fatte di gelatina — come quei budini che preparavano gli elfi domestici quando ancora vivevano tutti insieme nella loro vecchia casa —, si alza.
    Vorrebbe correre non appena infilato un piede fuori dalla sua stanza — modesta ma accogliente, con le pareti color vaniglia ed i mobili di legno chiaro, niente a che vedere con la villa Black di Inverness, di cui Ella non ha più saputo nulla. Vorrebbe correre, ma non appena riesce a spalancare la porta — che chiude a chiave da quando Alastor è morto — si ritrova suo fratello sulla soglia, la mano sulla maniglia. Deve averla sentita urlare.
    Non parla, Ella, non fa nemmeno in tempo a spiccicare una parola che il primo istinto che la raggiunge è quello di aggrapparsi alla vita di Rudy in un abbraccio stretto, di quelli che fanno mancare il fiato.

     
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    A pensarci bene, fino a qualche tempo fa, Rudolph Black non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi un giorno..Così. Molto più plausibile, per la sua immaginazione, di figurarsi di fronte l'immagine di un sè stesso impacchettato chissà, forse in una divisa carceraria, ma non.. « Devo metterlo per forza? » Un grembiulino da cucina. Carino, sapete? Con tanto di frange qua e là e disegnini di stampo culinario stampati sopra. Sono delle banane, forse? Non ci tiene a saperlo. Sarebbe ad ogni modo molto più facile ammettere che non abbia la più pallida idea di dove possa esser sbucato fuori, ma la realtà dei fatti è che trattasi di un regalo, di Natale, ed i regali di Natale non vanno mai rifiutati. No, nemmeno se ti chiami Rudolph Black sei giustificato dal farlo, purtroppo. Sua sorella Ella, alias l'autrice di quel fantastico pensiero, vive lì con lui da qualche tempo. Certo, da diversi mesi a questa parte si può dire abbiano convissuto pressochè assieme, ma avere un punto fisso, una casa, è ben diverso dallo spostarsi sempre, ovunque, come due vagabondi. L'enorme quanto silenziosa villa li ha accolti una sera di metà Ottobre, o giù di lì, quando un Rudolph Black particolarmente spaesato, aveva deciso infine di gettare la spugna, in un certo qual modo, ed accettare l'aiuto di qualcuno, in tutto quel casino. Certo, rientrare in quella casa non era stato affatto facile. Lo aveva fatto da solo, in quel di Ottobre, mentre Ella, ormai da mesi, si trovava a scuola. Hogwarts, per la precisione. Le scriveva spesso, andandola a trovare talvolta ad Hogsmeade, pregando ogni volta di non incontrare nessun'altro. Tutto sommato, un periodo tranquillo, quello. Se non stiamo a contare ciò che non veniva detto, certo. Come quella convivenza forzata con delle mura che, ormai, gli andavano più che strette. Non ne parlava, Rudy, e non ne parla oggi così come non lo farà nemmeno domani, ma stare in quel posto non gli faceva granchè bene. Camminare tra quei corridoi silenziosi, dopotutto, entro i quali solo qualche tempo prima aveva condiviso parte della sua nuova vita con colei che per qualche mese aveva potuto definire a tutti gli effetti sua moglie, non era certo cosa facile. Per questo motivo, quando le vacanze di Natale erano finalmente cominciate, e la sagoma esile di sua sorella Elladora si era materializzata all'ingresso del binario 9 e 3\4, Rudy era andato a prelevarla con un grosso -e decisamente inusuale, per uno come lui- sorriso stampato sulla faccia. Le aveva poi preso un sacchetto dalle dimensioni non proprio indifferenti di dolcetti da Mielandia perchè ti vedo troppo magra, e questa cosa non mi piace e, infine, eccoli lì. Lì dove quella convivenza gli era sembrata in quei giorni tanto strana quanto piacevole. Forse perchè aveva semplicemente bisogno di qualcuno a suo fianco, seppur mai l'avrebbe ammesso, o forse più semplicemente perchè riaverla lì, e prendersene cura, lo faceva star bene. Lo aiutava a sentirsi un po' meno in colpa. Perchè inutile dirlo, Rudolph Black si era sempre sentito responsabile, circa il passato di Elladora. Tutto quello che le era capitato, tutta la merda che aveva dovuto inghiottire, Rudy l'aveva sempre percepita lì, sulle proprie spalle, come un peso opprimente ed a tratti insostenibile. Lui, che in quella casa ci aveva vissuto. Lui, che avrebbe dovuto aprire gli occhi molto prima. E lo stesso lui che, ad oggi, ad ogni sorriso di lei, riusciva a togliere -seppur a fatica- un mattoncino da quel pesante carico. Voleva che lei avesse il meglio. Che potesse avere, ora che l'aveva ritrovata e adesso che non c'era più alcuna minaccia per loro, quella vita tranquilla che mai le era stata concessa. A costo di aver mandato a puttane -così com'era successo- la sua, di vita tranquilla. Perchè in fondo, e di questo ne era e sempre ne sarebbe stato certo, lui quella felicità non se la meritava. Per questo dunque si impegnava, Rudy. Si impegnava ad essere quella parte migliore di sè, per dimostrarsi perfetto, impeccabile, agli occhi della sorella. Tutto andrà bene, le aveva detto, qualche mese prima, adesso ci sono io quì con te. E quel bene era complicato, a tratti quasi impossibile da mantenere, quando alle spalle si ritrovava suo malgrado una famiglia, degli amici ed una moglie abbandonati senza un motivo apparente.
