Personal Jesus

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    Dovresti dormire, Winter — è vero, dovrebbe dormire. Trattasi di un martedì ormai passato ed un mercoledì appena iniziato, la sveglia digitale sulla mensola dell’armadio accanto al suo letto segna l’una e ventisette. L’una e ventisette di un mercoledì notte, in cui a Notting Hill non si sentono manco i gatti miagolare placidamente per la strada. Notting Hill cade silente, nel buio di un giorno insignificante di metà settimana, questo l’ha imparato tempo fa.
    Kix si è rintanata nella sua stanza abbastanza presto, e Winter non saprebbe dire con certezza se l’allenatrice stia dormendo o meno — non ha sentito nemmeno un rumore sospetto provenire da oltre la sua porta, però, quindi può essere che si sia addormentata.
    E nonostante ci abbia già provato per una ventina di minuti, Winter, Morfeo non riesce proprio a vederlo, figurarsi guardarlo negli occhi ed implorarlo ti prego fammi dormire, domani devo studiare, se dormo troppo e non mi presento in biblioteca mi ammazzano.
    Sorprendentemente — non l’avrebbe mai detto! — questa prima sessione si sta rivelando più fruttuosa delle precedenti. È riuscita già a portare a casa tre risultati soddisfacenti, ed ha l’ultimo sforzo in programma per febbraio — con questo riuscirà a chiudere il capitolo secondo anno e concentrarsi sugli esami del terzo, tutto in una sola agonia. A volte è costretta a fermarsi, lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi grandi della rivelazione che sì, ce la sta facendo. Che doveva essere la cosa più difficile che avrebbe mai potuto fare nella vita, ed invece ce la sta facendo. La sua carriera scolastica ne è la prova. Quei chili in più ne sono la prova. La parvenza di un sorriso quasi perenne ne è la prova. Certo, le manca — ci sono giorni in cui le manca così tanto da scavarle le ossa, ma passano. Sta meglio, ed avrebbe dovuto provarci una vita fa — non lo ammetterà ad alta voce, soprattutto a Zip, che si arrogherebbe il diritto di dirle che gliel’aveva detto. È vero, che gliel’ha detto, così tante volte negli anni.
    Il suo cervello si è soffermato sullo stesso pensiero già la settimana scorsa — ha iniziato a drogarsi a quindici anni, ed è passato così tanto tempo che il solo sentore dello scorrere degli anni è sufficiente a provocarle un infarto momentaneo. È vero, è vero che avrebbe potuto fare di meglio nella vita. È vero che non ha fatto altro che sabotarsi da sola, che portarsi addosso gli sguardi di sdegno di Lydia, che con sdegno in realtà non è mai arrivata a guardare neanche suo marito. È vero che si è merita che sua sorella abbia fatto fatica a guardarla in faccia fino a qualche mese fa, è vero che avrebbe potuto fare di più.
    Ecco, è questo che toglierebbe della vita senza la droga, però — i pensieri, i pensieri che corrono più veloci del suo cervello, e le fa male la testa, e non riesce a dormire.
    Ha le cuffie nelle orecchie, Winter, il filo arrotolato sotto al mento, quando sente un toc sospetto. Silenzio. C’è seriamente qualcuno che ha gridato il mio nome? Quello sembrava il mio nome. Toc. È la finestra!
    Maledicendo ogni figura del creato dalla preistoria al novello 2021, Winter si convince ad infilare un piede fuori dalle coperte per trascinarsi, con il piumone addosso, fino alla finestra. «Io giuro che se è qualche uccello che si sta suicidando smatto», ma non è un uccello. Svariati piani più sotto, le sembra di intravedere la figura di Léon, con il volto illuminato dalla luce dell’unico lampione funzionante per cento metri della via. Alza le mani, come per fargli capire che okay, l’ha sentito — gli fa segno che scende per parlare. Infila gli anfibi sopra al pigiama, afferra il pacchetto di sigarette lasciato sul comodino e si lancia alla porta, la mano sulla maniglia. Il giaccone!, lo prende con mano decisa dall’attaccapanni all’ingresso, allora, prega che qualcuno gliela mandi buona, per una volta, ed esce.
    Nella breve corsa dell’ascensore, si guarda allo specchio — tutto sommato sembra quasi presentabile, e da quando ha buttato la coca nel cesso la pelle è migliorata molto. Non è mai stata così bella, forse, e sarebbe superficiale ammettere che fatica a smettere di fissarsi allo specchio — è un segreto che tiene gelosamente per sé, forse anche perché abbastanza non si è mai sentita.
    Supera il portone all’ingresso, se lo richiude alle spalle, scende le scalette, si ferma faccia a faccia con l’amico che non vede da troppo tempo — il fatto che le è mancato per davvero le piove addosso solo in quel momento, e piega le labbra in un mezzo sorriso. «Sai che a suonare al campanello facevi meno casino? Ma che stavi facendo? Lanciavi sassolini?», è incredula e forse quasi esasperata, Winter, ma le viene da ridere, e fatica a nasconderlo. «I vicini prima o poi mi denunceranno- ce l’hai un accendino?», domanda, prendendo una Marlboro con i denti dal pacchetto.
     
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    Non ci diciamo mai niente. Continuiamo a radunarci senza sapere assolutamente nulla l'uno dell'altro. Si portò il bicchiere di champagne alle labbra, vicino a quel viso pietrificato in un'espressione di completa apatia. Passavano così le serata insieme ai suoi colleghi: a non dirsi nulla, chiudendosi in qualche salottino di lusso o nel privè di un locale alla moda, semplicemente perché potevano permetterselo..e perché in fin dei conti non avevano nessun altro. Forse anche se ci andasse di parlare non avremmo nulla da dire. Condividiamo il silenzio, senza sentire l'urgenza a nascondere il fatto di non avere argomenti o di provare totale indifferenza nei confronti l'uno dell'altro. Lasciamo che questo vuoto, questa profonda apatia sgorghi spontaneamente dai nostri volti inespressivi. Ogni tanto qualcuno rompeva il silenzio con un commento superficiale e completamente trascurabile a cui veniva risposto nella stessa maniera, solo per poi ricadere nel silenzio. Lo sguardo di Léon si spostò verso le vetrate del privé, osservando il marasma di gente che si dimenava al ritmo della musica techno al piano inferiore. Lì, dove si trovavano loro, ogni rumore era attutito, distante. Una bolla che li divideva dal resto del mondo, impendendo a chi non ne faceva parte di entrarvi, ma anche a chi ne era membro di uscirne. Civiltà e barbarie. Da un lato i corpi sudaticci di quella massa informe di carne, dall'altro la perfezione alabastrina di quel tragico Olimpo. Le persone invidiano davvero questa vita? « Avete sentito di Summer? » Si voltò verso Xandra, intenta e rigirarsi tra le dita ossute la propria flute. Una tipica top model alta un metro e settantacinque per quaranta chili scarsi di peso. Gli occhi azzurri risaltavano come due palle vitree che le sporgevano dal viso spigoloso. Una volta era svenuta in un caffè e si era messa a piangere perché la barista le aveva dato dell'acqua zuccherata: uno smacco che aveva dovuto appianare con due giorni di digiuno e il licenziamento della povera ragazza. « Ha vomitato in passerella durante la fashion week. Praticamente non si fa vedere più in giro. Credo che l'agenzia l'abbia silurata. » Léon prese un sorso di champagne, fissando il volto della collega senza alcun interesse nei confronti della materia. « Alla buon ora. Era un ippopotamo. Magari si troverà un'agenzia per modelle curvy. » Le labbra del ragazzo si incurvarono in un sorriso millimetrico, completamente privo di emozioni. Summer pesava quarantasette chili. Praticamente una balena in confronto alle altre ragazze in quel privè, che si nutrivano di tofu e odio interiorizzato per se stesse. Sotto sotto si odiavano tutti, lì dentro. Odiavano se stessi e odiavano gli altri. Erano continuamente esausti, sull'orlo di una crisi di nervi o di svenire per la malnutrizione. I ragazzi non facevano alcuna eccezione: la maggior parte di loro andava avanti a petto di pollo, insalata e frullati proteici - Léon in primis. A un certo punto cominci a vedere tutto quanto come se fosse cibo. Anche le persone. Ti verrebbe da azzannare una guancia paffuta e consumare tutto ciò che puoi come un animale rabbioso. Si alzò senza dire nulla, e nessuno fece domande, avviandosi verso il bagno di marmo riservato all'area del privè. Rispetto alle toilette del piano inferiore, era immacolato. Frugò nelle tasche dei pantaloni, estraendone una bustina contenente quella polverina bianca che ormai sembrava essere diventata il suo salvagente ogni qualvolta sentisse montare dentro di sé quel misto di solitudine, odio e disgusto che sembrava una costante nella sua vita da che ne aveva memoria. Preparò una striscia sul piano del lavandino, arrotolando una banconota e tappandosi una narice per risucchiare tutto come un'aspirapolvere. Sollevò il capo, chiudendo gli occhi per concentrarsi sui battiti accelerati del proprio cuore che si sincronizzavano con la musica ovattata. Tu-tum. Tu-tum. Tu-tu-tum. Tu-tu-tum. Poteva smettere quando voleva, ma non lo voleva. Ne aveva bisogno. Era necessario. Senza quella medicina non sarebbe stato in grado di sopportare i propri stessi pensieri, la presenza degli altri, o anche solo la propria esistenza vuota e insignificante. Forse qualcuno gli avrebbe detto, dall'alto di una presunta superiorità, che la soluzione era semplice: doveva smettere di frequentare quegli ambienti e fare qualcosa che davvero gli piaceva. Ma a me non piace nulla. Non c'è nulla che mi faccia felice. Nulla. E odiava che per gli altri, invece, ci fosse.
