Should I stay or should I go?

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    Una sera, quando aveva tre anni, Irina tornò a casa con una bambola. Le aveva detto che era per lei e poteva giocarci quando Aleksej non era in casa, ma che doveva nasconderla in un posto sicuro quando lui sarebbe tornato. Anastasija l’aveva presa tra le mani, quasi con timore, osservandola con estrema attenzione. Fece scorrere le dita sulle guance paffute, sopra la linea di quel sorriso innaturale, negli occhi brillanti dipinti di azzurro dal pennello esperto di qualcuno. Aveva i capelli biondi legati in due trecce che le coprivano le orecchie ed un vestitino di stoffa rossa con dei dettagli in pizzo bianco. Irina azzardò dire che si somigliassero. Ana però non credeva fosse vero. Quella bambola era davvero bella. E inoltre sorrideva quindi, pensò, doveva essere felice per qualcosa. Cosa c’era per essere contenti? Forse ancora non sapeva che al ritorno a casa del padre adottivo, la bambina avrebbe dovuto nasconderla dentro una scatola, al buio, da sola. Forse, a quel punto, avrebbe smesso di sorridere anche lei. Ma la bambola non aveva smesso mai. Neanche dopo le ripetute volte che Anastasija l’aveva nascosta per non farla trovare dall’uomo. Ogni volta che andava a riprenderla puntava subito lo sguardo sul volto di plastica della bambola, quasi come si aspettasse che quella volta sarebbe successo qualcosa, che quella volta avrebbe avuto un’espressione diversa. Ma niente. Lei continuava a sorridere e non c’era nulla che la facesse smettere. Ana non sapeva con esattezza come la facesse sentire tutto questo. Se da una parte quel sorriso simboleggiava una speranza, dall’altra, quel suo modo di sorridere nonostante tutto, le dava un’aria assurdamente sciocca. Eppure, nonostante tutto, ogni volta che ne aveva bisogno, Anastasija guardava il sorriso di quella bambola e si sentiva più tranquilla. La sera prima che partisse per l’Accademia, Irina le disse che non avrebbe potuto portarla con sé. A quanto pareva, le bambole non erano ammesse lì dove stava andando. Le promise che se ne sarebbe occupata lei, che se ne sarebbe presa cura finché non sarebbe tornata. Ana volle crederle. Nonostante una vocina le suggerisse che per buone ragioni la donna se ne sarebbe dovuta sbarazzare, lei si convinse che le cose sarebbero andate proprio così. L’idea di partire l’indomani la terrorizzava, e lei aveva un disperato bisogno di aggrapparsi a qualcosa. «Guarda, mamma, una bambola!» Marian abbassò lo sguardo sulla bambina al suo fianco. Aveva un berretto di lana rosso e stringeva la mano ad una donna sorridente. «Posso averla, mamma, posso averla?» Picchiettò il dito nella vetrina. La donna si accovacciò al suo fianco, guardando anche lei la bambola che aveva rapito lo sguardo della figlia e della giovane russa. «Certamente. Appena torniamo a casa lo scriviamo nella lettera a Babbo Natale, sei d’accordo?». La bambina gridò entusiasta e, senza lasciare la mano della madre, sparì così come era apparsa. Marian la guardò ancora volta. Aveva lo stesso vestito rosso con i particolari in pizzo e le trecce ai lati del viso. Ma cosa più importante, aveva ancora quel sorriso.
    [...] Marian Dixon guardò la propria figura riflessa nello specchio di quella stanza adibita a spogliatoio. Portò le mani nei capelli, raggruppandoli in una coda alta prima di fermarmi con un elastico. Ogni suo movimento, anche quello più insignificante come rigirarsi un elastico tra le dita, sembrava calcolato nei minimi dettagli. Anche ad un osservatore superficiale, la giovane donna dava immediatamente l’impressione di essere una che non si lascia andare facilmente. Pensava troppo e questo non era un punto a suo favore. Le volte in cui si era lasciata andare seguendo il moto dei sentimenti erano così poche da poterle contare con le dita di una mano. Andare a fondo, scavarle dentro e colpirla là dove era più sensibile non era un facile, eppure qualcuno ci era riuscito. Se ne era rimproverata a lungo, guardando a tali eventi come momenti di estrema debolezza che la facevano arrossire di vergogna. Uscì dallo spogliatoio, percorrendo il corridoio che la portò dritta nella palestra dove alcuni si stavano già allenando. La prima volta che aveva messo piede lì dentro era stata pervasa da una strana sensazione. Qualcosa di familiare, che non sapeva spiegarsi. Il Centro di Addestramento era spesso pullulato di Auror. Marian ne riconobbe uno, un certo Picquick o Pickett, che aveva incrociato diverse volte al Quartier Generale. Se la stava prendendo contro un sacco da box che ciondolava dal soffitto ed intanto sembrava stesse scambiando due chiacchiere con il tipo seduto a qualche passo da lui, intento a stringere i lacci delle sue scarpe. La giovane donna gli passò accanto senza degnarli oltre di uno sguardo. Non le importava stringere amicizie sul posto di lavoro. Non ne aveva bisogno. «Ma guarda chi si vede. Ehy, Dixon, non si saluta?» La donna fermò immediatamente il suo passo. Dixon.
    Era quello il suo cognome, adesso. A volte aveva la sensazione che fosse tutto un sogno. Si prese tutto il tempo che voleva per girarsi a guardare l’uomo che aveva detto quelle parole. Picquick o Pickett aveva un braccio posato sul sacco e la stava guardando. Marian sentì il suo sguardo scivolarle addosso e per poco non tradì un’espressione disgustata. L’uomo a terra aveva un’espressione divertita e sembrava sul punto di scoppiare a ridere. «Buon pomeriggio.» Era contento adesso? Fece per voltarsi, ma la voce dell’uomo la fermò ancora. «Perché non ti alleni con noi?» C’era qualcosa di nauseante nel modo in cui l’Auror aveva pronunciato quelle parole. Marian lo guardò per un attimo. Il desiderio di dargli una lezione era forte, ma dopo un’attenta riflessione, stabilì che la miglior cosa da fare era ignorarlo. «No, grazie.» Si voltò, proseguendo verso un angolo della palestra dove lasciò cadere a terra il borsone. Aprì la zip tirando fuori dei nastri color vinaccia. Lo vide venirle incontro con la coda dell’occhio. Trattenne il respiro, chiedendosi come mai Picquick o Pickett avesse deciso di farsi spaccare il setto nasale. Lo guardò fermarsi a pochi passi da lei, ad un solo passo dall’invadere il suo spazio vitale. Il giovane uomo aveva un’espressione leggera, divertita. Marian si chiese ci trovasse di così divertente in quella situazione. La russa iniziò ad avvolgere uno dei nastri attorno alle nocche. «Eddai, Marian. Vieni con noi. Sarà divertente.» Aveva abbassato la voce, come se volesse farsi sentire solo da lei. L’aveva chiamata per nome e solo questo bastò a farla irritare. Come si permetteva? Si conoscevano a malapena. Percepì le spalle irrigidirsi, e dovette concentrarsi per sembrare educata. «Non sono interessata.» Si interruppe un momento, lasciando il nastro arrotolato a metà nella mano ed alzando lo sguardo verso l’Auror. Fu il guizzare di una figura alle spalle dell’uomo ad attirare la sua attenzione. Barbara Herondale era entrata nella stanza. Si soffermò su di lei per qualche secondo. Da quando era diventata Auror, da quando Bobbie l’aveva convinta a cambiare vita, le cose tra di loro erano tese. Marian le era in parte grata per averla aiutata a prendere quella decisione, ma una gran parte di lei provava ancora rabbia nei confronti della ex compagna di Accademia. «Ah, c’è la Herondale. Puoi chiederle se vuole unirsi a noi..» E fu lì che Anastasija scattò. Quel tono viscido l’aveva stancata. Nel momento in cui l’Auror posò una mano sul suo fianco. Gli afferrò il polso, approfittando della sorpresa di lui per rigirargli il braccio dietro la schiena ed attaccarlo con le spalle al muro. Si sporse verso di lui, arrivandogli ad un soffio dal naso, inchiodandolo alla parete con lo sguardo. «Ascoltami bene, Picquick o Pickett, come cavolo ti chiami.» parlò a bassa voce, sibilando tra i denti «Quale parte di “no grazie” ti è difficile da comprendere, mhm?» arricciò il naso, specchiandosi nell’espressione confusa di lui. «Tra l’altro-» fece scorrere lo sguardo sul suo viso. «-non reggeresti neanche dieci minuti. Perciò ti conviene tornartene dal tuo amichetto laggiù, chiaro?» L’uomo la fissò a labbra dischiuse per una manciata di secondi prima di scattare, muovendosi di lato, così che Marian lasciò il suo polso. «Tu sei pazza sbottò d’un tratto. «Vattene a ‘fanculo Dixon.» bisbigliò tra i denti, indietreggiando di alcuni passi, per poi voltarsi e raggiungere il suo amico rimasto accanto al sacco da boxe. La giovane donna abbassò lo sguardo, ricominciando sapientemente ad avvolgere il nastro intorno attorno alle proprie mani.

