Lasciami stare

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    « Che palle. » Si lamenta un Tuesday Mortimer particolarmente annoiato. Poggiato al legno massiccio dell'enorme tavolata, una mano gli sorregge la testa, l'altra -al contrario- stringe tra le dita ossute quello che sembra essere, a tutti gli effetti, un muffin. Sala Grande, tavolata dei Corvonero. E' una bella giornata, quella mattina. Fuori sembra esserci il sole, prima avvisaglia di una Primavera ormai imminente. « Certo che gli elfi domestici fantasia ZERO, eh! Zucca, mirtilli o al massimo lamponi, quando si sentono particolarmente trasgressivi » Scuote la testa, un sospirino che ha del teatrale a trapelare fuori dal suo petto. « Ma dei bei dolcetti alla marijuana? No? » C'è chi ride, chi -al contrario- gli lancia qualche occhiataccia. « Secondo me ci sarebbero una miriade di vantaggi. Ho già il primo: studenti più rilassati la mattina. Persino la Branwell sarebbe meno incazzata! » Se vi state chiedendo cosa ci faccia Tuesday Mortimer alla tavolata dei Corvonero..Beh, significa che non lo conoscete ancora abbastanza bene. Per vostra fortuna, s'intende. Qual'è comunque la risposta? Probabilmente nessuna, se non un criptico, ma non per questo meno carico di significato: è di Tux, che stiamo parlando! Durante la colazione in Sala Grande, da che ne abbia memoria, non gli è mai piaciuto starsene fermo in un solo posto. I suoi compagni sono dei gran fighi (citazione testuale), è vero, ma un po' noiosetti. Non che tra i Corvonero la situazione sia granchè migliore -senza offesa- ma cambiare un po' d'aria, fa sempre bene. Tranne quando sei morto, è chiaro, perchè quello si chiama essere zombie, e forse non è troppo legale, persino nel mondo magico. Ad ogni modo... « Non hai gli allenamenti, tra poco? » Lo sguardo ricade sulla figura longilinea di Zelda Kane, poggiata a suo fianco con un solo ginocchio sulla panca. Una posa che mette ben in vista cose che non dovrebbero stare ben in vista, e che, ovviamente, il nostro Tuesday non ha perso occasione di adocchiare. Per puro interesse scientifico, ovviamente. La bionda si stringe nelle spalle, annuendo, ma prima ancora che possa dire qualcosa « Allenamenti? Ma abbiamo la verifica di Storia della Magia, nel primo pomeriggio! » I due amici si lanciano un'occhiata, prima che sia Tuesday, a prender parola. ..Purtroppo. « Merlino, Jones, sei così carina..ma noiosa. Scopi mai, ogni tanto? » La poverina arrossisce, ammutolendosi all'improvviso, ma prima che il Serpeverde possa provare a rimediare al suo disagio (con ogni probabilità aumentandolo ancora di più) lo sguardo ricade su una figura appena apparsa al suo fianco. « Trambley! » Squittisce, sporgendosi in avanti per schioccare uno sfacciatissimo bacio sulla guancia alla rossa. Compagna di stanza di sua sorella Wednesday, la loro è più una conoscenza, piuttosto che un'amicizia stretta. Ma questo, per Tux, non è certo un ostacolo dal traumatizziamo le persone così perchè ci va. « Come siamo carine, stamattina. Ci incontriamo con qualcuno? » Le fa un occhiolino, e aggiungerebbe dell'altro, se non fosse che -in maniera del tutto involontaria ma automatica- il suo sguardo si riposa alle spalle della rossa. Ed è una sorta di..mancanza, ciò che prova dentro. Perchè sì, in realtà, uno dei motivi secondo i quali il Serpeverde è così legato alla tavolata dei Corvonero è uno ed uno soltanto: sua sorella Weed.

    Anno 2015.
    « Corvonero! » Squittisce un Tuesday Mortimer poco più che quindicenne, mentre con lunghe falcate, si dirige verso l'ingresso della Sala Grande. « Non sei contenta? Certo, un po' sfigatina come casata..Ma poteva andar peggio! » La testolina argentea di sua sorella, appena undicenne e di diverse spanne più bassa di lui, sbuca da dietro le sue spalle. Rotea gli occhi al cielo, mentre un piccolo sbuffo fuoriesce dalle sue labbra pallide. Tuesday, dal suo canto, ride. « Prima colazione coi tuoi compagnetti oggi, eh? Avete già legato? » Domanda, ad ormai pochi metri dall'ingresso già illuminato dell'enorme Sala. E' una bella giornata, quell'oggi. Seppur sia Settembre inoltrato, fuori sembra quasi Primavera. « Qualche bambola non decapitata te la sei portata da casa? Sai, per pettinarla assieme alle tue amichette mentre parlate di maschietti con un primo accenno di peli sul petto...- » « - Tux finiscila. Sei imbarazzante! » La voce sottile di Weed, così piccola eppure già così determinata, lo interrompe. Ma non si offende, il maggiore dei Mortimer, anzi trattiene a stento una risatina, prima di stringersi nelle spalle. Sono ormai giunti all'atrio. « Bene. Siamo arrivati » Asserisce, in un sussulto. Guarda dinnanzi a sè, poi di nuovo Wednesday. « Ci si vede! » Annuncia, protraendosi in avanti per iniziare ad incamminarsi. « Devi proprio andare? » La vocina della sorella, stavolta quasi impalpabile, tuttavia, lo blocca. Si volta verso di lei, ma ancora troppo infantile ed acerbo, non coglie immediatamente quella leggera -quasi irriconoscibile- nota di preoccupazione sul suo bel visino di porcellana. « Ah-ah-ah. Cos'abbiamo detto fino a ieri? Non ti posso fare da baby sitter perchè ho una reputaz- » « - Ma chi ti vuole? Sei uno scemo Tux! » ed è urlicchiando ciò, che la piccola Corvonero si allontana frettolosamente, tutta impettita. Tuesday, dal suo canto, la solita risatina a scuotergli il petto, si incammina a sua volta, ma è quando passa di fianco alla tavolata Blu-Argento che.. « Scusa, è occupato? » « Aspetta! Sei pazza? E' una Mortimer. Se le parli avrai come minimo sette anni di sfiga. - Senza offesa, ovviamente. » « Dici davvero? » « Oh sì, davverissimo. » Si intromette, Tuesday, sovrastando in altezza le due ragazzette. La testa piegata di lato, un sopracciglio inarcato. « Se un solo Mortimer porta sfiga per sette anni, cosa mai succederà con due? » Un dito che va a poggiarsi sotto al mento, con un che di teatrale. « Non so voi, ma io la vedo male.. » « Andiamocene.. » « S-sì! » « Che peccato, sono andate via. Grossa perdita.. » Commenta alla fine, sedendosi accanto alla sorella con un piccolo balzo, ed osservando compiaciuto una delle due ragazzette inciampare sui suoi stessi passi, urlando un terrorizzato "questa è la maledizione dei Mortimer!". Ride, poi la guarda. « ..Allora? Abbiamo mezz'ora per ideare come far saltare la testa a quelle due, prima che ti inizino le lezioni! » Pausa. « ..A Serpeverde erano finiti i muffin alla zucca » Si stringe nelle spalle, dopo qualche minuto, ostentando un'indifferenza piuttosto compromettente. In fondo, a lui, la zucca ha sempre fatto schifo. « Starò un po' qui con te - Non la guarda, seppur un impercettibile sorriso gli pieghi un angolo delle labbra violacee. - ma solo per oggi » Ma quell'oggi, però, sarebbe durato per tanto tempo.