    Ma glielo aveva promesso. Per questo dunque quella sera, poco prima di andare a letto entrambi, Rudolph Black si era persino improvvisato a..cucinare. « C'è un lato dal quale si deve arrostire? » Certo, il risultato non era poi dei migliori ma.. « Secondo te se ci metto delle mollette agli angoli, evita di restringersi? » ..Ma ci aveva provato. Alla fine, con due costate carbonizzate, ed una cucina che aveva rischiato l'incendio doloso, avevano optato per una pizza. E dopo aver guardicchiato qualche filmetto di Natale (imbarazzanti, come non avrebbe mai potuto definirli altrimenti un grinch come lui) avevano deciso di ritirarsi ognuno nelle loro stanze. O almeno, quello era un primo intento, se non consideriamo il fatto che Rudy, da molto tempo a questa parte, non fosse più capace di prender sonno. Figuriamoci in una nottata tanto particolare, successiva ad una comparsata a casa Potter-Weasley, dove oltre al gelo che avrebbe potuto esser affettato col coltello, gli era stato riferito che Olympia si trovasse altrove. Con qualcun'altro. Forse nel tentativo di evitarlo. O forse no. Non sapeva quale delle due opzioni fosse la peggiore. « Fantastico » Mormora allora, un annoiato ed abbastanza assonnato Rudolph Black. Con una mano copre uno sbadiglio, mentre lo sguardo stanco continua a scorrere la homepage di quel sito di ricette facili e veloci. « Il prossimo passo per diventare una casalinga disperata qual'è? » Commenta, sarcastico, soffermandosi sul video di un timballo di zucca che gli viene il voltastomaco solo a guardarlo. E sta per chiudere la finestra e cercare qualcos'altro, quando qualcosa lo fa sobbalzare. Il telefono per poco non gli cade dalle mani, nel sentire la voce di Ella squarciare il silenzio. Non indugia un solo istante, mentre balza in piedi e, aiutato da delle lunghe falcate, raggiunge la camera della sorella. La mano va a poggiarsi pesantemente sulla maniglia, un ringhio non troppo sopito a scuotergli il petto, simbolo inconfondibile che sarebbe pronto ad affrontare con unghie e denti qualsiasi minaccia. Ma quando la porta si apre, i peggiori scenari che si è già formulato in mente si dissolvono in un'esile sagoma bianca riposta lì, sulla soglia. Ella lo guarda per pochi istanti, prima di gettarsi in avanti in un abbraccio silenzioso. Ma urlante al tempo stesso.
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    « Ella.. » Pronuncia allora, confuso, le braccia che si poggiano sul corpicino minuto della ragazza, per stringerla a sè « Che succede? » Domanda, senza aspettarsi un'effettiva risposta, mentre le poggia il mento sulla testa, e si guarda attorno. A parte le coperte attorcigliate, sembra tutto a suo posto. Allora sospira, Rudy, realizzando di aver a che fare con un nemico ben peggiore di quanto aveva immaginato. Non esterno, ma interno.
    « Vieni » Dice, con un sospiro, mentre la avvolge, per sollevarla e prenderla in braccio. Non compie il minimo sforzo, leggera per com'è. « Shhh, shh, è tutto okay » Sussurra, stringendola a sè il più possibile mentre si avvicina al letto sfatto. « Ci sono io. E' tutto okay » Aggiunge, prima di poggiarla delicatamente sul materasso. Si scosta un po', quel poco che gli basta per potersi allungare ad accendere la candela poggiata sul comodino con un colpo di bacchetta, poi torna a guardarla. Con una mano le scosta i capelli dal viso, e si protrae un po' per lasciarle un bacio sulla fronte, prima di tornare seduto, di fronte a lei. « Era solo un brutto sogno, Ella » Le dice, il tono di voce fermo, a tratti duro, quasi. Lui con gli incubi ci ha a che fare da che ne abbia a memoria. E se c'è qualcosa che è riuscito ad imparare, grazie a loro, è di non cedervi. Non dargli possibilità di poter entrare in contatto con la nostra realtà. Mai, per nessuna ragione al mondo. « Okay? Nien'altro » Annuisce, poi respira a fondo, i lineamenti del suo viso che si addolciscono, assieme al suo tono di voce. « Ti va di parlarne? » Le domanda, con un mezzo sorriso ad illuminargli il viso barbuto « Io sono quì »


    Edited by dance with wolves - 1/11/2020, 11:12
     
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    Annegare — è sempre stato un concetto così strano, per Ella, una sensazione sull’epidermide.
