Riavvolgi il nastro

P.&T.W.

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    I am a lioness, I will not cringe for them.


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    Tutto, intorno alla radura di Hogwarts, pareva suggerire un'unica sensazione: desolazione. Era nell'aria, nella pioggia che scendeva fitta e umida per disporre l'arrivo della primavera. La vedevi nei paesaggi, nella nebbiolina tipica delle lande della Scozia, nel silenzio di un mondo che pareva terrorizzato dal fiatare, dell'emettere un suono di troppo, dal manifestare la propria pesante e forte presenza. Era nel timore di fare un passo falso, era nel non detto degli amici e conoscenti, era nelle allusioni amareggiate degli insegnanti, nell'invadenza di restrizioni e divieti. Era nelle limitazioni di svariate forme di libertà, nella presenza ostinata dei suoi incubi che non la lasciavano respirare da un numero indefinito di giorni. Desolazione... Una sensazione strana, quasi impalpabile, sottile come una patina grigia ed intrecciata a doppio filo ad un'immancabile compagna: la solitudine. Un'amica d'infanzia per Alice Watson, più cara di un fratello e più presente di un amico immaginario che mai s'era impegnata a creare; con la solitudine aveva condiviso parecchi ed intensi momenti durante tutta la trafila della sua infanzia, sbattuta da un posto all'altro senza mai avere il tempo di identificare un luogo come casa. A cosa apparteneva, dunque? A cosa o chi era ancorata la sua identità? A cosa pensava quando doveva immaginare un luogo sicuro, una fortezza dove murarsi all'interno per sentirsi finalmente al sicuro? Hogwarts, certamente, era il luogo più vicino alla definizione di casa, la custode effettiva del suo piccolo cuoricino d'adolescente. Anche un po' mamma e papà finlandesi, loro erano dolci e le volevano bene, cercavano di non farle mancare nulla e di spingersi sin dove potevano. Le avevano ricomprato calderoni e provette di nuova mano, l'avevano portata al centro di Helsinki quando aveva compiuto dodici anni per farle scegliere il vestitino più intono con i suoi occhi per il suo esordio al secondo anno e l'avevano fatto soprattutto all'inizio, quando s'era presentata alla loro porta piena di ferite da rimarginare. L'orfanotrofio di Londra in cui era stata depositata per parecchio tempo, fu più felice di spedirla fuori che di averla "accolta"; una bocca in meno da sfamare di cui preoccuparsi, scontato. A lei andava bene così, in fondo: aveva sempre saputo che qualcuno sarebbe venuto a prenderla e così era stato. Percy e Theo avevano stretto la sua piccola manina di dodicenne e l'avevano accompagnata fuori; lei si era girata a guardare quel posto, pensando che non ci avrebbe mai più voluto mettere piede per il resto della sua vita. A mai più. Ma la verità, era che anche mamma e papà finlandesi non potevano poi davvero tanto. La verità, era che chi aveva potuto non aveva voluto, che chi era mancato non avrebbe mai potuto nemmeno sperare di sopperire alla mancanza, né ne era effettivamente in grado. La verità era, che la presenza più simile a quella di una famiglia per Alice, erano stati Percival e Theodora, due essenze talmente identiche da poter essere una sola, forti ma giovani ed incomplete anch'esse. D'altronde, la vita non insegna, quando sei giovane, a prenderti cura di una bambina spuntata fuori dal cappello del prestigiatore, come un ritardatario Bianconiglio. La vita non insegna a nessuno a provare amore nonostante ti sia stato insegnato soltanto l'odio come arma per affrontare le sfide del giorno, nemmeno a tirare fuori la migliore parte di te quando di modelli di vita sani e perfettamente equilibrati non ne hai, la vita non insegna niente di tutto ciò. Ma loro erano comunque una piccola, sgangherata ed anche un po' grottesca famiglia; bella così, certo sempre alla ricerca di una forma lineare, comprensibile, perfettamente incastrata, ma bella. Se loro tre potevano incastrarsi senza troppi problemi, pareva