Blood is thicker than water.

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    Il glicine penzolava dal tetto del gazebo, formando tanto stalattiti di piccoli fiori lilla che si muovevano piano, spinti dai tocchi delicati del vento primaverile. Savannah alzò lo sguardo su quei grappoli dalle sfumature tenui che sembravano mescolarsi tra di loro, quasi volessero volutamente confondere l’occhio superficiale di un osservatore. La Serpeverde ripiegò la testa all’indietro, lasciando che le palpebre si chiudessero e che quel profumo scavasse nella sua mente, andando a trafficare tra i ricordi più remoti ma per i quali bastava solo uno spunto per riaccendersi e lampeggiare nella sua testa. Il glicine aveva un odore intenso che le ricordò il viaggio in Giappone con la sua famiglia. Aveva otto anni. Ne era sicura perché era l’anno in cui mamma l’aveva portata a fare i buchi alle orecchie. Nell’Ashikaga Flower Park, famoso per i giardini stagionali, si trova Ofuji, una delle celebrità del parco. E' un glicine di centoquarantacinque anni che riesce a coprire con i rami una superficie pari a 300 tatami. Si dice che in passato i suoi “grappoli” fioriti abbiano quasi raggiunto i 2 metri di lunghezza. Era come trovarsi immersi in un cielo dalle sfumature lilla. Savannah ricordava di non esser felice di andare al parco. Sono solo degli stupidissimi fiori, aveva detto lagnandosi mentre camminava al fianco di sua madre, le braccia incrociate al petto come a voler rafforzare il suo pensiero detto ad alta voce. Aveva tenuto il broncio per tutta la visita eppure, quando si ritrovò davanti ad Ofuji, il suo viso si distese in un’espressione meravigliata e gli occhi si allargarono cercando di catturare inutilmente l’intera immensità della pioggia di glicine. Quel colore si allargava a macchia d’olio davanti ai suoi occhi. Era impossibile guardarlo per intero, scorgere un inizio ed insieme una fine. Sembrava che un pittore avesse premuto il pennello in tutta la tela, picchiettandolo quasi senza un senso preciso, tirando fuori da tutto quel caos un’armonia senza tempo. L’aria era appesantita dal vigoroso odore sprigionato da quei piccoli fiori, eppure la piccola Hamilton non ne era stata infastidita. Il silenzio era quasi assordante. Sembrava che nessuno, davanti a tale magnificenza, riuscisse a trovare le parole giuste da dire. Si fermavano tutti a guardare, in contemplazione, come se una sola parola detta più forte, avrebbe potuto mandare in frantumi quella innaturale perfezione. Da allora, Saw non aveva mai dimenticato l’incredibile bellezza di quelli che, a parer suo, dovevano essere soltanto stupidissimi fiori. Riaprì gli occhi, ritrovandosi catapultata nuovamente nel presente, lontana diverse miglia dal Giappone ed i suoi glicini secolari. Savannah si dondolò appena su una delle altalene che qualche studente aveva appeso ai lati del gazebo con grosse funi resistenti dove l’edera aveva da poco cominciato ad arrotolarsi. Si sentiva strana, come se si trovasse sottacqua e tutto le apparisse ovattato. Aveva la sensazione di essere chiusa dentro una bolla. In quel momento aver affrontato Max e Maeve le parve la cosa estremamente facile. Per quanto fosse affezionata alle due amiche esse avevano un altro cognome, altre radici, altri segni a caratterizzare il proprio volto. Era stato più facile guardarle in faccia e dir loro la verità, come si era sentita, perché si era comportata in quel modo. Non era stato facile mettere insieme tutti i pezzi. Spesso sembravano non volersi incastrare, come se fossero tasselli di due puzzle differenti. Aveva ritirato fuori dal cassetto le lettere con cui Derek aveva risposto ai suoi insulti. Aveva sicuramente sbagliato, partendo a tutto gas, tirando fuori righe composte da lettere rabbiose venute fuori da un episodio che poteva apparire anche del tutto casuale. Savannah Hamilton era fatta così: se si metteva in testa una cosa era come diceva lei. Raramente andava contro a sé stessa e quasi mai decideva di non credere al proprio istinto. Ciò che per qualcun altro poteva sembrare una stupidaggine a lei poteva apparire come un’altissima montagna da scalare, ma anche viceversa. Spesso era proprio lei a spronare il prossimo a prendere qualcosa con più leggerezza.