     
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    Si ritrova a passare molto tempo al Centro d'Addestramento, in quelle ultime settimane. Se prima ci passava le ore di lezione, ora è sempre più impegnata ad utilizzare gli spazi del locale ogni momento buono. Come a volersi tenere ancora più impegnata, sempre con la testa costantemente fissa su qualcosa, alla ricerca pressante di un'ancora che la tenga fissa a terra, che la tenga ferma, incapace di pensare a Byron e al casino che è successo all'inaugurazione del gruppo Peverell. I giorni seguenti è rimasta semplicemente ferma, attonita, convinta della completa innocenza dell'ex capo dei Ribelli, ma al tempo stesso incredula sul come tutto sia precipitato nel giro di poco. Un secondo lì era a parlare con lui, accordandosi sul vedersi l'indomani per preparare la lezione congiunta di Strategia militare e un secondo dopo veniva trascinato via, da persone dagli occhi scuri e la testa bassa, dei bravi soldatini che avevano accettato di buon grado la loro condizione di sottoposti, tenuti al guinzaglio dagli ordini impartiti dall'alto che loro dovevano semplicemente eseguire. Un lavoro semplice, pulito, privo di rimorsi se la loro preparazione lavorativa è stata effettivamente portata a termine seguendo la prassi. E' bastato un battito di ciglia, l'entrata in scena di Collins con le sua marionette e quel "Ci vediamo domani da te" si è trasformato in un nulla di fatto, sabbia che scivola inesorabile tra le dita incapaci di trattenerla. Sente un moto di rabbia Bobbie, all'altezza dello stomaco, ogni qualvolta si trascina al Castello e sente qualcuno parlottare della sventurata fine di Byron Cooper, tanto da sentirsi in dovere di rimetterlo al suo posto con una parola di traverso o un'occhiata torva che la dice lunga. Sente il bisogno di difenderlo, nonostante tutto, pur non sapendo cosa sia effettivamente successo, ma ancora abbastanza sicura delle proprie capacità di giudizio. E' certa di averlo letto bene Byron, di essere rimasta sempre a debita distanza sì, ma di averlo comunque decifrato correttamente. Non ho preso un abbaglio. Le parole che si ripete più spesso, anche ora mentre spalanca la porta del Centro, accennando un saluto con la mano verso Ellie che ha già preso ad addobbare la hall con varie decorazioni natalizie che le farebbe storcere di normale il naso, ma che al momento sembrano addirittura non toccarla affatto, mentre si porta velocemente verso la sala adibita a palestra. Ha deciso che ha bisogno di boxare un po', per scrollarsi via di dosso quattro ore di lezioni in cui è stata costretta ad assistere allo spettacolo offertole da alcune delle matricole meno dotate che le siano capitate tra le mani in quei tre anni d'insegnamento. Mentre entra in sala, si toglie la felpa lasciando intravedere la tenuta sportiva che ha al di sotto, rigorosamente nera. E' quando appoggia la borsa a terra, contro il muro, che avverte l'odore di Ania. Non si volta, rimane ferma, prendendosela comoda, quasi con la speranza che la bionda abbia quasi finito e se ne stia per andare. E' mentre finge di recuperare qualcosa dal fondo della borsa che sente distintamente ciò che sta accadendo tra lei e un emerito demente. Allora, suo malgrado, si volta osservando la scena da lontano con un cipiglio quasi infastidito. Perché quell'Auror non è di certo nuovo da quelle parti, così come non è nuovo a quegli atteggiamenti lascivi e viscidi che le fanno accapponare la pelle. Ma Ania è perfettamente in grado di difendersi da sola, non che Bobbie ne avesse sentito effettivamente il bisogno, ma è comunque sempre un piacere osservare certe dinamiche, come quella in cui il ragazzo è palesemente a disagio, con le spalle al muro e il braccio della bionda piantato sul collo. «Tu sei pazza. Vattene a ‘fanculo Dixon.» Inclina la testa di lato, Bobbie, sopprimendo quasi una risata nel voltarsi nuovamente verso il muro. Com'è che va a finire sempre così con te? Ce le facciamo due domandine? Pensa conoscendo già alla perfezione la risposta perché, per quanto probabilmente ad entrambe non piace ammettere, loro due sono anime affini, in tutto, persino nel menefreghismo rivolto esclusivamente al resto del mondo. E' forse quella comunione d'idee che le dà la spinta a muoversi verso di lei, mentre usa un elastico rimasto sul suo braccio fino a quel momento, per chiudersi la coda sulla nuca. «Ehi, Herondale!» Non degna di uno sguardo i due che se ne stanno nei pressi di un sacco da boxe e prosegue verso di lei, il naso all'insù e la postura fiera ed elegante che è stata insegnata ad entrambe
    all'Accademia. « Prima che finisci di arrotolare i nastri, ho qualcosa di diverso per te. » Sibila verso di lei, fissandola negli occhi giusto qualche secondo, prima di accennare ai due uomini alle sue spalle con un movimento quasi millimetrico che solo una persona addestrata alla sua stessa maniera può veramente captare. « Va provato il nuovo scenario della Sala Simulazione. Due contro due, guardie noi, rapitori e ostaggi simulati. » Prosegue, inarcando appena un sopracciglio, con fare ambiguo, ricercando velocemente nel suo viso una parvenza di reazione a quelle parole. « Come l'Incursione a Kolmanskop. » Solo che lì era tutto fottutamente vero, sembrava di essere in guerra. E qua si blocca. Perché l'Incursione è forse stata la più difficile delle prove che le due reclute dell'Accademia abbiano mai dovuto affrontare insieme. Costrette a saltare da un elicottero in volo, abbandonate per quattro giorni nella città fantasma di Kolmanskop, nel deserto di Namib. Erano state divise in squadre, ben pensate dai capi divisione, e lei era finita con Marian, di qualche anno indietro con l'addestramento rispetto a lei. Lì per lì, la sfavillante cadetta Herondale l'aveva trovato estremamente strano, solitamente due amiche non finivano mai insieme, i capi tendevano a dividere i legami che si formavano tra le reclute, prediligendo i rapporti privi di alcun nesso, predicando i sentimenti come unico vero ostacolo da evitare ad ogni costo. Poi, nel suo essere superba e inarrivabile, l'aveva trovato quasi un affronto: ritrovarsi in squadra con qualcuno non del suo livello ma inferiore, pur sapendo perfettamente quanto Ania fosse un elemento ben più che valido. Infine aveva sentito un profondo senso di nausea nell'incrociare lo sguardo di Kressida, la sua mentore, nel vedere nei suoi occhi la risposta. Sa tutto, sa che è la mia distrazione. E si è irrigidita subito quando la bionda si è unita a lei, una quindicenne in procinto di essere mandata in missione e una tredicenne che le ha sempre fatto uno strano effetto, a portare alto l'onore del "team rosso". « Ricordatevi che chi non salverà i suoi ostaggi designati verrà mandato in prima linea, a qualsiasi fronte babbano ne farà richiesta. Chi salverà gli ostaggi non propri, farà la stessa fine. Non c'è alcun onore nella disobbedienza e nell'imperfezione. » Aveva detto loro Kressida, suscitando in tutte le impettite reclute, nelle loro tute nere, un senso di sgomento di fronte a quel fantasma pallido, quello di diventare la "Fanteria", che era sempre stato descritto loro come il più basso dei livelli della piramide societaria dell'Accademia. Paragonabile quasi ad un disonore. "Io devo arrivare alle missioni, non posso accontentarmi dell'ultimo gradino della catena alimentare". Si era detta questo nel momento esatto in cui era corsa dentro la prima casa disabitata, con Ania alle spalle che controllava il perimetro. E se non fosse stato per lei, in fondo, Bobbie non sarebbe riuscita a salvare Ivan, ostaggio numero 6, perdendole tra le sabbie mobili di quel deserto che non lasciava tracce dei suoi omicidi silenti. Se non fosse stato per il suo aiuto quasi divino, Bobbie non sarebbe mai partita per Castelbruxo appena un mese dopo, con il petto della sua giacca da cadetto decorato anche dall'ultima delle spille onorarie, ricevuta proprio per quell'Incursione portata a termine con la sua miglior amica. La fissa ancora per un attimo, alla ricerca di qualcosa in quegli occhi color dell'acqua montanara, un qualcosa che forse legge davvero e le fa stringere lo stomaco come quando lo sguardo di Kressida di quel giorno. Dissimula tutto, guardando verso i due Auror alle sue spalle. « E' il vostro giorno fortunato, soldatini. Collins sarà felice di sapere che finalmente riceverete un po' di sano addestramento. Mi ringrazierà poi. » Magari dal vivo, un'opportunità unica per beccarlo con un pugno in faccia. Sorride, beffarda, per poi lanciare un'ultima occhiata ad Ania. « Allora ci stai? »
     