    « WINTER!! » Aveva provato ad arrampicarsi sulla facciata del palazzo con ben poco successo. Quei posti non erano esattamente studiati con il free climbing in mente. Tragico. « WINTER!! » « MA CHE TI URLI?? SONO LE UNA E MEZZA. VAI A DORMIRE, MASCALZONE! » lo rimbottò la voce di un vecchio signore dalla finestra di un palazzo vicino. Sbuffò, camminando in tondo per qualche secondo prima di raccogliere qualche sassolino dalla strada e scagliarlo verso la finestra della Bouchard. Uno. Due. Tre. Al quarto, la ragazza finalmente si affacciò, dando modo a Léon di farle qualche cenno confuso che poteva significare sia un invito a scendere in strada, sia una richiesta di farlo salire in casa. In realtà non lo sapeva neanche lui, quale delle due. Scese lei. La prima cosa che notò fu il cappottone che si era buttata addosso. Deformazione professionale. Lui, al contrario, sembrava in tenuta primaverile, con la sua camicia arrotolata fino ai gomiti. Tutti parlano del gelido clima inglese perché non hanno mai visto quello di Seoul. Spesso in inverno l'acqua si gela nelle tubature e dai rubinetti non esce nulla. « Sai che a suonare al campanello facevi meno casino? Ma che stavi facendo? Lanciavi sassolini? » Si appoggiò con una spalla al lampione, scuotendo leggermente il capo con aria noncurante. « Non volevo svegliare la tua coinquilina. » La coinquilina no, ma evidentemente tutto il resto del vicinato sì. Léon Hyun sfuggiva alla logica. « I vicini prima o poi mi denunceranno- ce l’hai un accendino? » Si frugò nelle tasche, estraendone un clipper che avvicinò alla sigaretta della ragazza, accendendogliela. Rimase in silenzio per qualche istante. Perché sono venuto qui? Probabilmente perché era annoiato e incazzato. E poi si sentiva solo. Un sacco solo. Se fosse rimasto un secondo di più in quel privè, probabilmente avrebbe cominciato a tirare bottiglie al muro. A volte vorrei farlo: prendere cose a caso e sfasciarle, urlando fino a che non mi si strappano le corde vocali. Non ci perderei molto, non ho niente da dire in ogni caso. Non ho nulla di cui parlare, nulla da condividere. Se pure lo avessi, non saprei come articolarlo. Suona tutto così confuso quando lo dici ad alta voce. Erano tanti i pensieri che si accavallavano nella testa del giovane coreano, tante le emozioni schiaccianti che sentiva costantemente nel proprio petto, ma la sua incapacità di parlarne o di dargli anche solo una forma ostacolava ogni forma di comunicazione, facendo appassire ogni sfumatura su una sola parola: frustrazione. Ciò che lo faceva innervosire ancor di più, tuttavia, era la propria incapacità di trovare un vero e proprio colpevole a cui imputare tutto ciò. E allora ne trovava diversi, scaricandovi sopra il peso di tutto. « È questa la strategia? Far finta di nulla? » chiese di colpo, puntando le iridi in quelle di lei. « Una chiacchierata e domani sarà tutto come prima: due estranei. » Scosse il capo, lasciando che quel moto di profonda solitudine e frustrazione lo investisse in piede, accaldandogli il volto. Perché è così facile ignorarmi? Tirò su col naso, ricercando nella tasca dei pantaloni quella bustina da cui aveva attinto poco prima. Prese il polso di Winter, schiaffandole sul palmo l'involucro di plastica lucida e fissandola negli occhi in silenzio. La sua espressione si ammorbidì velocemente, passando in maniera repentina dalla rabbia alla muta preghiera. « Voglio che le cose tornino come prima. Sto una merda da solo. » disse a bassa voce, quasi un filo. Possiamo divertirci ancora, come facevamo prima. Era divertente, vero? Io mi divertivo. Perché te ne sei andata? Perché mi hai lasciato a me stesso? « Ti prego. »

     
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    Wings wouldn't help you
    Wings wouldn't help you down
    Down towards the ground, gravity's proud



    Clic — inspira il primo tiro, lasciandolo però sfuggire oltre alle labbra con uno sbuffo. È superstiziosa, Winter, e gira voce che il primo tiro porti sfiga, così come la prima sigaretta del pacchetto nuovo vada girata al contrario, e fumata per ultima. Una serie di regole, di dettami di cui si è circondata sin da quando non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo. Perché non aveva la minima idea del guaio in cui si stava cacciando, Winter, prima di sguazzarvici dentro a malapena ed annegare.
    Come sarebbe la sua vita, ora, se avesse detto no al momento giusto? Non lo sa, ed è forse questo a raschiarle le pareti della gola di tanto in tanto. Forse era semplicemente destino — se l’è detto tante, tante volte nel corso degli anni, per convincersi di non avere scelta, di non poter dire di no, solo perché dire di sì le faceva comodo.
    Ha paura di sollevare gli occhi in quelli di Léon — ha paura di trovarci dentro la stessa solitudine, specchio della sua di qualche anno fa, tornata dalla clinica di riabilitazione. Un tossico è solo, fuori dal suo giro, quella è una cosa che le hanno insegnato subito, e che ha potuto toccare con mano abbastanza presto. Nessuno, qui, è tuo amico, questo glielo diceva il pusher di Vancouver che le ha venduto la coca per la prima volta. Ed è vero — nessuno sarebbe venuto a salvarla nel momento di bisogno, tra i bassifondi della sua città natale, e, in fondo, nemmeno in Inghilterra.
    Eppure a Winter importa forse troppo, più di quanto dia a vedere — le importa delle persone, e soprattutto di Léon, che in quel casino ci si è trovato per colpa sua.
    « È questa la strategia? Far finta di nulla? », solleva di colpo il capo, puntando gli occhi nei suoi, « Una chiacchierata e domani sarà tutto come prima: due estranei. », la costringe ad abbassare lo sguardo, a piegare le labbra in una smorfia piatta.
