We paint houses

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    « No no no, non se ne parla proprio. Tuo il casino, tua la responsabilità di ripulirlo. » sentenziò, inamovibile, mentre si incastrava il cellulare tra l'orecchio e la spalla. Seh, ci manca pure che adesso mi metto a fare terapia di coppia a Jeff e Delilah. Lo sapevo io che non dovevo aiutarlo in quella roba delle mimose. Da un dito si sta prendendo un braccio. E quella volta, davvero Raiden non si sarebbe immischiato, non quando il favore che l'amico gli aveva chiesto significava convincere una ragazza già di base isterica a perdonare il proprio fidanzato per aver dimenticato il loro anniversario. « Eddai ti prego!! Con te ci parla. La sai prendere per il verso giusto. Io non sono bravo con le parole. Almeno buttami giù un mezzo discorso da imparare. » Sbuffò, cominciando ad alterarsi. « Ma assolutamente no. Non è mica la mia di ragazza. Mi hai messo in mezzo alla vostra relazione e bo..pare che stia con me, adesso. No no, te la sei scelta e te la tieni. Se ti sei scocciato la lasci, ma questo è proprio un favore che non puoi chiedermi, Jeff. » Estrasse le chiavi dalla tasca, avviandosi a passi svelti per il corridoio dello studentato senza dare troppo adito alle varie preghiere disperate che il compagno di corso gli stava rivolgendo dall'altro capo della cornetta. E se già aveva smesso di ascoltarlo, quando arrivò di fronte alla porta della propria stanza, si alienò completamente. Dal lato dei cardini, accanto allo stipite, giaceva un piccolo foglietto bianco dalle dimensioni quadrate; lo stesso foglietto che Raiden, ogni qualvolta uscisse dalla stanza, infilava sulla fessura tra il bordo superiore e la cornice come piccolo sistema per capire, al proprio ritorno, se qualcuno fosse entrato nei suoi spazi. Paranoico? Sì. Non ci era nato ma la vita ce lo aveva fatto diventare, e di certo fuggire dal Giappone non lo aveva reso più sereno; pur dopo tutti quei mesi di calma piatta, Raiden continuava a pensare che non si potesse mai essere troppo cauti, e prendeva puntualmente una cifra quasi ridicola di precauzioni per fronteggiare ogni eventualità. Chiuse infatti il telefono in faccia a Jeff, mettendolo in modalità aerea prima di guardarsi intorno con aria circospetta per capire se il corridoio fosse sgombro. Non c'era nessuno. La maggior parte della gente doveva essere a cena, probabilmente. Con movimenti felpati aprì la tracolla, estraendone un paio di pugnali sai prima di lasciarla lentamente all'angolo della porta per non avere i movimenti intralciati nel caso in cui si fosse rivelato necessario. Schiuse quindi l'uscio pian piano, facendosi largo un passo alla volta senza far rumore. Movimenti, quelli, che per Raiden erano diventati una seconda natura che si innescava in maniera automatica all'occorrenza. Fu solo quando richiuse la porta che un sibilo lo portò a inclinare la schiena all'indietro velocemente, schivando per poco un kunai da lancio. « Allora non ti sei rammollito del tutto tra questi occidentali. » Erano passati mesi dall'ultima volta che Raiden aveva sentito parlare in Giapponese al di fuori del contatto lycan. Me lo immaginavo più romantico, il momento in cui avrei risentito la mia lingua di persona. E di certo, trovarsi di fronte a un ex commilitone armato fino ai denti, era tutto tranne che romantico. « Immagino che la tua non sia una visita di cortesia. » Il soldato sospirò, guardandosi intorno. « Certo che è proprio un downgrade. Sei scappato per rintanarti in questo buco quando in Giappone avresti avuto un palazzo? All'inizio ho trovato strano che Penelope non vivesse con te, ma dopo aver visto questo squallore si spiegano tante cose. » Scosse il capo. « Non hai proprio saputo provvedere. » E sulla scia di quelle parole, senza preavviso, il soldato si scagliò contro Raiden, dando inizio ad una colluttazione senza esclusione di colpi. Una che, Raiden lo capì subito, non aveva l'obiettivo di stordirlo e portarlo via, ma di ucciderlo. O me o lui. Una scelta sulla quale il giovane Yagami non tentennò neanche per un istante, spinto da un'abitudine e da una forma mentis ormai troppo inculcata per disfarsene. Nella lotta, diversi oggetti caddero in terra, accompagnati dai rumori sordi dei loro corpi che si infrangevano contro pareti e mobili ad ogni colpo avversario. Dall'altro lato della parete, qualcuno diede un paio di botte al muro con un pugno. « YAGAMI! ANCORA? E FATTI UN CAZZO DI MUFFLIATO! » Approfittò di quella voce, che parve distrarre per un istante il suo oppositore, per scagliarvisi contro e farlo cadere in ginocchio con due colpi di sai ben assestati sugli stinchi. A quel punto gli avvolse il collo in una precisa morsa del braccio, cercando di resistere come poteva ai tentativi dell'altro