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    Aveva avvertito la sua presenza nel momento stesso in cui Bobbie aveva messo piede dentro la palestra. Era come energia, nella sua forma più pura, magnetica e impossibile da non notare. E man mano che si avvicinava, la sua persona si faceva sempre più presente. Aveva l’impressione di esserne schiacciata come quando erano all’Accademia e Barbara Herondale era sempre migliore di lei. Ma se all’inizio provava invidia nei suoi confronti, con il tempo aveva iniziato ad ammirarla. Bobbie era l’asticella a cui una giovane Anastasija Kotova aspirava di arrivare. Non la guardò, ma la sentiva avvicinarsi. Tra i rumori confusi della stanza, riusciva ad isolare il suono dei suoi passi. Aveva una camminata sicura, militaresca, familiare. Era la stessa che aveva lei. Avevano cambiato vita, ma per il resto era rimasto tutto uguale. Si disse che probabilmente non stava neppure venendo da lei. Capì di sbagliarsi nel momento in cui la Herondale le si fermò davanti. « Prima che finisci di arrotolare i nastri, ho qualcosa di diverso per te. » Fermò all’istante i suoi movimenti, alzando lo sguardo verso la giovane donna che aveva difronte, osservandola da sotto le ciglia scure. Studiò il suo viso per alcuni istanti cercando di capire a cosa stesse alludendo ancor prima che lei potesse aggiungere altro. Notò il movimento della sua testa certa che non fosse stato involontario. Erano state addestrate a controllare ogni muscolo del loro corpo, anche il più piccolo. Niente era mai involontario per loro. Stava indicando gli uomini dietro di lei, quell’idiota di Picquick o Pickett e il suo amico. « Va provato il nuovo scenario della Sala Simulazione. Due contro due, guardie noi, rapitori e ostaggi simulati. » Sollevò soltanto un sopracciglio, tornando a guardarla. Tutto ciò le risuonava come familiare. « Come l'Incursione a Kolmanskop. » Come ai vecchi tempi, Barbara. Sono dei flashback quelli che si materializzando davanti ai suoi occhi, gli stessi che probabilmente stava vedendo anche la Herondale. Bambine. Bambine a cui avevano portato via le bambole e messo in mano delle armi. Bambine nocive, bambine mortali. Le avevano private di tutto, dei loro affetti e spesso anche della loro dignità. Per un lungo periodo Marian sembrava essersi ribellata a tutta quella situazione. Per quanto provassero in ogni modo ad annientarla, lei sembrava resistere. Si sentiva come una roccia in mezzo al mare. Nonostante acqua e vento provassero a distruggerla per restava lì, inflessibile. O forse, solamente, più sciocca delle altre. In silenzio, di nascosto, si era aggrappata con le unghie all’unica cosa che la costringesse a rimanere umana: l’affetto, l’amicizia e l’ammirazione che provava per Barbara. Quando lei era sparita, data per morta nell’ultima missione, quel mare e quella corrente che per anni avevano grattato la superficie si erano fatti più impetuosi, corrodendola, erodendola fino a poterla modellare a loro piacimento. Con la presunta morte di Barbara Herondale si era spenta l’ultima fioca fiaccola di umanità che per anni Anastasija aveva custodito e protetto dentro di sé. Poi tutto ciò si era tramutato in rabbia. Per settimane aveva pianto la morte della sua migliore amica, di nascosto da tutti, per poi scoprire che era stata tutta una menzogna. Avrei preferito che fossi davvero morta invece di scoprire che mi hai mentito per tutto questo tempo. Non all’Accademia. A me. Glielo aveva detto il giorno in cui si sarebbero dovuti pareggiare i conti. Dura lex sed lex. «Non ti facevo così nostalgica, Bobbie.» Sollevò un lato delle labbra, per poi cominciare a srotolare il nastro da intorno alla mano, con gesti precisi e inversi a quelli fatti per annodarlo. Aveva accettato e sapeva che Barbara lo aveva capito. Infondo, tra di loro non c’era mai stato bisogno di molte parole. Aveva sempre pensato che fossero due anime affini. Ripensò a quella sera, la notte prima che la Herondale partisse per l’ultima missione. Il ricordo la investì con le stesse sensazioni che aveva avuto al tempo. La sua migliore amica stava per andarsene. Non le piaceva quando succedeva. Non sapevano mai come salutarsi poiché, si, erano state addestrate per questo, ma ogni volta nessuno poteva sapere se quello sarebbe stato un “addio” o solo un “arrivederci”. Ripose i nastri dentro il borsone e si portò entrambe le mani tra i capelli, poco sopra l’elastico che glieli teneva raccolti e tirò due ciocche in modo da rendere l’acconciatura più salda. Seguì Bobbie camminandole di fianco, i passi che si succedevano uno dopo l’altro con la stessa cadenza. Sembrava che non producessero rumore, tanto che i due Auror accanto al sacco da boxe si accorsero della loro presenza solo quando Barbara cominciò a parlare. « E' il vostro giorno fortunato, soldatini. Collins sarà felice di sapere che finalmente riceverete un po' di sano addestramento. Mi ringrazierà poi. » Marian trattenne un sorriso divertito nel constatare che entrambi avevano sobbalzato. Se scoppiasse una guerra questi sarebbero tra i primi a perire nel campo di battaglia. Picquick o Pickett la stava fissando, ma lei non fece una piega. « Allora
    ci stai? »
    La bionda incrociò le braccia al petto, spostando il peso sulla gamba sinistra, lanciando un’occhiata alla giovane donna al suo fianco. Si strinse nelle spalle, arricciando le labbra in quello che aveva la sfumatura di un sorriso divertito. «Io ci sto, ma non so se questi due faranno altrettanto.» proferì con tono lievemente canzonatorio. Spostò lo sguardo verso i due uomini giusto in tempo per vederli ridacchiare tra di loro. Sapeva cosa stavano pensando: ai loro occhi la Herondale era una brava Auror, ma la faccenda finiva lì, e la Dixon non era altro che l’ultima arrivata, una novizia, una con ancora molto da imparare. Non gliene faceva una colpa. Era quello che avrebbero pensato tutti. L’altro tipo, quello che era stato al suo posto fino a quel momento posò la mano sulla spalla di Picquick o Pickett. «Siete sicure, signorine? Io e Palmer non perdiamo una sfida da parecchio tempo..» Palmer? Davvero? Si scambiarono uno sguardo complice per poi avanzare di qualche passo con il solo scopo di troneggiare sulle due donne. «Ci stiamo, bellezze.» Bellezze? Che fine aveva fatto il coniglietto smarrito che poco prima le aveva dato della pazza? Poi ricordò che tra uomini funziona così: insieme si sentono più spavaldi. Era una delle cose che veniva insegnata alle giovani cadette dell’Accademia: il gruppo è pericoloso non tanto per il numero ma per il manforte che i membri di esso si danno tra loro, che sia per senso di squadra che per primeggiare tra gli altri. «Anzi.. Perché non facciamo qualcosa per rendere la situazione più interessante?» A Marian non piaceva quel sorriso che aveva in volto. In realtà non le piaceva per niente quella faccia. Palmer era terribilmente sicuro di sé e la fiducia smisurata nelle proprie capacità è senza dubbio una lama a doppio taglio. Perché le proprie insicurezze vanno affrontate, non certo sepolte sotto una montagna di muscoli, poiché i muscoli non possono niente se prima non abbiamo imparato a valutare quanto fosse profonda la tana del Bianconiglio. «Se vinciamo noi dovrete togliervi quel broncio dalla faccia e venire con noi nel pub qua vicino. E dovrete ammettere ciò che già sappiamo tutti ovvero che noi siamo più forti di voi.» Risero, scambiandosi uno sguardo complice. «E se invece vinciamo noi?» Ania non aveva fatto una piega. Era rimasta perfettamente immobile al suo posto, lo sguardo che passava da un viso all’altro dei due uomini davanti a loro. «Bhè, in tal caso-» il tizio di cui Marian non sapeva il nome si fece avanti, il mento alto e le braccia incrociate sotto il petto. Aveva un tono canzonatorio, come se non avesse neppure preso in considerazione tale eventualità. «-potrete decidere voi la nostra sorte, che ne dite?» Scegliere. A nessuno degli allievi dell’Accademia era mai stata data quella opzione. Le regole erano semplici: o sei dentro o sei fuori. E ogni volta l’essere fuori era un’alternativa ben peggiore del rimanere lì. Quasi sempre si trattava di vivere o morire. E per quante volte Anastasija avesse pensato che la morte fosse la migliore delle scelte alla fine si era sempre aggrappata alla vita. Lanciò uno sguardo a Bobbie, accanto a lei. Per un attimo ebbe l’impressione di essere su quel dannato aereo sul cielo di Kolmanskop con un paracadute sulle spalle e senza la certezza che si sarebbe aperto. Se tu salti, io salto.



    Edited by white swan. - 12/1/2021, 18:25
     
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    «Non ti facevo così nostalgica, Bobbie.» Sbuffa fuori una risata derisoria, nel guardarsi oltre le spalle per intercettare quei due energumeni che continuano a lanciare loro occhiate, di tanto in tanto. « Credo solo che gli inglesini necessitino di un po' di sana disciplina. » Si stringe nelle spalle tornando a fissarne gli occhi azzurri. « Hai la fortuna di stare al loro fianco su campo ogni giorno, lo sai meglio di me quanto alcuni servano a nemmeno la metà di una spalla dell'Accademia. » Una semplice e limpida constatazione la sua, carica di giudizio come è sempre stata abituata a covare nei confronti di alcuni elementi, per lei abbastanza inutili, tra le fila del Corpo Auror. L'ha detto più volte a RJ. "Hanno bisogno di più allenamento e impostazioni più decise e ferree. Alcuni sono distratti e poco concentrati, altri sbadigliano e sono svogliati dalla mattina alla sera. Sono queste le persone che dovrebbero garantire la sicurezza alla comunità?" Per l'appunto, alcuni dei suoi vecchi colleghi non l'ha mai reputati utili, molto meno di una spalla che solitamente veniva assegnata ad ogni cadetta di alto profilo in Accademia, per aiutarla via terra, in missioni nelle quali era indispensabile un collegamento diretto con un analista pronto a dare direttive vedendo il campo da una prospettiva più ampia. Si gira a parlare con i due, con quel suo solito cipiglio severo per poi aspettare la risposta della stessa Marian. «Io ci sto, ma non so se questi due faranno altrettanto.» Sbuffa, Bobbie, sapendo perfettamente quanto quei due palloni gonfiati, con un guanto di sfida lanciatogli da due donne, non rifiuterebbero mai, convinti di dover dimostrare a se stessi e a loro quanto la loro virilità, il loro testosterone, la loro posizione da uomini alpha li posizionino automaticamente dal lato dei vincitori sicuri. Oh povere creature ingenue. «Siete sicure, signorine? Io e Palmer non perdiamo una sfida da parecchio tempo..» Oh ma la sfida che vi attende non è lontanamente paragonabile a quelle da bambocci che avete sostenuto finora. Trattiene una risata a stento, con le mani posizionate sui fianchi e l'espressione