30 luglio Le lancette dell'orologio a pendolo sembravano scandire, al trascorrere dei singoli secondi, il ritmo al quale la pazienza di Thomas andava riducendosi. Incredibile che si prestasse ancora a quel genere di faccende, d'altronde, pensò scuotendo la testa, il piede che batteva a terra mentre cercava di evitare lo sguardo della segretaria. Che poi non era neanche del tutto vero, considerando che aveva abilmente scansato situazioni come quella con estrema agilità negli ultimi anni – venire convocato a ricevimento da suo padre, al quale chiaramente creava difficoltà evidenti incontrare il proprio figlio in luoghi che fossero altro dal suo
ufficio, per poi fargli domandare gentilmente alla segretaria se potesse “cortesemente attendere nella sala d'aspetto per qualche momento finché il signor Montgomery non si fosse liberato da un impegno imminente”, momento che chiaramente diventava una colossale perdita di tempo durante la quale Thomas era obbligato ad attendere i comodi del capo della Montgomery New Writing S.p.A. interrompendo qualsiasi altra attività fosse intento a svolgere prima, o intendesse svolgere dopo la Convocazione. Quel giorno però l'errore era stato commesso dal principio: aveva dovuto recarsi presso gli uffici amministrativi del gruppo editoriale per sbrigare alcune commissioni urgenti per l'università – incontri con professori universitari ai quali doveva chiedere la tesi, che potevano riceverlo solo in orari di ufficio, e altre noiose beghe di cui a lui fregava ben poco – e la sfortuna aveva voluto che Montgomery Senior e Junior si incontrassero nell'ascensore, uno salendo e l'altro scendendo. Era bastato un cenno del mento e un
«vieni nel mio ufficio, devo parlarti di una cosa» per rovinargli completamente la giornata. Ma era colpa sua, c'era da aspettarselo: non aveva saputo pensare rapidamente ad una scusa che fosse sufficientemente credibile, e quindi ora eccolo lì, a tamburellare le dita sui braccioli della poltroncina minuscola sulla quale era costretto. Lo fece aspettare venti minuti, durante i quali percorse il perimetro della stanza almeno sette volte, prima di concedergli il lusso di riceverlo. Tom entrò scuotendo la testa, sospirando, ma sforzandosi di mantenere la calma – chissà perché, poi.
«Ho parlato con Bernard» fu la simpatica e calorosa accoglienza che ricevette il ragazzo, il quale piegò la testa di lato, rimanendo in piedi di fronte alla massiccia scrivania, sollevando le sopracciglia in tono interrogativo. Dovette soffocare un sorriso irritato quando il padre non si degnò di ripetere, né di sollevare il muso imbronciato e solcato da rughe profonde dai documenti che stava spostando qui e lì sul tavolo. Gli occhialini da lettura sembravano non cadere per effetto di un incantesimo, in bilico sulla punta del naso adunco di Mitchum Montgomery.
«Gauthier?» Fu costretto a dire alla fine Tom, pur di non sprecare ulteriormente tempo prezioso. Il padre annuì debolmente.
«Pare che uno dei figli di Harry Potter, Albus, voglia darsi all'editoria» continuò, con un sorriso sferzante.
«L'ha trovata una notizia esilarante – come ho fatto anche io.» Gli porse un giornale, uno dei tanti che ricoprivano la scrivania stracolma e disordinata, che riportava il titolo
“Il giovane Albus Potter abbandona la strada paterna: ambizioni imprenditoriali?”. Lesse velocemente l'articolo, che lasciava trasparire molto poco rispetto alle reali intenzioni del ragazzo, ma un angolo della bocca di Tom si curvò, per qualche secondo, in un sorriso.
«Lo conosci? Non è il fidanzato della figlia di Abraxis Carrow, la tua compagna di scuola?» Capì cosa stava succedendo, ma chiaramente finse che non fosse così. Fece per rispondere, mettendosi a sedere, ma il padre lo precedette:
«È chiaro che questi sono ragazzi. Bernard era d'accordo con me: l'editoria non è un mercato per dilettanti. Sarebbe un peccato se rovinasse il nome di suo padre prendendo strade che potrebbero rivelarsi fallimentari per lui.» Quest'ultima frase fu scandita con un'incisività diversa che Thomas non mancò di apprezzare.