    Ci sono così tanti ricordi che non può cancellare, così tanti di cui farebbe a meno — le schiacciano il petto, di volta in volta, la lasciano in balìa della sua mente.
    Come si può vivere se non ci si riesce all’interno della propria testa?
    Una presenza effimera, Ella — scivola nelle situazioni senza una vera volontà, quasi non le avesse cercate davvero: resta al margine, osserva la vita scorrerle accanto come una vecchia amica con cui non ha più nulla da spartire.
    In certi momenti è più assente che in altri, però — e quella notte, quelle ore che separano l’idillio natalizio da un giorno qualunque, Ella non è sicura di essere sveglia.
    Ha imparato un protocollo, un procedimento da seguire, che ha affinato da sola, negli anni — contare ciò che la circonda, ciò che è vero.
    La porta aperta. I muri della sua stanza, una macchia informe, ma che può toccare. Il letto illuminato nella penombra. La sua camicia da notte, la sensazione delicata contro il corpo. Un velo di indifferenza tra lei e il mondo.
    E poi Rudy — suo fratello, le braccia forti che la sostengono, le spalle a cui si è aggrappata con talmente tanta forza, per uno scricciolo del genere, da sembrare impossibile — alla bocca dello stomaco la rapisce il pensiero che possa essere ancora un sogno, che non sia lì, non veramente. Con gli occhi socchiusi, non riesce ancora a deciderlo.
    Il corpo ha una memoria che la memoria non ha, dicono — è automatico sollevare le gambe per lasciarsi prendere in braccio, restare una bambola, creta in mani altrui.
    Poggia la testa sulla spalla di Rudy, si abbandona, prima di avvertire una superficie a sostenerla — coperte attorcigliate, che non riesce a sgarbugliare.
    Non è tutto okay, vorrebbe rispondere, Ella, lasciarsi riprendere dalla sua voce lontana, prendergli la mano, uscire dalla caverna.
    Non ci riesce — non ancora. La sua mente ha deciso di restare nel limbo in cui è intrappolata, di sguazzarci con tutto il corpo.
    Luce. La candela accesa sul comodino proietta strane ombre sulla parete alla sua sinistra. Non può toccarla, ma è qualcosa. Luce, calore che scaccia i fantasmi.
    Il tono di Rudy la costringe a voltarsi — un movimento impercettibile, ma due pozzi chiari puntati sui lineamenti severi di suo fratelli.
    «Era reale», balbetta — è un lampo quello che si manifesta nei suoi occhi, di nuovo voltata verso la candela, «Tutto quello che ho visto è già successo», non è un ringhio, ma un pigolio. C’è qualcosa, un macigno sul suo petto, quell’ombra frastagliata sul muro, che la tormenta. «Lui era lì», non è un’oscura presenza quella che le disturba il sonno, ma un ricordo. Ha bene chiaro in testa, Ella, che Alastor è morto, ormai da anni; non è il suo fantasma ad troneggiare sul suo petto, ma l’immagine impressa a cera nella sua memoria dei suoi occhi che luccicavano di paura in quella notte d’estate.
    Talvolta non c’è differenza, per Ella, tra le pareti in cui Rudy l’ha posata ed i muri incombenti di casa Black.
    Spesso si ritrova a pensare, in momenti più lucidi, a quanta distanza la separa da quella villa — quanti passi, quanti respiri. Ma in questo momento non importa — le sembra quasi di scorgere il mezzobusto posato sul suo caminetto nella penombra.
    Vorrebbe alzarsi, vorrebbe aiutare Rudy a capire — che non è pazza, no!, che era proprio là. Alza un braccio, delicatamente, indica un punto lungo il corridoio. Lo sguardo segue la mano.
    Spaventato, ma intenerito, quasi — perché la figura della se stessa di quella notte è seduta poco distante, e solo Ella può sapere quanto dovrà soffrire ancora.

    Ora la gente di Inverness parlerà per un po’, ci saranno bambini che avranno paura di questa casa, perché dentro, diranno, viveva un ragazzo che aveva un ché di angelico nei tratti. Che sua sorella sedeva accanto al suo corpo, e poi è impazzita, e adesso di notte in questa casa si sentono i passi, le urla, coperte da una musica lontana. Ci sono i fantasmi in questa casa, ci sono i fantasmi.*






    *è una citazione adattata de' Il rumore dei tuoi passi.