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    « A proposito di vita noiosa: Weed non è scesa con te? » Sei anni sono passati da allora. E tante cose, sembrano esser cambiate. « No.. - Stava tardando un po', per via della gatta. » Tuesday annuisce, fingendo indifferenza. « Ma arriverà a breve, credo » « Bene! » Annuncia, battendo entrambe le mani sul tavolo. « Zenzy, direi che è arrivato il momento di.. - » Andare. La pronuncia tra sè e sè, quell'ultima parola. Percepisce qualcosa di caldo gocciolare sul suo viso più pallido del normale, e dopo aver istintivamente poggiato una mano all'altezza del naso, sono goccioline scarlatte ciò che intravede a macchiargli la pelle diafana. Cazzo. « Io..- Ho dimenticato una cosa in camera. - ..Fazzoletti, sì. Raffreddore di merda! » Farfuglia, le dita che gli coprono il naso. « Devo andare. Ci vediamo in classe! » Arrangia, frettolosamente, mentre si alza di scatto, la testa che gli gira così pericolosamente che per poco non precipita a terra. Ma cerca di ignorarlo, Tuesday, almeno fin quando non sarà lontano dagli occhi dei suoi amici, in particolar modo Zelda. Non che non sappia della sua condizione, ma quell'aggravamento che sente di portarsi dietro da un paio di mesi a questa parte, Tuesday non l'ha ancora rivelato a nessuno. Sta male, costantemente. Non mangia, non dorme, perde sangue ormai fin troppo spesso. Sa che dovrebbe dirlo ai suoi genitori. Sa che non ci penserebbero due volte a pagare i migliori guaritori sul mercato, nazionale o straniero che sia, ma è proprio per questo che non vuole. Non vuole tornare in ospedale. Non vuole tornare sotto quelle cure che sa di non meritare. Perchè Tuesday vive una vita alla quale vorrebbe porre fine un giorno sì e l'altro pure. Tuesday vorrebbe andar via da questo mondo il prima possibile. Ed il fatto che i suoi genitori farebbero di tutto, pur di impedirglielo, così come hanno sempre fatto, lo fa sentire.. Ingrato. E' per questo motivo dunque che non ha detto niente a nessuno, è che è più che intenzionato a non farlo per tanto altro tempo ancora. Lascerà che le cose vadano come devono andare, ha pensato, già parecchio tempo fa. [..] Il bagno di Mirtilla Malcontenta, l'unico posto in cui sa di potersi rifugiare senza incontrare sguardi indiscreti, gli sembra sempre più lontano ad ogni passo che fa. Le gambe sono pesanti, ed ogni movimento è come spostare un intero macigno così pesante da spezzargli tutte le ossa dall'interno. La testa gira, ed è per questo che non si accorge nemmeno quando urta qualcuno sul suo tragitto, le goccioline di sangue che schizzano via non appena si volta, distrattamente. Non dice nulla, ma continua a camminare, in quella corsa contro il tempo che sembra infinita. Quando poi, finalmente, giunge a destinazione, spalanca la porta con un calcio, vomitando nel primo gabinetto a portata di mano. Gli sembra di sputare veleno, colpevole anche il fatto di avere lo stomaco costantemente vuoto, e passa un po' di tempo, prima di rialzarsi. Lo fa a fatica, barcollando, fino a giungere al lavandino, che usa come appiglio per non precipitare. E non rialzarsi più, probabilmente. Si sciacqua la bocca e poi la faccia, guardandosi allo specchio per quelle che sembrano ore, ma che in realtà sono minuti, in cui si odia sempre di più ogni secondo che passa. Alla fine tenta di cercare quella piccola ampolla con una delle pozioni ricostituenti che i medici gli hanno prescritto per momenti come questo, ma le mani che tremano non lo aiutano nell'impresa. « Fanculo. » Pronuncia dunque, a denti stretti, il viso ancora sporco di sangue, prima che qualcosa attiri la sua attenzione. Alle sue spalle -come riesce a vedere dallo specchio- qualcuno sta tentando di forzare la maniglia malmessa della porta. « E' occupato! » Riesce a dire, con quel poco fiato che ha in corpo. Ma la porta si spalanca comunque, e lui cerca la prima cosa che trova a portata di mano per lanciarla in direzione dell'intruso, ancor prima che possa effettivamente vedere di chi si tratti. Il portasapone in ottone si schianta contro la parete. « VAFFANCULO! HO DETTO OCCUPATO! »
     
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    «Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n'è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.» - V. Woolf.

    Era immobile, lo sguardo basso sulle nervature del parquet sotto ai propri piedi. Le linee del legno si avvicinavano fino a sfiorarsi ma non si toccavano quasi ma. Solo in piccoli punti e per un attimo, in modo sadico e crudele, che le ricordava una melodia. Toccata e fuga. Si stava mordicchiando l’interno della guancia, senza rendersene conto. Non percepiva alcun dolore. La sua mente vagava in quel reticolato che si sviluppava sotto le suole delle sue scarpe. Seguiva un flusso continuo, senza mai fermarsi, e se incontrava un ostacolo lo raggirava per poi riprendere il suo percorso, indisturbata. Raggirava. Forse era quello il problema. Era lì, chiaro, palese. Ignorarlo non sarebbe servito a niente. Anche se avesse chiuso forte gli occhi, questo non se ne sarebbe andato. Fingere che non esistesse faceva male solo a lei. Era una sensazione fastidiosa, come se qualcuno stesse ripetutamente grattando con un dito in un punto impreciso della sua pelle, scavando nella carne, millimetro dopo millimetro, senza mai fermarsi, come un tarlo laborioso. Una goccia di colore verde pistacchio scivolò via dal pennello, precipitando sulla punta della sua scarpa. La guardò precipitare fino a che questa non si schiantò senza produrre alcun rumore. Wednesday Mortimer sbatté le palpebre, come riscuotendosi da una sorta di trance in cui l’aveva fatta capitombolare un abile prestigiatore. Con movimenti misurati, posò il pennello sulla tavolozza prima di alzare il viso e guardarsi attorno, girando la testa con lentezza. Aveva l’impressione di non essersi ancora svegliata. Forse non lo aveva fatto davvero. Jack Milligan la stava fissando. Era dall’altra parte del palco, dietro all’ultima quinta, quella più vicina al fondale. Stringeva il copione arrotolato tra le mani. Quando si accorse che anche la piccola Mortimer aveva cominciato ad osservarlo, lui abbassò lo sguardo, srotolando i fogli di carta sistemati in modo ordinato e tenuti fermi da una graffetta, aprendo il copione in una pagina a caso e usandolo come riparo per nascondercisi dietro, con aria indifferente. La Corvonero tornò a guardare la sagoma di cartonato che aveva davanti: una colonna in stile dorico attorno alla quale si inerpicavano nastri di edera verdigna. Rigirò il pennello tra le dita, sollevandolo all’altezza degli occhi ed ispezionando il colore rappreso che si era seccato nelle setole. Anche lei si sentiva così: rappresa. A pensarci ora quella parola la faceva quasi ridere. Rappresa. Cominciò a ripeterla come si fa con una filastrocca senza senso, ed ogni volta sembrava più buffa. Rappresa, rappresa, rappresa. Una risatina le salì su per la gola e lei fu costretta a portarsi la mano davanti alle labbra, stringendo di più la presa attorno al pennello perché non le scivolasse via. Di riflesso, i suoi occhi si posarono sul punto in cui stava in piedi Jack Milligan, ma lui non c’era più. Aveva voglia di ridere, in modo incontrollato, sguaiato, senza preoccuparsi di nessuno. Di ridere e gridare. Gridare con tutto il fiato che aveva in gola, gridare fino a non avere più ossigeno nei polmoni, fino a sentir male, un dolore che le ricordasse di essere viva. Rappresa, rappresa, rappresa. Fece un passo indietro, lasciando che lo sguardo percorresse ancora la colonna, dal basso verso l’alto. Non era ancora finita, ma per la prima volta nella sua vita Wednesday Mortimer stava lasciando un lavoro a metà. Lo avrebbe finito domani. Domani. O perché no, magari anche il giorno dopo ancora. Un’altra risatina le si infranse sulle labbra sigillate, feroce come un fiume in piena che prova a straripare dagli argini dopo ininterrotti giorni di pioggia. Si strinse nelle spalle, guardandosi intorno sentendosi una bambina che aveva appena combinato un pasticcio che mamma non doveva sapere. Forse stava impazzendo. Sapeva che sarebbe accaduto, era solo questione di tempo. Fin da piccola aveva paragonato sé stessa ad una giovane Virginia Woolf. Aveva abbracciato l’idea che sarebbe morta come lei, suicida e in preda a quella che, in tempi moderni, avevano diagnosticato come una forma di bipolarismo e psicosi. Trovava il pensiero molto romantico. Posò lo sguardo sulla tavolozza. I colori si erano mischiati in alcuni punti, creando sfumature e nuance del tutto nuove. Aveva voglia di immergerci la mano, allargare le dita e lasciare che la tempera le si insinuasse fin sotto le unghie. Desiderava farlo con ogni cellula del suo corpo. La sua mente, ora, non riusciva a pensare ad altro che non fosse impasticciare quella colonna marmorea davanti a sé. Rappresa. Intinse le setole al centro della tavolozza, premendole sul legno e disegnando al suo interno forme astratte senza una fine, lasciando che i colori si unissero tutti insieme, creando una poltiglia dalla gradazione che a Wednesday ricordava quella di un fiore appassito, scordato dentro un vaso da una famiglia che era partita per le vacanze estive. Rise ancora, tra sé e sé, ma stavolta lo fece solo con le labbra. I suoi occhi no. Erano come ipnotizzati da quei movimenti senza senso, il ballo sinuoso di un pennello. Poi capì. Non c’era niente da ridere, nel modo più assoluto. Lei non era quel pennello, lei era la poltiglia. Una massa di colore insolito. Quel fiore dimenticato in un vaso senz’acqua.