«Perdonami, avrei da fare, c'è qualcosa che mi riguarda che vuoi dirmi?» Mitchum cambiò posizione sulla poltroncina, liberando gli occhialetti dalla loro precarietà, poggiandoli sulla pila di documenti accanto a lui.
«Dico solo attento alle tue compagnie, Thomas. Ho visto che ti sei fatto pubblicare da un'altra testata – per l'ennesima volta non mia – e non vorrei ti mettessi strane idee in testa. Il tuo posto è qua, alla Montgomery New Writing.» Il tono di Mitchum si fece più concitato mentre il ghigno di Thomas si allargava sempre più prepotentemente in una vera e propria smorfia divertita.
Chissà se l'aveva almeno letto, il pezzo, o si era concentrato solo sul fatto che la pubblicazione non fosse di sua proprietà.
«Se mai ne sarai all'altezza» non mancò di concludere l'uomo, rinforcando gli occhiali, segno che quella conversazione fosse finita.
«Non ci sarà più posto per te qui se farai mosse false, Thomas. Su questo mi sono espresso con chiarezza più volte.» A stento si trattenne dal ridergli in faccia quando disse:
«Non me lo dimentico. Con permesso», prima di scostare la poltroncina e lasciare l'ufficio.
31 luglioLa pioggia batteva chiassosa sul parabrezza dell'auto di Thomas, all'entrata di Inverness. Un vezzo, quello di guidare, di cui non si sarebbe mai privato. Si ritrovò ad apprezzare quell'anacronistico acquazzone di fine luglio, che concordava con l'illusione che in lui si era creata a partire da giugno, e cioè che l'estate non fosse ancora iniziata, quell'anno; e probabilmente mai sarebbe cominciata per lui, considerando la quantità di impegni di cui continuava a sobbarcarsi. L'unica ombra di svago di cui aveva potuto godere nell'ultimo periodo risaliva a una settimana prima, quando aveva incontrato qualcuno che non fosse strettamente connesso all'università o al lavoro, ma comunque l'argomento di conversazione era stato tutt'altro che leggero. Rincontrare Zip, in ogni caso, era stato più piacevole del previsto. Thomas era notoriamente pessimo a mantenere i contatti con le persone che aveva frequentato in passato, e sebbene in grande parte ciò fosse dovuto al profondo disinteresse che nutriva nei confronti di alcune di loro, in altri casi si trattava semplicemente di pigrizia, di superficialità o distrazione. Forse d'improvviso rendendosi conto che, che gli piacesse o meno, le persone siano l'unica cosa di veramente importante che abbiamo, Tom nell'ultimo periodo si era abbandonato ad una serie di slanci nostalgici che poco si addicevano alla sua indole abituale, ma che tutto sommato si ritrovava piuttosto contento di compiere. La solitudine non era mai stata un problema – tutt'altro, spesso era agognata e ricercata – ma tutto si era fatto troppo quieto per i suoi gusti, e si sentiva lentamente sommergere dal lavoro, dagli esami, dalle responsabilità, e tutte quelle altre cose noiose e da adulti che mai, un anno e mezzo prima, avrebbe creduto potessero irretirlo. Aveva per di più avvertito la mancanza di alcune compagnie, prima fra tutte quella dei compagni del Clavis – fratturati troppo in profondità per poter sperare di ritrovarli tutti – e poi seguita da quelle di amicizie vecchie e mai del tutto approfondite, come quella con Amunet. Mentre imboccava la strada verso casa Potter-Carrow, ricordò distintamente l'anno precedente, forse ultima volta che era stato lì, e perfettamente cadde nel cliché di pensare che sembrassero distanti anni luce quei giorni, così vicini al ritorno dagli Stati Uniti. Lui e Mun erano sempre stati abbastanza distanti da non scontrarsi mai – non come lei e Nate – e abbastanza vicini da sapere di condividere una bella amicizia, consci sopratutto del fatto che entrambi non fossero il tipo di persone da affezionarsi facilmente, e che dunque il solo fatto di essere rimasti in una qualche forma legati dopo tutti quegli anni significasse qualcosa. Quanto ad Albus, invece, i due non avevano mai diviso granché, sebbene Thomas non avesse una specifica opinione nei suoi confronti. Mentre scendeva dalla macchina, l'ombrello a proteggerlo dall'acqua battente, e si avvicinava alla porta d'ingresso, si domandò quale fosse invece l'idea che Albus doveva essersi fatto di lui, in tutti quegli anni senza mai veramente essersi conosciuti, e se in qualche modo la sua reputazione avrebbe potuto compromettere la possibilità che si mostrasse positivo alla proposta che avrebbe voluto fargli. Se infatti quella voleva essere prima di tutto una visita ad una vecchia amica per l'occasione del suo fidanzamento, a Tom aveva fatto piacere sapere che avrebbe inizialmente trovato solo Albus in casa. Un'idea gli balenava per la testa dal giorno precedente, e gli sembrò, quella, un'occasione perfetta per discuterne.