     
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    C'è stato un tempo, ormai così remoto da non ricordarlo nemmeno, in cui Rudolph Black non credeva agli spiriti. Difficile a dirsi, in un mondo come il suo dove di fantasmi se ne vedono di giorno in giorno, a partire dalle mura di una qualsiasi Scuola di Stregoneria, fino a giungere ad uno dei tanti cimiteri magici sparsi qua e là. Dopotutto queste creature, nel mondo dei maghi, registrate persino nel Registro delle Creature Magiche al Ministero, possono esser ritenute tanto comuni quanto un qualsiasi folletto, o una puffola, perchè no. Ma a questo punto, è necessario fare una dovuta precisazione, perchè è appunto di fantasmi, che abbiamo parlato sino ad ora, e non di spiriti. Si potrebbe dire che non esista differenza tra le due cose, ma non è così. E questo, il nostro Rudolph Black, con fin troppa esperienza nel campo nonostante la sua giovane età, lo sa bene. I fantasmi sono quelle creaturine traslucide che ti aleggiano attorno. A volte ti parlano, altre ti fanno i dispetti. Possono rivelarsi simpatiche o antipatiche, amichevoli o ostili; ma una cosa è certa, mai e poi mai, potranno esser peggio degli spiriti. Quelli sono qualcosa di differente. Fin troppo, differente. Ognuno di noi ha degli spiriti propri, personali, dettati da un particolare passato o perchè no, anche un presente non chissà quanto florido. A volte vengono chiamati voci, altre volte demoni, ma qualsiasi sia la loro denominazione, alla fine il risultato non cambia. Sono ombre che ci portiamo dentro, e che, a differenza dei fantasmi, non saranno mai relegate ad un solo luogo, che sia essa una casa infestata, un cimitero o un ospedale. No, queste ombre ci saranno sempre, e saranno ovunque. Non importa dove vai, non importa con chi stai. A loro non frega niente se sei solo o circondato da persone. Se è tarda sera oppure mattina presto. Loro saranno lì. E continueranno ad esserlo.
    «Era reale» La vocina sottile di Ella spezza il silenzio. I lunghi capelli argentei arruffati, il viso pallido, un lampo che ha del sinistro ad illuminarle gli occhi stanchi, mentre si volta verso la candela riposta sul comodino. Cosa, vorrebbe chiederle, cosa era reale? Ma non lo fa. Non ancora. Non in questo stato. E' spaventata, Ella, e seppure non ne abbia avuto conferma, Rudy immagina, sa il perchè. Quindi sospira, di un sospiro che ha dell'amaro. Rudy aveva sempre pensato -o almeno lo aveva fatto fino ad ora- che quella nuova casa potesse essere sicura. Per lui, e per lei, specialmente. Non ci aveva riflettuto per più di cinque minuti, riguardo il portarla lì, quando l'aveva ritrovata. L'intera Inverness, dopotutto, sembrava un porto sicuro. Pareva quasi che lì, i demoni, non potessero penetrare. Che non fossero capaci di oltrepassare le alte mura che proteggevano quella fortezza. Ma era stato incauto, Rudy, o meglio ingenuo.
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    «Tutto quello che ho visto è già successo. Lui era lì» Doveva saperlo, avrebbe dovuto ricordarselo, che dalle ombre era impossibile scappare. Lui stesso ci aveva provato, sin da quando -ancora fin troppo giovane per affrontare una cosa del genere- le sue mani si erano macchiate di sangue per la prima volta. Ovunque andasse, in qualsiasi luogo si nascondesse, loro riuscivano sempre a trovarlo, prima o poi. Ed è a questo punto che una domanda gli sorge spontanea. « Cos'era reale? » Le domanda, seppur abbia paura della risposta. Non hanno mai parlato, i due fratelli, di quanto è successo quella sera. Rudy, forse egoisticamente, o forse no, ha sempre creduto di essersi addossato tutto il peso di quell'avvenimento da solo, sulle proprie spalle, lasciando quelle della sorella intatte, libere. Eppure Elladora Black si trova lì, in questo preciso istante, lo sguardo vitreo, terrorizzato, come di chi ha metabolizzato qualcosa di terribile. Un fantasma di un tempo remoto non ancora passato oltre. « Cos'hai visto? » Le domanda ancora, e vorrebbe allungare una mano per carezzarle il viso pallido, ma non lo fa. Non lo fa perchè, inevitabilmente, le mostruosità del suo defunto fratello, hanno segnato anche il loro, di rapporto. Si sente in colpa, Rudy, come se ad ogni contatto leggermente più intimo con la sorella, possa esser paragonato ciò che Alastor Black le aveva fatto in passato. Ed è sbagliato, questo, perchè lui non ha colpe. Perchè lui certe cose non se le è mai neanche lontanamente immaginato. Ma è così che si sente, ogni volta, responsabile senza realmente esserlo, e non può farci nulla.
    « Ella. Tu cosa.. - Esita, la voce che sembra perdersi, sfumando nel silenzio tombale ed opprimente che adesso aleggia tra loro nella penombra di una camera poco illuminata. Non vorrebbe chiederglielo, ma quel dubbio è ormai lì, a gravargli sul petto. Perchè Rudy ricorda ogni cosa di quella sera, fino al più piccolo particolare. Nella sua testa, aleggia ancora la voce di Will, il suo migliore amico, strappato alla vita fin troppo presto ed entrato a far parte anche lui, come altri, della sua cerchia di ombre. Ricorda quella sua domanda, trapelata da labbra tremule e voce esitante. - Cosa ricordi di quella sera? » "Ti sei pentito?" "Sì." "Lo rifaresti?" "Sì".