    Ma il fatto che suo fratello le avesse mentito, così spudoratamente, le faceva male. Si sentiva come se le fosse stata data la conferma che lui la considerasse una stupida. Era arrabbiata, triste e confusa. Non sapeva neppure quale delle emozioni predominasse sull’altra. Puntò i piedi al suolo, fermando l’altalena e rimanendo lì seduta, le mani strette attorno alle corde. Per un attimo si chiese se non fosse stato meglio andarsene. Derek non aveva fatto nulla per cercarla, per spiegargli la sua versione dei fatti, esattamente come aveva fatto Max. Anzi, da quando era successa tutta quella storia aveva come l’impressione che suo fratello si stesse allontanando ancora di più da lei. E questo le faceva terribilmente male. Era come sentire una fitta all’altezza del petto. Fin da piccola, Savannah aveva guardato Derek come il fratello maggiore perfetto, quello che tutte le ragazzine si meritavano ma che per puro egoismo era felice ad avere solo lei. Si sentiva fortunata come nessun altro al mondo. Ma negli ultimi anni era successo qualcosa. Non riusciva ancora a capire se fosse stato un singolo episodio o l’accumularsi di tanti piccoli eventi che, da microscopici quali erano, avevano finito per diventare immensi, così grandi da sfuggire dalle proprie mani insinuandosi tra gli spazi delle dita, come sabbia. Giorno dopo giorno i fratelli Hamilton si erano ritrovati solo a salutarsi quando si incontravano nei corridoi. Era qualcosa di frustrante, che mai aveva preso davvero sul serio perché, si diceva, era solo una sua impressione e non stava accadendo davvero. Ma il negare la lucida verità che scintillava davanti ai suoi occhi la rendeva ancora più ottusa che mai. Quella pausa da tutto le era servita, più di quanto si immaginasse. Savannah Hamilton era abituata al frastuono. Ci era costantemente immersa, tra le chiacchiere della gente che l’accerchiavano ai party esclusivi ai quali partecipava. Sempre di corsa, destreggiandosi sui suoi tacchi alti, forse anche troppo per una ragazzina di sedici anni. Quel mondo le piaceva. Le luci, il luccichio, i calici di champagne e la carta dorata di papà con la quale poteva andare ovunque. Si sentiva fortunata, ma non ringraziava nessuno in particolare per questo. Amava le cose brillanti della vita, come una gazza ladra che puntava il diamante più splendente. Fermarsi da tutto aveva significato dover fare i conti con il silenzio. Il silenzio opprimente, quello che da voce a tutti i tuoi pensieri, anche a quelli più profondi. C’erano argomenti con i quali Savannah non si era mai scontrata perché accantonati nella sua testa, in mezzo a quella situazione che, continuava a ripetersi, era normale. Ma il suo rapporto con Derek non era esattamente il rapporto di cui si era sempre convinta. C’erano tante cose che non sapevano l’una dell’altra e il fatto che lui fosse arrivato a mentirle così spudoratamente le faceva intuire cose che lui poteva pensare del suo carattere. C’era qualcosa che diceva sempre suo padre, una frase alla quale lei non aveva mai dato troppo ascolto, considerandola una di quelle frasi fatte buttate là senza significato. “La verità sta nel mezzo”. Le era tornata in mente in modo inaspettato, quando la sua mente aveva cominciato a scavare favorita dal silenzio della propria stanza. Aveva deciso di fare il primo passo. Era passato troppo tempo dallo scambio di quelle lettere piene di rabbia, insicurezze e frasi gettate sulla pergamena con il solo scopo di ferire l’altro. Gli aveva mandato un gufo, per essere certa che avrebbe letto il suo messaggio. Da quando i social avevano ricominciato a funzionare, tra le mura scolastiche era tutto un risuonare di trilli e campanelle che avvisavano dell’arrivo di un messaggio. Non voleva correre il rischio che il suo venisse erroneamente non visualizzato tra la quantità di messaggi arrivati, perciò si era affidata al vecchio metodo. Che aveva funzionato, a quanto pareva. L’altalena oscillò leggermente, come mossa dal vento, gli occhi fissi sulla figura che era apparsa all’orizzonte e stava venendo verso di lei. Inspirò a fondo, riempiendo i polmoni più che poteva, per poi far uscire l’aria come un lungo sospiro tra le labbra. Aspettò che Derek fosse appena fuori dal gazebo per scendere dalla sua postazione, avvicinandosi a lui, a quel metro e mezzo di distanza entro il quale si sentiva a suo agio. «Grazie per essere venuto.» Lo guardò dritto negli occhi, cercando di capire cosa stesse pensando. Aveva pensato a quel momento infinite volte, su come poter cominciare senza sembrare aggressiva o chissà cos’altro. Stese le braccia lungo i fianchi, sospirando ancora. «Come ti ho scritto ci sono alcune cose importanti di cui ti vorrei parlare.» Tu-tum. Il cuore le palpitava forte nel petto, le sembrava di sentirlo rimbombare persino nelle orecchie. Nonostante ciò, faceva di tutto per mostrarsi tranquilla. «Ti chiedo scusa per la mia reazione esagerata. Mi rendo conto che avrei dovuto cercarti e parlare con te invece che scriverti quelle lettere. Ma da una parte è un bene che sia andata così. Perché probabilmente mi sarei ritrovata a dire molte più cose, anche alcune che in realtà non pensavo.» Si posò una mano sul petto ed il suo sguardo si fece più serio. «Mi hai ferita, Derek.» Quella frase fece male anche a lei. Ancora, e ancora, era come una pugnalata al cuore. «E non per Vee ed il vostro appuntamento. Tu non c’entri per quella cosa..» Calmati. Respira. «Sono sicura che tu sappia a cosa mi riferisco.» Lasciò cadere lì quella frase, seguita da un attimo di silenzio così da poter studiare la reazione di lui. «Sono tua sorella, Derek! Mi hai trattata come tutti gli altri. Con superficialità, come se fossi una sciocca che non poteva capire!» Le tremava la voce. Si sentiva innaturalmente indifesa. Per un attimo fu quasi presa dalla voglia di allargare il metro e mezzo che si trovava tra di loro. «Mi hai fatto male. E non pensavo che me lo avresti mai fatto intenzionalmente.»