    Il rumore dei suoi passi spediti risuonava tra le pareti del corridoio deserto, venendo risucchiato dalla pietra umida. La mano scattò all’altezza della spalla, lì dove la borsa stava sfuggendo via, risistemandola come meglio poteva. Stava facendo tardi a colazione, tutto perché Morgana non ne voleva sapere di rientrare in camera. Agitava lenta la coda, sinuosamente seduta davanti alla porta di Cathy Swan che un paio di giorni prima era tornata al dormitorio con un nuovo animaletto: un topolino di nome Oscar che aveva immediatamente attirato l’attenzione della giovane gatta siamese. Notando che la gatta continuava ad ignorare serenamente tutti quanti i suoi richiami, dopo una lunga attesa, Wednesday si era trovata costretta a prenderla tra le braccia per riportarla nella propria stanza. Quando l’aveva fatto, Morgana aveva emesso un miagolio acuto di disapprovazione. Se il topolino fosse stato di qualcun altro probabilmente la figlia di mezzo dei Mortimer non avrebbe fatto tutta quella pantomima, ma Cathy Swan era sempre stata gentile con lei. Una volta, quando nessun altro l’aveva fatto, era stata lei ad avvicinarsi, proponendosi come sua compagna di calderone durante l’ora di Pozioni. Scese l’ennesima rampa di scale, un gradino alla volta, gli occhi fissi sulle scarpine nere tirate a lucido. Accelerò, trovandosi a pochi metri dall’ingresso della Sala Grande. L’aria profumava di muffin. Fu come se qualcuno l’afferrasse bruscamente da dietro, frenando la sua corsa in modo brusco, nel momento in cui la sua vista si posò sul tavolo dei Corvonero. Cercava la chioma rossa fuoco di Ember ed invece il suo sguardo fu immediatamente catturato da qualcos’altro. Come una dannatissima calamita. Fissò il profilo di suo fratello seduto nel lato sbagliato della stanza, il suo. Era un’immagine dissonante, simile al rumore di un gessetto che stride nella lavagna. Sentì come una fitta, qualcosa di doloroso all’altezza dello stomaco. Perché era lì? Cosa credeva di fare, impedirle di fare colazione? Era un suo modo strano e bizzarro per.. Per.. Non sapeva neanche lei per cosa. La verità era che in quel momento riusciva a pensare a troppe cose, cose che si mescolavano tra loro perdendo in un attimo ogni briciolo di logicità. Tutto ciò che desiderava era solo andarsene di lì. Aggiustò la tracolla della borsa sulla spalla e si voltò, percorrendo con decisione i propri passi a ritroso. Codarda. No, non era vero. Sarebbe stato più facile andare lì. Evitarlo era ancora più doloroso che affrontarlo. Si sentiva ferita. Era un dolore che non sapeva esprimere a parole, qualcosa di mai provato prima d’ora. Disillusa. Una ferita che non poteva sanguinare, ma in qualche modo la lasciava stremata. Aveva bisogno di aria. Aveva bisogno di un posto dove nascondersi dal resto del mondo. Il cortile poteva essere una buona soluzione. La maggior parte degli studenti si trovava nella Sala Grande in quel momento e gli unici che avrebbe trovato lì erano coppiette appena sbocciate o tabagisti troppo impegnati a risucchiare la loro dose di nicotina per far caso a lei. Qualcuno stava correndo, ma non le importò fino a che non venne urtata alla spalla e lei fu costretta a irrigidire i muscoli delle gambe ossute per non perdere l’equilibrio. Arrestò i suoi passi, voltandosi di scatto verso chiunque avesse deciso di essere quella dannatissima gocciolina che aveva fatto straripare il vaso di prima mattina. Ma l’insulto rimase lì, fermo nella sua gola, ingigantendosi con il passare dei secondi, impedendole quasi di respirare. Tux. Ancora lui. Sempre, dannatamente, lui. Cosa cercava di fare? Attirare la sua attenzione? Farla sentire in colpa? Aggiustò nuovamente la tracolla e solo allora si rese conto che sulla manica della camicetta c’era qualcosa che non aveva notato prima. Strinse le palpebre, riducendo gli occhi a due minuscole fessure mentre sollevava il braccio più vicino al viso. Goccioline scarlatte. Erano tre, di differenti dimensioni, cosparse in modo insensato. Sangue. Sollevò la testa quel tanto che bastava per vedere suo fratello che si richiudeva una porta alle spalle, in un tonfo che non la fece sobbalzare. Era ferito o era un suo modo contorto per darle fastidio? Wednesday Mortimer ebbe la sensazione che la sua vista si stesse offuscando. Per quanto avesse voluto ignorare tutto questo, prima che se ne rendesse conto i suoi piedi si stavano calcando le orme del fratello, portandola davanti ad una porta chiusa. Il bagno di Mirtilla Malcontenta. Posò la mano sulla maniglia, agitandola un paio di volte rendendosi conto che era chiusa a chiave. Smettila di fare il bambino, Tux. Sfilò la bacchetta dalla tasca puntandola verso la toppa in ottone. «Alohomora.» Ci fu un rumore secco, come quello di una chiave che sblocca una serratura e a quel punto bastò una lieve pressione della mano per spalancare la porta. Non si scosse di un centimetro quando il portasapone si schiantò nella parete, ad un paio di spanne dalla sua spalla. « VAFFANCULO! HO DETTO
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    OCCUPATO! »
    Ripensandoci poi, una parte di lei avrebbe voluto che la colpisse per sentire qualcosa. Tutto ciò che riusciva a vedere era il suo riflesso nello specchio sopra il lavandino. Il volto di una sfumatura quasi cadaverica sul quale un pittore aveva impresso il pennello macchiato di tempera rossa. Per un attimo pensò di crollare. Il suo stato emotivo stava diventando un peso troppo grande perché le sue gambe potessero sopportarlo. Odiava lui, odiava sé stessa, odiava ciò che erano diventato. Odiava sé stessa. «Hai una mira patetica.» Quelle parole scivolarono dalle sue labbra mentre riponeva la bacchetta. La sua voce era ferma, calcolata, priva di una particolare inclinazione. Non ricordava l’ultima volta che gli aveva parlato in quel modo. Nell’intento di non mostrarsi ferita si stava facendo ancora più male. Nonostante tutto cercava di non darlo a vedere. Forse la verità era che voleva sentirsi in quel modo, come un monaco che cerca l’espiazione dei peccati con il dolore. «E anche la tua faccia lo è.» Aveva già detto quelle parole a suo fratello in più occasioni, ma stavolta c’era qualcosa di diverso. Qualcosa di più profondo, di più intimo. Perché sei qui, Wednesday? Si sentiva incredibilmente stupida in quel momento. Tutto ciò che voleva fare era uscire di lì. «Datti una sistemata. Abbiamo Trasfigurazione tra meno di venti minuti.» Si voltò. Non si era accorta che la porta si fosse richiusa. Vattene subito di qui. Le veniva da vomitare.
