all that gold, is rusted

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    Sono passate due ore, è ragionevole che voglia tornare a casa.
    Ha atteso così tanto quel momento, Emilia, il momento in cui può essere considerato adatto scusarsi, alzarsi e tornare a casa. Ha senso.
    Saluta Mun con un abbraccio, quindi, un cenno generale poi ad Albus e Scorpius, prima di avviarsi verso l’uscita, che non le è mai parsa così lontana, complice soprattutto l’ampliamento magico della sala in vista del banchetto. Lo attraversa come ha fatto nell’entrare, la camminata veloce ma non troppo, quel toc toc che i tacchi degli stivali lasciano sul pavimento.
    Tutto sommato, è andata bene — ha parlato poco, almeno per i suoi standard, ma non le sembra di aver allarmato Mun. Non renderla partecipe della sua sofferenza è sempre stato il primo punto sulla lista di Emilia, ma se le si chiedesse il perché probabilmente non saprebbe rispondere — perché è Mun sembra l’unica spiegazione plausibile, alla fine. Quando è nei paraggi, Emilia deve stare bene, abituata troppo a scrutare il circondario in attesa di una minaccia qualsiasi da cui proteggerla. Perché, in fondo, tutto è sempre girato attorno al proteggere Amunet Carrow, per Emilia — custodirla, in un certo senso, gelosamente accanto a sé, tenendola al sicuro da ogni pericolo. Fino a Berlino — finché quella passaporta non l’ha presa e semplicemente se n’è andata, stanca forse di vivere perfino dentro alla propria testa. Non è andata via solo per lei — ci sono stante occasioni in cui Emilia avrebbe voluto dirglielo, ma non l’ha mai fatto. Forse un giorno ci proverà, e quel giorno sembra avvicinarsi pericolosamente quanto il matrimonio di Albus e Mun — che ci può fare?, alla fine. È ora di crescere e mettere da parte quel sentimento impossibile, che a Berlino era riuscita così bene a mettere in secondo piano.
    Forse ha sbagliato, a tornare — lo pensa tante volte, Emilia, anche se non lo esterna al pubblico. In fondo, qual è stato il senso di scappare dal suo nascondiglio e mischiarsi un’altra volta con il bagaglio irrisolto che aveva lasciato in Scozia. Non vedo l’ora di andarmene, a sedici anni aveva già capito tutto — in qualche modo, se lo sentiva che l’inferno si sarebbe rivoltato su tutte le loro teste: non sapeva di che inferno si trattasse, ma qualsiasi esso fosse, Emilia non aveva intenzione di vederlo. Eppure l’aveva visto, prima di avere l’occasione di scappare.
    E l’ha visto anche ieri sera, meno di ventiquattro ore fa. Ed ora non riesce a dimenticarlo, non riesce a segregarlo in un ripostiglio della memoria che non aprirà prima dei quarant’anni — perché è così che vorrebbe affrontare la vita, fingendo che il pavimento non voglia inghiottirla mentre cammina.
    Non se ne rende bene conto, Emilia, come arriva ad una panchina ad una panchina nei pressi del Lago Nero — ha camminato e camminato, ma Hogwarts era già ben lontana dalla sua attenzione. E pensare che, prima di quell’Halloween dell’orrore, Hogwarts era l’unica casa che avesse mai conosciuto. Ed ora non ce l’ha più una casa, forse perché si è bruciata tutte le opzioni da sola.
    Poggia i polsi al legno, Emilia, resta in piedi dietro allo schienale — non si può sedere, rischierebbe di restare delle ore. Perché non è davvero lì, Emilia, la testa è confusa, come se gli avvenimenti del rave si inserissero fastidiosamente nel segnale della sua attenzione, ed il mondo reale fosse solo un rumore di sottofondo.
    Ma è comunque vigile, in qualche modo, Emilia — non rilassa le spalle, appena incurvate mentre tiene il capo abbassato. Non si può permettere di abbassare la guardia, perché potrebbe essere vista da qualcuno — eppure non c’è nessuno, finché un fruscio nell’erba non la convince del contrario.
    Si volta di scatto, Emilia, sbatte le palpebre per scacciare la patina che le copre gli occhi assonnati — impiega più del solito per distinguere una figura, e riesce a scorgerne i tratti solo quando entra meglio nel suo campo visivo. Oh, è l’avvertimento del suo cervello — non ricorda esattamente il
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    nome della ragazza, ma ha più chiare alcune immagini, più versioni dello stesso momento ripetuto negli anni. Amava prenderla in giro, ad Hogwarts, ma ora non sente più la stessa spinta divertita — si è spenta, il rumore è stato attutito dai chilometri di distanza. La rabbia, però, quella la sente.
    Sbuffa dal naso, voltando appena il capo per alzare gli occhi al cielo — li abbassa, poi, torna sulla ragazza quando se la trova ad una manciata di metri. «Ti prego, Hatzidaki, non mi rovinare la serata», ed il tono le esce il più alla Emilia possibile, e, rassicurata, un sorriso sarcastico le si dipinge sull’angolo destro della bocca, «Levati, torna da dove sei venuta», le tremano le mani, ma al buio non si vede.