     
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    Sin da bambino, Derek non era stata una persona semplice. La sua personalità sembrava un cubo di Rubik: cominciare a conoscerlo entusiasmava al pari di un gioco, tramutandosi poi con estenuante lentezza in una sempre più strisciante frustrazione. Molti lasciavano perdere, accontentandosi di vederne una sola faccia, altri non riuscivano nemmeno a capire che ce ne fossero altre da completare. Poche persone avevano il privilegio (se così poteva essere definito) di vederne tutti i colori: Savannah era una di queste. Con lei, Derek non aveva mai sentito il bisogno di nascondersi; cresciuti insieme, con gli stessi ideali e le stesse opportunità, i due Hamilton possedevano la chiave di interpretazione per decifrare la mente dell'altro senza alcuna difficoltà. Ma erano pur sempre Hamilton, e le cattive abitudini, specialmente se inculcate sin da piccoli, sono dure a morire. Il Serpeverde non era nuovo a fare giochi mentali con le persone che lo circondavano, e anche quella volta non si era tirato indietro dal farlo. In seguito a San Valentino, aveva interrotto di netto ogni comunicazione con sua sorella, cominciando un gioco di silenzio a molti noto come assedio psicologico. Era questo il modo di fare in casa Hamilton: la famiglia portava avanti le proprie discussione tramite la strategia del logoramento. Terribile, specialmente tra persone legate da sangue e affetto, ma nessuno è perfetto e, nonostante la facciata, di certo non le erano nemmeno gli Hamilton.
    Al vedersi recapitare un gufo da parte di Savannah, dunque, Derek aveva steso un sorriso. Bandiera bianca. La guerra era finita - o, quantomeno, una parte di essa. Era giunto il momento di passare alla fase successiva: la contrattazione, quella in cui si rimetteva in discussione tutto quanto e si marcavano nuove linee per una futura convivenza più pacifica.
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    Si era presentato al gazebo in orario, rimandando alcuni impegni già presi pur di dimostrare buona volontà nei confronti della sorella anche a dispetto di tutti quei mesi di silenzio tra loro. Gli alberi erano spogli e bianchi di neve, l'ultima volta che si erano rivolti una parola di complicità; adesso, col rifiorire della vegetazione, anche il loro rapporto sembrava voler tornare a nuova vita seguendo l'ineluttabile ciclo della natura. Quando fu abbastanza vicino da poter mettere bene a fuoco i lineamenti di Saw, il moro le stese un sorriso cordiale, studiato al millimetro. « Grazie per essere venuto. » Inclinò il capo di lato, come a farle capire mutamente che non c'era ragione per cui ringraziarlo. Si appoggiò quindi con una spalla contro una delle colonne di legno laccate di bianco del gazebo, puntando gli occhi scuri dritti in quelli della sorella e incrociando le braccia sul petto. « Come ti ho scritto ci sono alcune cose importanti di cui ti vorrei parlare. Ti chiedo scusa per la mia reazione esagerata. Mi rendo conto che avrei dovuto cercarti e parlare con te invece che scriverti quelle lettere. Ma da una parte è un bene che sia andata così. Perché probabilmente mi sarei ritrovata a dire molte più cose, anche alcune che in realtà non pensavo. » E quella, forse, era la vera differenza tra Derek e Savannah. Lei emotiva, lui razionale. Fuoco e ghiaccio, entrambi capaci di bruciare con la stessa intensità. « Mi hai ferita, Derek. » Per un istante, nell'espressione impassibile degli occhi di Derek, passò un guizzo di stupore misto a scetticismo. Ferita? E come, di preciso? « E non per Vee ed il vostro appuntamento. Tu non c’entri per quella cosa..Sono sicura che tu sappia a cosa mi riferisco. » « Max. » disse velocemente, per quanto laconico. Ormai non aveva più senso imbrogliare: la Picquery aveva già manifestato da mesi la sua intenzione di scoprire le carte con Savannah e sicuramente doveva averlo già fatto. Probabilmente anche con Maeve. Quando aveva preso quella scelta, Derek non l'aveva giudicata, ne' tanto meno l'aveva ostacolata. Che la ritenesse bizzarra, di questo non aveva fatto mistero, ma a conti fatti il giovane Hamilton sapeva di aver ben poco da perdere da un'eventuale fuoriuscita di quelle informazioni. « Sono tua sorella, Derek! Mi hai trattata come tutti gli altri. Con superficialità, come se fossi una sciocca che non poteva capire! Mi hai fatto male. E non pensavo che me lo avresti mai fatto intenzionalmente. » Sospirò, il ragazzo, puntando per qualche istante lo sguardo su un punto imprecisato del parco, prima di riportarlo alla sorella, stringendosi nelle spalle. « Perché era così importante saperlo, Saw? » chiese semplicemente, tenendo le iridi ferme in quelle della sorella mentre articolava quella domanda con piatta tranquillità. « Non ho mai chiesto conto della tua relazione con Roman. Ne' a te ne' a lui. Forse perché avevo l'audacia di credere che non fossero affari miei. Lo erano, Saw? Lo sono? E' di mia competenza sapere chi ti porti a letto e perché? » Una serie di domande retoriche spogliate del tono aggressivo con cui qualcun altro avrebbe potuto connotarle. La voce di Derek, al solito, scivolava morbida al tatto come il velluto, priva di quei bollenti spiriti che avrebbero potuto mettere un interlocutore troppo sulla difensiva. « Mi dispiace se la cosa ti ha ferita in qualche maniera, ma se ti porgessi le mie scuse - così ti tratterei davvero da sciocca. » Nel dire quelle parole, puntò il dito verso di lei, fissandola intensamente da sotto le ciglia. Per quanto potesse sembrare intransigente, Derek voleva davvero bene a Savannah, e quell'affetto lo manifestava tramite uno specchio limpido delle proprie opinioni. Non le avrebbe mai dato un contentino, non a lei, perché sarebbe equivalso a gettare completamente la spugna del rispetto nei suoi confronti. Degradante, ecco cosa sarebbe stato. Tanto per lui quanto per lei. « Prova a immaginarti la situazione. » Si staccò dall'appoggio alla colonna, ponderando passi misurati che disegnavano un cerchio attorno alla figura