     
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    Sto bene. Quelle erano state le sue prime parole, la porta che si era richiusa con un tonfo secco alle sue spalle. Rientrato a casa da quella lunga permanenza in Bulgaria, Tuesday Mortimer non sembrava esser cambiato. Non aveva nemmeno fatto in tempo a muovere qualche passo all'interno del vasto maniero, infatti, che -accendino alla mano- si era acceso una sigaretta. Pensavate di potervi liberare di me così facilmente, eh, stronzetti? Aveva detto ai fratelli, quel suo solito entusiasmo così fuori luogo a smorzare l'atmosfera cupa che si era creata attorno a sè. E per un po' di tempo, Tuesday Mortimer sembrava davvero non esser cambiato di una virgola. Pareva quasi, addirittura, che non gli fosse successo niente. Che non avesse rischiato la vita, per l'aggravamento di quella sua spaventosa malattia. Che non avesse trascorso giorni, settimane, mesi tra le quattro asettiche mura di una stanzetta d'ospedale; a fargli compagnia soltanto i suoi genitori, quando veniva loro permesso di far visita al figlio. Per i giorni a venire, da che era tornato, lo si era visto tranquillo, sereno. Lo si poteva scorgere in cucina, di prima mattina, a far finta di non aver corretto il suo latte e cereali con generose sorsate di quel famoso scotch invecchiato che suo padre era certo di tenere ben nascosta in cantina. A vederlo lì, era certo che no, non sembrava affatto gli fosse successo tutto ciò che era effettivamente successo. Che sarebbe stato costretto, per il resto dei suoi giorni probabilmente, ad assumere un quantitativo così esagerato di medicinali da non ricordarne neanche i nomi, pur di stare bene. Ma la verità, alla fine dei conti, era che Tuesday non stava bene. Non stava bene per niente, e quell'infido morbo che l'aveva visto protagonista, in questo caso, sarebbe stato l'ultimo dei suoi problemi. Col passare del tempo, di fatti, qualcosa aveva cominciato a riaffiorare. Aveva iniziato a mutare, il terzogenito dei Mortimer, e lo stava facendo lentamente. E questa, forse, era la cosa peggiore. Come un veleno che ti viene iniettato in piccole dosi esigue, ma di giorno in giorno. Non te ne accorgi, magari continuerai a star bene per una settimana, un mese, un anno, ma prima o poi -in un modo o nell'altro- sortirà i suoi effetti. Scoppierà la bomba. E la bomba era effettivamente scoppiata. Una sera di Dicembre, Hogsmeade, ed un compleanno festeggiato in ritardo. Tuesday e Wednesday avevano litigato. Un'affermazione, quella, alla quale chiunque li conoscesse almeno un minimo, avrebbe stentato a credere. Tux e Weedy, gli inseparabili Tux e Weedy. Da sempre così legati tra di loro, quasi fossero una cosa sola, da far ingelosire il resto della cucciolata, alle volte. Ma le cose eran cambiate. E lo avevano fatto lentamente, sì, ma non per questo in maniera meno radicale. Se Wednesday era cresciuta, Tuesday era regredito. Se Wednesday si era affacciata alla vita, e lo aveva fatto da vincente, Tuesday aveva perso. Si erano spostati ai poli opposti, vorticando con inconsapevolezza l'uno lontano dall'altra. E quell'allontanamento il maggiore l'aveva notato. Ma, impotente, nulla aveva fatto per rimediare. Non ne aveva le forze e, ne era convinto, nemmeno il diritto per farlo. Perchè da che era tornato alla vita, Tuesday, si era accorto che in realtà, la morte non l'aveva mai davvero abbandonato. Quindi quello che era stato Tuesday Mortimer, il fastidiosissimo Tux, sempre presente in ogni stanza, in casa Mortimer, pronto a ficcare il naso in questa o quella faccenda, era divenuto infine..Altro. Uno spettro di ciò che era. Un guscio vuoto. Lo si vedeva poco, in casa, persino durante le vacanze, che -non capitava ormai raramente- preferiva trascorrere al castello. Quelle volte in cui erano riuniti, poi, succedeva spesso che si scontrasse con suo padre, a volte persino sua madre, seppur impossibile anche solo immaginarlo. Infine, se forse un tempo avrebbe potuto esserci la remota possibilità di capitarlo lucido, quella era ormai diventata una realtà impossibile da raggiungere.
    Forse te lo ricorderesti, se non fossi sempre così ubriaco. Un sussurro continuo nella sua testa. Una voce intrusa, a violentarne i pensieri. Ed è la stessa che riconosce lì, sul momento. «Hai una mira patetica.» Si volta di scatto, Tuesday, lo sguardo che ricade sulla sagoma che gli si materializza di fronte. La riconosce, la riconoscerebbe tra mille, e allora deglutisce. Dapprima è paura, ciò che prova. Paura perchè Wednesday, l'ultima persona che avrebbe voluto lo vedesse in quello stato, si trova lì. Lo osserva, mentre lui fa lo stesso, fissandola con quei suoi occhi scuri come pece, che man mano che il tempo scorre, si colorano di sfumature sempre più mutevoli, differenti. Per poi focalizzarsi su di una sola, che si concretizza in un lampo sinistro che gli attraversa il volto emaciato. Odio. Odio perchè lei è lì, gli è accanto dopo tanto tempo che ce l'avrebbe effettivamente voluta, ma lo è al momento sbagliato, nel posto sbagliato. Tu non dovresti essere qui. Non adesso, non così. E' sbagliato. E' tutto sbagliato. Si volta, senza dirle nulla, a parlare per lui quel silenzio che sembra voler urlare tante, troppe cose. Che sembra voler palesare dinnanzi agli occhi di entrambi, ciechi all'evidenza, che non è questo ciò che vorrebbe. Perchè vorrebbe abbracciarla, Tuesday. Vorrebbe dirle che gli dispiace, gli dispiace per tutto e, in questo momento come non mai, ha bisogno di lei. Vorrebbe una carezza, un sorriso, una rassicurazione. Uno starai bene, passerà al quale non credere, ma farselo andar bene comunque. Un qualsiasi appiglio, uno qualsiasi... «E anche la tua faccia lo è.» Ma quell'appiglio non c'è. Quel muro attraverso il quale cerca di arrampicarsi, per risalire da quel mare di merda attraverso il quale sta annaspando, lentamente, è liscio. Completamente liscio, invalicabile. Il riflesso di Wednesday lo fissa attraverso il vetro. E' da lì che la guarda, Tuesday. E quasi gli sembra di non riconoscerla. Uno spettro, il viso pallido, l'espressione atona, glaciale. Estranea. Distoglie lo sguardo, incapace di reggere quella visione. «Datti una sistemata. Abbiamo Trasfigurazione tra meno di venti minuti.»
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    Ma quelle parole lo colpiscono. Gli arrivano da dietro, come un'ascia sulla schiena. Ne sente la forza del colpo, la scure squarciargli la carne e spezzargli le ossa. Un'allucinazione, quella, della quale ne è spettatore inerme, attraverso lo specchio. Il sangue che zampilla via, espandendosi a macchia d'olio sulla camicia bianca. E resta lì a fissare quel martirio, il suo, per qualche minuto, Tuesday, quando anche il dolore di quell'atto cruento si impossessa del suo corpo. E allora inizia a tossire, piegandosi su sè stesso, la mano tremante che va a poggiarsi sulla bocca, macchiandosi anch'essa di rosso. Vorrebbe piangere, tanta è la sofferenza che sta provando. Vorrebbe pregare qualcuno di aiutarlo, affinchè quel supplizio abbia fine. Ma Tuesday lo sa, e lo sa bene, che non finirà. Perchè è sempre stato solo, dentro la sua testa. E allora si volta, con quel minimo di forze che gli son rimaste, lasciandosi alle spalle quello spettacolo raccapricciante.