    Edited by dance with wolves - 1/11/2020, 11:13
     
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    Non è pazza, non lo è mai stata — hanno cercato di farglielo credere in molti, a Durmstrang, e ci ha provato persino suo padre, una volta che Rudy non era più lì a difenderla. È sempre stata una bella bambolina, Ella, una merce da barattare al miglior offerente, in quanto, fortunatamente, unica femmina della famiglia. E le bamboline non pensano — le sembra di sentire la voce di suo padre che lo ripete in continuazione, per ricordarle quanto non le sarebbe concessa nemmeno la metà di ciò che Rudy le permette di fare. È felice, da quando è tornato — sicuramente più felice di quanto poteva esserlo sola alla villa dei Black ad Inverness, o da quell’orribile famiglia adottiva che l’aveva presa sotto la propria ala in seguito alla morte del suo ultimo famigliare reperibile. Non erano così male, gli O’Connor — la famiglia con origini irlandesi in cui era stata costretta a trasferirsi non la sfiorava, nemmeno con un dito, ed era certo meglio di tutto ciò a cui era stata abituata prima. Ma non poteva fidarsi, non poteva — non quando la guardavano con sospetto, non quando la trattavano con frustrazione ed indifferenza. Aveva mandato un gufo a Rudy senza davvero aspettarsi una risposta — non aveva nemmeno la minima idea di che indirizzo indicare sulla lettera, ma il gufo l’aveva trovato comunque. Ed era venuto a prenderla — ed Ella era così felice da temere che il cuore le sarebbe esploso nella cassa toracica, una volta per tutte.
    Erano mesi che la sua presenza scacciava gli incubi — si sente al sicuro, con lui, come se potessero cancellare il passato e rincominciare da capo, come una famiglia, solo con un futuro davanti agli occhi — ma non è così, ed Ella doveva aspettarselo. È impossibile dimenticare il passato, è impossibile evitare che torni ad infestare una casa — forse perché non sono i muri ad essere impregnati di presenze, ma Rudy ed Ella, due presenze come fuori dal tempo, fuori dal mondo. Ed anche se, per quanto possa fissarle, non c’è sangue sulle scale, non c’è nessun cadavere con la testa schiacciata sull’ultimo gradino, Ella sa che prima o poi ci sarà. L’ha già visto, una, due, infinite volte — nei dormitori di Durmstrang, nei corridoi, nei viottoli al di fuori della scuola. Un atmosfera così lugubre che ad Alastor sarebbe piaciuta moltissimo, ma che non ha mai avuto l’occasione di vedere — si è sempre chiesta il motivo per cui è stata l’unica ad essere spedita così lontano, ma non ha mai avuto il coraggio di esprimere il suo risentimento ad alta voce.
    Ed in un certo senso era contenta, Ella, perché in quel modo nessuno avrebbe potuto trovarla — poteva nascondersi dal mondo, ne era sicura, e lo voleva.
    Ma erano morti, uno dopo l’altro — Alastor, sua madre, suo padre. E si era ritrovata sola, Ella, sola per davvero — gli incubi erano incominciati nell’immediato dopo la morte di suo fratello, ma le presenze si erano fatte vive solo dopo che Rudy era sparito: Alastor, Rudy, e perfino se stessa. Nei suoi ricordi, in quelle che non può che chiamare visioni, rifiutando il termine allucinazioni che le avevano propinato nell’infermeria di Durmstrang, la se stessa bambina non cresce mai, fossilizzata in quel momento.
    E forse è vero, forse è lì che è rimasta, forse è da lì che non se ne potrà più andare.
    « Cos'era reale? », la voce di Rudy la fa sobbalzare, la costringe a voltarsi impercettibilmente per guardarlo negli occhi — ma non ci riesce, Ella, li abbassa, poi li alza di nuovo, ma guarda oltre, all’ombra della schiena di Rudy proiettata sul muro. «Alastor», sussurra, come a rivelare il segreto più custodito che ha incatenato nel fondo delle viscere. Il tono sconclusionato, lontano, una voce che sembra uscire dall’oltretomba — non lo vede più, Ella, ed è come se lo cercasse per la stanza, lo sguardo che vaga veloce come a seguire un boccino particolarmente sfuggente, che segue il ritmo del suo respiro esagitato. «E- io, e- te», continua, cercando di deglutire il nodo alla gola che le schiaccia anche il petto. Si tira indietro, rannicchiandosi con le gambe al petto, poggiando la testa sulle ginocchia — contro la spalliera del letto Ella cerca un appoggio, un rifugio dalla sua stessa testa.