Strofinò le suole delle scarpe sullo zerbino mentre attendeva che qualcuno gli aprisse. Affondando le mani nelle tasche, si prese qualche secondo per apprezzare la vastità della proprietà della coppia – o forse
famiglia sarebbe un termine più corretto.
«Albus» lo salutò poi, quando comparve sulla soglia, stringendo le labbra in un sorriso cordiale. Attese che lo invitasse a entrare prima di richiudere l'ombrello e appoggiarlo al muro.
«Spero di non disturbare, Mun ti aveva detto che sarei passato?» Chiese, lasciando il cappotto sull'attaccapanni all'ingresso. Una situazione che altri avrebbero giudicato un po' imbarazzante, quella di presentarsi a casa di persone che non frequentava da quasi un anno, ormai, e per di più senza la conoscenza comune che legava i due ragazzi. Tom, invece, sembrava non farci troppo caso, apparendo piuttosto a suo agio mentre seguiva Albus fuori dall'ingresso e verso il salotto.
«Siete in fermentazione per i preparativi? Sapete già la data del matrimonio?» Chiese, accomodandosi di fronte al ragazzo e accavallando le gambe, non volendo cominciare direttamente a parlare di questioni lavorative.
«Che poi immagino che dopo due figli sposarsi non sembri un granché, sbaglio?» Che Mun avrebbe messo su famiglia prima di tutti gli altri, glielo aveva detto lui stesso, era parso lampante da subito. Nonostante per lui il matrimonio, a quell'età – e men che meno la paternità – sembrasse una follia, un delirio, una di quelle pazzie che generalmente avrebbe messo a sedere chi avesse deciso di fare una cosa del genere chiedendogli se si sentisse bene, trattandosi di Amunet gli era parso un pelo più ragionevole. Ma Albus Potter, per quanto poco lo conoscesse, non avrebbe saputo dire che tipo di persona fosse, e a guardarlo adesso, che gli sedeva di fronte, a fatica riuscì a immaginarlo con in braccio dei bambini o in piedi all'altare. Una di quelle cose che avrebbe voluto vedere, per poterci credere davvero.
«Comunque sono sincero, mi fa piacere averti colto momentaneamente senza la tua dolce metà» esordì poi, con un sorriso accennato.
«Volevo parlarti di una cosa, e purtroppo devo avvisarti che si tratta di lavoro» fece, le mani scherzosamente alzate come a discolparsi.
«È terribile, lo so... ma ho sentito parlare del tuo progetto. I giornali ne parlano in modo confuso, non è chiaro neanche a loro cosa stai combinando... Però si stanno cagando sotto» fece, non riuscendo a frenare un sorriso soddisfatto.
«Di base credo che sia perché non puoi chiamarti Potter e fare un passo fuori casa senza attirare l'attenzione della gente, questo lo saprai meglio di me. Ma credo che ci sia di più, e che forse si abbia il sentore che puoi avere avuto un'idea che loro non avrebbero l'intuizione, l'originalità o le capacità di partorire». Si strinse nelle spalle, cambiando posizione sul divano, sporgendosi appena in più, i gomiti poggiati sulle gambe.
«Avresti dovuto vedere la faccia di mio padre ieri» concluse, sbuffando in una risata.
«Ho letto che state chiedendo finanziamenti. Posso chiederti quale sia la vostra idea, precisamente?» Si ritrasse, di nuovo alzando le mani, consapevole che il ragazzo si fosse astenuto dal rilasciare dichiarazioni o commenti pubblici, comprendendo che volesse custodire il proprio progetto prima di annunciarlo.
«Ti prometto che non sono qui in veste di giornalista, né competizione» scherzò, ridacchiando, prima di proseguire:
«Sono solo sinceramente interessato».