    « Non me ne frega un cazzo, di Trasfigurazione. » Sto male. Non lo vedi? Sto male. « Ho altro a cui pensare. E non ti voglio qui » Parole cariche di veleno. Taglienti. « Non voglio l'elemosina di nessuno, nè tanto meno la tua » Rimarca quell'ultima parola con rancore, mentre nella sua testa, una flebile vocina implora: vattene via Weedy, per favore. Volge lo sguardo -vacuo- alle spalle della sorella, in direzione della porta. E' chiusa. Aprila, dice qualcuno, aprila e mandala via. Piega la testa di lato, le palpebre socchiuse. Mandala via o lo faremo noi. NO. Apre gli occhi di scatto, estraendo la bacchetta dalla tasca dei pantaloni. Un gesto repentino, nevrotico, quasi. Allunga il braccio, mentre un lampo argenteo si scaglia contro l'uscio, forzando la porta ad aprirsi. « La porta è aperta, vattene » Sibila, negli occhi una venatura di delirio. Il braccio resta alzato, le dita si stringono contro il legno della bacchetta, così forte da percepirne le venature. Esita per qualche istante, gli occhi che vagano attraverso mondi che sembra poter vedere soltanto lui. Poi, d'improvviso, cambia direzione. In un movimento brusco, la bacchetta si separa di pochi centimetri dal viso di Wednesday Mortimer. « Hai capito cosa ho detto? Vai via- » La mano trema, mentre si passa l'altra tra i capelli, per scoprirsi la fronte. Sta sudando. Fallo Tuesday, fallo! Scuote la testa con forza, chiudendo gli occhi. « -VATTENE ADESSO! » Ti prego.
     
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    Cala la notte. E’ calata la notte. Perché la notte cala, invece di levarsi come l’alba? Eppure se si guarda verso est, all’ora del tramonto, si può vedere la notte levarsi, non calare; il buio sale verso il cielo, all’orizzonte, come un sole nero dietro la coltre delle nubi, come fumo da un fuoco invisibile, una linea di fuoco proprio sotto l’orizzonte: un bosco o una città in fiamme. Forse la notte cala perché è pesante, uno spesso sipario tirato sopra gli occhi. Una coperta di lana. Wednesday pensa che vorrebbe riuscire a vedere meglio nel buio. La notte è calata, quindi. La sente premere su di sé, come una pietra. Non c’è vento. Siede accanto alla finestra socchiusa, la tenda è raccolta da un lato, tanto fuori non c’è nessuno che possa vedere la sua camicia da notte, le mezze maniche che lasciano nude le braccia smagrite. Niente si muove nella luce lunare, forte come quella di un riflettore. Il profumo del giardino si leva come il calore da un corpo. Ci devono essere dei fiori che sbocciano la notte, altrimenti il profumo non sarebbe così intenso, quasi visibile, un raggio rosso, come il luccichio che sale dall’asfalto a mezzogiorno. C’è un altro odore nell’aria, puntente, che costringe la bambina ad arricciare il naso, mentre rivolge lo sguardo verso l’alto, là dove pesanti nuvole scure stanno oscurando il cielo. Pioverà, da lì a poco. Bisogna solo saper aspettare. Qualcosa illumina il cielo. Uno.. Due.. Tre.. Quattro.. Pochi giorni fa, durante l’ennesimo temporale estivo, suo padre le aveva insegnato un trucco per capire dove sarebbe caduto il fulmine. Se tra il lampo e il tuono passano all'incirca ventuno secondi, dividendo per tre, il fulmine è caduto a sette km di distanza. Conta con me, Wednesday. Le aveva detto Felix per distrarla. Lei si era accoccolata tra le sue braccia, contando ad alta voce. Aveva cinque anni e sapeva contare fino a cento, ma suo padre aveva contato con lei. Diciassette.. Diciotto.. Diciannove.. Un boato rompe il silenzio della notte, facendo vibrare il vetro della finestra. Meno di sette chilometri. Gocce d’acqua grandi come un pollice colpiscono il vetro. Sembrano proiettili. Nella sua camicia da notte candida, Wednesday sta tremando. Il cielo si illumina ancora una volta. Per un attimo non è più notte. Dalla sua finestra, Wednesday riesce a vedere le rose che sua madre ha piantato in giardino. Corre via. Corre a piedi scalzi, precipitandosi fuori dalla stanza. Sa già dove andare, non ha bisogno di accendere la luce. Apre la porta della sua camera e lui è ancora sveglio. Non cerca di giustificarsi; si avvicina al suo letto, alzando le lenzuola e gli scivola accanto in silenzio. Posa la testa, i capelli argentati sparpagliati nel cuscino. Le piace che lui non le chieda niente, che non faccia domande. Sotto le coperte intreccia le dita con quelle di lui. Un altro lampo di luce inonda la stanza. La bambina chiude gli occhi, stringendoli appena come quando si aspetta lo scoppio di un fuoco d’artificio. Conta con me, Tux.. Stringe la sua mano. Conta con me.. Poggia la guancia contro la sua spalla. Uno.. Due.. Tre.. Quattro..
    [...] Non sta bene. Quello era stato il primo pensiero che le aveva attraversato la mente quando la porta del Maniero si era aperta, riaccogliendo a casa il terzogenito dei Mortimer; ed era la stessa cosa che pensava adesso, osservandolo in silenzio, quel silenzio che gridava e non riusciva a stare zitto. Avrebbe potuto disegnare il suo profilo poggiando la punta del pennello nella superficie riflettente dello specchio, ma sapeva che quel ritratto non avrebbe raffigurato la realtà. Chi era Tuesday Mortimer? Fino a poco tempo fa non avrebbe avuto problemi nel rispondere a quella domanda: Tuesday era ciò che le serviva per essere coraggiosa. Sapeva con certezza che qualsiasi cosa fosse successa, lui sarebbe stato lì e questo le dava la forza di non abbassare la testa. Wednesday somigliava ad un frutto che dondolava sul ramo. Il sole aveva arrossato la sua buccia, rendendola alla vista matura prima del tempo, prima degli altri, ma se fosse stata colta e addentata, la sua acerbità sarebbe venuta immediatamente allo scoperto. Qualcosa dentro di lei stava mutando, stava cambiando e ciò le donava un gran senso di mortificazione. Frustrazione che aveva tirato fuori all’improvviso, in una sera di dicembre. Era stato un crescendo di emozioni. Aveva provato a tenersele dentro, aggrappandosi a loro, provando in tutti i modi a bloccarle con le unghie e con i denti, ma al primo segno di cedimento queste erano uscite fuori, travolgendo tutto ciò che avevano davanti. Tra cui Tuesday. Lo guardava, anzi no, lo vedeva, lo sentiva, e forse era questo che le faceva più male. Un dolore intenso le si dipanava nel petto, come una macchia d’olio o il calore di un oggetto rovente appena sfiorato. Stentava a riconoscerlo, con la camicia e la bocca sporche di sangue, la fronte imperlata di sudore e lo sguardo con cui la stava guardando. Quello sguardo. Lo sguardo che gli aveva visto qualche volta, ma che non aveva mai rivolto a lei, ora era tutto suo. Lo sentiva, era palpabile. La odiava. Odiava trovarsi chiuso in quel bagno insieme a lei. Forse odiava persino lei. Era possibile? Erano davvero arrivati a quel punto? Forse. Faceva dannatamente male. Ma alla fine, era lei che l’aveva voluto. Il suo corpo sembrava percorso da pura energia. Vederlo in quello stato.. Desiderava solo corrergli incontro e provare in qualche modo ad estirpargli quel dolore. Ogni cellula del suo corpo vibrava, ma qualcosa di più grande di lei le impediva di fare anche un solo passo. Il suo peccare d’orgoglio sarebbe stata la sua rovina. Quando lui la guardò ancora, direttamente e non in un riflesso allo specchio, le sue labbra tremarono in modo impercettibile. « Non me ne frega un cazzo, di Trasfigurazione. » Vuoi ancora dirmi che stai bene, Tux? Alzò il mento, come se volesse sfidarlo a dire quelle parole. Mentimi. Fai come hai sempre fatto. « Ho altro a cui pensare. E non ti voglio qui » Non ti voglio qui. Era come prendere a picconate un enorme cubo di ghiaccio: enormi crepe si dipanavano dal punto in cui era stato infierito il colpo, ma all’esterno il resto della superficie rimaneva compatta. Era una sofferenza che si intrufolava dentro, in profondità, dove nessuno poteva vederlo. Avrebbe preferito che quel dolore provenisse da un agente esterno, come quel portasapone che non l’aveva neppure sfiorata. Avrebbe voluto avere un punto preciso su cui concentrarsi, dove mettere le mani, premendo forte. Invece non sapeva quantificarlo né fin dove si espandesse. « Non voglio l'elemosina di nessuno, nè tanto meno la tua » Serrò la mascella, senza staccare gli occhi da quelli di lui. Avrebbe voluto gridare. Gridargli contro che era una cosa talmente stupida da dire da non meritare neppure una risposta. Quel giorno ho imparato che il silenzio può essere davvero rumoroso. Un movimento rapido della mano. Wednesday lo vide con la coda dell’occhio. Tuesday reggeva la bacchetta e gliela puntava contro. Trattenne il fiato. Un fascio di luce argentata le saettò accanto. Accadde tutto così velocemente che il suo corpo rimase immobile. Sentì solo il rumore della porta che si spalancava e dei cardini che cigolavano sotto il suo peso. « La porta è aperta, vattene » Non darmi ordini! Vorrebbe gridarglielo in faccia, ma la sua lingua è paralizzata. Il suo cuore accelera nel momento in cui la bacchetta di Tux si muove ancora, stavolta non per lanciare un incantesimo. Per intimorirla. Ora la bacchetta la sta puntando contro di lei. La percepisce su di sé, se la sente premere sulla sua fronte, come un pugnale che non aspetta altro che affondare nella carne, secondo dopo secondo. « Hai capito cosa ho detto? Vai via- » HO CAPITO. Grida ancora, in silenzio. Le sta scoppiando la testa. « -VATTENE ADESSO! » Strinse i denti, alzando ancora il mento, lo sguardo fisso su di lui. Vede i suoi muscoli guizzare sulle braccia, come piccole serpi che strisciano sotto un lenzuolo di seta. Smettila, maledetto idiota!