della bionda. « Savannah, vorrei scusarmi per non averti detto che sono andato a letto con Max una volta, quando eravamo entrambi in uno stato mentale alterato. » Citò parole mai dette, fermandosi poi di fronte alla sorella per fissarla con un sopracciglio alzato come a sottolineare l'assurdità di quelle parole. « Perché? » Una domanda spontanea, che sembrava seguire logicamente le frasi appena pronunciate. Perché avrei dovuto? « Di certo non avrebbe cancellato i fatti. Ma quelli non ti hanno ferita - al massimo irritata, comprensibilmente - ma non ferita. » Fece una pausa. « Non esserne stata messa al corrente. Questo è il problema. Il che mi fa chiedere automaticamente: a che pro? Cosa ti avrebbe potuto dare che già non hai, la conoscenza di quei fatti? » Rimase in silenzio per qualche istante, come se stesse aspettando una risposta che comunque non le diede tempo di articolare. « E' a ciò che condizioni il nostro rapporto? O quello che hai con Max? Credi davvero che io ti tratti con superficialità, o che non mi fidi di te, perché scelgo di tenere privata l'avventura senza seguito di una notte? » Inclinò il capo di lato, come a volerle comunicare quanto sciocco potesse essere un pensiero di questo tipo. « Non te lo dovevo, Saw. Non era una narrativa il cui controllo ti spettava - e forse, se Max ti ha detto tutto quanto, potrai anche capire che non spettava del tutto nemmeno a me. » Sospirò profondamente. « Quindi, se dobbiamo parlare di qualcosa, è delle ragioni che ti hanno portata a sentirti ferita da tutto ciò. »


     
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    Stava facendo la cosa giusta, ne era assolutamente certa. O almeno questo era quello che continuava a ripetersi da ormai qualche minuto. Teneva la mascella serrata, gli occhi inchiodati a quelli del fratello cercando di coglierne ogni sfumatura. Aveva paura, paura di potervi leggere dentro una qualche forma di disprezzo nei suoi confronti che l’avrebbe ferita come un pugnale infilato lentamente nella carne viva. Poteva percepire il battito del suo cuore che le ovattava le orecchie, il tocco gentile del vento che le sfiorava le guance accaldate. Eppure, aveva l’impressione di essere diventata pallida. « Perché era così importante saperlo, Saw? » Si chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva sentito la voce di suo fratello, o almeno quella in cui si era riferito proprio a lei. Probabilmente proprio da San Valentino. Da allora si era seguita uno scambio epistolare dai toni particolarmente accesi dove erano state scritte parole che avevano avuto il solo intento di ferire l’altro. Savannah aveva gettato, sulla pergamena, vocaboli indicibili guidata da un impeto improvviso, alimentato da una fiamma di risentimento non solo nei confronti suo fratello ma anche una delle sue migliori amiche. Era stato un accumularsi che non era riuscita a tollerare. Si era sentita come se due delle persone più importanti della sua vita l’avessero improvvisamente cacciata fuori dalle loro vite. « Non ho mai chiesto conto della tua relazione con Roman. Ne' a te ne' a lui. Forse perché avevo l'audacia di credere che non fossero affari miei. Lo erano, Saw? Lo sono? E' di mia competenza sapere chi ti porti a letto e perché? » Le sembrava di non riuscire più a respirare. Era come se un grido le si fosse bloccato in gola, facendole trattenere il fiato. I denti si serrarono attorno al labbro inferiore, stringendolo così forte da far male. Non nominarlo più. Avrebbe voluto dirglielo, ma faceva male. Non dire più il suo nome. Avrebbe voluto dirglielo, ma l’orgoglio le impediva di farlo. Non aveva mai considerato Roman “uno che si portava a letto”. Forse all’inizio era stato così, un qualcosa a cui dare poca importanza, un qualcuno su cui contare per riempire una serata vuota. Se ne era accorta lentamente, giorno dopo giorno, come una sensazione crescente, un pizzicorino che con il passar del tempo si era trasformato in un prurito incontrollabile. Spesso si gridavano contro e lei avrebbe tanto desiderato farlo sparire dall’altra parte del mondo, eppure allo stesso tempo sapeva di non riuscire a fare a meno della sua presenza. Si sentiva assuefatta da lui ed era una sensazione che detestava ed amava allo stesso tempo. Egoisticamente, non si era mai soffermata particolarmente a riflettere sul cosa ne pensasse Derek del fatto che sua sorella e il suo migliore amico avessero una relazione. La verità era che non pensava troppo agli altri, in quel periodo. « Mi dispiace se la cosa ti ha ferita in qualche maniera, ma se ti porgessi le mie scuse - così ti tratterei davvero da sciocca. » Aveva ragione e lei lo sapeva. Ebbe l’impressione che quel dito che lui gli stava puntando contro la stesse toccando davvero. Lo sentiva premere nel petto, grattando la scorza che Savannah si era costruita addosso, cercando di creare una fessura per guardare dentro. Forse, Derek si sarebbe sorpreso nel vederci dentro qualcosa. Rimase immobile, ascoltando le sue parole e pensando a quanto suonassero strane uscite dalla sua bocca. Forse il motivo per cui risuonavano così bizzarre era che, ormai da un po’, Savannah e Derek avevano smesso di parlare. Cosa ci è successo? Ad ogni passo che il fratello faceva verso di lei, la più giovane degli Hamilton sentiva il bisogno di farne uno indietro. Ma non lo fece. Al contrario, rimase perfettamente immobile al suo posto. Fu felice quando lui si fermò, lasciando comunque una certa distanza tra di loro, quel paio di metri che la facevano respirare. « E' a ciò che condizioni il nostro rapporto? O quello che hai con Max? Credi davvero che io ti tratti con superficialità, o che non mi fidi di te, perché scelgo di tenere privata l'avventura senza seguito di una notte? » All’inizio aveva pensato di si. Si, era così. Lui era suo fratello, Max la sua migliore amica. Solo in quel periodo in cui si era allontanata, in quei giorni che si era ritagliata solo per se stessa, aveva riflettuto davvero su quelle parole. Forse il problema era lei. Le veniva da vomitare.