    «Non sono pazza», ed è lì che guarda suo fratello negli occhi, Ella, condendo l’affermazione con un’urgenza tale da farle alzare, seppur di poco, il tono di voce, «Non sono pazza», ripete, quasi pregandolo di crederle.
    « Cos'hai visto? », chiede Rudy, ma Ella non può rispondere — chiude gli occhi, poggiando ora la fronte alle ginocchia, nascondendosi come a voler entrare nel suo stesso corpo, chiudere la porta a chiave e non uscirne più.
    « Ella. Tu cosa…», la richiama suo fratello, ma non alza ancora la testa, la più piccola dei Black, non osa uscire dal suo rifugio — proprio come quando era una bambina, e bisognava scovarla. A volte si nascondeva per ore, o per un giorno intero, senza che nessuno se ne accorgesse. « Cosa ricordi di quella sera? », un’altra domanda, il tono di Rudy così delicato da riuscire a rassicurarla appena. Si costringe a tornare ad alzare il mento — si abbraccia le gambe con le braccia, chiudendosi, ma tiene il capo fuori dal bozzolo, questa volta. Guarda ancora al muro, ad ogni superficie, fa passare lo sguardo distante in ogni angolo in penombra. E poi chiude gli occhi, restando ancora in silenzio, cercando di evocare di nuovo ciò che più la spaventa — ma è necessario, deve rispondere, non può evitarlo, questa volta, non quando è Rudy a chiederlo. Tutto, vorrebbe dire, forte della convinzione dei suoi incubi, ma la voce le muore in gola. E allora torna, Alastor, torna in cima alle scale, torna con le mani al collo di Rudy. «Sei entrato nella stanza e l’hai portato fuori», recita, finalmente, dopo interminabili momenti di quiete, la voce che trema, «Vi ho rincorso, ma sono arrivata quando-», continua, ed aggrotta la fronte, Ella, come improvvisamente confusa. Rudy è in piedi, le spalle schiacciate contro la parete, «Ti tiene le mani al collo, e state litigando, e allora io- allora io-», pigola, e la voce le muore in gola, troppo spaventata per continuare. Per rivelare al fratello ciò che lui già sa, ma che Ella non ha mai osato pronunciare ad alta voce, dopo aver spiegato l’accaduto ai genitori. Torna a nascondere il volto tra le gambe, cercando protezione, cercando qualcosa che probabilmente non otterrà mai — sicurezza, salvezza, redenzione.
    Ha le mani avanti, Ella, i pugni stretti, sente ancora la stoffa della camicia di suo fratello tra le dita, «… io l’ho spinto», è ciò che si sente appena, ma che ad Ella rimbomba nello stomaco — è lì che le lacrime si fanno finalmente strada sulle sue guance, rotolano sulle gambe scoperte, e finiscono la loro corsa un po’ ovunque. «L'ho spinto, è morto, è colpa mia», quasi in iperventilazione, Ella stringe di più le braccia attorno alle ginocchia, incurante del fatto che le ossa cozzino le une contro le altre, incurante dei lividi che sicuramente, così fragile, si ritroverà domani mattina.
    Non ne parlerai con nessuno, l’ordine che suo padre, sbrigativamente, le ha impartito dopo aver sentito la sua versione dei fatti — l’unica disponibile, dopo che aveva costretto Rudy a scappare, sapendo che a lei non sarebbe stato torto un capello, non dal capofamiglia. Ella non ha mai capito il perché, ma le sembrava quasi spaventato dalla sua figura così sottile, così simile a quella della moglie, e forse è per questo che la ignorava completamente, fingendo che non esistesse. Il senso di colpa si fa strada più velocemente e più prepotentemente nelle vene, le ghiaccia il sangue e lo rimpiazza di petrolio, nero, appiccicoso, che le mozza il respiro a metà. «Mi dispiace», riesce a farfugliare, alzando la testa di poco ma tenendo gli occhi bassi, «Mi dispiace così tanto», ma non è sicuro a chi dei due fratelli lo stia dicendo, non è nemmeno sicura di voler essere perdonata.