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    Sapeva che se solo avesse abbassato la guardia il suo corpo avrebbe cominciato a tremare in modo incontrollabile. Non ho paura di te. Se lo ripeteva, come un mantra. La verità era che cercava di convincersene sempre di più. Perché per la prima volta nella sua vita, Wednesday aveva paura di lui. Non ti farebbe mai del male.. Un passo avanti. Non lo farà. Un altro passo. Avanza verso di lui, quasi volesse sfidarlo, dargli contro, fare il contrario di ciò che lui le stava chiedendo. No. Gli arrivò davanti, gli occhi fissi sui suoi. Respirò profondamente. Con un movimento repentino della mano, la Corvonero afferrò la punta della bacchetta di Tuesday posandosela in mezzo al petto. «Avanti. Fallo.» Parla lentamente, senza interrompere il contatto visivo con il fratello. Se prima le pareva di esplodere, ora si sentiva completamente vuota. Stringe la bacchetta con più forza, premendola contro sé stessa. Preme sulla camicetta, facendole quasi male. «FALLO.» Ora è lei a gridare. La sua voce rimbomba sulle pareti umide del bagno. Risuona dentro di lei, riempiendola dolorosamente. Si sporge verso di lui e la bacchetta glissa appena sulla sua carne, lasciandole un segno sotto la divisa. «Se hai il coraggio di puntarmela contro devi accettare le conseguenze, Tux.» Scandisce le parole, una ad una, come se perfino a lei ci volesse più tempo per capirne a pieno il significato. FALLO. Vorrebbe gridarlo ancora, imperativa. Continua a guardarlo. Ha bisogno di quel contatto visivo. Questo sarà comunque meglio del nostro continuare ad ignorarci. Aveva bisogno di dare un nome a tutto quello che sentiva. Rabbia, dolore. Un dolore immenso, impossibile da quantificare. Ma non voleva più sentirlo solo dentro di sé. Aveva bisogno di riporre la sua attenzione in qualcosa di reale, non più astratto. Continua a provocarlo. Ormai aveva deciso. La sua espressione si trasforma, muscolo dopo muscolo. Ora lo guarda, lo sfida, senza nascondere il sarcasmo. «”Conseguenze”, Tux. Conosci questa parola?» Una risatina che ha del nevrotico. «Sono quelle che ti devi assumere quando fai qualcosa.» Già. «Quando bevi fino a star male, quando prendi quella merda.» Ogni dannatissima volta. «Sei un cazzo di egoista, Tuesday.» Gli vomita addosso quell’accusa. Sta ancora stringendo la bacchetta. «Perché quelle conseguenze non si riflettono solo su te stesso, ma anche sugli altri. Anche su di me Il suo tono era un crescendo. «Ma a te non importa, giusto? Allora fallo. FALLO, TUESDAY.» Preme ancora, mentre alza la voce. Ha bisogno di quel dolore. Ha bisogno di sentirsi viva.

     
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    Cosa si prova ad uccidere qualcuno? Da che era bambino, Tuesday Mortimer se lo era sempre chiesto. Una domanda particolare, certo, senza ombra di dubbio preoccupante, se non si dovesse tener conto del pulpito dal quale essa proviene. Morte. Un concetto assai relativo, per uno come Tuesday Mortimer. Da che ne avesse memoria, il piccolo Mortimer, vi aveva sempre avuto a che fare. Dapprima per il lavoro dei suoi genitori, e successivamente per quella maledizione che l'aveva colpito, Tucks con la morte vi aveva sempre convissuto. Un elemento dunque quello che nella sua mente -di certo non poco contorta- aveva assunto col passare del tempo una valenza parecchio..anticonvenzionale. La morte faceva parte della vita così come la vita faceva parte della morte. Un'appendice imprescindibile. Nasciamo soltanto per morire, aveva sempre pensato, Tucks, e per questo motivo, perchè si sarebbe dovuto considerare illegale l'omicidio? Si trattava al contrario, e semplicemente, soltanto di una velocizzazione del processo. Un favore, una grazia. Sì, ne era convinto: uccidere qualcuno non poteva essere altro che un enorme favore. Tirarlo via da un'esistenza fatta di stenti e sofferenza. Un pensiero triste, è vero, ma non per questo meno concreto e reale. Forse, in fondo, era così che la pensava perchè questo era ciò che -ormai da tempo- desiderava per sè stesso. Qualcuno che ponesse fine a quell'ammasso di dolore che per puro sadismo chiunque osava chiamare vita. Ci aveva provato, una volta, a farlo da solo, ma non ci era riuscito. Riguardando le cicatrici ricucite dei suoi polsi, in quell'asettico lettino del CIM, aveva pensato -quella volta- che da lassù, probabilmente, dovevano odiarlo così tanto da costringerlo a restare. Lui una morte che lo liberasse non se la meritava, come tutti quei fantasmi che di giorno in giorno entravano a far parte del suo quotidiano. E così come gli spiriti lo invidiavano per il ritmo pulsante nelle sue vene, Tuesday invidiava loro, per il nulla che intravedeva in quei loro sguardi vacui. Pertanto aveva deciso, un po' volontariamente, un po' no, di uccidersi poco alla volta, giorno per giorno, aspettando che prima o poi -magari- in quel sollecitamento continuo, il suo turno arrivasse.
    Cosa si prova ad uccidere qualcuno? Una domanda che rimbalza nuovamente tra i suoi pensieri, mentre lo sguardo, vuoto e confuso, si poggia sulla figura della sorella. «Avanti. Fallo.» La voce di lei è ferma, decisa, come mai prima d'ora. Si avvicina a lui, e si protrae sempre più, lasciando che la punta della sua bacchetta le affondi nel petto, pericolosamente. E osserva in silenzio, Tuesday, gli occhi scuri che si incastrano a quella visuale. Il nucleo aldilà dell'ebano pulsa. La sente, Tucks, la percepisce, mentre piccole scariche elettriche gli percorrono le dita, le mani, ed infine tutto il corpo assieme. L'anima della sua bacchetta la vuole, reclama quella vita che le sta venendo offerta con così tanta facilità. Voci sussurrano nella sua testa, ombre aleggiano tutto attorno. Fallo, Tuesday, fallo. «FALLO.» E non è capace di distinguere cosa sia reale e cosa non lo sia. Quale sia la voce di Wednesday, lì di fronte a sè, e quale no. E continua a tremare, in quel personale limbo che mai avrebbe voluto affrontare. Sono tanti gli istinti che lo animano dall'interno. Ci sono attimi in cui vorrebbe farlo davvero. Premere ancora di più la bacchetta sul suo petto e pronunciare parole letali. Attimi in cui vorrebbe indietreggiare e scappar via, il più velocemente possibile, il più lontano possibile. Attimi in cui vorrebbe piangere. Attimi in cui vorrebbe urlare. «Se hai il coraggio di puntarmela contro devi accettare le conseguenze, Tux.» Ma è Weed ad urlare, la sua piccola Weed. Non la riconosce, il maggiore, non riconosce la sua sorellina in quel tono imperativo, glaciale, che gli rivolge. Tu non sei lei.., pensa. Lei non mi farebbe mai questo. Lei non mi costringerebbe ad una scelta simile. Lei non mi condurrebbe ancora di più all'autodistruzione. Perchè è di quello che si tratta. Autodistruzione. Esistono tanti modi, per attuarla. Molti dei quali, Tuesday Mortimer ha sempre messo in atto. La droga, per esempio. L'alcool. La perdizione più completa. Perchè se lo facesse, se lasciasse che un lampo verde esplodesse dalla sua bacchetta, colpendo la sorella in pieno petto, Tuesday perderebbe quell'unico briciolo di umanità rimasta. In un corpo ormai reso nient'altro che una mera ombra di sè stesso, lascerebbe sgretolare quell'unico sprazzo di vita che gli resta. Perderebbe sè stesso nel medesimo istante in cui il cadavere della Mortimer dovesse toccar terra, esanime. Per qualche istante, un sorriso che ha del terrificante, malvagio, si palesa sul suo viso pallido. Lo sguardo, che sembra aver perso quel barlume di confusione in un raptus così repentino da sfiorare quell'effettiva schizofrenia ancora non diagnosticata, si fa tagliente. Se è quello che vuoi, Weedy, chi sono io per impedirtelo? Domanda una vocina, acuta e diabolica.