     
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    È una delle prime volte che rimette piede a Hogwarts dal diploma.
    È... strano. È inimmaginabile quanto per lei sia strano. Continua a guardare la sagoma del castello e a sentirla estranea, se non nemica, come se i contorni tremassero e si disfacessero un po' sotto le sue pupille, come se fosse lei a disintegrarli, in qualche modo, per aprire quell'assurda scatola, quella trappola mortale che per un anno li ha tenuti segregati senza via d'uscita.
    Come si era imposta, Tami era stata lì per supportare quella manciata di ragazzi che ha reso la sua vita scolastica un ricordo in fondo bello - dolceamaro, certo, ma piuttosto bello. I nugoli di vapore che coprono le punte delle torri la scuotono dal torpore, e per un attimo la fanno pentire di essere venuta.
    Si passa pigramente una mano sugli occhi, le suole spesse delle scarpe affondano nell'erba umida che circonda tutto l'edificio, e fanno un rumore impasticciato che le ricorda casa sua, tanto lontana da sembrare intangibile.
    Si sente ancora più sola, da quando è andata via. E nessuno ci può fare niente, nessuno ci ha mai potuto fare niente prima - nemmeno le voci che le rimbombano nella testa accavallandosi l'una sull'altra. Stavros, Irini, Kremasìa, Evangelios. Che la chiamano e cercano la sua attenzione come bambini piccoli che non vogliono restare a scuola. Stringe gli occhi e porta le dita a una tempia per sfregarla, l'aura del mal di testa che già si fa strada nella visione periferica e le dà fastidio.
    Papà le ha sempre detto che al mal di testa si sarebbe abituata. Non è stato così.
    Quando riapre gli occhi qualcuno è comparso a poca distanza.
    «Ma la conosc-«Lasciala in pac-«Perché non l'aiuti?«Mi sembra stan-«Si sente male»
    Tami stringe i pugni così forte da ficcarsi le unghie nel palmo delle mani. Zitti. STATE ZITTI.
    Si concentra per qualche istante, il tempo di riconoscere l'altra come Emilia Berker, per la quale non ha mai nutrito la stessa acredine che quella nutriva per lei.
    Sembra non abbia neanche più la forza di odiarla. La cosa la farebbe sorridere, se non fosse così chiaro che stia male.
    Le si avvicina piano, il passo lento ma deciso.
    «... perché sembra che altrimenti stia andando proprio bene», commenta. Da parte sua, nessun sarcasmo, solo un tono piatto, la voce leggera come la brezza fredda scozzese.
    Si ferma, infila le mani nella tasca del giaccone, il calore che le accoglie piacevole sulla pelle.
    «In tutta onestà», rimbecca, «ero qui prima di te». Le fa l'ombra di un sorriso anche lei, ma più sincero e accogliente. Respira piano come se volesse farsi piccola, la nuvoletta di condensa che si scioglie subito.
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    Tami guarda Emilia con un poco di curiosità da sempre. Non c'è mai stato un momento vero e proprio in cui le sia stata indifferente.Qualcosa di lei l'ha sempre attratta, a modo suo; erano le parole pungenti ad impedirle di avvicinarsi. Adesso, a un paio d'anni di distanza e da così vicino, le sembra drammaticamente inoffensiva, le occhiaie del sonno perduto dipinte sul suo volto illuminato dalla luna che tingono l'immagine di cruda verità.
    «Caccia l'aria nei polmoni», appoggia lì il consiglio senza aggiungerne valori - a forza, è sottinteso.
    Per tutti questi anni ha quasi temuto che non ci fosse nulla di più triste di lei. Mentre bastava scavalcare l'uscio.