    A Léon, che ha smesso e quanto sia importante esserci riuscita, per lei, Winter non l’ha spiegato — ha semplicemente tagliato i ponti, incominciato a rispondere ai messaggi sempre più lentamente, sempre più di rado, non per disinteresse ma perché il senso di colpa la schiaccia come un macigno. Vederlo fa male esattamente come aveva immaginato, le fa male, la porta a dubitare se in comune, oltre alla dipendenza, hanno mai avuto qualcosa. Certo, passare il tempo con lui era divertente — non si divertiva così da tanto, troppo tempo, parlare a raffica, per davvero, di niente e di tutto allo stesso tempo. In fondo, durante gli anni più duri della sua vita la dipendenza non era diventata nulla se non una zavorra da portarsi dietro — conoscere Léon, invece, aveva riportato con sé la spensieratezza che ha sempre inseguito in maniera così disperata.
    «Non è così», tenta di spiegare, Winter, le labbra poi impegnate a respirare una boccata di sigaretta, «È solo che-», ma non fa in tempo a finire la frase, sussultando quando la mano del ragazzo si stringe attorno al suo polso. Fa per strattonare il braccio d’istinto, Winter, quando le si gela il sangue nelle vene — è tardi per scostarsi, ormai l’ha vista. E sulla sua mano, come per magia, ora siede la sua più grande sconfitta e la sua più grande vittoria.
    « Voglio che le cose tornino come prima. Sto una merda da solo. Ti prego. », chiude gli occhi, Winter, come per prendersi il tempo di reagire.
    Forse è vero, che l’adrenalina è la droga più forte di tutte — ha bisogno di pensare, di fermare il film e riflettere, ma non può. Si sente le braccia molli, così come le ginocchia. Fa più freddo di quanto si aspettasse, ha le gambe intorpidite, e la brutta sensazione che una lacrima le si stia gelando sulla guancia. «No-», apre gli occhi, con fatica, con paura. Gira la mano, lascia cadere la bustina per terra, «Mettila via», è più una preghiera che una silente minaccia, ma la paura che le scivola lungo la spina dorsale è paragonabile solo a quando, anni fa, è andata in overdose. È divertente, come lo sai, quando sta per succedere, come tu abbia solo il tempo di pensare Oh, cazzo e cadere per terra, a strozzarti col tuo vomito.
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    «Léon», si allontana di qualche passo per poi lasciarsi cadere sul bordo del marciapiede, quasi in preda ad una crisi isterica — respira, Winter. Non riesce a guardare per terra, perché sa che perderebbe la testa, e non se lo può permettere. «Io ho smesso qualche mese fa», glielo comunica in maniera sofferente, con la testa tra le mani, «Sono stata una stronza ad allontanarmi, ma-», avevo paura di questo, «ma avevo- non riuscivo a dirtelo, e- poi passavano le settimane, e poi… mi dispiace», lo guarda negli occhi per un momento, stringendosi nelle spalle. Sono una cretina, ma lo sanno entrambi, l’hanno sempre saputo tutti, «Mi sei mancato, e avrei potuto gestirla molto meglio- hai fatto bene a venire. Possiamo parlarne, adesso che sei qua, possiamo- ci possiamo divertire in altri mille modi diversi, ma, ti prego, mettila via».

     
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    Come diceva quella frase famosa? Era di un filosofo, mi sembra. Non ricordo. Non so molto di filosofia occidentale in realtà. Per me qui è tutto nuovo. Però mi sembra che ne avesse parlato un professore in una qualche lezione qui al college. Ah sì, ecco! « Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te ». No in realtà non sono uno bravo con queste cose - con le parole, dico, o con lo studio. A dirla tutta faccio abbastanza pena come studente, però immagino che certe cose ti colpiscano e basta..quando le senti, no? Forse mi ha colpito perché da qualche parte mi ci sono rivisto, in quella frase. Il mio abisso - pensavo - qual è il mio abisso? Pensavo e pensavo, e più pensavo più mi si materializzava di fronte agli occhi quella gigantesca pupilla nera. Quel grosso oblò scuro che tutto vede e tutto cattura, azionato da quella che le luci forti rendono solo un'opaca ombra dalle sembianze umane. Uno scatto dietro all'altro, quella pupilla ti fissa senza sbattere mai le palpebre. Vigile. Io ci ho guardato dentro a lungo. Forse in maniera inconscia, Léon aveva presto appreso quanto potente fosse l'obiettivo di una macchina fotografica - potente al punto da diventare un essere mostruoso dai tratti quasi mitologici. Una coscienza perseguitata dalla propria stessa esistenza, quella del giovane Hyun, incapace di elaborare i traumi e le paure che la popolavano e da cui si generavano continuamente nuovi spettri ed ombre. È possibile sentirsi così consumati? Sentirsi come la facciata di cartone di un palazzo in un set cinematografico? Dettagliatamente realistica e sfavillante da un lato, ma completamente vuota dall'altro. Una semplice illusione. Dio, ogni tanto ripenso a quelle bestie infernali che hanno fatto fuori tanta gente durante la guerra! Che banchetti che si facevano sui corpi che cacciavano. Possibile che esista una creatura che fa la stessa cosa senza essere vista, agendo indisturbata dall'interno? Me la sento addosso. Sotto i bei vestiti, le pose, gli sguardi professionali, oltre il click della macchina..sento quel rumore, quel masticare sadico e vorace che consuma tutto. Ma come puoi scappare, come puoi uscire, dalla tua stessa coscienza? Una domanda, quella, a cui Léon sembrava aver trovato risposta in Inghilterra. Quella risposta gli era stata data da Winter, innescando in lui un circolo di gratitudine, odio e dipendenza dal quale difficilmente si potevano districare le diverse componenti. Le era grato, sì, perché lei gli aveva mostrato l'unico modo capace di mettere a tacere quelle voci martellanti dentro di sé. La odiava, anche, perché una volta svanito l'effetto si sentiva peggio di prima. Però ne era dipendente, tanto da quelle sostanze, quanto da lei che gliele aveva mostrate. Perché? Perché in fin dei conti nella condizione di completa solitudine interiore in cui si sentiva immerso, una parte di sé credeva di aver trovato in Winter uno spirito almeno in parte affine - qualcuno che quella solitudine potesse comprenderla e condividerla assieme a lui, anche solo per qualche ora.