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    « Quindi, se dobbiamo parlare di qualcosa, è delle ragioni che ti hanno portata a sentirti ferita da tutto ciò. » Forse è arrivato il momento di parlare proprio di questo. «Cosa ci è successo, Derek?» Quelle parole uscirono dalle sue labbra quasi come un sussurro, qualcosa di appena percepibile che si intrecciava con il leggero sibilo del vento. Ed eccoci qua. Eccoci arrivati al vero punto della situazione, al nucleo del dilemma. Il suo sentirsi messa da parte, questo aveva scatenato tutto in lei. E ne avevano fatto le spese tutti quanti, lei compresa. «Quando ci siamo allontanati in questo modo?» Non si riferiva solo all’ultimo periodo, ed era certa che Derek lo sapesse. Sospirò, arretrando appena, trovando nuovamente posto su quell’altalena sospesa da terra, poggiandocisi, posando le mani sopra le ginocchia. Era visibilmente stanca, stufa di quella situazione e di sé stessa. «Lo so che non mi consideri una stupida.» Ammise guardandolo negli occhi, lasciando erroneamente trasparire uno spiraglio di fragilità, quella debolezza che mai avrebbe voluto mostrare. Neanche a lui. «Sono stata gelosa, Derek. Invidiosa delle attenzioni che pareva tu dedicassi a tutte, tranne che a me.» Si morse la guancia, ma continuò in fretta, senza dare al fratello la possibilità di rispondere. «E mi andava bene finchè ti confondevi con ragazze che per me non valevano niente.» Alzò leggermente le spalle come per dare poca importanza a quella frase. «Ma poi è arrivata Meave e poi Max.» Viceversa, in realtà, ma in quest’ordine ne era venuta a conoscenza. Ero gelosa delle mie amiche. Aveva trattato Derek come una sua proprietà, qualcosa che le apparteneva e che il resto del mondo non si meritava. Cominciava a capirlo solo adesso. «Quando ti ho visto andare via con Maeve ho pensato che..» si interruppe di colpo, come se qualcosa le si fosse fermato infondo alla lingua, impedendole di proseguire. Inghiottì a vuoto, posando le mani sulle corde ruvide che reggevano l’altalena ed alzandosi in piedi. Si strinse nelle spalle, incrociando le braccia al petto in un modo che aveva un qualcosa di protettivo. Sospirò, volgendo lo sguardo sui colori tenui del glicine. «.. Che il tuo fosse una sorta di dispetto -concedimi la parola- per la mia relazione con Roman..» Le faceva ancora male pronunciare quel nome. Non pensarci più. «Sono stata egoista a pensarlo.» si affrettò ad aggiungere prima che Derek potesse dire qualcos altro. Guardò il fratello negli occhi. Stava facendo ciò che mai avrebbe pensato di fare: abbassare tutte le sue difese davanti a lui. «Ma mi pare chiaro che a Maeve tu tenga più di quanto io credessi.» Annuì impercettibilmente, più a sé stessa che al fratello. Si morse le labbra. Aveva l’impressione di sentirsi più leggera, svuotata, come se facendo fluire le parole, da lei uscissero anche quella rabbia, quelle paure ed angosce che avevano condizionato quelle settimane. Mi manchi. Avrebbe voluto urlarlo, ma non ci riusciva.