    Edited by _undyingundead - 10/19/2020, 01:51 PM
     
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    Le sembra abbastanza in difficoltà, da quel poco che Emilia riesce a vedere mentre la ragazza si avvicina.
    Era nei Corvonero, quello lo ricorda — ha un flash improvviso della cravatta della Hatzidaki annodata alla bell’e meglio, un po’ a tratteggiare il suo fare incerto. Ha sempre osservato, Emilia, da che ha cominciato a capire qualcosa del mondo. Osserva e recepisce, custodisce quei piccoli sprazzi di memoria involontaria gelosamente. Ognuno di essi, in fondo, concorre ad allacciare con un filo di seta tutta la sua vita. Tutta quella vita sprecata e buttata che ora le si stende di fronte agli occhi come un film, ma va veloce, veloce, troppo veloce
    «... perché sembra che altrimenti stia andando proprio bene», sbuffa con le narici, Emilia, a quel commento che non si aspetta. Perché non se ne può semplicemente tornare dal buco in cui è comparsa?, se lo chiede con il cuore in mano, nonostante le tenga entrambe ben salde al legno della panchina. «La mia serata sta andando alla grande, grazie per averlo chiesto», e spera di concludere quel teatrino, Emilia, di allontanarla una volta per tutte per potersi donare quei momenti di assoluta quiete. A volte le sembra davvero che i mormorii nella testa non si fermino, che restino solamente in sordina, in attesa che Emilia si prenda del tempo per ascoltarli.
    Lo sguardo vaga verso il castello, verso quelle mura a detta di molti così solide, così sicure, ma spezzate e ricostruite, in realtà, più volte di quante Emilia voglia ricordare. Le prime non le ha viste, e le va bene così — non scambierebbe gli orrori che ha vissuto con quelli delle generazioni che hanno camminato per le scale che cambiano prima di lei, non ci penserebbe mai. Ma una vita normale, quella l’avrebbe voluta — e a volte lo ammette nell’intimo dei muri di camera sua, quando non ci sono rumori e l’unica soluzione al silenzio è riempirsi la testa di pensieri.
    L’increspatura leggera delle acque del Lago Nero la calmavano, anni fa — si sedeva proprio sulla panchina che ha puntato e che non ha intenzione di lasciare, guardava avanti. Fingeva di leggere un libro per la maggior parte delle volte, mentre in segreto metteva a tacere nel trambusto del suo cervello qualsiasi cataclisma che potesse riversarsi su una studentessa così giovane. Una studentessa che aveva ancora una vita normale.
    Le prime foglie cadute e morte sul prato scricchiolano sotto ai piedi dell’altra mentre s’avvicina piano, come in presenza di una bestia da riportare in cattività. Emilia alza il capo, punta gli occhi in quelli di Stamatía e sospira. «In tutta onestà», piega la testa di lato, Emilia, un mezzo sorriso che le increspa le labbra, «ero qui prima di te». Scrolla le spalle, la Berker, con un risolino forzato, «Pensi che me ne importi qualcosa?», è la rabbia che la immobilizza da ore che si libera per darsi una voce senza che Emilia ne abbia realmente il controllo. Raddrizza la testa, il mento alto che svetta contro le tenue luci dei loro occhi ormai abituati al buio.
    Ma le arriva vicino — troppo vicino per i suoi gusti, ma non si muove, Emilia, resta immobile ed ancorata al suo scoglio, scavando distrattamente con le unghie tra le venature del legno.
    «Seriamente, te ne vuoi andare?!», e sarebbe quasi disposta a chiederglielo per favore, perché quell’attacco di panico che trattiene da quasi un giorno intero la sta mangiando lentamente dall’interno.
    «Caccia l'aria nei polmoni», eppure è come se la Corvonero non recepisse alcun segnale, verbale o fisico che sia. Le si ferma accanto, le consiglia di respirare. Come se fosse semplice — ciò che il suo corpo dovrebbe fare da sé a volte non arriva ai comandi, a volte il suo cervello viene schiacciato da un macigno e perfino i compiti più automatici non sembrano più funzionare senza un comando disperato.
    Respira, Emilia.
    Respira…
    «Che cos’è che vuoi?», è come se tornasse improvvisamente da un mondo lontano, Emilia, quando all’improvviso prende un grosso respiro a cui accoda le parole senza una pausa. È viva, è ancora viva e riuscirà a restarlo ancora per un po’. Credeva di non avere paura della morte, anni fa — ma a quanto pare si sbagliava. «Vuoi una medaglia, Hatzidaki? Hai aiutato qualcuno anche oggi, tornatene a casa».

     
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