risoluta, con il naso rigorosamente verso l'alto. «Ci stiamo, bellezze.» Strabuzza gli occhi, sbuffando sì ma senza dire una parola. Decide che saranno le azioni del suo team a costringerli a rimpiangere anche solo di essersi permessi una tale - e viscida - confidenza con loro. Ma i suoi occhi, nonostante tutto, parlano benissimo da soli. Sai dove te lo puoi infilare "bellezze"? Annuisce, cominciando ad avviarsi verso l'uscita per imboccare il corridoio quando uno dei due - non le frega niente di sapere quale siano i loro nomi - parla a sproposito nuovamente. «Anzi.. Perché non facciamo qualcosa per rendere la situazione più interessante?» Dio ho il voltastomaco. Pensa nel fissare la smorfia maliziosa che si dipinge sul viso del cagasotto che ha sfiorato di prenderle dalla bionda al suo fianco appena qualche istante prima. «Se vinciamo noi dovrete togliervi quel broncio dalla faccia e venire con noi nel pub qua vicino. E dovrete ammettere ciò che già sappiamo tutti ovvero che noi siamo più forti di voi.» Oh sì, ridete e datevi manforte come i due coglioni che siete, bravi. «E se invece vinciamo noi?» Lancia un'occhiata interrogativa a Marian, come a volergli domandare un silenzioso "Ma vai pure dietro a certi giochetti?" «Bhè, in tal caso potrete decidere voi la nostra sorte, che ne dite?» Barbara ha imparato ad amare il tanto agognato libero arbitrio che ha riacquistato da quando ha lasciato l'Accademia. Scegliere le piace, il più delle volte non ha problemi a farlo, lo fa e non ci pensa due volte. E' per questo motivo che sorride, con un'innocenza quasi diabolica. « Se - » quando « - vinciamo noi, quello che avrà fatto più schifo lì dentro, lascerà il proprio posto della squadra principale a Marian. » Non la guarda nemmeno, continua a fissare loro due senza abbassare lo sguardo. Non è di certo un favore che sta facendo a Marian, sa benissimo che non ne ha bisogno e se non fosse soltanto l'ultima arrivata, Collins l'avrebbe già promossa, non è così stupido. Ma può sempre far comodo avere una conoscenza tanto vicina al Capo della Squadra Auror, specie in quel periodo. Potrebbe tornare utile qualche informazione sul caso di Byron. In fondo nessuno sa di quel suo loro legame e nessuno può sospettare veramente. La faccia di uno dei due, il cagasotto, si gonfia. « Mi sembra un tantinello sbilanciata come scommessa, non credi? » Bobbie non batte ciglio, le labbra ancora distese e tranquille. « Come? Già non sei più convinto di essere i più forti? » Un accenno di broncio, prima di anticiparli nell'uscita della saletta, convinta che i discorsi stiano a zero. « Ci sta mettendo uno contro l'altro, l'hai capito il sottotesto sì? » Sente l'altro borbottare piano mentre il cuore di Palmer batte leggermente troppo. E' agitato. « Certo che non capisci un cazzo tu eh. Invece che dividerci, uniamo le forze ancora di più e vinciamo. Jackson, dai, non fare il cagasotto. » Parlano piano, tra di loro, per non farsi sentire da lei che li precede e da Marian che chiude la fila nel momento in cui entrano nella sala simulazione. « Le regole sono semplici, quelle che piacevano tanto a Moore: tre ostaggi da mantenere tali per voi, da salvare per noi. Tre sono all'inizio e tre devono essere in fondo, averne la maggioranza non basta. » Illustra ai presenti mentre con la bacchetta armeggia con il gran computer che ha istallato nella saletta antecedente al vero e proprio campo aperto. « Perché noi i rapitori? » Oh Cristo Iddio. « Perché non pensavo frignassi per ogni cosa, evidentemente mi sbagliavo. Noi rapitrici, voi guardie, meglio così? » Si volta a lanciare un'occhiata generale ai tre e "Per nulla convinto" scuote la testa. « Io preferisco rapitori, almeno ci mettiamo alla prova dall'altra parte per una volta. » « Volete un po' di tempo per pensarci tra di voi? Magari un caffè e dei pasticcini, mh? Un bel divanetto dove pensare in tutta tranquillità, in fondo è come succede sempre quando si è in mezzo ad una missione e si deve prendere una decisione velocemente, no? » Cagasotto la fissa con quella sua faccia da schiaffi. « Ma allora sei anche simpatica, chi se lo aspettava. Noi rapitori. Okay. » Accenna un sorriso falso, Bobbie, per poi tornare a smanettare con il computer. « Va bene, ci siamo, potete chiaramente utilizzare le bacchette all'interno del perimetro e avrete la percezione di essere veramente in una missione. » Spiega le ultime cose, incoraggiandoli ad oltrepassare la porta scura alla loro destra. « Ah, la simulazione comincia su un elicottero. Il vostro team dovrà ritrovare il resto della propria squadra a terra, insieme agli ostaggi. Spero che nessuno di voi soffra di vertigini. » Guarda Marian alla quale rivolge quello che appare essere un sorriso. « Prima le signorine! » Fa cenno ai due auror per poi seguirli a ruota, a poca distanza. Poi Bobbie inciampa, stranamente, perdendo l'equilibrio per finire addosso a cagasotto. « Herondale, così mi fai credere che non vedi l'ora di perdere per venire al pub con me. » Guarda il cielo, la mora, scoccando la lingua contro il palato. « Continua a ripetertelo, Paxton. » Passano giusto alcuni istanti prima che
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    l'ambientazione asettica nella quale si trovano all'inizio cambi di colpo. Lei e Marian si ritrovano ad essere scosse dalle turbolenze, create da una leggera tempesta di sabbia, che si abbattono sul trabiccolo in cui si ritrovano. « Siamo sopra il punto di raccolta. Allacciate la cintura e saltate! Forza, ora! » La pilota urla loro i comandi mentre Bobbie osserva Marian, come a volersi sincerare che quella simulazione non l'abbia scombussolata più del dovuto. « Dobbiamo andare. » Le dice poi, allungando giusto una mano nella sua direzione, stringendole appena il braccio per risvegliarla. Poi si fa avanti, apre il portellone dopo essersi assicurata le cinture dello zaino che ha in spalla. « Vedi di non perderti nel caos. » Un occhiolino alla compagna prima di lanciarsi a capofitto. Lancia un incantesimo di schiarimento della vista per far sì che il proprio campo ottico sia pulito dalla sabbia mentre si dirige a missile verso terra. E' quando è a qualche buon metro che apre il paracadute, la tempesta la sballotta per qualche minuto buono fin quando non ricade in mezzo alla sabbia in ginocchio. Si volta allora a guardare verso il cielo ma la nuvola ocra è troppo densa e scura per vedere qualcosa attraverso, persino per i suoi sensi da lupa. « Merda. » Urla dopo qualche istante, quando la sabbia prende ad irritarle gli occhi, donandole una sensazione di carta abrasiva passata più volte sulla superficie. E' allora che prende a rovistare nello zaino nel quale rinviene un paio di occhiali e una kefia che si avvolge intorno al volto per proteggersi. E' quando si rimette in piedi, con gli stivali che affondano nella sabbia, che avverte finalmente l'arrivo di Marian. « Pensavo di essere costretta a giocarmela solo con i bot. » Saluta così il suo arrivo mentre si guarda intorno. « E' tutto troppo coperto per la tempesta. » Urla nella sua direzione. « Potremmo aspettare che si quieti un po'. » Prosegue, le mani sui fianchi fin quando la mano non scivola nella tasca dei pantaloni scuri per farne uscire un telefono. « Quel coglione non si è nemmeno accorto che gliel'ho sfilato dalla tasca. » Perché io non inciampo. Punta sopra di esso la bacchetta e casta un Avensegium non verbale. Come in un videogioco, compare una spia luminosa che gli indica la strada da seguire per arrivare a cagasotto e per nulla convinto. « Ora sappiamo dove trovare quei due. Idee su come procedere e su come farli capitolare nel minor tempo possibile? »
     
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    « Se vinciamo noi, quello che avrà fatto più schifo lì dentro, lascerà il proprio posto della squadra principale a Marian. » Anastasija Kotova non era facilmente suscettibile all’inaspettato. Erano assai rare, più uniche avrebbe osato dire, le occasioni in cui le parole le venivano meno, nelle quali un barlume di curiosità balenava inaspettatamente nei suoi occhi provocandole un formicolio fastidioso durante il quale le pareva di perdere il controllo, di non essere più padrona del proprio corpo. Una manciata di secondi che duravano un’eternità, una manciata di secondi che poteva cambiare tutto. La sorpresa era una reazione da sopprimere, la controindicazione di qualcosa che non sta andando come ce la immaginiamo. Imprevisto. Il suono di quella parola esplose nella sua testa. Imprevisto. Era una parola che, pronunciandola, non permetteva alle labbra di dischiudersi troppo. Somigliava ad un segreto, un segreto sussurrato. Imprevisto. Dare un’impressione del genere davanti a qualcuno era pericoloso, compromettente, potenzialmente mortale. Mortale. Eppure, quando le parole di Barbara Herondale le sfiorarono le orecchie non poté fare altro che guardarla. Solo lo sguardo. Nessun altro muscolo si era mosso eppure, nel silenzio più totale, aveva come l’impressione che quel singolo movimento avesse prodotto il rumore di una bomba atomica. Avrebbe voluto vederla meglio in faccia, avere l’impressione di poter decifrare la sua espressione illeggibile. Avrebbe voluto dirle che non aveva bisogno di questo, di una spintarella nella scala gerarchica della polizia di quartiere. Ma le pareva di conoscere già la risposta di Bobbie. Aveva come l’impressione di sentirla già riecheggiare nella sua testa: lo sapeva. Doveva esserci qualcos’altro sotto, qualcosa che al momento sfuggiva alla vista di Marian. Ciò che aveva sempre ammirato di Barbara, fin da quando erano solo due ragazzine confinate in un luogo tanto ostile come l’Accademia, era che guardandola dava sempre l’impressione di avere tutto sotto controllo. Quando Ania era una bambina spaventata, guardava Bobbie e si diceva “Lei ha un piano. Va tutto bene.”