    hFRajMA
    « No - Mettila via. » Le parole della ragazza si riversarono su di lui come una doccia fredda, lasciandolo interdetto mentre un sentimento a metà strada tra la frustrazione, la rabbia e la disperazione si insinuava sibilante sotto le sue membra. Ci mise qualche istante ad elaborare le parole e i movimenti di lei, ritrovandosi poi a piegarsi meccanicamente per recuperare da terra il prezioso involucro che Winter aveva gettato, rifiutandolo. Rifiuto. Già. Agli occhi di Léon, Winter non aveva semplicemente rifiutato una proposta o un oggetto. No. Lei aveva rifiutato lui e qualunque forma di rapporto si fosse instaurata tra loro due. Era più di un semplice no - era una questione personale, e come tale il ragazzo la prese nella peggiore delle maniere, sentendosi in qualche modo ferito nel profondo. « Léon. » Strinse le labbra nel sentirle pronunciare il suo nome, scuotendo il capo a scatti quasi come se volesse negarle quell'opportunità nel disperato tentativo di sottrarle anche lui qualcosa. « Sono stata una stronza ad allontanarmi, ma- ma avevo- non riuscivo a dirtelo, e- poi passavano le settimane, e poi… mi dispiace. Mi sei mancato, e avrei potuto gestirla molto meglio- hai fatto bene a venire. Possiamo parlarne, adesso che sei qua, possiamo- ci possiamo divertire in altri mille modi diversi, ma, ti prego, mettila via. » La fissò per qualche istante in silenzio, con quel tipico sguardo vacuo da copertina patinata sul quale ci aveva costruito sopra un'intera carriera. Diamine, Léon era davvero un asso nel privare il proprio volto di qualsivoglia forma di emozione! Il problema, tuttavia, era proprio ciò che si nascondeva dietro al volto. I pensieri, le paure, le angosce tossiche e morbose che ruotavano in continui loop su se stesse. Ma anche ciò che diceva a telecamere spente, lontano dalla terrificante presenza di quella grossa pupilla. « Ah sì? » chiese, atono. « E come? Come ci possiamo divertire, Winter? Andando al cinema? Mangiando gelato mentre ci pettiniamo i capelli e parliamo di superficialità per evitare di pensare a quanto cazzo siamo disfunzionali come esseri umani? » Tutte domande che a Léon apparivano più che lecite. Poteva trovare svago nelle piccole cose, sì, ma mai un reale sollievo. Sembrava impossibile, per lui, spegnere del tutto quella parte del suo cervello che gli faceva percepire un costante senso di insoddisfazione e di ansia. Pur nel distrarsi, quei pensieri sembravano in qualche modo sempre in agguato, pronti a saltargli sulle spalle non appena l'ombra di un pallido sorriso andava a tingersi sulle sue labbra carnose. « Non è vero che ti sono mancato. Non è vero un cazzo, Winter! » sbottò, visibilmente alterato, portandosi la sigaretta alle labbra e scuotendo il capo con veemenza. « Non ti sono mancato perché semplicemente non abbiamo niente in comune oltre a questa..questa roba. » disse, sventolandole la bustina di plastica di fronte al viso come a sottolineare quelle parole. « E io.. » Si guardò intorno, come alla ricerca di parole, mentre muoveva passi avanti e indietro senza una vera e propria direzione, fermandosi poi di fronte a lei. Tirò su col naso, fissando gli occhi nei suoi a palpebre strette. « ..io non lo trovo..giusto. » Ed eccolo qui, Léon Hyun in tuo il suo splendente egoismo. Per lui era ingiusto che Winter si tirasse indietro, che scegliesse di sottrarsi dal circolo tossico in cui si erano crogiolati. Semplicemente non riusciva ad accettare di essere lasciato a sé stesso in quella strada di autodistruzione. Ce l'aveva con lei perché intimamente si sentiva come se lei gli avesse messo di fronte un bel pacco regalo solo per poi toglierglielo e dirgli che in realtà non era per lui. Rimase ancora in silenzio per qualche istante, volendo dire forse troppe cose senza sapergli dare voce. Prese dunque un tiro di sigaretta, raddrizzando appena le spalle e sbuffando dalle narici una risata sarcastica, priva di emozione. « Sai, io ci sono abituato. Ci sono abituato al fatto che alle persone non freghi un cazzo di me. Sul serio, intendo. » I milioni di followers su wiztagram sono solo uno specchietto per le allodole. A quella gente non interessa davvero di me come persona. Non è un caso che il mio account sia prettamente commerciale, depersonalizzato al massimo. Non traspare nulla di me da quei riquadri e quelle frasi stringate che li accompagnano. La maggior parte dei post non sono nemmeno io a scriverli. « Non mi importava nemmeno che a te interessasse, della mia vita. Non mi importava di mancarti, o di essere nei tuoi pensieri. Però pensavo di aver trovato almeno compagnia nella solitudine. Pensavo.. » Cosa pensavo? « ..pensavo che anche se non ti importava, potessi quantomeno capire. Eri l'unica che capiva. » Si portò nuovamente la sigaretta alle labbra, prendendone un lungo tiro. « E invece più che compagnia nella solitudine, forse ero comunque solo pur se in compagnia. » Nel dire quelle parole, le sue labbra tradirono una curva amara, constatando la totalizzante tristezza di quella convinzione dal quale ormai gli sembrava sempre più difficile scappare. Gettò l'ormai mozzicone a terra, calpestandolo con la punta della scarpa lucida. Frustrazione in Versace: per l'uomo che deve chiedere sempre e non riceve mai. « Mi dispiace Winter, ma io non ho bisogno di parlare. Né ho bisogno di divertirmi. Io ho bisogno di non sentire. » Fece una pausa. « O sentire qualcosa di talmente forte da sovrastare tutto il resto. »

     
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    Non fiata, Winter, alle sue prime parole. Si passa la lingua sulle labbra, cercando di non ammettere che abbia ragione. « Non è vero che ti sono mancato. Non è vero un cazzo, Winter! », l’improvviso scatto di Léon la spaventa -- le sue parole che tagliano il silenzio della notte in seguito al suo patetico discorso hanno il duro retrogusto di una cinghiata, dritta al petto. E’ vero, e vorrebbe dirlo, ma ha le parole bloccate in gola. Deglutisce l’aria, la saliva che non scende. « Non ti sono mancato perché semplicemente non abbiamo niente in comune oltre a questa..questa roba. », il tono è più docile, ma quasi le vengono le lacrime agli occhi, anche perché fa un freddo cane e non si sente più le dita dei piedi. Questo è chiaro – questo è vero, è inconfutabile. Certo, le piaceva stare con lui – Winter ricorda benissimo com’era divertente, per una volta, solo essere, senza guardarsi le spalle, senza aver paura di cadere. Ma effettivamente, oltre alla nuova collezione di chicchessia da commentare mentre correvano e rimbalzavano di qua e di là nel pallore della notte londinese, cos’hanno in comune Winter e Léon? Lui così posato, così attento, e lei, che un dito medio a come il mondo vuole che appaia l’ha alzato anni fa?
    Lo vede, Winter, percepisce quanto Léon senta forte sulle spalle la pressione, la necessità di apparire, di mostrare una versione fittizia di se stesso – l’ha sempre odiata ed evitata, ha sabotato da sola così tanti traguardi mai raggiunti per la paura di portare quel peso. «Léon, io-», ci prova, Winter, ci prova – ha solo bisogno di un minuto, ha sempre bisogno di un minuto per impedirsi di entrare in panico. Ma non riesce a continuare, prima che Léon affermi: « ..io non lo trovo..giusto ».
    Perché non lo è. Non è giusto. Si è comportata come una stronza, come una codarda, e non ha nessuna scusa – però non ci ha pensato, però aveva paura. Ma non è una scusa valida. « Sai, io ci sono abituato. Ci sono abituato al fatto che alle persone non freghi un cazzo di me. Sul serio, intendo. Non mi importava nemmeno che a te interessasse, della mia vita. Non mi importava di mancarti, o di essere nei tuoi pensieri. Però pensavo di aver trovato almeno compagnia nella solitudine. Pensavo.. pensavo che anche se non ti importava, potessi quantomeno capire. Eri l'unica che capiva. » Ma io ti capisco!, vorrebbe urlare – ma qualcosa le dice che non ha ancora finito di vomitarle il suo risentimento addosso. Dovrebbe esserci abituata, ma non lo è. « E invece più che compagnia nella solitudine, forse ero comunque solo pur se in compagnia. », sospira dalle narici, stringendo le labbra in un sorriso sbieco. Lascia che si sfoghi – per una volta può essere il sacco da boxe emotivo di qualcuno, soprattutto visto come l’ha mollato col culo per terra. Il vero problema è che ce l’ha portato lei, dalla cocaina – Vuoi divertirti per davvero?, gliel’ha chiesto, la prima volta che l’ha incontrato. Gli ha promesso un mondo nuovo e scintillante, dove niente è come l’aveva mai visto prima. Perfino i profili delle case vibrano, ma non è come calarsi un acido, dove sembra di sguazzare in mezzo al mare dei caraibi anche in un vicolo buio di Vancouver – no, lo sballo da cocaina è diverso. È veloce – è tutto talmente veloce, il cervello segue un ritmo così elevato che il corpo non riesce a seguirlo a tempo. Potresti fare qualunque cosa, essere qualunque cosa.
    È inutile negare che le manchi – è inutile non sentire le vene delle braccia che prudono, che bruciano al pensiero di rimettere le mani su quella bustina. Non tutti le crederanno, ma non è solo mentale – è fisico, le fanno male le dita, le mani, i polsi, le brucia perfino la spina dorsale.