     
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    « Cosa ci è successo, Derek? » Cosa non ci è successo, semmai. Sospirò, lasciando che l'aria tiepida della primavera gli accarezzasse i ricci che ricadevano sulla sua fronte. Cosa era successo a Derek e Savannah? Tutto e nulla. Erano cresciuti e la vita si era semplicemente fatta più complessa; avevano vissuto Hogwarts in lockdown, una guerra, un'apocalisse e poi un repentino ritorno alla normalità - il tutto negli anni del loro sviluppo, tra gli stupidi drammi e le insicurezze che la loro giovane età comportava. « Quando ci siamo allontanati in questo modo? » Derek lo sapeva, quando. Era cominciato tutto nel momento in cui alcuni compagni più grandi lo avevano scelto per entrare a far parte del Clavis Aurea, anni prima. Una sciocchezza, sì, ma una che comporta un voto infrangibile tra sconosciuti che non sanno neanche castare un patronus. Ma in fin dei conti erano solo feste, no? Era solo baldoria tra ragazzi. Eppure per chiudersi in una sala con altre sei persone, Derek aveva iniziato a mentire fin quando quella prassi non era diventata la sua seconda natura; all'inizio era stato difficile, poi sempre più facile. Col tempo aveva scoperto che le menzogne gli rendevano le cose più semplici - almeno apparentemente. Quando cominci a mentire per una stronzata, poi menti un po' su tutto quanto. Menti anche a te stesso. Le bugie erano diventate l'escamotage migliore per non affrontare le proprie paure, il proprio senso di inadeguatezza o il giudizio degli altri, oltre che le più semplici discussioni. Quando messo di fronte a una scelta difficile, la sua reazione spontanea era diventata quella di coprire le proprie tracce; persino con sua sorella, la persona con la quale era sempre stato più onesto e vero. In realtà, questo Derek lo aveva capito abbastanza presto, nello specifico durante il lockdown. Lì, i suoi compagni di feste si erano rivelati una delle poche ragioni per cui il Serpeverde fosse riuscito a rimanere in vita; non importava che nessuno di loro guardasse le spalle all'altro in maniera spontanea ma solo perché obbligato da un giuramento che, altrimenti, ne avrebbe comportato la morte. Ciò che importava è che Derek, grazie a quella spada di Damocle, era comunque riuscito a vedere la fine di quell'incubo. Lì, tuttavia, aveva capito la funzionalità di tutte quelle menzogne obbligate. Condizionamento psicologico - si fa lo stesso con gli animali per insegnargli a tenere determinati comportamenti. Mentre facevamo i cretini, la nostra personalità veniva inconsciamente plasmata per rispondere a tutte le esigenze di cui c'era bisogno. Dovevamo imparare a convivere a dispetto dell'antipatia e a mentire per escludere gli altri da un mondo che apparteneva soltanto a noi. Perché un giorno, il mondo, quello vero, lo sarebbe stato davvero - nostro. E tante persone avrebbero dovuto credere di farvi parte, di contare qualcosa all'interno di una società che in realtà non cambia mai e non cede mai terreno. Per la famiglia sei disposto anche a morire, ma non te lo chiederà mai; il Clavis te lo chiede fin dal primo giorno senza darti la possibilità di tornare mai indietro. Il senso è quello: cambia le priorità di una persona e cambierai la persona stessa, per sempre. Ad un certo punto della sua vita, Derek aveva smesso di essere disposto a fare qualcosa: lo faceva e basta, col pilota automatico. Escludeva le persone dalla propria vita perché si era semplicemente abituato a farlo. Era darwinismo: ci si adatta per sopravvivere. Poi un giorno, dal coprire una festa, ti ritrovi a dover coprire un assassino psicopatico come Edric Sanders e ti rendi conto che il prezzo di quella sopravvivenza non era poi così esiguo quanto credevi - ma non importa, perché a quel punto la tua vita l'hai già mandata a puttane. Lì, sotto quel gazebo, Derek avrebbe voluto dirgliele tutte quelle cose, a
    Savannah, ma non poteva. Avrebbe voluto sfogarsi con l'unica persona di cui si fidava ciecamente, ma non gli era concesso. Ed è questa la cosa che mi fa più male. Che io non posso decidere di riavvicinarmi a te, di dirti chi sono davvero - chi sono diventato. Devo conviverci e basta, condividendolo solo con persone di cui non mi importa nulla e con cui non voglio farlo. « Lo so che non mi consideri una stupida. Sono stata gelosa, Derek. Invidiosa delle attenzioni che pareva tu dedicassi a tutte, tranne che a me. » Aggrottò la fronte, mordendosi l'interno del labbro inferiore in un moto di frustrazione. « Sono stata gelosa, Derek. Invidiosa delle attenzioni che pareva tu dedicassi a tutte, tranne che a me. Ma poi è arrivata Maave e poi Max. » « Saw.. » cominciò a dire, passandosi una mano sul volto stanco « ..non è la stessa cosa e lo sai bene. Sei mia sorella - nessuna ragazza potrà mai togliere qualcosa a te. » Eppure, nonostante ciò, Derek capiva come sua sorella si potesse sentire. Lo capiva perché, a differenza di lei, sapeva con precisione quale fosse l'origine di quel problema. E non aveva nulla a che vedere con Maeve, con Max o con qualunque altra ragazza. Il distacco c'era, profondo, sibillino - ma c'era per ragioni che a lei erano inconoscibili e che, dunque, era normale che attribuisse ad altro. « Quando ti ho visto andare via con Maeve ho pensato che.. Che il tuo fosse una sorta di dispetto -concedimi la parola- per la mia relazione con Roman.. » Quello, però, Derek non se lo aspettava. Lo stupore si dipinse presto sul suo volto, portandolo a inclinare leggermente il capo di lato e a fissarla con uno