. Non le aveva mai chiesto se ce lo avesse sempre avuto davvero. Non voleva saperlo, le bastava quella sensazione per darsi coraggio. Per una frazione di secondo, Marian ebbe l’impressione di essere di nuovo quella bambina. Avrebbe voluto guardarla in faccia. Desiderava con ogni cellula del proprio corpo fare un passo avanti per poter piantare gli occhi sui suoi cercando di capire cosa avesse in mente. Ma non lo fece, così proprio come la Herondale non si mosse di un millimetro, continuando a guardare i due uomini di fronte a loro. « Mi sembra un tantinello sbilanciata come scommessa, non credi? » Legge tutte le emozioni che appaiono nei loro visi, palesi, seppur anche essi provino a nasconderle. Sorpresa. Disorientamento. Sgomento. Indignazione. E’ uno scambio di battute rapido, come in una partita di ping-pong di cui lei e Bobbie sono le spettatrici. Il fatto che avessero accattato non procurò alcuna sorpresa nella russa. Avevano segnato la loro sorte ancor prima di cominciare, senza neppure accorgersene. Era come guardare due gladiatori disarmati faccia a faccia con i leoni. Li seguì, in silenzio, finchè non entrarono dentro la stanza di simulazione. Marian si guardò intorno, percorrendo tutte le pareti della stanza, annusando l’aria, quasi aspettandosi di percepire un sentore di disinfettante. Continuò a guardarsi intorno, tendendo un orecchio alla spiegazione che Barbara stava dando ai due pivelli. C’era qualcosa di bizzarro in tutto quello. Era come una conferma, la dimostrazione che pur andando avanti non si sarebbero mai liberate dell’Accademia, perché loro erano l’Accademia. Scorreva nelle loro vene, era parte della loro essenza. Era il loro passato e tutt’ora il loro presente. « Perché noi i rapitori? » Oh Cristo Iddio. Marian volse la testa verso i due Auror, le labbra dischiuse e gli occhi socchiusi in quella che sembrava un’espressione esausta. Questi due non sarebbero sopravvissuti dieci minuti a Kolmaskop. « Volete un po' di tempo per pensarci tra di voi? Magari un caffè e dei pasticcini, mh? Un bel divanetto dove pensare in tutta tranquillità, in fondo è come succede sempre quando si è in mezzo ad una missione e si deve prendere una decisione velocemente, no? » Nascose un sorriso, la russa, piegando leggermente il capo in avanti. In mezzo ad una missione si deve prendere una decisione velocemente. Glielo ripetevano di continuo. Era una regola che valeva per qualsiasi cosa, anche per le decisioni più estreme. Il sacrificio è un giusto prezzo da pagare se questo comporta la positività della missione. Lasciare indietro un soldato poteva rivelarsi una decisione dolorosa, per questo erano state addestrate al sacrificio, anche di loro stesse se fosse stato necessario. « Ma allora sei anche simpatica, chi se lo aspettava. Noi rapitori. Okay. » Era l’ora. « Ah, la simulazione comincia su un elicottero. Il vostro team dovrà ritrovare il resto della propria squadra a terra, insieme agli ostaggi. Spero che nessuno di voi soffra di vertigini. » Quello si che sarebbe stato un bel problema. Percepisce lo sguardo di Barbara e non può fare a meno che guardarla. Per un attimo non vede più la donna che è diventata, ma la ragazzina che era. E’ la sua prima volta nell’aereo. Il paracadute le comprime il petto, dandole l’impressione di riuscire malapena a respirare. Sta facendo di tutto per impedire al suo corpo di tremare, eppure ha come la sensazione che qualcuno accanto a lei se ne sia accorto. Guarda Barbara. Ha paura che lei la tradisca, che la faccia passare come una fifona, come la bambina impaurita che era. E invece lei non dice niente. Abbassa lo sguardo mentre l’aereo continua a prendere quota. Si voltò di scatto nel vedere la Herondale perdere l’equilibrio. Il suo corpo si irrigidì di scatto, pronto a lanciarsi verso di lei per non farla cadere. Un riflesso che precedette il pensiero. « Herondale, così mi fai credere che non vedi l'ora di perdere per venire al pub con me. » Che idiota. Non sa bene se con quel pensiero si stia riferendo all’energumeno o a sé stessa. Veloce come un battito di ciglia, all’improvviso l’ambientazione attorno a loro non è più quella bianca e manicomiale della Stanza di Simulazione. Si trovavano in un aereo. I rumori cigolanti e la sensazione fastidiosa delle orecchie tappate. Inghiottisce a vuoto, augurandosi che questo basti per riacquistare l’udito. « Siamo sopra il punto di raccolta. Allacciate la cintura e saltate! Forza, ora! » La voce della pilota giunge dalla cabina di pilotaggio. Marian si aggrappa ad una delle maniglie che penzolano dal soffitto dell’abitacolo e si volta verso Barbara, alla quale lancia uno sguardo, seguito da un sorriso, forse un po’ beffardo. Non tremava più. Girò la testa, guardando fuori dal finestrino. C’era una tempesta di sabbia là fuori. Davvero realistico. « Dobbiamo andare. » Qualcuno sfiorò il suo braccio. Si voltò di scatto, quel tanto che bastava per accorgersi che si trattava proprio Bobbie. Doveva essersi distratta un attimo, lo sguardo fuori dal finestrino. Afferrò lo zaino, assicurandolo bene sulle spalle ed aggrappandosi ad una maniglia nel momento in cui la Herondale aprì il portellone. « Vedi di non perderti nel caos. » Sollevò le sopracciglia ed arricciò le labbra. Poi, in un attimo, Barbara era sparita. Scosse appena la testolina bionda, roteando gli occhi. Si era lanciata ancor prima di darle il tempo di replicare. Non sono più una ragazzina. Già. Ed era arrivato il momento di dimostrarlo. Aprì leggermente le braccia mentre si lasciava cadere in avanti, fuori dal portellone, l’aria che con prepotenza le premeva su ogni centimetro di pelle scoperta. Stava precipitando. Era una sensazione adrenalinica. Il cuore scalpitava forte all’altezza del petto. Per un attimo pensò che forse aveva fatto male ad abbandonare il vecchio lavoro. Non poteva vedere Bobbie in quella tempesta di sabbia rossa, ma quando evocò l’incanto di schiarimento della vista sapeva perfettamente che la Herondale aveva fatto la stessa cosa.
    A qualche centinaio di metri da terra, finalmente le sue dita si strinsero attorno alla corda, tirandola con forza ed aprendo il paracadute. Il contraccolpo le diede la sensazione che il suo stomaco fosse salito in gola. Corse quando i suoi piedi toccarono terra, per poi sollevare le gambe per poi ritrovarsi in ginocchio quando si fermò del tutto. Respirò profondamente, guardandosi intorno. Nelle orecchie c’erano solo il suono del vento e del suo cuore martellante. Tossì. Sabbia ovunque. La tempesta era implacabile. Provò a pararsi con il braccio, guardandosi intorno e non vedendo nient’altro che sabbia. Cazzo. Ma prima di trovare Bobbie doveva ripararsi. Indossò gli occhiali e la kefia che trovò nello zaino e solo allora decise di muoversi. Bobbie, in realtà, non era atterrata troppo lontana da lei. « Pensavo di essere costretta a giocarmela solo con i bot. » Un sorriso sarcastico che coinvolge gli occhi, l’unica cosa con cui può comunicare in quel momento, il resto del viso coperto dalla kefia. «La posta in gioco è troppo alta per lasciare la partita solo nelle tue mani..» Non che le interessasse. O almeno questo era quello che si ripeteva. Sapeva benissimo che Barbara sarebbe stata in grado di giocarsela da sola. Alla fine, quello sì, era solo un gioco. Se avessero perso, la cosa peggiore che poteva capitare era ritrovarsi sedute ad un bar a sorseggiare una birra in compagnia di due perfetti idioti. « E' tutto troppo coperto per la tempesta. Potremmo aspettare che si quieti un po'. » Ania annuì, riflettendo. Non avrebbero combinato molto in mezzo a quella tempesta. Dovevano trovare un riparo. Solo allora il suo sguardo scivolò sul telefono che Bobbie sfilò dalla tasca. Si spiegano molte cose, si disse ripensando all’inciampo totalmente privo di senso della Herondale. « Ora sappiamo dove trovare quei due. Idee su come procedere e su come farli capitolare nel minor tempo possibile? » Aveva ancora gli occhi fissi sulla via tracciata dall’incantesimo lanciato dalla giovane donna davanti a lei. Avevano bisogno di un piano. «Dobbiamo trovare un riparo..» Si guardò intorno. Erano in mezzo al nulla più assoluto. Poi lo vide: il paracadute. «Possiamo costruire un rifugio con intercapedine ad aria. Basterà per darci il tempo di decidere il da farsi.» Si sfilò lo zaino dalle spalle, tirò fuori la bacchetta e l’agitò quel tanto che bastava perché il paracadute si modellasse in modo tale da costruire quel genere di riparo. Si voltò verso Bobbie, facendole segno di seguirla con un gesto del capo. Accovacciandosi, procedendo a carponi, si ritrovò sotto quel riparo che, almeno un po’, poteva proteggerle dalla tempesta là fuori. Si accomodò a gambe incrociate, posizionando lo zaino di fianco ed aprendolo. «Tu conosci quei due meglio di me. Sono così stupidi come sembrano?» Pausa. «Voglio dire: se ci servissimo di un diversivo, abboccherebbero? O qualsiasi cosa accada attenderanno un attacco diretto?» Abbassò la kefia sotto il mento. Aveva le labbra secche. C’era una borraccia di alluminio dentro lo zaino. L’aprì. Vuota. E ti pareva. «Aguamenti.» Ne bevve un sorso. «Dovremmo avvicinarsi. Per quel che ho notato la simulazione non crea solo paesaggi, ma anche persone..» Come la donna che pilotava l’aereo. «Se riusciamo a capire come stanno operando potremmo intrufolarci senza dare troppo nell’occhio.» Avevano l'acqua e avevano un riparo. Dovevano solo decidere come muoversi. <i>Allora Red Sparrow, cosa ne pensi? Sono ancora la ragazzina che ero quando te ne sei andata?