che tutto il resto facesse parte di un puzzle differente, impossibile da portare a termine. Ma Alice li amava, li amava come poteva e con tutta l'intensità dei suoi pochi anni e del suo piccolo cuore, nonostante non fosse davvero uguale a loro, se non nell'aspetto; li avresti potuto riconoscere da lontano, i Watson. Alti, slanciati, d'una bellezza algida e mistica, difficile da captare, simile a quella degli antichi dei norreni che gli antenati dei loro genitori adottivi avevano adorato, secoli prima. Si somigliavano, nello sguardo delicato che avevano da quand'erano bimbi, nel modo di fare travolgente, nello spirito battagliero, nella capacità di muoversi sempre ricordandosi il posto che sapevano spettargli nel mondo. Fieri ed orgogliosi come leoni, ma anche fragili e solitari come lupi: erano imperscrutabili, difficili da afferrare per davvero. Ma in qualche modo, Alice era diversa: forse il problema era che la sua metà era venuta a mancare, quindi si era dovuta ritrovare a scaldarsi da sola, a differenza dei gemelli maggiori, sempre connessi spiritualmente e difficili da dividere. Alice era come loro ma senza una parte fondamentale, quindi, in qualche modo, s'era dovuta rimboccare le maniche molto prima di chiunque altro, aveva dovuto tirare fuori il coraggio quando un bambino non sa neanche cosa significhi, avere coraggio. Aveva perso la sua metà da tempo, ormai, ma non c'era giorno in cui aveva smesso di mancarle.
    Quel sabato di fine inverno, Alice ancora non avrebbe potuto dire addio a maglioni e calzettoni pesanti: le previsioni della Gazzetta dicevano che avrebbe piovuto tutto il giorno e la notte, sino alla mattina della domenica di Pasqua, sebbene nei giorni precedenti un sole più caldo si fosse affacciato nei cieli grigiastri scozzesi. Non si era potuta trattenere dal chiedersi se il Ministero fosse in grado di controllare stabilmente anche il tempo, per rendere ogni desiderio degli studenti di ritagliarsi un briciolo di atomi di molecole di minuscola gioia perfettamente vano, ma di certo non c'era modo di saperlo. Era soltanto una ragazzina. Aveva aspettato quel giorno con ansia ed anche un puntina di terrore: si sarebbero presentati all'appuntamento, i suoi fratelli maggiori? Aveva un'insolita paura che il loro gufo l'avrebbe raggiunta da un momento all'altro per comunicare la disdetta, quindi era qualche tempo che durante i pranzi si guardava intorno, circospetta; Liv se n'era accorta e la osservava perplessa, intenta a sperare di non dover rinunciare al pasto, qualora il gufo sbagliasse l'atterraggio e capitombolasse sui pranzi e sulle cene già di sé per poveri che faceva. Le mancava l'appetito già da un po' di tempo tanto che le sue caviglie, se possibile, s'erano fatte ancora più strette; era irrequieta, aveva smesso di cercare di recuperare le ore di sonno perse e s'era arresa al disordine di quelle giornate sconsolate. Non era affatto da lei: Alice Watson, miss so-tutto-io-sono-perfetta-e-ve-lo-dimostro, si trovava a catastroficamente a disagio con la sua routine disincantata. Senza esserne del tutto cosciente, stava facendo i conti col suo passato, presente e futuro: era possibile che fosse dotata di un Terzo Occhio, aveva stabilito la professoressa Branwell. Si chiedeva se fosse realmente possibile, insomma... per quanto si fidasse in maniera cieca dell'insegnante, dubitava che proprio lei, una ragazza dal passato nebuloso, potesse essere dotata d'un talento così...speciale. Era così lontana dall'esserne totalmente certa come dal controllarlo in qualche modo, quindi per il momento aveva deciso di smettere di domandarselo: sarebbe stato più facile fingere una placida serenità fittizia. Aspettava dunque, elettrizzata: oltre che finalmente sperare di riuscire ad abbracciare i suoi fratelli, sarebbe evasa da quella routine desolata in cui bisognava prestare attenzione ad ogni desiderio di svago, come in un campo minato. Aveva inviato loro due lettere gemelle, perfettamente