    «”Conseguenze”, Tux. Conosci questa parola? Sono quelle che ti devi assumere quando fai qualcosa.» Chiude gli occhi. E per un attimo ci pensa, ad una vita senza di lei. Quando Weed è nata, Tuesday era ancora troppo piccolo per capire. Separati da poco più di un anno di differenza, i due fratelli eran cresciuti assieme, alla stregua di due gemelli. Non c'era giorno che passasse in cui lei non facesse parte della vita di lui e viceversa, tanto che poco c'era voluto, prima che il confine tra le due creaturine divenisse assai labile, e capire dove iniziasse uno e finisse l'altro diventasse impossibile. C'era stato un tempo, in cui Tuesday conosceva ogni piccolo dettaglio di Wednesday, e Wednesday, dal suo canto, ogni minimo particolare di Tuesday. C'era stato un tempo in cui avere dei segreti tra loro, sembrava una realtà tanto impossibile da non riuscire neanche ad immaginarla. C'era stato un tempo, ed adesso non c'era più. «Quando bevi fino a star male, quando prendi quella merda. Sei un cazzo di egoista, Tuesday.» Apre gli occhi. «Perché quelle conseguenze non si riflettono solo su te stesso, ma anche sugli altri. Anche su di me. Ma a te non importa, giusto? Allora fallo. FALLO, TUESDAY.»
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    Ed è allora, che lo vede. Si vede. Riflesso nello sguardo della sorella, stenta quasi a riconoscersi. I lineamenti del viso contriti, l'espressione vacua, atona. Ma ciò che più lo colpisce, ciò che più gli fa male, è la paura. Non la sua, ma quella di lei. Ben nascosta, è vero, quasi irriconoscibile senza ombra di dubbio. Ma è lì, concreta e palpabile. Ha paura di me, pensa, l'espressione che muta. Le sopracciglia si inarcano, il labbro inferiore si pronuncia un po'. Cosa sto facendo? Ed è a quel punto che indietreggia, di colpo. Abbassa la bacchetta, assieme allo sguardo, e si gira.
    « Sto male » Sibila. Ed è la prima volta che lo ammette davanti a qualcuno. Davanti a lei. Forse perchè è anche la prima volta che capisce che la sua malattia, la DIV, è al momento l'ultimo dei suoi problemi. « Vattene Weed.. - Continua, una mano che si poggia al muro, come per reggersi in equilibrio. - Sto male. » Ed è pericoloso per te stare qui. Non so che mi succede. Non so chi sono. Che anima ho. Non so un cazzo, non so più un cazzo. Le dà le spalle, e mentre le unghie grattano le mattonelle della parete, voci si animano dentro la sua testa. Non se ne andrà, dice qualcuno. Sei un cazzo di egoista, Tuesday. - Uccidila. - No, vattene prima che sia troppo tardi. - Fa' qualcosa. - Non fare nulla.. - FALLO, TUESDAY! Si volta, d'improvviso, e questa volta, la bacchetta è puntata contro il proprio collo. La guarda, ma non la vede davvero. « Se non vai via io..- » Trema, il legno che pressa contro la pelle gelida. Se della tua vita non te ne frega un cazzo, allora fallo per me. Puoi farlo, Weed? Vuoi farlo? O siamo già arrivati al capolinea? « Io..- A-avad- » Fermami. « Avada k-ke..- » No, non farlo.
     
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    Il silenzio può essere un macigno pesante e, a volte, le nostre braccia non sono abbastanza forti per contrastarlo, per sopportarlo. Ci si prova, fino alla fine, finché ogni singolo muscolo del nostro corpo non è esausto, non grida di dolore, e una voce nella testa diventa sempre più nitida, chiara, suggerendoci, con delirante disperazione, che è inutile continuare a lottare, che per quanto possiamo provare quel masso finirà inesorabilmente per schiacciarci. E ci crediamo, lasciandoci sovrastare quando il desiderio di non soffrire più diventa soffocante, l’unico pensiero fisso. Wednesday percepì qualcosa all’altezza dello stomaco: forse stava per vomitare. Per quanto si fosse impegnata, testarda creatura, stava permettendo a quella voce di avere la meglio. Si, perché, valeva la pena continuare? Era come tentare di tener aggrappato un aquilone durante una giornata di tempesta. Il filo avvolto attorno alle dita tirava con prepotenza, facendole sanguinare. Lasciarlo andare sarebbe stata la scelta migliore. Guardarlo mentre piroettava verso l’alto, in balìa del vento, per poi sparire e lasciare il ricordo di sé con qualche cicatrice. Ma quello non era un aquilone qualunque. Era il suo aquilone, quello che aveva da sempre, forse un po’ ammaccato ma che non avrebbe scambiato con niente al mondo. Il suo aquilone. Lo guarda e non lo riconosce. E allora che senso ha? Che senso ha cercare di restare in equilibrio quando il mondo perde il proprio baricentro? Si ricordò di quella volta, all’asilo. Jeremy Fanning cadde a terra durante l’ora di pittura con le dita. Il suo corpo si muoveva in modo strano, di scatto, rischiando di sbattere contro le gambe del tavolo sopra il quale stava dipingendo poco prima. Un bambino di cui la giovane Mortimer non ricordava il nome fece per fiondarsi verso Jeremy, ma la signorina Milligan glielo impedì. Quello le fu raccontato dopo, perché Wednesday non si era accorta di nulla: non riusciva a staccare gli occhi da Jeremy. Aveva continuato a scuotersi ancora per un po’ ed infine si era fermato. Il suo corpicino giaceva a terra in modo scomposto, come quello di una bambola di pezza che qualcuno aveva lanciato via. Wednesday era certa che respirasse, perché il suo petto si alzava ed abbassava impercettibilmente. Aveva dovuto socchiudere gli occhi per notarlo. Il bambino soffriva di crisi epilettiche. Poco dopo arrivò sua mamma per portarlo a casa. Jeremy barcollò verso l’uscita aggrappato alla mano della madre. Passarono solo pochi minuti prima che la signorina Milligan chiedesse a tutti i bambini di prestarle ascolto per un attimo. Wednesday ricordava ancora la sua espressione provata per l’esperienza. Aveva l’incarnato simile a quello di un cadavere. Spiegò loro, con parole semplici, ciò di cui soffriva Jeremy ed aggiunse che dovevano sapere come comportarsi nel caso fosse successo di nuovo. Avrebbero dovuto spostare gli oggetti a lui vicino, così che non potesse colpirli, ferendosi. Inoltre illustrò il motivo per cui aveva impedito che qualcuno lo toccasse: se qualcuno avesse provato a bloccarlo, gli spasmi non si sarebbero fermati ugualmente, anzi, lui avrebbe rischiato non solo di ferire qualcun altro, ma anche di rompersi qualcosa. Proprio come tentare di tener aggrappato un aquilone durante una giornata di tempesta. Wednesday emise un respiro più profondo del solito e la bacchetta le affondò nel petto con prepotenza. Il dolore pungente, penetrante, parve scaraventarla con prepotenza alla realtà. Guardò il giovane davanti a sé, quel rosso sorriso. Rosso come i tulipani nel giardino di sua madre, verso la base della corolla dove cominciano a richiudersi. Il colore era identico, ma non c’era legame tra quei due rossi. I tulipani non erano tulipani di sangue, i sorrisi rossi non erano fiori, nessuna delle due cose aiutava a capire l’altra. Pensa a ciò che gli ha appena detto, a ciò che gli ha appena gridato in faccia, vomitandogli addosso tutto ciò