sguardo confuso. « Io non ce l'ho mai avuta con te per Roman. Se avessi dovuto fare un dispetto ad uno tra voi due, di certo non saresti stata te. » Ma lui. Lui che ti ha ferita. Perché lasciare è lecito - anzi, anche giusto quando le cose non funzionano - ma per farlo c'è modo e modo. « Sono stata egoista a pensarlo. Ma mi pare chiaro che a Maeve tu tenga più di quanto io credessi. » Deglutì, incrociando le braccia al petto e spostando per qualche istante lo sguardo altrove. Nonostante tutto, a Derek non riusciva facile parlare dei propri sentimenti, nemmeno con Savannah. Ed era chiaro che il discorso di Maeve lo pungesse sul vivo. Però è l'unica verità che mi è concesso darti. Sospirò, prendendo un po' di coraggio nel riportare lo sguardo negli occhi di Saw e annuire appena. « Sì. Ci tengo. Ci tengo molto. » disse piano e a fatica, quasi dire la verità gli costasse uno sforzo enorme. « Non posso dire cosa succederà. Non posso prometterti che funzionerà e che tu non ti troverai in difficoltà in un ipotetico futuro. Posso solo dirti che.. » Cosa? Non lo sai neanche tu, Derek. Si strinse nelle spalle, sorridendo. « ..il nostro appuntamento è andato molto bene. » Il sorriso del giovane si trasformò presto in una piccola risata, di quelle felici e genuine che non si sentivano uscire dalle sue labbra da diverso tempo - forse addirittura anni. « Tranquilla, c'è stato solo un bacio. Ma non ti aspettare che venga a confessarmi quando e se ci sarà altro. » continuò scherzoso, facendo cozzare la spalla contro quella della sorella nel rivolgerle un occhiolino. « Ma tanto penso che in questo caso non ci sia bisogno che sia io, quello a fare rapporto - o sbaglio? » Vi conosco, mascherine. Le rivolse uno sguardo piuttosto eloquente, sollevando un sopracciglio e un angolo delle labbra prima di spiegare la propria affermazione. « I muri a casa sono sottili. L'estate riesco a sentirli tutti, i vostri intrallazzi. Appassionante la storia di quel tipo lì del country club, anche se secondo me avresti dovuto dargli il due di picche un po' prima. » Si sciolse in una risata, avvicinandosi di un passo alla sorella per poggiarle una mano sul braccio e invitarla piano in un abbraccio. Le avvolse le braccia intorno al busto, posando il mento sulla sua testa mentre la cullava lento. « Ti voglio bene, Saw. E odio dovertelo dire perché dovresti saperlo già da te, ma non c'è persona al mondo che potrebbe mai sostituirti. Non per me. »


     
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    « Saw.. » Non alzò lo sguardo, neppure quando lui pronunciò il suo nome. Aveva l’impressione di essersi tolta di dosso una corazza e nonostante questo la facesse sentire più leggera, allo stesso tempo aveva come l’impressione di essersi esposta troppo, mostrando la parte più fragile di se a qualcuno, anche se quel qualcuno era suo fratello. « ..non è la stessa cosa e lo sai bene. Sei mia sorella - nessuna ragazza potrà mai togliere qualcosa a te. » Si sentiva sciocca. Sciocca e stupida per aver detto quelle parole. Perché sapeva che Derek aveva ragione, ma sperava che comprendesse che il problema era radicato più in profondità rispetto a quanto volesse fargli credere. Si morse le labbra, cerca di essere arrossita per quanto si sentisse insensata. Seguirono una manciata di interminabili secondi. Non avrebbe mai immaginato che il tempo potesse scorrere così lentamente. Sembrava burlarsi di lei, volerle dare tutto il tempo necessario per pensare, palesandosi in quell’irreale silenzio che Saw desiderava solo qualcuno avesse il coraggio di interrompere. « Io non ce l'ho mai avuta con te per Roman. Se avessi dovuto fare un dispetto ad uno tra voi due, di certo non saresti stata te. » Quella confessione la colpì con un’inaspettate sincerità. Sentì gli occhi pizzicare e lei fu costretta a concentrarsi per non versare neppure una lacrima. Si era tenuta tutto dentro per così tanto tempo che ormai per lei, il fatto che suo fratello fosse arrabbiato ed impermalosito per la storia di Roman, era diventata una convinzione. Sapere che si era sempre sbagliata fu una sorta di shock, ma allo stesso tempo fu come mettere una pomata sopra una bruciatura. « Sì. Ci tengo. Ci tengo molto. » Fu solo in quel momento che trovò il coraggio di alzare lo sguardo, ritrovando quello del fratello, guardandolo per la prima volta dopo tanto tempo senza filtri e non attraverso il buco di un caleidoscopio. Vederlo così era una sensazione ritrovata, che non provava da molto tempo. La consapevolezza che tra lui e Maeve potesse esserci davvero qualcosa di serio la spaventava, era questa la verità, questo il motivo per cui pareva essersi messa le mani davanti agli occhi, come una bambina che si rifiutava di vedere qualcosa che le faceva paura. L’idea che se le cose non avrebbero funzionato le circostanze l’avessero costretta a schierarsi da una parte continuava a rigirarle in testa, come un insetto fastidioso che le ronzava dentro l’orecchio. « Non posso dire cosa succederà. Non posso prometterti che funzionerà e che tu non ti troverai in difficoltà in un ipotetico futuro. Posso solo dirti che il nostro appuntamento è andato molto bene. » Fu quasi come se le avesse letto nel pensiero. Avrebbe voluto dire di si, che era questo che la intimoriva di più, ma quel sorriso che le rivolse la lasciò senza parole. Era onesto, glielo leggeva in faccia. Poi lui rise e, dopo un attimo di sgomento durante il quale si chiese quando fosse stata l’ultima volta che l’aveva sentito ridere, anche lei parve sciogliersi in un sorriso.