    Edited by black orchid - 18/9/2020, 19:11
     
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    «Alastor» Il solo sentir pronunciare quel nome, gli causò una fitta al petto improvvisa. C'era stato un tempo in cui Rudolph Black aveva amato suo fratello. Alastor Black era sempre stato una figura piuttosto anonima, per lui. Figlio prediletto -nonchè legittimo- di loro padre, il giovane rampollo della famiglia Black non gli aveva mai creato chissà quali problemi, durante i loro primi anni di convivenza assieme. Qualche litigio tra fratelli, qualche dispetto di tanto in tanto, ma insomma, nulla che non rientrasse nella normalità. Da bambini, addirittura, capitava qualche volta -ma solo in assenza del pater familias, che tutto faceva pur di separarli- che i due ragazzini, i quali si scambiavano di solo qualche anno di differenza, trascorressero del tempo assieme, perlustrando l'enorme bosco dai tronchi nodosi ed i rami rinsecchiti e spogli che circondava la loro villa in decadenza. Non era poi così male Alastor, a quei tempi. Certo, assai differente rispetto a lui nel carattere e negli atteggiamenti, ma con il passare del tempo -dopotutto- Rudy aveva imparato a farci l'abitudine. Nonostante infatti il fratello non ci pensasse due volte a dargli la colpa qualora loro padre scoprisse qualcuno dei loro misfatti, a Rudy bastava quel poco che Alastor era capace di dargli. Era parte della sua famiglia, dopotutto, e la famiglia, per un ragazzino già fin troppo maturo come Rudolph Black, era qualcosa di imprescindibile ed intoccabile. Capitava alcune volte poi, addirittura, che Alastor lo andasse a trovare -di nascosto a loro padre- e gli portasse del cibo segretamente custodito, tutte quelle volte che il signor Black lo puniva rinchiudendolo in una stanza buia per giorni, per un motivo o per un altro. Col passare degli anni -tuttavia- momenti come quello, uniti poi a tanti altri, sarebbero stati destinati a diventare nient'altro che semplici quanto dolorosi ricordi. Lo scorrere del tempo, di fatti -inesorabile e senza pietà- avrebbe ben presto estirpato dalla mente del più grande dei fratelli Black quell'innocenza tipica dell'infanzia, lasciando spazio -al contrario- ad una nuova versione di Alastor Black che, ben presto, inavvicinabile si sarebbe rivelata per l'ignaro Rudolph. Il legittimo erede dei Black, di fatti, armato delle parole del padre e del peso del cognome che portava, non avrebbe impegnato poi molto a rivelarsi in una natura che chissà, forse gli era sempre appartenuta, assopita in un angolo della sua mente, o forse no. Fatto sta che col passare degli anni, la malizia e la cattiveria si erano insinuate nel suo animo, trasformandolo completamente. Il piccolo ragazzino sì viziato, ma in fondo buono, aveva lasciato spazio ad un giovane uomo dall'aspetto austero, che tutto avrebbe fatto pur di difendere la legittimità della sua famiglia. Sua, e non di Rudy, quel bastardo che -ingiustamente- sfruttava le attenzioni di loro madre, Constantine Black. Tutto sarebbe stato destinato a peggiorare, poi, con la nascita di Elladora. La piccola di casa, così simile alla donna che l'aveva data alla luce, nel carattere e nelle fattezze, aveva legato sin da subito col minore dei fratelli. Cosa che, al giovane Alastor, carico di risentimento, non sarebbe andata a genio. E col tempo quel risentimento si sarebbe rivelato ossessione, e l'ossessione perversione. Fino a quel giorno. Quel maledetto giorno.
    «E- io, e- te » La voce di Ella è quasi un sibilo a sferzare le tenebre « Non sono pazza. Non sono pazza » E' terrorizzata, e lo nota Rudy, dal modo in cui parla, alza la voce, trema e tenta di cercare disperatamente un rifugio. Da cosa non lo sa, ma può immaginarlo. La loro mente, è un posto così dannatamente terrificante. Quindi se ne resta lì in silenzio, il maggiore, cercando di penetrare attraverso il muro protettivo che la sorella si sta ergendo attorno, stretta in quell'abbraccio con sè stessa. Le fa delle domande, le dice che non è pazza, tenta in ogni modo di rassicurarla, calmarla, ma non ci riesce. E vorrebbe porle una mano sulla spalla, o tra i capelli, per accarezzarla, abbracciarla, stringerla e proteggerla col suo stesso corpo, ma non lo fa. Non perchè non voglia, ma perchè non riesce a farlo. Le mostruosità di Alastor, suo fratello, sono riuscite nel loro intento, dopotutto. A rovinare la genuinità che poteva avere qualsiasi contatto Rudy avesse sempre cercato con la più piccola dei Black. Da quando ha visto ciò che ha visto, da quando l'ha assimilato, seppur difficilmente e ancor di più dolorosamente, Rudolph non è più stato lo stesso, nei confronti di sua sorella. Come se, ripensando agli orrori che Alastor è riuscito a far penetrare nell'ingenuità di un contatto fraterno, egli stesso possa ricadere nel medesimo errore. Come se un abbraccio dato in più, un bacio, una carezza, gli sembrino adesso qualcosa di illecito, sbagliato, sporco.