che aveva covato dentro per troppo tempo. Vorrebbe urlare ancora, cacciare fuori quelle lacrime che ormai da minuti sta cercando di trattenere con tutta sé stessa. Perché le sembra tutto così ingiusto, tutto così sbagliato, come in un sogno. Era faticoso penetrare una realtà così diversa, ma doveva farlo. Aveva bisogno di avere tutto molto chiaro nella mente. Ed è a quel punto che lui indietreggia, di colpo. Non distolse gli occhi dai suoi, nemmeno quando lui abbassò la bacchetta. Ebbe l’impressione che il suo corpo stesse vacillando, invece non si stava muovendo di un solo centimetro. Forse era solo la sua mente a farlo, a girare come se fosse appena scesa dalle montagne russe. Il suo labbro inferiore tremò impercettibilmente. Per un attimo, un attimo incredibilmente lungo, infinito, era stata certa che lo avrebbe fatto. Si, che con due sole parole potesse consapevolmente mettere fine alla sua vita. Lui, Tux, il suo Tux, per un solo attimo voleva ucciderla. Glielo aveva letto negli occhi, quegli occhi che fino a poco tempo fa credeva di conoscere così bene, mentre adesso vi notava dentro un’oscurità che non aveva mai visto prima o che, in qualche modo, aveva voluto non vedere. Si perché, si disse, era anche colpa sua se lui stava in quel modo. Non aveva fatto abbastanza, poteva fare di più. Era stata una pessima sorella, tutta impegnata ad aprire gli occhi verso un mondo che mai aveva visto prima, tutta presa da quelle emozioni nuove che si erano rivelate troppo per lei. Era stato lì che le cose erano cambiate tra di loro. Forse quello era un segno. Forse era un modo in cui il saggio Arawn voleva punirla per essersi allontanata per un po’ dalla sua quotidiana devozione nei confronti del Dio della Morte. Hai perso la retta vita, Wednesday. Sei solo una povera pecorella smarrita. « Sto male » E in un attimo quel dolore è anche il suo. Si sente mancare l’aria, come se qualcuno le stesse stringendo le mani attorno alla gola. Vorrebbe corrergli incontro, voltarlo e guardarlo negli occhi. I suoi occhi profondi così colmi di dolore. Avrebbe fatto di tutto per cancellarlo, per prenderlo e gettarlo lontano dove non avrebbe più potuto raggiungerlo. Non aveva mai visto suo fratello in quello stato. Era abituata a vedere Tuesday con quel suo sorriso sghembo che le piaceva tanto, quel sorriso con cui era solito prenderla in giro dicendole che studiava troppo. Tux non aveva la più pallida idea dell’influenza che aveva su di lei. Avrebbe fatto di tutto, di tutto, per renderlo felice. Si sarebbe buttata nelle acque più profonde, avrebbe scalato la montagna più alta se solo lui glielo avesse chiesto. « Vattene Weed.. Sto male. » Come faceva a dirgli di no? Come faceva ad urlargli in faccia che era un cretino e che non se ne sarebbe mai andata? Come faceva a negargli qualcosa ora che la stava fissando il quel modo? Non riusciva a reagire. «Ti prego Weed non lo dire alla mamma, perfavore..» Aveva lo stesso sguardo di quando da piccolo combinava qualcosa e supplicava la sorella di stare dalla sua parte e di non correre a fare la spia dai loro genitori. «Ti compro il gelato alla mora se non glielo dici.» E lei, con il musetto imbronciato, non ci metteva troppo a farsi convincere. Non tanto per quel gelato alla mora quanto per l’affetto che provava nei confronti di suo fratello. Non avrebbe mai fatto la spia con mamma e papà. Si sarebbe presa la colpa immediatamente se fosse stato necessario. Povera, piccola, sciocca Wednesday. Ed è a quel punto che tutto cambia. Che lo vede voltarsi, la bacchetta puntata al collo diafano. Il suo corpo si paralizza; è terrorizzata. « Se non vai via io..- » FERMO. Vorrebbe urlare, ma non si ricorda più come farlo. NO. Il suo corpo è un blocco di ghiaccio. Dischiude le labbra, ma non ne esce alcun suono. Annaspa, ha bisogno di aria, come se fosse appena riemersa da una lunga apnea. Non riesce a pensare lucidamente. Se prima il tempo pareva non passare mai, ora i secondi sembrano diventati più veloci, succedendosi l'un l'altro senza pause, rapidi, come se si stessero beffando di lei, volendole portare via ogni possibilità di riflessione. « Io..- A-avad- » FERMATI. Sta per farlo. Un'altra frazione di secondo e tutto potrebbe essere finito. Tutto. Tutto. « Avada k-ke..- » «EXPELLIARMUS!» Fu il suo corpo ad agire, prima della sua mente. Un fascio di luce rossa colpì in pieno la bacchetta di Tux, facendogliela sbalzare via dalla mano. Cadde lontano, come un bastoncino di legno senza vita. Wednesday respirava a fatica. La bacchetta, ancora puntata verso di lui, vibrante di energia per l’incantesimo appena scagliato. Il suo petto si abbassava e rialzava velocemente, come se avesse appena affrontato una corsa di chissà quanti chilometri. Aveva la nausea. Ancora prima di riuscire a formulare un pensiero ragionevole si scagliò verso di lui, raggiungendolo a grandi falcate. La sua mano si sollevò in aria, colpendo la guancia del ragazzo con un sonoro schiocco che risuonò nell’aria umida del bagno. Lo guardò negli occhi, fiera e fragile al tempo stesso. Si stava mordendo le labbra. Stava tremando. «VAFFANCULO.» Stava gridando e non se ne rese neanche conto. Le mani si strinsero attorno alla camicia macchiata di lui, macchiata di sangue, strinse forte il tessuto, scuotendo con le sue esili forze il corpo del fratello. «SMETTILA SMETTILA SMETTILA.» E fu a quel punto che crollò. La testolina argentata si piegò in avanti ed iniziò a singhiozzare, in modo incontrollato, come non ricordava di aver mai fatto prima
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    d’ora. «Perché? Perché non vuoi farti aiutare da me? Perché mi odi così tanto da farmi questo?» Sentì le ginocchia vacillare. Provò ad aggrapparsi con più forza alla sua camicia, ma non ce la fa. Crolla a terra, sulle ginocchia, la testa bassa, singhiozzando ancora e ancora. Nessuno poteva dire di averla mai vista in quello stato. Wednesday Mortimer era sempre stata una ragazzina controllata che raramente metteva in piazza i propri sentimenti, se non con le rare persone a lei care. Ma dubitava che qualcuno l’avesse mai vista così. Probabilmente stava avendo un attacco di panico. Le mancava l’aria e le formicolavano le mani. «Io..» stava ansimando. Qualcosa sembrava impedire alle parole di venir fuori. «… Io non ce la faccio più..» Una confessione, una crepa nella resistente armatura che la rivestiva, una spaccatura che avrebbe permesso a Tuesday di spiarci dentro. «Non ce la faccio più a continuare così.. A fingere che tu non esista..» La sua voce tremò più di quanto potesse immaginare. «Cosa vuoi che faccia? Ti prego dimmelo.. Dimmelo e io lo farò.. Ma smettila.. Smettila di ignorarmi.. Perché io.. Io..» Chiuse gli occhi, stringendo le palpebre e le dita si strinsero attorno al tessuto della gonna. «Non ce la faccio più..» Odiami se vuoi. Ma non fingere che io non esista.. Se lo sarebbe fatto andare bene se era quello che lui voleva.
     
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