    Chi ci crede davvero che puoi smettere, Winter? Ci credi almeno tu? Ci ha creduto. Ci ha creduto. Sta per avere una crisi di nervi, la sente salire – con l’unghia smaltata dell’indice incomincia a torturare a sangue il pollice, non contenta finché non si fa uscire il sangue. E’ un vizio disgustoso – sì, mamma, è un vizio disgustoso. « Mi dispiace Winter, ma io non ho bisogno di parlare. Né ho bisogno di divertirmi. Io ho bisogno di non sentire. », alza lo sguardo dal cemento per incontrare quello del ragazzo, le labbra che si piegano in una smorfia, « O sentire qualcosa di talmente forte da sovrastare tutto il resto ».
    Léon è dipendente da così poco tempo, eppure ha già capito tutto – è una brava maestra nella via per ammazzarsi, Winter, lo è sempre stata. Gli spacciatori di Vancouver la prendevano con loro nonostante le sfuriate di Zip, e le hanno insegnato qualsiasi cosa. Non era il suo mondo, ma l’aveva reso tale – e forse si sentiva più a casa lì che a casa propria, ma Zip, secondo Winter, non l’ha mai accettato. Lei era ricca, quella non era casa sua. Forse Winter glielo voleva dimostrare, o forse l’ha sempre pensato per non sentirsi troppo in colpa.
    Se lo fai lo perdi per sempre, lo sa. Lo sa. È l’unica ragione che la trattiene – incastra le dita di una mano nella recinzione alle sue spalle. Dovrebbe andarsene, gliel’hanno insegnato – la prima cosa da fare in una situazione del genere è girare i tacchi e tornarsene da dov’è venuta, ma non ci riesce. Ha le gambe molli, i piedi gelati ed incollati all’asfalto del marciapiede.
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    «Lo sai da quanti anni mi drogo?», drogavo, «Drogavo», si corregge, balbettandolo fuori velocemente, «Da quando ne ho quattordici… tra poco ne compio ventidue», otto anni – otto anni, otto anni. «Ho visto e vissuto cose che francamente non penso tu possa immaginare», si stringe nelle spalle, «Ho visto un sacco di persone, adulte, e pure ragazzini… morire senza una ragione, ma dopo un po’ non ti colpisce più. Non è che non ti interessa… ma ti scivola addosso, penso sia un meccanismo di sopravvivenza che il tuo corpo innesta per non farti segare le gambe in due. E allora che fai? Aumenti le dosi perché non ha più lo stesso effetto. E poi vai in overdose. Se sei fortunato ti addormenti e muori- ho visto un sacco di tossici morire così, o soffocare nel sonno nel loro stesso vomito. Ma se sei sfortunato non stai dormendo e te lo ricordi, e io me lo ricordo. Era un martedì pomeriggio, alle due. Non c’è nulla di più anticlimax, vero? Questo mi ha fermato?», ride, al limite dell’isteria, «No, non mi ha fermato. Mi ha trovato mia sorella, e probabilmente l’ho segnata per tutta la vita… e non aveva bisogno di un altro trauma», nessuno ne aveva bisogno, «Ed è un bene- è un bene. Io non ce la faccio più, Léon- devo fare le cose per bene questa volta, questa volta ho davvero qualcosa da perdere, ho troppa carne al fuoco. Sono pulita- completamente pulita, contando anche il viaggio indesiderato al rave, da settembre. Sono cinque mesi. Cinque mesi. l’unica volta che sono stata pulita per così tanto tempo ero in clinica, e stavo di merda. Ora- sto bene. Sto bene», sussurra, «Mi manca», ammette, e si lascia scappare una sola lacrima che scende dritta fino al mento, «Certo che mi manca. Ma- non posso. Non me lo posso permettere».
    E’ la nuda e cruda verità, più di quanto ammetterebbe in un’altra circostanza – ma è stanca, è stanca di fingere, è stanca di mentire. All’improvviso le sembra assurdo quante energie le sembrava di avere negli ultimi mesi – solo rimettere gli occhi su una dose le ha dato una scarica di adrenalina come non le provava da troppo tempo. Ma non ci deve pensare – non ci può pensare.
    «Puoi smettere anche tu, no?», propone, incastrando di nuovo il mento tra le spalle. Che direbbero gli spacciatori di Vancouver? Discorsi da ex-tossica del cazzo.
    Quanti di loro sono morti? Quanti sono ancora a piede libero? Non cambieranno mai, di questo è certa. Non possono cambiare, è scritto nel loro dna. Che cosa ti fa dire che tu puoi-
    «Ti devi fidare di me- ti ci ho portato io, no? Ti devi fidare. È sempre bello all’inizio, è stato bello per- tanto tempo, ma… non hai idea delle cose che ho dovuto lasciare indietro, o di quelle che hanno lasciato indietro me», è una scelta, in fondo. Una scelta tra quale droga sia più potente. Deve solo sembrare abbastanza convincente, non deve lasciare che il tremolio alle labbra tradisca l’astinenza – non se lo può permettere. Non se lo può permettere.

     
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    « Lo sai da quanti anni mi drogo? Drogavo. Da quando ne ho quattordici… tra poco ne compio ventidue. Ho visto e vissuto cose che francamente non penso tu possa immaginare. » Lo abbiamo fatto tutti, Winter. Percorsi di vita radicalmente diversi, costellati di esperienze alle volte addirittura opposte. Il discorso che la ragazza pronunciò, spargendo aneddoti sulle conseguenze della droga, sembrò lasciare il giovane Hyun impassibile, quasi stesse ascoltando niente più che il resoconto di un tipico martedì. Lui, di quelle vite, non sapeva nulla. Non poteva dire di conoscere con mano l'impatto di quelle sostanze sulla propria e sull'altrui vita: sapeva solo come lo facevano sentire, e questo era tutto ciò che gli importava. Dove finiva quella strada, quello era un punto che nei suoi interessi non sembrava rientrare. E no, lui non era convinto di poter smettere quando voleva, né di essere un'eccezione alla regola di tutti quelli che per motivi simili ci avevano stirato le gambe: semplicemente non gli importava. E anche se? E anche se fosse morto soffocato nel sonno? Anche se avesse distrutto la vita di quei pochi che a lui tenevano sul serio? Questo momento è la mia cresta dell'onda. Pensa un po'. Sono all'apice, e comunque mi sento una merda. Da qui c'è solo una direzione, e allora se deve essere peggio di così, che senso ha? Appassire lentamente, un giorno per volta, mentre il mondo guarda il mio corpo riprendere il passo con ciò che si cela al di sotto di esso. Un deterioramento su cui non ho alcun controllo. Ma forse voglio avercelo - il controllo. Forse voglio essere io a decidere il quando, il come e il perché. Forse preferisco distruggermi, invece di lasciarmi distruggere. « Sono pulita- completamente pulita, contando anche il viaggio indesiderato al rave, da settembre. Sono cinque mesi. Cinque mesi. l’unica volta che sono stata pulita per così tanto tempo ero in clinica, e stavo di merda. Ora- sto bene. Sto bene. Mi manca. Certo che mi manca. Ma- non posso. Non me lo posso permettere. » Eppure non sembri star bene. Parole, quelle, che Léon non pronunciò. Non fu delicatezza la sua, né un atto di pietà volto a lasciare che Winter si convincesse delle proprie stesse parole. Semplicemente non credeva che quello fosse il momento o il modo giusto per affondare il coltello nella piaga. Piuttosto rimase impassibile, fissandola con un'espressione congelata che tuttavia sembrava celare un qualche tumulto sottostante. Aveva odiato quel discorso, dall'inizio alla fine. Ogni parola detta dalla giovane Bouchard suonava come un messaggio registrato da pubblicità progresso, scevro di qualsiasi forma di autenticità. E Léon se ne intendeva, di certe cose. Sono la persona meno autentica che ci sia, Winter. Nessuno può capire la finzione meglio di me. Quasi si sentiva offeso, da quelle parole, come se lei lo stesse trattando al pari di uno stupido, di un bambino che corre su e giù per le scale con le