    « Tranquilla, c'è stato solo un bacio. Ma non ti aspettare che venga a confessarmi quando e se ci sarà altro. » Savannah scattò sull’attenti, esibendo un’espressione nauseata, esagerandola per prenderlo in giro. «Promettilo!» esclamò quasi fosse un ordine. «Non voglio assolutamente saperne nulla di certe cose! Vuoi farmi finire al San Mungo, per caso?» Ok, stava esagerando. Stava cercando di risultare scherzosa, ma non sapeva se l’effetto desiderato fosse palese. Infondo, la minore degli Hamilton non era famosa per il suo essere particolarmente giocosa. Ma non stava comunque mentendo: ci sono cose che non si devono sapere, e Savannah preferiva rimanerne all’oscuro. Potevano fargliela persino sotto il naso, volendo, l’importante era che lei non se ne accorgesse. Con le Mean, la biondina aveva sempre parlato di tutto. E andava bene così, perché non c’erano familiari in mezzo. Ma adesso le cose erano diverse e non credeva ci fosse bisogno di specificarlo, neanche con Vee. Era una sorta di regola non scritta che reggeva i pilastri della sanità mentale del mondo: mai parlare delle proprie prestazioni sessuali alla sorella del partner in discussione. «Voglio dire, neanche in un ipotetico futuro, chiaro? Casomai un giorno abbiate dei figli, ecco neanche allora voglio pensarci! Mi autoconvincerò che sia stato un Miracolo o qualsiasi altra cosa, ma non quello Incrociò le braccia al petto, guardandolo con aria divertita e cacciando fuori una piccola linguaccia. Le era mancato. Lui e tutto quello. Evitarlo era stata una delle cose più difficili che avesse mai fatto. Le faceva male pensare a come erano arrivati a quel punto. Sentiva che c’era ancora qualcosa, qualcosa che non sapeva e che forse avrebbe dato una risposta molto più soddisfacente a tutte le domande che aveva, ma per il momento le andava bene così. Stava facendo ciò che Savannah Hamilton raramente faceva: accontentarsi. Ma se questo significava riavere suo fratello, lo avrebbe fatto e basta. « Ma tanto penso che in questo caso non ci sia bisogno che sia io, quello a fare rapporto - o sbaglio? » La Serpeverde socchiuse appena gli occhi guardando il fratello, piegando appena la testa di lato quasi volesse vederlo meglio. Si chiese cosa stesse nascondendo dietro quell’espressione rallegrata e dove volesse andare a parare. « I muri a casa sono sottili. L'estate riesco a sentirli tutti, i vostri intrallazzi. Appassionante la storia di quel tipo lì del country club, anche se secondo me avresti dovuto dargli il due di picche un po' prima. » La biondina spalancò gli occhi cerulei, sicura che le sue guance fossero leggermente arrossate, dischiudendo le labbra per la sorpresa. «Ci hai origliate!?!?» disse quelle parole con innaturale lentezza. Oh, Merlino! Quante cose aveva sentito? «Sei proprio un ficcanaso, Derek Hamilton. La prossima volta ricordami di lanciarti un Muffliato quando vengono a dormire le mie amiche!» Non stava scherzando, era ovvio, ma il tono con cui lo disse fu straordinariamente leggero, anche per la complicità ritrovata con lui. Lo guardò avvicinarsi. Automaticamente il suo corpo si irrigidì, trasformandola in una statua di sale mentre le braccia di Derek l’avvolgevano. « Ti voglio bene, Saw. E odio dovertelo dire perché dovresti saperlo già da te, ma non c'è persona al mondo che potrebbe mai sostituirti. Non per me. » Inghiottì faticosamente a vuoto, percependo una sensazione orticante agli occhi che parevano appannarsi di uno strato acquoso. Nascose il volto nel petto del fratello ed avvolse le braccia attorno al suo busto e così rimase, in silenzio, per una manciata di secondi interminabili. Percepiva il labbro inferiore muoversi in modo incontrollato. Dovette stringerlo forte tra i denti. «Mi dispiace..» le parole si infransero contro il cappotto di Derek. «...Mi dispiace averti evitato così a lungo..» Lo disse, nonostante fosse certa che lui lo sapesse. «Anche io ti voglio bene, Derri disse, senza alzare lo sguardo. Lo chiamò con quel nomignolo, come lo chiamava da piccola, quando non riusciva a pronunciare per bene il nome del fratello. Chiuse gli occhi. «Ma se racconti a qualcuno che te l’ho detto sarò costretta ad ucciderti, quindi ti conviene non fartelo scappare mai e poi mai.» borbottò cercando di sembrare seria, senza ancora sciogliere l’abbraccio. Si sciolse in un ulteriore sorriso. Non sapeva come sarebbe andata, ma al momento non le importava. Aveva ritrovato le sue amiche, ma soprattutto suo fratello. E il resto non contava.

     
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