    Sospira, impotente. «Sei entrato nella stanza e l’hai portato fuori» E poi parla, Ella, finalmente. Si morde il labbro inferiore, mentre le lancia un'occhiata, di sottecchi. D'un tratto il suo bellissimo viso di porcellana si fa più giovane, bambinesco, i capelli arruffati sulle guance. Improvvisamente, Rudy è di nuovo lì, catapultato dentro quella fatidica notte. Il cuore perde qualche battito, il respiro gli viene a mancare, ma tenta di farsi forza, per lei. Ed è difficile, dannatamente difficile, perchè ricorda tutto di quei momenti. Ricorda l'orrore che ha provato nell'aprire quella porta e capire cosa stesse succedendo. Ricorda il senso di colpa, di responsabilità che ha provato, nel non essersi mai accorto di nulla prima. Ricorda poi la rabbia, nell'afferrare suo fratello dalle spalle e trascinarlo fuori da quella stanza. E poi la violenza nel colpirlo, per esprimere tutta la sua ira, il suo risentimento, la sua vergogna. La famiglia è sacra. E tu l'hai violata. «Vi ho rincorso, ma sono arrivata quando-» La fissa, ma non la vede nemmeno. Tutto ciò che vede al momento è la faccia tumefatta di suo fratello, i denti digrignati in un ghigno insanguinato. «Ti tiene le mani al collo, e state litigando, e allora io- allora io-» Il respiro gli manca, percependo quasi su di sè la presa serrante di Alastor alla gola. Stringe con tutta la forza che ha, il maggiore dei Black, ma Rudy resiste, e non sa se questo sia meglio o peggio. Perchè sente qualsiasi cosa. Sente Ella gridare, spaventata, implorando il fratello di lasciarlo andare. Sente l'ossigeno venir meno, le gambe farsi molli, pian piano, lo sguardo spegnersi. Sente l'oblio risalire attraverso di lui, sempre più veloce, fin quando..
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    «… io l’ho spinto» A quel punto, ora come anni fa, Ella lo trascina via dalle tenebre. Torna alla realtà, Rudy, fissando lo sguardo su sua sorella. No.. pensa, confuso. Non sei stata tu a spingerlo. «L'ho spinto, è morto, è colpa mia» Scuote la testa, Rudy, mentre cerca di parlare, ma le parole gli muoiono in gola, quasi come se le dita di Alastor fossero ancora lì, ossute e scheletriche, a stringergli la trachea. Ella piange, le lacrime che vanno ad inumidirle le guance, le ciocche di capelli, le ginocchia. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto» « No.. » Gli occhi vitrei di Alastor lo fissano, inespressivi, mentre rimane lì -immobile- riverso sul pavimento. Respira a fondo, a fatica. « Ella, Ella.. » Pronuncia, dapprima piano, esitante « Ella basta. Calmati » Pronuncia poi, il tono di voce più sicuro, stavolta, quasi severo. « Guardami..-guardami » Dice, ricercando in quel momento una forza che non sente di avere, ma che si sforza di ritrovare. « Non sei stata tu, a spingerlo. Alastor non è morto per colpa tua » La fissa. « Sono stato io. Io l'ho spinto, io l'ho ucciso » Pronunciare quelle parole a voce alta gli fa male. Ammette quella verità, mai rivelata a nessun altro se non Will, gli fa male. « Mi senti? Sono stato io. E mi dispiace, mi dispiace così tanto.. » Quasi la cita, nelle parole, l'ombra di Alastor Black ad aleggiare tra loro, scura ed opprimente « Ma cazzo, lo rifarei. Lo rifarei altre dieci, cento e mille volte » Lo sguardo si perde dietro le spalle di lei, in un punto non ben definito. Hai capito? Lo rifarei. Sembrano dire i suoi occhi, verso quello spettro Tu mi hai costretto. Tu hai violato la nostra famiglia. Nostra sorella. Ella, la piccola e dolce Ella.. « Tu non hai fatto nulla, Ella. Nulla. Se non salvarmi la vita. Se non fossi arrivata, se non l'avessi distratto..Io non sarei qui, oggi » Tu mi hai salvato la vita nonostante io non sia riuscito a preservare la tua per tanti, troppi anni. « E ti chiedo scusa.. » Borbotta a quel punto, calando lo sguardo. Non riesce a guardarla, tanta è la vergogna che prova in quel momento. Non ne hanno mai più parlato, da quel giorno. Eppure tutta quella storia, quella scoperta, l'ha segnato, per tutta la vita, tanto da costringerlo a lasciare tutto e tutti, lasciare Olympia, per tornare da lei, una volta ritrovata. Non sono stato capace di proteggerti per troppo tempo. Non succederà più. Mai più. « Io avrei dovuto capire prima, quello che stava succedendo tra voi.. Avrei dovuto cogliere qualche segno, qualcosa, qualsiasi cosa.. » Per evitarlo. « E' colpa mia » Ammette, un nodo ad opprimergli la gola, il respiro che viene a mancare. « Se solo ti avessi osservata di più, ascoltata di più. Se solo fossi stato più attento lui non avrebbe.. » Scuote la testa, la voce tremante. « Lui non ti avrebbe..- » E a quel punto si alza, di scatto, pronto ad andar via. Ad allontanarsi il più possibile da quella stanza, e da lei. Perchè soffrire, farsi vedere debole, è un lusso che Rudolph Black non ha mai potuto permettersi.
     
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