forbici in mano. « Puoi smettere anche tu, no? » Fu quella domanda a coronare l'intera situazione, sfondando le barriere dell'inespressività di Léon per dipingere un sorriso sarcastico sulle sue labbra. Abbassò lo sguardo, scuotendo leggermente il capo e sbuffando una piccola risata dalle narici, come se lei avesse fatto una battuta involontaria che solo lui poteva capire. Ma certo, Win. Prendiamoci per mano e cantiamo insieme una canzone sul potere dell'amicizia, che ne dici? E poi uniamoci agli scout. Perché no? Il tenore della conversazione ormai si è spostato su questo, mi pare. « Ti devi fidare di me- ti ci ho portato io, no? Ti devi fidare. È sempre bello all’inizio, è stato bello per- tanto tempo, ma… non hai idea delle cose che ho dovuto lasciare indietro, o di quelle che hanno lasciato indietro me. » Alzò lo sguardo alle stelle, aprendo le labbra e massaggiandosi la mascella in un'espressione puramente esterrefatta. « Fidarmi. » Ridacchiò, con la risata dolce e cristallina di un bambino, che tuttavia nascondeva tra le sue onde sonore un forte cinismo intrinseco. « Devo fidarmi. » ripeté, piegando appena il capo per incontrare lo sguardo di lei. « E dimmi..di quale Winter devo fidarmi? Di quella che qualche mese fa voleva mostrarmi come ci si diverte, oppure di quella che ora sembra uscita da uno spot anti droga? » Sollevò le sopracciglia, interrogativo, quasi si aspettasse una risposta da lei, anche a dispetto della palese retoricità della domanda. « Io davvero non capisco se tu abbia una considerazione talmente bassa di me da pensare di potermi prendere per il culo dritto in faccia oppure se sei semplicemente un'ipocrita. » Ma una cosa non esclude l'altra, vero? « Un po' tardi per pontificare, che dici? » Assottigliò lo sguardo, fissandola dritta negli occhi per non lasciarle neanche un attimo di fiato. Si fece più vicino di un passo, squadrandola dall'alto della propria statura e facendo schioccare la lingua sul palato prima di riprendere parola. « Tu pensi che perché ho un paio di anni in meno e in questo circolo ci sono entrato da poco, allora puoi permetterti di trattarmi come il tuo fratellino scemo. » Fece una pausa, scuotendo piano il capo. « Eppure hai già fallito una volta, come sorella, no? Hai fallito sempre. È questo ciò che emerge dal tuo discorso. Vuoi dare la colpa alla droga perché è un sacco più comodo così. » Estrasse nuovamente il pacchetto di cocaina dalla tasca dei pantaloni, facendoselo saltare sul palmo come fosse un gioco. Lo guardò per qualche istante rimbalzare, riportando poi gli occhi in quelli di lei. « È facile, attribuirgli la responsabilità di tutte le nostre mancanze. Ti dà un alibi. In fin dei conti..basta avere la forza di smettere, no? » Sarà pure difficile, ma è pur sempre qualcosa. Qualcosa su cui puoi agire, che puoi materialmente cambiare. « Ma la verità è che se non ci fosse stata la droga avresti trovato qualcos'altro. Perché il problema non è questa. » scandì, sventolando l'involucro di plastica sotto gli occhi della ragazza. « Il problema sei tu. » Questa roba non ti dà altro se non una momentanea tregua da ciò che veramente è tossico nella tua vita, nella tua testa. Non risolve nulla. E allo stesso modo, neanche disintossicarsi risolve nulla. È un gioco a somma zero. A quel punto aprì svelto la piccola busta, intingendo un dito nella polverina bianca per lasciare che al suo polpastrello si appiccicasse una dose esigua della sostanza. Era poca, ma serviva a provare un punto. Richiuse l'involucro, mettendoselo in tasca per poi appoggiare una mano sul fianco di lei, tirandola a sé per far aderire i loro corpi l'uno all'altro. Si prese un istante per far scorrere lo sguardo dagli occhi alle labbra di lei, velocemente. Quindi sollevò l'indice incriminato tra i loro visi, fissandola in silenzio mentre schiudeva le labbra e tirava fuori la lingua, leccando la cocaina con la punta. Nell'industria corre voce che le donne siano più propense a comprare un rossetto che prende il nome dal cibo o dal sesso. Avvicinò il viso a quello di Winter, inspirando piano il suo odore mentre si aggiustava ai suoi tratti, lasciando poi scorrere lentamente la punta della lingua sulle labbra di lei. E tu, Winter? Cosa sei? Cibo o sesso?

     
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    Well, maybe there's a God above
    As for me all I've ever learned from love
    Is how to shoot somebody who outdrew you
    But it's not a crime that you're hear tonight
    It's not some pilgrim who claims to have seen the Light
    No, it's a cold and it's a very broken Hallelujah


    « Fidarmi. », realizza quanto ciò che ha detto sembri stupido solo a sentirlo echeggiare nella risata di Léon – fidarsi. Fidarsi. Deve fidarsi. E della parola di chi, esattamente? Di un’amica del cazzo? « Devo fidarmi. », e respira, Winter, respira. Abbraccia le parole che verranno, che già sente montare nel tono del ragazzo, e abbraccia pure un po’ se stessa – fisicamente, intreccia le dita della mano destra alla recinzione, accanto al fianco sinistro. « E dimmi..di quale Winter devo fidarmi? Di quella che qualche mese fa voleva mostrarmi come ci si diverte, oppure di quella che ora sembra uscita da uno spot anti droga? », si stringe nelle spalle, Winter, senza lasciare la presa. E’ più che onesto, conviene, ma ha la gola secca, ed il cuore le batte talmente forte che, anche a provarci, non riuscerebbe a parlare. Di quale, Winter?
    Non riesce a smettere di pensarci – non riesce a smettere di pensare alla bustina che Léon ha in tasca, più cerca di non concentrarcisi, più il cervello vi si aggrappa con gli artigli. La sente quasi pulsare sotto al tessuto, sente la plastica sotto alle dita, la polvere sotto alle unghie. Ha potuto – o voluto – dare solo una rapida occhiata, quando l’ha lasciata cadere a terra: così bianca da far impallidire tutta la merda che tirava dentro al naso quand’era solo una ragazzina che non aveva accesso in nessun modo ai soldi di suo padre. Dal momento in cui ha messo piede sul suolo inglese, invece, con sua madre e sua sorella, Peter è stato ben più generoso – nessuna domanda, nessuna spiegazione, ormai allunga i soldi come un bancomat, e glieli fa recapitare tramite Lydia. Ed è ciò che vuole da lui, tutto ciò che vuole da lui. Ha finito di cercare di accontentarlo, di renderlo felice, fiero, in qualche modo. Era così stupida, così stupida, così stupida.
    Fino ad un’ora fa andava tutto bene, tutto così schifosamente bene che c’era da chiederselo quando sarebbe finito. In piedi a qualche passo da Léon, Winter si arrende all’evidenza che dai guai non riuscirà mai a tirarsi fuori – in fondo sono i guai che la cercano, come testimoniano gli strilli del ragazzo sotto alla sua finestra nel bel mezzo della notte. Lei non l’ha chiesto. Lei non l’ha cercato. Non è colpa sua.
    « Io davvero non capisco se tu abbia una considerazione talmente bassa di me da pensare di potermi prendere per il culo dritto in faccia oppure se sei semplicemente un'ipocrita. Un po' tardi per pontificare, che dici? », è forse l’onestà a sbalordirla così tanto, nonostante si aspettasse molto peggio. Ma è tardi per pontificare, ha ragione – ha ragione, ed ormai si sente inutile, ma è troppo tardi per rimangiarsi ciò che ha detto prima. Doveva giocarsela meglio, ma non è mai stata brava a giocare. Prende un respiro, quando lo osserva di sottecchi avvicinarsi con passo felpato, come se fluttuasse – glielo invidia da quando lo conosce, quel passo così tranquillo e sciolto, che pare scrollarsi di dosso tutti i problemi del mondo.