     
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    «La posta in gioco è troppo alta per lasciare la partita solo nelle tue mani..» E qui si ritrova ad essere d'accordo. Il poter avere il privilegio di entrare nella prima squadra, con le orecchie e gli occhi lì dove nessuno delle sue conoscenze può davvero arrivare, costretti a mansioni quasi degradanti o addirittura a vedersi ridimensionare il lavoro, sottodimensionando il proprio livello di skills. Avere Marian attaccata al culo di Collins potrebbe essere l'asso nella manica nel processo a Byron. Del fatto che la bionda potrebbe non voler collaborare, mettendo a repentaglio per persone che nemmeno conosce quella sua nuova dimensione di vita precaria e ritrovata a fatica, non si preoccupa sul momento. Perché per il momento è più importante chiudere quella partita nel minor tempo possibile, con meno sbavature possibili, per quanto le riguarda. «Dobbiamo trovare un riparo..Possiamo costruire un rifugio con intercapedine ad aria. Basterà per darci il tempo di decidere il da farsi.» Annuisce, una sola volta, come ad accogliere quelle parole più come un ordine che come una proposta. E senza aggiungere altro, la fissa mentre ricava una perfetta tenda dal proprio paracadute. L'Accademia dà e non ti toglie mai più. Un pensiero volatile che le attraversa la mente mentre la segue procedendo a quattro zampe per mettersi al riparo sotto il tessuto piuttosto rigido che le terrà al sicuro perlomeno fin quando la tempesta non avrà diminuito d'intensità. Ingobbita su se stessa, si trascina vicino lo zaino prima di togliersi gli occhiali protettivi, allo stato attuale inutili. «Tu conosci quei due meglio di me. Sono così stupidi come sembrano? Voglio dire: se ci servissimo di un diversivo, abboccherebbero? O qualsiasi cosa accada attenderanno un attacco diretto?» Nasconde un sorriso nell'umettarsi le labbra ritrovando tra le sue parole l'irriverenza con la quale è cresciuta per alcuni anni della sua vita, sentendosela vicina, così simile al suo modo di porsi con gli altri. « Non credo di conoscerli tanto di più. Quando ho lasciato il Quartier Generale, Palmer era un poveraccio che leccava i culi qua e là, provando a ritagliarsi un po' di spazio, l'altro nemmeno lo ricordo. » Si stringe nelle spalle, non sentendosi minimamente in colpa. « Sono abbastanza certa, comunque, che abboccherebbero a qualsiasi amo gli venisse lanciato. » E quindi, per rispondere alla tua domanda, sì, secondo me sono tanto stupidi quanto appaiono. «Dovremmo avvicinarsi. Per quel che ho notato la simulazione non crea solo paesaggi, ma anche persone..» Annuisce, questa volta con un sorriso, storto ma compiaciuto, che le gonfia la guancia destra, sentendo quella constatazione quasi un complimento alle sue doti nettamente migliorate in fatto di tecnologia applicata alla magia. Chissà se Arseniy sarebbe dello stesso avviso, si ritrova a pensare, improvvisamente, al loro docente di Magitecnologia. Il suo primissimo mentore, colui ha cui ha dimostrato la sua predisposizione naturale per il mondo dell'hackeraggio. «Se riusciamo a capire come stanno operando potremmo intrufolarci senza dare troppo nell’occhio.» Ci pensa un po' su, passandosi il cellulare di Cagasotto tra le mani. « Ho ricreato Kolmanskop esattamente com'era nei miei ricordi. Questo vuol dire che loro dovrebbero essere nei pressi del centro abitato. » Quelle quattro case in croce che cadono a pezzi sotto la forza prorompente della sabbia. « Avvicinarci è l'idea migliore, per poi valutare la situazione, sì. » Alla fine conferma l'idea di lei lanciandole un'occhiata di traverso. « Hai mai più avuto una missione simile all'Incursione? » Le chiede poi, senza alcun preavviso, andando ad incontrare i suoi occhi solo per poi sollevare le spalle, a giustificare il fatto che in fondo devono aspettare e chissà per quanto. « In fondo sembri ragionare diversamente, White Swan. » Un complimento celato tra le righe? Decisamente sì, ma Bobbie non si dilunga nella traduzione della sua stessa osservazione, immaginando che Marian, se ancora ricorda qualcosa del loro legame passato, non farà fatica a decifrarlo da sé. Il paracadute prende a sbattere un po' più forte contro la sua schiena, tanto da costringerla a protrarsi in avanti ancora di più, andando ad abbracciare il proprio zaino, con la kefia che le scivola dal volto. E' comunque questione di secondi, la tempesta sembra peggiorare prima di placarsi di botto. « Forse ci siamo.. » osserva la mora, strisciando verso l'uscita per constatare che sì, la furia della sabbia sembra essersi calmata. Almeno per il momento. « Non possiamo perdere questa finestra di tempo. » Commenta rimettendosi in piedi per poi lasciar scivolare nuovamente lo zaino sulle spalle. Se lo assicura, stringendone le fibbie con forza, prima di risistemarsi la kefia intorno al volto, più a mantenere i capelli all'indietro questa volta, che per proteggerla. E' in quel frangente che sente il caldo, del sole che spacca le pietre, farsi più presente e pressante, tanto da avvertire distintamente il tragitto che una goccia di sudore compie nel discenderle la colonna vertebrale. Senza scomporsi, però, punta nuovamente la bacchetta contro il telefono e la scia luminosa si forma nuovamente sotto i suoi occhi. Un ultimo cenno alla bionda prima di prendere a camminare. Seppur le sue gambe vorrebbero correre, la falcata a passo sostenuto è la migliore delle ipotesi ritrovandosi a dover camminare sulla sabbia. Passano forse dieci minuti buoni prima che le casupole prendono effettivamente forma sotto i loro occhi mentre riescono ad avvicinarsi, acquattandovisi dietro, al rottame di una vecchia macchina, abbandonata poco fuori da quella in cui sembra trovarsi Cagasotto. Almeno hanno usato un riparo. Mi aspettavo qualcosa di molto meno intelligente. Peccato, mi sono sbagliata. Casta intorno a loro un incanto atto a creare una bolla atta a rendere i loro movimenti e le loro voci completamente senza suono per il mondo esterno. « Dovremmo controllare il perimetro. Sono stupidi ma immagino che avranno messo qualcuno della loro squadra a terra di vedetta. » Commenta, rimuginando sul da farsi. « Se non le sentinelle, mi auguro almeno qualche incantesimo protettivo. » Fissa la bionda prima di lanciare un'occhiata da sopra il finestrino ormai inesistente. « E' libero, andiamo. » Scivola fuori avvicinandosi sempre di più alla facciata della casa più vicina a loro. Vi si poggia poi con lo zaino, fermandosi
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    nuovamente. « Sennò potremmo semplicemente calarci da quel poco di soffitto che è rimasto. Dall'alto l'incursione si gestisce meglio. » La butta lì, per poi individuare persino una specie di arbusto secco nell'angolo sul quale poter provare ad arrampicarsi. E senza aggiungere altro, semplicemente si muove verso lo stesso, assicurandosi che dall'altra parte non vi siano guardie in avvicinamento. A quel punto, dopo aver lanciato un incanto di rafforzamento sull'albero, agli atti completamente morto, prende a risalirlo fino ad issarsi sul tetto orizzontale. Allunga poi una mano verso la bionda per aiutarla per poi tornare a guardare verso il basso. Comincia a camminare seguendo il perimetro del tetto senza mai fare un passo in avanti. Scruta attraverso i buchi qua e là, arrivando poi al limitare della voragine vera e propria. Lì dove riesce a scorgere perfettamente due dei tre ostaggi, con Non troppo convinto che cammina loro intorno. « Il terzo dov'è? » Sibila il commento verso Marian, tornando a scandagliare la situazione. « Un attacco diretto potrebbe portarci a sprecare energie, lasciandoci allontanare dalla meta ultima. Il loro team a terra ha due ulteriori elementi. Saremmo quindi due contro cinque. » Continua a valutare, mordicchiandosi il labbro inferiore. « Io creo il diversivo e tu salvi gli ostaggi. » Alla fine si ritrova a dire, cercando la sua approvazione con uno sguardo fisso. E sta per tornare verso la carcassa della macchina babbana, pronta a farla saltare in aria così da attirare come minimo tre persone fuori dalla casupola, quando la saetta di uno Stupeficium la striscia per un pelo. Lo sguardo di lei scivola fuori dai confini della casa incontrando il saluto che Cagasotto gli sta riservando. Lo sente urlare qualcosa ma è troppo fuori raggio per sentirlo davvero. « Mi occupo di lui, te trova il modo di entrare. Ad ogni costo. » E così dicendo si lancia fuori dal cornicione, con la bacchetta verso terra per castare un Aresto Momentum affinché la sua discesa venga leggermente planata. La sabbia attutisce comunque il tutto e lei si ritrova a schermarsi con un Protego per salvarsi dall'attacco frontale. Lancia un'ultima occhiata verso l'alto, come a volersi sincerare di dove sia Marian, prima di lanciarsi in battaglia. La bacchetta diventa il prolungamento del suo braccio e ad ogni colpo risponde con uno altrettanto tagliente. « Oblatro! » Le onde sonore si propagano dalla punta del legno costringendo l'uomo a portarsi entrambe le mani a coprire le orecchie con forza. E mentre lui si getta a terra, lei si avvicina e senza pensarci due volte gli tira una gomitata sul volto che lo fa cadere di lato, privo di sensi. Non ci pensa due volte prima di correre dentro dall'unica porta visibile, perlustrando intorno a sé con Revelio vari ed eventuali per rivelare tutti i vari incantesimi che hanno castato i due a protezione della casa. Collins sta piangendo commosso. Sono sicura che l'avete reso davvero fiero. Pensa in un moto di divertimento prima di essere colpita da uno Stupeficium che questa volta la prende, di sbieco ma lo fa, andando a farla ricadere all'indietro. Scuote la testa, come a volersi far scivolare via l'intontimento momentaneo prima di rialzarsi in piedi, pronta ad affrontare uno dei rapitori della simulazione stessa. Una donna. Lascia cadere lo zaino a terra e prende a lanciare un paio di incantesimi prima di avere giusto una frazione di seconda libera per guardarsi intorno e individuare Marian. La stessa che sta per essere raggiunta da un oggetto volante che non riesce ad identificare sul momento. « Alla tua destra! » Le urla poi, con il fiatone palese nella voce, prima di caricare con tutta la forza che ha in corpo la donna davanti a sé. Gli occhi, per un istante, si tingono di giallo. Il colore della fiera che è dentro di lei e che non vede l'ora di uscire allo scoperto.


    Edited by anesthæsia¸ - 5/5/2021, 21:01
     
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    « Non credo di conoscerli tanto di più. Quando ho lasciato il Quartier Generale, Palmer era un poveraccio che leccava i culi qua e là, provando a ritagliarsi un po' di spazio, l'altro nemmeno lo ricordo. » Ania arricciò le labbra in un’espressione contrariata. Quindi era così che il Mondo Magico inglese mirava a proteggere i propri cittadini: lasciando che fossero i raccomandati e leccaculo a farsi strada, solo per avere un posto comodo ed uno stipendio assicurato per finir di pagare la stupida piscina che a tutti i costi hanno voluto in giardino. Ripensa alle loro facce e li trova ancora più patetici di quanto avesse fatto fino a quel momento. Anastasija aveva visto più volte che mostrarsi ruffiani nei confronti degli insegnanti dell’Accademia non serviva a niente. In più studenti ci avevano provato alcuni in modo più o meno palese sotto l’occhio vigile del Cigno Bianco. Ma lì a nessuno importava niente se non di quanto uno studente fosse bravo a distinguersi per intelletto e prestazioni fisiche. Potevi essere il figlio di un pezzo grosso, come lo era Aleksej Kotov, e a nessuno importava niente. « Sono abbastanza certa, comunque, che abboccherebbero a qualsiasi amo gli venisse lanciato. » Marian annuì piano, come se stesse metabolizzando quelle parole dando a loro un senso. «Impressionante come la comunità magica di questo paese accetti personaggi così scarsi nel corpo Auror.» commentò, quasi sovrappensiero, valutando il peso della situazione. « Ho ricreato Kolmanskop esattamente com'era nei miei ricordi. Questo vuol dire che loro dovrebbero essere nei pressi del centro abitato. Avvicinarci è l'idea migliore, per poi valutare la situazione, sì. » Annuì. Qualsiasi altro dettaglio sarebbe stato superfluo: sapevano perfettamente come avvicinarsi ad un posto senza essere notate, come muoversi e rendersi invisibili anche in posti senza particolari nascondigli. Erano state plasmate per quello, da mani sapienti. La fiducia, quella, era tutta un’altra storia. Quando erano all’Accademia si sarebbe gettata nel fuoco se solo la Herondale glielo avesse chiesto. Sapeva, che se glielo avesse detto, era per un bene superiore, perché si fidava di lei. Ora, guardandola, si chiese se sotto quelle vesti civili da ragazza inglese ci fosse ancora la studentessa che aveva conosciuto. « Hai mai più avuto una missione simile all'Incursione? » Una domanda che la coglie di sorpresa, tanto che i suoi occhi andarono a cercare quelli della Herondale, come se si aspettasse di leggervi dentro qualcosa di più, qualcosa di non detto. « In fondo sembri ragionare diversamente, White Swan. » Diversamente. Estrapola quella parola dal resto della frase, concentrandosi su quella, sul modo in cui l’aveva pronunciata, in cui le sue labbra si erano toccate due volte nel pronunciarla. Egoisticamente lo volse tradurre come un complimento. Non poteva essere niente di diverso, si disse. Infondo, da allora, Anastasija ragionava in modo più concreto, più rapido e costruttivo. Non era più una bambina spaventata. Detestava il pensiero di esserlo stata e che, in qualche modo, era così che Bobbie la ricordava.