per divincolarsi. « Non sopravvivrete. Né te, ne lei. » sfiatò l'ex compagno ormai rosso in volto per il soffocamento. E nell'ascoltare quelle parole, Raiden non si accorse che questo era riuscito a riprendere in mano il kunai che gli era caduto. Se ne rese conto solo quando fu troppo tardi, e la lama gli era stata conficcata nella coscia. Fu forse il terrore di farsi sentire da altri studenti, che lo trattenne dal cacciare un urlo di dolore a pieni polmoni, mordendosi la lingua con un po' troppo impeto. Trac. Un colpo secco e il corpo del soldato si accasciò esanime col collo spezzato. Il cuore di Raiden pulsava a pieno ritmo quasi volesse sfondargli la cassa toracica, mentre scivolava a scatti lontano dal corpo, lasciando una scia di sangue sulle moquette. Eppure non si concesse neanche un istante, estraendosi velocemente il pugnale dalla gamba con un gemito di dolore. Forse è stato stupido da parte mia tentare di illudermi del fatto che sarei davvero potuto scappare, che prima o poi questo momento non sarebbe arrivato. Non sono mai potuto fuggire da questa cosa - dal sangue, dalla morte, dai continui omicidi. È ciò che mi definisce. L'unico modo in cui mi permetteranno mai di lasciarmi alle spalle questa vita, è lasciandomi alle spalle la vita in toto. Lo sapevo. Ma forse non volevo crederci. Forse Raiden aveva davvero voluto sperare per un breve momento, che non si sarebbe mai più trovato nella situazione di combattere contro un altro essere umano per la propria vita e di realizzare ancora una volta che lui, in fin dei conti, era davvero bravo solo a fare quello - a uccidere. « Ferula. » Delle spesse bende comparvero a fasciargli la ferita, dandogli modo di rimettersi in piedi e trascinare il cadavere verso l'armadio in cui lo chiuse, fuggendo poi velocemente dalla stanza.
    [..] Penelope Shigeko. Arrivare a trovarla non era stato difficile, in seguito al loro incontro ad Inverness. Si era infatti reso conto che la bionda era anche sua compagna di corso, e a quel punto non ci era voluto molto per fare due più due e dare anche un cognome a quel volto. Sulle prime aveva provato a contattarla col legame lycan, ma per qualche ragione non era riuscito a connettersi a lei. Il che, se possibile, gli mise ancora più urgenza in corpo nel farsi tutto il campus di corsa con il sudore freddo che gli faceva appiccicare addosso capelli e vestiti e la chiazza di sangue che si allargava sulla benda. Ci pensò l'adrenalina, ad attutire il dolore della ferita, permettendogli di non avvertirlo per tutta la durata della sua corsa contro il tempo. Cazzo, potrebbe essere già morta. Corse dritto nello studentato Corvonero, fermando ogni persona per chiedergli quale fosse la stanza della bionda finché qualcuno non seppe dargli una risposta e, una volta arrivato di fronte alla porta che gli era stata indicata, cominciò a bussarvi senza tregua. Quando il volto della bionda sbucò finalmente di fronte a lui, il giovane Yagami si concesse finalmente di respirare, appoggiandosi con una mano allo stipite della porta in un moto di profondo sollievo. « Sono arrivati. Dal Giappone. Sono venuti a cercare me. E anche te. » disse veloce, col fiato corto, in giapponese. « Fammi entrare, ho la gamba ferita. » E non possiamo parlare di questa roba in mezzo al corridoio. Cazzo, ho un cadavere nell'armadio. Non lo disse, ma l'occhiata di eloquente urgenza che le rivolse la diceva probabilmente lunga.

     
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    Well mother, what the war did to my legs and to my tongue
    You should've raised a baby girl, I should've been a better son
    If you could coddle the infection, they can amputate at once
    You should've been, I could have been a better son



    Non è mai stata una persona impulsiva. Incredibilmente veloce a prendere una decisione su due piedi, sì, ma perfino nella frazione di secondo tra il rumore che il maglione leggero causa nel cozzare delicatamente contro il pavimento ed il sibilo soffocato della porta scorrevole del piccolo bagno che si apre, Penny ha già premeditato la mossa da fare. Si volta di scatto, centottanta gradi misurati al millimetro, la treccia che le sbatte sulla spalla destra per il turbinio d’aria. Faccia a faccia con una silhouette femminile che riconosce solo dopo un mancato battito di ciglia. Scattano entrambe, feline, verso sinistra — Penny scarta di lato e l’altra la segue, il rumore sordo del corpo dell’asiatica che rovina a terra. Si aggrappa alla prima forma solida che la mano incontra per non cadere e per schivare la lama del pugnale che Aki tiene ancora stretto tra le dita — una mano sul bordo della scrivania e l’altra contro allo schienale della sedia, allunga velocemente il piede, pestando forte sul polso della ragazza.