    « Tu pensi che perché ho un paio di anni in meno e in questo circolo ci sono entrato da poco, allora puoi permetterti di trattarmi come il tuo fratellino scemo. », alza gli occhi, Winter, puntandoli in quelli del ragazzo, e scuote la testa, «Non è-» così, ma non fa in tempo a finire la frase, prima che Léon la interrompa: « Eppure hai già fallito una volta, come sorella, no? Hai fallito sempre. È questo ciò che emerge dal tuo discorso. Vuoi dare la colpa alla droga perché è un sacco più comodo così. »
    Sbatte le palpebre, Winter – una, due, tre volte – hai fallito sempre, hai fallito sempre, hai fallito sempre. Hai fallito sempre, Winter – ed una parte di sé lo sa da fin troppo tempo. Lo fissa così a lungo negli occhi, la vista che si appanna per via delle lacrime che non vuole dover asciugare. Non può lasciarle scendere, non può permettersi di farsi vedere così debole, non può diventare carne da macello, malleabile, creta tra le mani di Léon. « Ma la verità è che se non ci fosse stata la droga avresti trovato qualcos'altro. Perché il problema non è questa. », Ti prego, ti prego, « Il problema sei tu. »
    Tira il primo pugno – per via del suo peso, quello è il miglior consiglio di strada che le abbiano dato. È cresciuta di svariati centimetri da allora, ma è rimasta magra come un chiodo. Tira il primo pugno, ma non ce l’ha mai fatta – sempre bloccata, paralizzata, un cervo nel giorno dei fari di un’automobile a un paio di millisecondi dalla morte. Tutte le volte che si cacciava nei guai, doveva sempre esserci qualcuno a tirarla fuori – ha perso il conto di tutti i pugni che Zip ed i suoi vecchi amici abbiano mai preso per lei, perché Winter non si sa difendere, la regina delle battaglie incominciate e mai portate a termine.
    Nel chiarore spettrale di una notte apparentemente ordinaria, però, non c’è nessuno che verrà a salvarla. È incredibile come Léon sapesse esattamente i punti in cui colpire, ma, d’altronde, le si è sempre potuto leggere tutto sul viso. Le emozioni, le paure, i rimpianti ed i rimorsi. Non potrà mai restare nuda di fronte a qualcuno senza che gli anni le si leggano sul corpo – l’incapacità di controllare le proprie emozioni la fa sentire comunque svestita di tutto, derubata della possibilità di scegliere, di proteggersi.
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    «Smettila», quindi smette di provarci, Winter, perché sa che ormai ha già perso. Lascia andare un primo singhiozzo, forse non solo per le parole che Léon ha detto, ma lasciando andare tutto ciò che ha cercato così diligentemente di reprimere in tutti gli ultimi mesi. «Non-», si copre la bocca con le mani, per attutire il secondo singhiozzo, temendo di svegliare i vecchi che abitano oltre alla recinzione. «Non è vero, Léon», ma mente a se stessa, e ne è consapevole – il problema sei tu, ma non l’ha mai voluto ammettere per comodità o per paura, il lancinante terrore di non poter portare il fardello di come sarebbe potuta essere la sua vita se avesse detto no. Il problema è lei, non Peter, non Lydia, non Zip, non le strade di Vancouver, non la predestinazione. Il problema sei tu. Il problema sei tu. Il problema sono io.
    Segue i movimenti di Léon con estrema attenzione, si asciuga le lacrime con il dorso della mano sinistra – non gli interessano, e lo sa perfettamente. Non riceverà compassione, non riceverà tregua. E si avvicina, Léon – vicino, troppo vicino. Segue il suo sguardo dall’alto verso il basso e di nuovo verso l’alto e le si blocca il respiro in gola. Aspetta…
    Realizza ciò che si sta srotolando di fronte ai suoi occhi solo mentre accade, talmente surreale da non riuscire a prevederlo. La luce del lampione viene coperta completamente dal viso di Léon, così imponente nonostante la differenza d’altezza non sia catastrofica – gliel’hanno sempre detto che avrebbe dovuto fare la modella. Perfino sua madre gliel’ha detto, e forse si è iscritta a Magisprudenza solo per provarle che ha torto, e che non è tutto ciò che può fare nella vita.
    Sente distintamente il peso impercettibile della lingua di Léon sulle labbra, e in poche frazioni di secondo dietro ai suoi occhi si combatte una guerra civile che non avrà sopravvissuti. Non posso, chiude gli occhi, Winter, Ma in fondo, chi voglio prendere per il culo? Non posso cambiare, non posso migliorare, non posso tornare a vivere come una persona normale. Non sono mai stata una persona normale. Forse sono morta tanto tempo fa o forse non sono mai stata viva.
    Ma il sole lo ricorda. Tiepido sulla pelle mentre si lasciava il tramonto alle spalle. Non era mai sola, ma non era mai sobria. I pochi ricordi dei momenti in cui era vigile si sono mescolati nel corso degli anni, lasciandola con un pugno di mosche. Ed è colpa sua.
    e non migliorerà.
    E non starà meglio.
    E niente di tutto questo ha mai avuto senso, ma aveva troppa paura di ammetterlo.
    Ricambiare ed approfondire il bacio è semplice, più del previsto, quasi come tornare a casa dopo un lungo viaggio, con l’unica amica su cui ha sempre potuto contare al suo fianco. Non le importa di Lèon, non le importa di niente, non le importa che ha già le labbra e la lingua intorpidite e poi completamente insensibili per il contatto con la cocaina.
    Appoggia la schiena contro alla recinzione, senza staccarsi dal ragazzo, e pensa che tutto ha di nuovo un senso, che è colpa sua ma è anche una sua scelta, e che forse non ha mai voluto vivere così a lungo. Tanto vale autodistruggersi piuttosto che morire per mano di qualcun altro. In fondo, nemmeno nei suoi sogni più reconditi si è mai vista superare i trent’anni.
    Improvvisamente si stacca, spingendosi di più contro alla ringhiera – non dice nulla, non lo guarda, lo scosta con la stessa rapidità con cui gli infila la mano in tasca per prendere la bustina.
    Si siede sul marciapiede, composta, metodica, chirurgica – «Prendi una banconota», ordina, senza lasciare spazio ai convenevoli. Il gioco è finito, la partita l’ha persa, o forse l’ha vinta. E forse è meglio così, per tutto quello che succederà. È meglio che se la lascino tutti alle spalle e la abbandonino a morire sul ciglio della strada, tra qualche anno, una grande delusione salverà anni di dolore completamente inutile. Perché il problema è lei.
    Si muove con grazia, Winter, destreggiandosi quasi come se stesse danzando, mantenendo un segreto che solo lui può capire. Prepara due file, si fa passare la banconota, si abbassa. Basta una briciola di un attimo, ed i pianeti si riallineano, tutto riacquista senso. Tutto è esattamente come dovrebbe essere.

    Hallelujah, Hallelujah
    Hallelujah,
    Hallelujah...