identiche; era bastato incantare la penna d'oca, così da non diversificarle nemmeno di una virgola. Aveva accennato del suo incontro concordato solamente alla professoressa e ad Olivia, in modo da ritrovarsi con le spalle coperte se fosse durato più del previsto, cosa che, in cuor suo, sperava fermamente. Agli studenti era concesso di respirare l'aria di Hogsmeade di sabato e sabato soltanto, ormai: direttissime del Ministero, impossibili da raggirare. Sbuffò pensando ad eventuali tentativi, tutti fallimentari, mentre indossava un paio di jeans grigio scuro che ormai le calzavano giganteschi. Ricordò perentoria e tassativa alla sua compagna di stanza dell'incontro che sarebbe avvenuto quel sabato e si avviò verso il villaggio nel tardo pomeriggio, impugnando l'ombrello rosso, con una stampa di leone ruggente, con la mano destra per ripararsi dalla pioggia. Durante tutto il viaggio, aveva pensato a come raccontare ai fratelli degli strani sogni che le stavano rubando il sonno: non voleva fare la figura della bambina spaurita, né deluderli apparendo fragile, ma pensò si trattasse di qualcosa che doveva essergli raccontato. Non sapeva ancora con quale uso esatto di parole, ma già era importante che avesse chiara la sua missione.
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    La Stamberga Strillante si ergeva cupa, in quel quadretto spettrale che le si parò davanti lo sguardo verdastro: un brivido le assalì la schiena, una volta superato il bivio che altrimenti l'avrebbe condotta al villaggio. Lesse l'insegna di legno che ne indicava l'ubicazione, deglutendo prima di trovare il coraggio di accedervi da sola. Sì, insomma, i primi anni da studentessa c'era stata tante di quelle volte da non ricordarne il numero esatto, sia a seguito di scherzi organizzati per spaventarsi tra casate (= la Dragomir in primis), sia per scoprirne gli interni infestati, ma raramente v'era stato un clima così tetro, né ricordava di esservi entrare totalmente... sola. Era più lugubre di quanto lo ricordasse. Prese tre lunghi respiri profondi e si avviò verso la casetta di legno antichissimo, riaccogliendo quel coraggio che veniva a mancare perché invero era stufa. Stufa di non riuscire a prendere sonno, stufa di pregare di far pace con la notte che per natura amava più del giorno, come il gatto solitario e lunare ch'era sempre stata. Prese coraggio e non ci pensò una volta di più: superò l'ingresso e si la porta si chiuse lentamente dietro di lei, scricchiolante ed inquietante. Mantieni la calma. Avanzò lentamente, senza smettere di guardarsi intorno scattosa. Verranno. Mantieni la calma. Verranno. E se non fossero venuti? Se ne sarebbe andata prima che avesse fatto completamente buio, questo era dato e assoldato. Una volta raggiunta una stanza scura, percepì un rumore dal corridoio che aveva appena abbandonato e si voltò rapidamente, estraendo la bacchetta dalla tasca. La impugnava con vigore, pensando che da lì a poco sarebbe spuntato qualche creatura orribile, sperava il meno terrificante possibile. Un altro rumore. Prese un altro respiro. Saranno come quegli stupidi fantasmi del castello... pensò, tentando di rimanere il più ferma che poteva. Improvvisamente, sgranò gli occhi. Allargò le narici. Il suo sguardo si fece più serio, la ruga che aveva in viso per la tensione si rasserenò. La bacchetta cadde a terra rimbombando in tre respiri. « Jaime... » disse senza fiato in gola, cercando di afferrare con le dita magre qualcosa di evanescente, effimero. « ...sei.... tu? » Tentava di non scomporsi, di restare ordinata e a posto per essere dall'altezza della casata Watson-Lancaster, ma l'espressione bianca come un cencio della Grifondoro era proprio quella di chi, sebbene di fantasmi ne conoscesse già troppi, ne aveva visto uno ed era proprio quello che l'avrebbe trapassata da parte a parte. E non per l'inconsistenza di materia.


    Edited by watson - 17/4/2020, 20:21
     
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