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    Voleva solo brillare ai suoi occhi, dimostrarle che anche lei era degna dell’Accademia. Era passato anche un mucchio di tempo dall’ultima volta che qualcuno l’aveva chiamata in quel modo, col nome in codice che le avevano dato quando il suo unico scopo era uccidere o estorcere informazioni per mano di qualcun altro. Erano loro il braccio. Un braccio che doveva agire senza pietà, senza sentimentalismi, senza lasciarsi coinvolgere in qualcosa di più. «Si. Una volta. In Iraq.» Non si allungò in ulteriori dettagli se non in uno. «A guidare la missione fu Elina Ivanova.» Te la ricordi Elina, Barbara? La sua branda era vicina a quella di Marian. Aveva i capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sul naso. Nonostante il suo aspetto angelico, i suoi occhi parevano imperturbabili. Sembrava una macchina creata solo per uccidere. «Ha temporeggiato davanti ad un soldato spaventato. Qualcun altro le ha piantato un proiettile in testa.» Aveva pianto la morte di Elina, al suo tempo. Eppure ora la sua voce pareva imperturbabile, come se stesse raccontando una cosa sciocca, quello che aveva mangiato a colazione o del tempo. Era questo che era diventata? A volte si compativa da sola. « Forse ci siamo.. » Si. La tempesta pareva essersi placata. Improvvisamente c’era silenzio, un silenzio quasi surreale. Strisciò anche lei fuori dalla tenda, alzandosi in piedi, passando le mani sui pantaloni pulendoli dai granelli di sabbia caldi e asciutti. « Non possiamo perdere questa finestra di tempo. » La guarda ed annuisce, con un singolo gesto del capo. Assicurò lo zaino sulle spalle, per poi portarsi le ciocche di capelli dietro le orecchie, con le dita. Con le dita, sfiorò la bacchetta infilata nella tasca dei pantaloni. Osservò i movimenti fluidi di Bobbie e l’incantesimo che, indirizzato contro il telefono di uno degli Auror rivali, fece apparire una scia luminosa che le avrebbe portate direttamente al nascondiglio di Palmer e quell’altro. Un passo dopo l’altro, le scarpe affondano sulla sabbia bollente. Alzando lo sguardo all’orizzonte, non riesce a vedere niente che non sia altra sabbia. Ma la scia luminosa, la loro mappa invisibile, indica quella direzione. C’è silenzio. Di tanto in tanto i suoi occhi guizzano verso Bobbie, cercando di decifrare la sua espressione così imperturbabile. Aveva cambiato vita ormai, eppure dentro di lei c’era ancora il soldato che Marian ricordava. Bastava guardarla per chiedersi se la sua vecchia vita le mancasse. Poteva sfidare gli altri due in qualsiasi altra maniera, invece aveva scelto quel modo. L’Incursione. La sentiva, l’adrenalina, i ricordi che affioravano la mente. Loro erano nate per quello. Aguzzò la vista nel vedere i primi tetti apparsi in lontananza. Più si avvicinavano, più sentiva chiaramente il rumore del suo cuore palpitare nel petto. Trovarono riparo dietro il rottama di una vecchia automobile e questo diede loro il tempo di guardarsi intorno. « Dovremmo controllare il perimetro. Sono stupidi ma immagino che avranno messo qualcuno della loro squadra a terra di vedetta. » Anche il soldato più stupido avrebbe preso una decisione così banale. Attese l’ordine di Barbara ed uscirono fuori dal loro riparo. Silenziosamente, in un attimo, sono nascoste contro la parete della capsula dove devono trovarsi gli altri. « Sennò potremmo semplicemente calarci da quel poco di soffitto che è rimasto. Dall'alto l'incursione si gestisce meglio. » Annuì. Da quel poco che ci aveva parlato, quei due non le avevano dato l’impressione di essere due grandi pensatori, né tanto meno grandi strateghi. Perciò imitò i movimenti di Bobbie, seguendola quando questa si arrampicò sull’arbusto reso più forte da un incantesimo. In ginocchio sul tetto orizzontale del rudere, Barbara le stava porgendo la mano. Guardò quelle dita per qualche secondo, protese verso di lei, un’ancora che la Herondale le stava lanciando, senza che lei gliel’avesse chiesto. Rimase lì, tentennante, chiedendosi se raccogliere quel suo aiuto l’avesse mostrata più debole agli occhi della bruna. E se invece non l’avesse afferrata, sarebbe risultata troppo sbruffona? Quanti cazzo di problemi, Ania. Prese la mano di lei, tirandosi si, l’altra mano si aggrappò al tetto, issandosi. Cominciarono a camminare lungo il perimetro, agili e leggere come gatti. Si fermarono solo quando lo squarcio nel soffitto permise loro di poter dare un’occhiata all’interno. Trattenne il fiato, quasi temesse che potesse essere sentita. « Il terzo dov'è? » Ne mancava uno all’appello. Gli occhi di Marian scivolarono da una parte all’altra della stanza, ispezionando ogni punto, quasi si aspettasse di essersi persa qualcosa, di aver dato qualcosa per scontato dentro quel piccolo perimetro. « Io creo il diversivo e tu salvi gli ostaggi. » Si voltò verso di lei, guardandola negli occhi. All’inizio di quell’esercitazione aveva pensato che sarebbe voluta essere lei ad avere la situazione sottomano, ad avere il comando, a brillare agli occhi della ex spia. Ma a quanto pareva non stava andando come avrebbe voluto. Nonostante gli anni, la Herondale continuava a ragionare meglio e prima di lei. Questo la faceva incavolare, ma solo con sé stessa. Non le resta che annuire. Annuì perché sapeva che il piano della Herondale era corretto, annuì perché era lei a capo di quella missione e a lei andava bene. Poi, accadde qualcosa che non avevano messo in conto. Avevano peccato di superbia, dando per contato che quei due fossero solo dei deficienti arrivati lì per caso quando forse, in realtà, erano stati svegli ad una lezione o due. Un lampo di luce sfiorò Bobbie per poi svanire dietro le loro spalle, nell’aria, dissolvendosi come un fuoco d’artificio. Non c’è tempo per penare dove e come abbiano sbagliato. Resta solo di agire. « Mi occupo di lui, te trova il modo di entrare. Ad ogni costo. » Ad ogni costo. E in un attimo Marian era di nuovo lì, a Kolmanskop. No, non Marian. Anastasija. Ad ogni costo. Solo che quella volta in ballo c’era molto di più che scalare le vette lavorative. Eppure, in qualche modo, quei due non erano più due semplici Auror: erano il nemico. Sfilò la bacchetta dalla tasca, guardando verso il basso, oltre il buco nel soffitto. Erano spariti tutti: gli ostaggi e quello di guardia. Prima che si possa chiedere dove sia finito l’Auror spavaldo, improvvisamente si sente la terra mancarle da sotto i piedi. Cade giù, ma è abbastanza rapida da evocare un Protego che la salvaguardi dalle macerie. La sfera protettiva sparì, lasciando entrare l’aria pesante che si era creata attorno all’abitazione. C’è polvere, polvere ovunque. Piegò il braccio attorno alla faccia, infilando il naso nell’incavo del gomito. Poi, tra le macerie, un lampo di luce fende l’aria, sfiorandole la spalla. Marian si voltò e cominciò a correre per allontanarsi da quella polvere che, lentamente, si stava abbassando. E poi finalmente l’aria tornò lentamente respirabile. E lo vide. «Engorgio Skullus!» L’incantesimo colpì l’uomo, uno creato dalla simulazione, la cui testa si gonfiò fino a quadruplicare il volume. L’uomo perse l’equilibrio e a quel punto la donna gli lanciò contro un Ebubio che colpì l’uomo in una raffica di bolle esplosive. L’uomo cadde a terra come un sacco vuoto e la sua testa tornò normale. « Alla tua destra! » Come un soldato ben addestrato, il suo corpo agì d’istinto, proteggendosi da qualsiasi cosa stesse arrivando. Un incantesimo si infranse contro lo scudo appena in tempo, costringendola ad indietreggiare. Uno dei due Auror spavaldi della palestra gli stava davanti e continuava a fendere incantesimi nella sua direzione. Il suo scudo parve vibrare nell’aria. Tra non molto si sarebbe infranto. Doveva cogliere il momento giusto. Si mise a contare. Contò i secondi che ci volevano ad un uomo tra un incantesimo e l’altro. E fu allora che colse l’opportunità. Non appena l’uomo lanciò l’incantesimo, lei glissò di lato, abbassò lo scudo e lanciò un Dismundo che colpì l’uomo in pieno petto. Lo vide strabuzzare gli occhi, confuso, mentre si guardava intorno. La sua espressione mutò, come se ciò che stava vedendo fosse terrificante. Cominciò ad urlare e a muovere le mani, come se stesse scacciando via degli insetti. Marian si voltò verso Bobbie. La vide lanciarsi in direzione di una donna. Trattenne il respiro. E fu allora che qualcosa catturò la sua attenzione. Il rottame della macchina. Quello dietro il quale si erano nascoste. Dentro c’era qualcuno. Gli ostaggi! Quelli dentro l'abitazione dovevano essere un'illusione, un'illusione che per qualche motivo era scomparsa. Che Bobbie avesse evocato un Revelio? Doveva ammettere che quei due non erano così stupidi come sembravano. Corse, precipitandosi verso il rottame dell'automobile. Possibile che adesso sia così facile? Arrestò la sua corsa, voltandosi ancora una volta verso Bobbie. Neanche per un secondo aveva nutrito il dubbio che quella donna creata dalla simulazione potesse avere la meglio su di lei. Ciò che non poté fare a meno di notare, fu lo sguardo della Herondale. C’era qualcosa di diverso in lei, nelle sue movenze.. Ma forse, pensò, era solo passato un mucchio di tempo da quando avevano combattuto fianco a fianco. «Bobbie!» gridò in direzione della bruna. «Gli ostaggi sono nell’automobile e..» Poi qualcuno l’afferrò e le parole le si bloccarono in gola. Sentì una mano prenderle i polsi e qualcosa che le premeva sulla tempia. Una bacchetta. Aveva ancora le labbra dischiuse per la sorpresa. Avrebbe voluto ridere i se stessa. Davvero si era distratta così in fretta nel guardare il metodo di combattimento di Barbara? Così in fretta da non aver sentito quell’idiota avvicinarsi? «Fine dei giochi, tesoro Era la voce di Palmer. Doveva essersi rialzato senza che se ne accorgesse. «Abbassa la bacchetta, Herondale, e alla tua amica non succederà niente.» aveva il fiatone. Premette di più la bacchetta sulla tempia della Dixon, ma il volto di Marian non mutò. «Abbiamo vinto, bellezza. E ora, non ti resta che arrenderti.» Un vero soldato non teme alcun pericolo. «Barbara.» Gli occhi della russa cercarono quelli della Herondale. Un vero soldato non teme la morte. Se avesse posato la bacchetta, avrebbero perso. Se si fosse diretta verso gli ostaggi avrebbero avuto almeno una possibilità di vincere. Si, se fossero stati davvero in guerra Marian sarebbe morta. Ma un vero soldato l’avrebbe fatto per il bene della causa. Era tutto nelle mani di Bobbie. «Ad ogni costo.» Glielo aveva detto anche lei. Anche a costo della vita. Vincere era l’unico scopo. Se ciò significava sacrificarsi, lo avrebbe fatto a testa alta. Fallo. Fidati di me.