     
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    I suoi genitori erano sempre stati contrari a fargli vedere uno psicologo. Appartenevano a quella mentalità vecchio stampo che guardava a cose del genere dietro le lenti di un radicato stigma: se vai da uno psicologo significa che sei malato, che sei matto. L'agenzia aveva più volte suggerito loro di curarsi dell'igiene mentale di Léon, e una volta compiuta la maggiore età, avevano iniziato a raccomandarlo a lui stesso, ma non avevano mai spinto più di tanto: non gli interessava, volevano solo pararsi il culo nel caso in cui quel pezzo di carne sotto contratto fosse uscito di testa da un momento all'altro. Ma avevano davvero torto? Se a Léon in primis non interessava, perché mai a loro sarebbe dovuto fregare qualcosa? A scaricarlo non ci mettevano nulla..o così ti volevano far credere. « Dovresti solo firmare questa liberatoria. » Gli occhi del giovane Hyun, appena diciassettenne, si sollevarono dal foglio a quelli dell'uomo dall'altro capo della scrivania. Li riabbassò, leggendo con qualche difficoltà quelle fitte righe scritte in piccolo: un dedalo di segni con significati ostici. Tra il gergo strettamente legale e la sua dislessia, non sapeva cosa fosse peggio. Nel vedere che ci stava mettendo un po' troppo tempo, l'uomo tagliò corto. « In succo dice che l'agenzia è convenzionata con diversi psicologi messi gratuitamente a disposizione dei suoi clienti e che sei stato messo al corrente di ciò, scegliendo spontaneamente di non usufruirne. » Rimase per qualche istante in silenzio, fissando lo spazio vuoto che sollecitava la sua firma. Non era raro che alcuni suoi colleghi subissero crolli nervosi, finendo sulle prime pagine delle riviste scandalistiche, lì dove i loro volti non sembravano più così perfetti e la maschera dell'inespressività veniva spezzata dal forte senso di angoscia che trasudava dalle loro iridi. Eppure il peso di quelle ripercussioni con cui venivano costantemente ricattati era nulla più che uno specchietto per le allodole, un ricatto emotivo volto a dissuaderli il più possibile dall'uscir fuori dalle righe. Léon non conosceva il gergo legale, ma non era uno stupido e aveva uno spiccato intuito per le motivazioni dell'animo umano. Questo foglio serve solo a prevenire ipotetiche cause legali contro di voi. Nient'altro. Non mi lascerete a piedi, perché alla fine della giornata questa industria sta in piedi per una ragione ben specifica: alla bellezza si perdona tutto. Questa lezione, Léon l'aveva appresa presto. A lui non si erano mai applicate le stesse regole che stringevano gli altri: se si comportava male subiva punizioni meno severe, attirava più comprensione, veniva quasi immediatamente perdonato. Una lacrima che scendeva sulle sue guance non veniva schernita o ignorata, ma aveva il potere di muovere le persone a compassione. Gli bastava davvero poco, per ottenere puntualmente ciò che voleva e col tempo, senza nemmeno rendersene conto, ci si era abituato. Quei modi di fare erano diventati un'arma, l'unica dimensione in cui era capace di rapportarsi al mondo. Ciò che un esterno avrebbe visto come l'apoteosi della manipolazione emotiva, per lui era semplicemente la normalità; perché in fin dei conti, se poteva dire e fare ciò che voleva passandola sempre liscia, con una carezza sul volto e un sorriso intenerito, per quale ragione non avrebbe dovuto farlo?
    Fu automatico, per il giovane Hyun, individuare con la precisione di una macchina da guerra quali fossero i punti deboli di Winter, infierendovi senza pietà alcuna. Non si sentiva in colpa, non provava rimorso per aver utilizzato le fragilità di lei: un po' perché sentiva come se lei gli avesse tolto qualcosa che gli spettava di diritto, e un po' perché quel modo di fare era ormai così profondamente connaturato nel suo animo da bypassare qualunque forma di riflessione su di esso. Léon Hyun era un'opportunista inconsapevole, uno stratega ingenuo: seguiva una logica fredda nel relazionarsi al prossimo per ottenerne qualcosa, ma non sapeva riconoscere in se stesso questo tratto - il che, se possibile, lo aggrava ulteriormente. In sostanza era un bambino a cui erano stati messi in mano i codici di avviamento delle testate nucleari. Un giocattolo. Tutto, per lui, era un giocattolo. Anche le persone lo erano. Lui in primis lo era. Oggetti dotati di battito cardiaco, come androidi di ultima generazione, quasi indistinguibili da quella che viene vagamente descritta come la dimensione dell'essere umano. Ma cosa significasse, essere umano, Léon non lo sapeva e quindi non sapeva trattare né se stesso, né tanto meno gli altri come tale. Quando sei stato un oggetto per tutta la tua vita, qualunque cosa componga la forma più intima del tuo essere viene percepita come un eco distante, dissociato dal tuo corpo e inafferrabile. Così era stato cresciuto: con l'idea che all'individuo occorresse assumere se stesso come oggetto, come il più bello degli oggetti, come il più prezioso materiale di scambio, affinché potesse istituirsi ad un livello del corpo distrutto un processo economico di redditività. Ma la droga, il sesso, qualunque esperienza mi porti all'estremo, positivo o negativo che sia, è l'unica maniera che conosco per sentire il mio stesso corpo. No. Per sentire come se fossi al suo interno, come se questo scheletro fosse abitato da qualcuno: un fantasma che mi è permesso di incontrare solo quando raggiungo la soglia di me stesso. Il tempo di sfiorarlo con le dita, di arrivare a intuire cosa si senta, a provare qualcosa - una qualunque. È tutto ciò che mi serve: quell'istante, quel lampo di luce prima che torni il buio, prima che il fantasma si allontani nuovamente, facendomi ripiombare nella mia stessa artificialità.
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    Il bacio con Winter fu l'ennesima estrinsecazione di quella dipendenza: per un istante si sentì vivo, percependo il calore del sangue che gli scorreva nelle vene, che pompava a un ritmo accelerato seguendo lo schema delle sue funzioni vitali. La perfezione del corpo umano, la sua istintività programmata per la più alta efficienza: il più abile gioco di reazioni chimiche che si potesse concepire. Poteva sentire distintamente lo sprigionamento di ossitocina nel proprio cervello nel premersi contro il corpo della ragazza, assuefatto dalla sensazione che ne derivava. « Prendi una banconota. » Non se lo fece ripetere due volte. Estrasse velocemente il portafogli, in cui la presenza di un'unica banconota stropicciata lasciava bene a intendere le abitudini del giovane Hyun. Di un mago ti bastava aprire il borsellino per capire se si facesse di cocaina: la valuta magica comprendeva esclusivamente monete ed erano in pochi a relazionarsi su base quotidiana col commercio babbano; possedere delle banconote era un segnale piuttosto evidente di quale fosse il loro reale utilizzo. Si mise a sedere accanto a lei sul marciapiede, preparando le strisce sul retro del cellulare. La fece andare per prima, porgendole la banconota arrotolata, e seguendola poi a ruota. La inalò tutta, rigettando il capo all'indietro con lo sguardo fisso su quelle stelle che, lo sapeva, presto sarebbero diventate molto più luminose. Era buona. Molto. Quel tipo di cocaina che circola solo negli ambienti di chi il lusso se lo può davvero permettere. Lentamente lasciò che i propri muscoli si distendessero, abbandonando ogni oggetto sul marciapiede. Se in qual momento fosse passato qualcuno e lo avesse ripulito di soldi e averi, probabilmente lo avrebbe lasciato fare senza opporsi. Rimase per qualche istante in silenzio, attendendo che la cocaina cominciasse a fare effetto. Fu in quel silenzio che fece scorrere le dita sul bordo del marciapiede, ricercando la mano di Winter. La prese nella sua, voltandosi appena per guardare il suo profilo. Non disse nulla. Si portò però la mano di lei alle labbra, baciandone il palmo una, due, tre, quattro volte, come in un atto religioso. « Grazie. » mormorò a bassa voce, ripetendo quella parola un paio di volte mentre si appoggiava il palmo di lei sulla propria guancia, ricercandone al contempo lo sguardo. « Winter? » chiese ad un certo punto, pronunciando il nome di lei nel tono più dolce e carezzevole che ci fosse. Era tipica di Léon, quell'altalena di umori e trattamenti: verso il prossimo alternava momenti di spietata freddezza ad altri di profonda tenerezza. Aspettò dunque di ricevere l'attenzione domandata alla ragazza, prima di piantare gli occhi nei suoi con un sorriso spezzato, a metà strada tra la tristezza e la dolcezza. « Io ho bisogno di te. » confessò piano. « Non lasciarmi più, ok? » Nel dirlo, avanzò una mano per accarezzarle i capelli con la punta dei polpastrelli. « Ti prego. » La pregò per la seconda volta quella sera, completando l'intero cerchio e tornando all'inizio in quel gioco dell'oca malato che li vedeva entrambi prigionieri.

     
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