     
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    I muscoli del braccio destro di Barbara guizzano in avanti, mentre il pugno chiuso continua a colpire la sua assalitrice, con la forza della bestia che le monta in petto, in colpi che appaiono casuali ma che assesta invece seguendo un piano ben preciso, che trova la sua attenzione nel momento in cui la simulazione cade sulle ginocchia, un rivolo di sangue che fuoriesce dall'angolo della bocca e la stanchezza che sembra prendere la meglio su di lei. Ha il fiato corto mentre si piega in avanti, per riprendersi giusto un po', con le mani che vanno a sfregare le ginocchia per togliere alcune tracce di sabbia, in un istinto impulsivo tanto lontano dalla razionalità che le ricorderebbe che persino quei granelli dorati non sono altro che finzione. Eppure la sensazione che quella è la sua realtà persiste, macchinosamente. «Bobbie! Gli ostaggi sono nell’automobile e..» Segue la voce della ragazza ed è in quel momento che Palmer ha inaspettatamente la meglio su di lei. La mora rimane immobile, presa alla sprovvista probabilmente come lo è stato per Marian, la stessa che la guarda con occhi sgranati, labbra dischiuse, polsi legati e bacchetta puntata alla tempia. La confusione che si riflette negli occhi cangianti di Bobbie nel momento esatto in cui la donna della simulazione le sferra un calcio all'altezza del ginocchio destro, facendola piegare di lato, con un ringhio smorzato dalla barriera dentaria. Si volta a guardarla, perdendo il contatto visivo con Marian, e lo sguardo è furente, sembra urlarle "Come ti sei permessa?" Di certo la Herondale non può non domandarsi come sia possibile che si sia ripresa in così poco tempo. Mi sa che devo rivedere un attimo l'algoritmo della verosimiglianza nei tempi di recupero, pensa, giusto un attimo prima di sferrarle un calcio in piena faccia, senza scrupolo alcuno. La donna, a quel punto, cade a peso morto all'indietro, riaccasciandosi a terra, facendo sì che la mora possa rialzarsi in piedi con un salto in avanti. «Abbassa la bacchetta, Herondale, e alla tua amica non succederà niente.» Bobbie dal canto suo sorride e persiste, con la bacchetta ben sfoderata di fronte a sé, gli occhi verdognoli in cui appaiono fulminei cerchi gialli. Il colore della fiera. «Abbiamo vinto, bellezza. E ora, non ti resta che arrenderti.» Oh, ma davvero credi di aver vinto quindi? Quanto sei tenero. Scandaglia il perimetro intorno a sé con la coda dell'occhio per scorgere movimenti dal compagno dell'uomo. Niente. Deve essere ancora tramortito dalle onde sonore. Valuta velocemente le sue opzioni, mentre l'Auror continua a fare la sua scenetta. Lui parla, Barbara non accenna minimamente a rispondere. No, lei pensa, come una macchina, vede le varie opzioni materializzarsi di fronte ai suoi occhi, come fossero oleogrammi colorati pronti ad essere valutati e soppesati. «Barbara.» E' la sfumatura ferma della voce di Marian che le fa sbattere le palpebre, portandola a guardarla. E' ancora lì, non ha provato a fare nulla. E' semplicemente ferma mentre aspetta di sapere quale fine farà. Fossero state in battaglia, lei sarebbe già morta. E probabilmente anche Bobbie lo sarebbe stata. Stiamo tentennando troppo. Stiamo pensando troppo. Abbiamo un obiettivo e a quello dobbiamo rimanere fedeli. «Ad ogni costo.» Anche la bionda arriva, insieme a lei, alla stessa conclusione. E allora semplicemente agisce, buttandosi a capofitto nella missione, così come si comporterebbe in battaglia. « Fùlmen! » La bacchetta si alza verso l'alto e un fulmine si abbatte davanti a Palmer e Marian. Lo sente urlare mentre ha dato già loro le spalle per correre via verso la macchina, veloce per quanto la sabbia le consente, con ogni passo che affonda ed è sempre più difficile da ritirare su, ma continua. Spera che Marian abbia chiuso gli occhi. In caso, sono solo quindici secondi di fastidio. Quindici secondi, la sua finestra per il salvataggio degli ostaggi. Quando è a portata della maniglia del passeggero, casta un bombarda che la fa saltare via, insieme allo sportello che le vola abbastanza vicino da sfiorarla. Ed è soltanto allora che chiude il cerchio del suo piano d'azione, quando sente Palmer rivolgersi a lei. « Scelta sbagliata, Herondale. Sectumsempra! » L'Auror lancia il suo incantesimo a Barbara. La Barbara che sta vicino alla macchina, mentre gli ostaggi stanno scendendo da essa, sbavagliandosi l'un l'altro, ringraziandola con sguardi grati e sorrisi. La Barbara che ha già concluso la partita, segnando il punto per la sua squadra. Ma Palmer la colpisce alle spalle, come il vigliacco qual è. E Barbara crolla a terra, con il sangue che prende a zampillare fuori dalle numerose ferite che le si aprono sul corpo. Trema qualche secondo prima di svanire nel nulla. Come una visione. Come un'allucinazione.
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    « Abbiamo vinto, tesoro. E ora, non ti resta che arrenderti. » E' Bobbie a sibilare quelle parole alle orecchie di Palmer mentre tiene ben piantata la propria bacchetta contro la schiena di lui, mentre la mano libera corre ad agguantargli il gomito del braccio che tiene ancora Marian costretta a terra. Glielo stringe, con abbastanza forza da sentire le vene pulsarle sotto i polpastrelli. « Tzè, tzè, tzè. » Scocca la lingua contro il palato mentre scuote la testa in risposta allo strattone che Palmer le dà per cercare di liberarsi. Poi lo vede guardarsi intorno. « Il tuo principe azzurro è tra le braccia di Morfeo da un pezzo, non ti verrà a salvare in sella al suo cavallo bianco. Mi dispiace deludere le tue aspettative. » Commenta con un sorriso prima di dargli una ginocchiata sul dietro delle sue di ginocchia facendolo crollare in avanti, lasciando così la presa sulla bionda. Punta la bacchetta contro i lacci intorno ai suoi polsi e poi le lancia un'occhiata, fissa, che sembra volerle comunicare molto di più di quanto potrebbe mai fare una come lei a parole. Un tempo l'avrebbe sacrificata in nome della causa, se ce ne fosse stato bisogno. Non si sarebbe voltata indietro per il bene comune. Avrebbe fatto il suo dovere guardando avanti, fissa sull'obiettivo, piangendo dentro, non dando nulla a vedere all'esterno. Perché non c'è spazio per la debolezza, non c'è spazio per creare legami che intralcino soltanto le proprie emozioni. Ma ora non è più un tempo. Ora è diverso. Ora è così che gioco. Non più come l'Accademia ci ha insegnato. Ora non lascio più indietro nessuno, se ci riesco. Per un attimo pensa a Stefan. Pensa ad Erin e il suo sguardo si indurisce, giusto in tempo per incontrare quello di Palmer. « Game over! » Sentenzia mentre di colpo gli ostaggi scompaiono, la casa si disintegra, la sabbia svanisce e la sala dalla quale sono partiti si materializza nuovamente intorno a loro, nel suo essere spoglia e priva di qualsiasi orpello inutile al di fuori del computer. L'altro è ancora steso a terra ma si sta risvegliando, con la mano portata alla fronte, a rendere palese il dolore che prova e il rincoglionimento nel quale è sicuramente caduto per colpa dell'incanto che gli ha lanciato contro. Un lieve sorriso la porta ad alzare l'angolo destro delle labbra mentre si avvia verso il computer. Pigia un paio di bottoni, con le luci che si vanno affievolendo intorno a loro. « Mentre noi andiamo al pub qua vicino non riesce a non far trapelare una risatina nel citare le parole di Palmer «- pensate a chi di voi due farà un passo indietro. In fondo non c'è stato qualcuno che ha fatto più schifo dell'altro. Vi siete equiparati. » « Ma veramente..» Si avvicina a Palmer, sorridendo mentre gli mette sotto il naso il cellulare che le ha condotte a loro con tanta facilità, sul volto un'espressione piuttosto accondiscendente quando gli apre la mano per lasciarselo scivolare sopra. « Sicuro di voler ribattere? » Continua, tronfia prima di lanciare un'occhiata all'altro che, a fatica, si sta rimettendo in piedi. « Mi raccomando, chiunque sarà tra di voi che sia convincente, non vorrete di certo far insospettire Collins. » Torna a Palmer. « O far incazzare me. » Lo fissa, questa volta è tetramente seria, senza alcun accenno di emozione in viso. Lo scarta poi di lato, avviandosi verso la porta, sentendo la presenza di Marian alle sue spalle. Per ricominciare guardarmele magari, come un tempo? Chissà.

     
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