    Per un secondo, un flash sbuca dal pozzo dei ricordi ed è molle, come se Penelope ci si potesse abbandonare comodamente e sentire i muscoli tesi nella stessa posizione, a schiacciare con decisione, ma senza esagerare, la mano di Aki durante l’addestramento. Lo scaccia. Questa volta preme con forza, spingendosi quindi in avanti, troppo, tradendo la stabilità della sedia che si ribalta sotto alla sua mano, facendole perdere l’equilibrio. L’unica scelta che ha per salvarsi è quel pugnale, quel pugnale per cui litiga con Aki per terra, riuscendo a scagliarlo a filo del pavimento dall’altra parte della stanza solo per la velocità contro cui l’ha puntato. Per terra, Aki che respira a quattro zampe e Penelope appena sollevata grazie agli addominali si scambiano per una frazione di secondo uno sguardo di sfida. Aki carica con la forza di una belva, ed è forse la botta all’osso sacro contro al pavimento a farle cedere campo — ce l’ha al collo senza che se ne renda nemmeno conto, la spinge contro il petto a terra e le stringe le mani attorno alle vie aeree. Le sta addosso in una posizione scomposta, Aki, una gamba in mezzo alle sue e l’altra a lato, che spinge con la forza delle spalle sulla trachea — e per quanto le si annebbi la vista, deve riconoscere che non è cambiato nulla: Aki non riflette sui dettagli. Ci vuole tutta l’energia che riesce a raccogliere, ma è la disperazione che la porta a calciare contro il suo corpo, togliendosela di dosso e scagliandola un paio di metri più in là. Aki cade all’indietro, accusa il colpo per quanto il suo spirito le urli di evidentemente di rialzarsi, da come si dimena mentre sobbalza. Penny ha un secondo — il tempo di allungare una mano verso la bacchetta che prima è scivolata dalla scrivania e di allungare il braccio in diagonale verso il corpo del soldato, «Petrificus totalus!», le uniche parole pronunciate dall’inizio di quell’intrusione, più alte di quanto avrebbe voluto nonostante la gola in fiamme. Il corpo di Aki cade immobile contro il pavimento in una posa scomposta.
    Respira, Penelope. La migliore arma di Aki, lo ricorda bene, è sempre stata il silenzio — aveva coltivato il vantaggio della sorpresa, dell’assoluta mancanza di eruzione nei suoi movimenti. Sciolta come un felino, ma troppo impetuosa per il suo bene. La sua migliore avversaria, tra le reclute dell’esercito. Respira. Erano amiche, un tempo — Aki inghiottiva ambizioni di gloria come un assetato che è stato finalmente beato della sua oasi, ma avevano stabilito una convivenza pacifica come commilitoni. Fatica ancora a metabolizzare che abbiano mandato proprio lei, ad ucciderla — come a chiudere un cerchio di rivalità che si tirava avanti da troppo.
    Si solleva, un sorriso tronfio ma l’ombra del dolore nel sospiro di sollievo che tira nel mettersi in piedi sulle gambe. La bacchetta ancora stretta nella mano sinistra, alza un sopracciglio nell’avvicinarsi al corpo cristallizzato di Aki. «Incarceramus», ha tutto il tempo per far comparire le spesse corde che vanno a sigillare gli arti della nemica. Si ferma, quindi — Aki resterà ko ancora per qualche ora, e questo le darà il tempo di capire quantomeno come interrogarla per farsi rivelare davvero quanto la sua vita è in pericolo. Non è sola, ne è sicura: l’esercito avrà mandato altri soldati a cercare tutti fuggitivi.
    Ed ora si trova Aki legata ed immobile, e pondera se provare a spostarla, onde evitare che- un boato assordante di colpi contro alla porta, insistenti e secchi, che si ripetono uno dopo l’altro con urgenza. È con un panico liquido e gelato che trascina il corpo di Aki da sotto alle ascelle, andando infilarla nella nicchia tra il letto, il comodino ed il muro, un punto cieco dalla porta della stanza.
    Si precipita all’entrata, chiudendo il chiavistello che ha fatto aggiungere appositamente per i momenti come questo. Respira, prima di aprire la porta — può essere un compagno del dormitorio di Corvonero venuto a lamentarsi, o spinto dalla preoccupazione per il rumore, oppure qualcun altro pronto ad ucciderla. Va a raccogliere il pugnale, ed apre, per quello spiraglio che il chiavistello concede. « Sono arrivati. Dal Giappone. Sono venuti a cercare me. E anche te. », come un treno, Raiden schianta le informazioni con uno sguardo irremovibile ed eloquente, in giapponese. Solleva un sopracciglio, istintivamente — Sono già arrivati. « Fammi entrare, ho la gamba ferita. ». Non riesce esattamente a vedere cosa sia successo dallo spiraglio di porta aperta, ma sente l'affanno della sua voce. Dall’assemblea è riuscita a collegarlo vagamente a Mahoutokoro — non abbassa gli occhi, una mano stretta al pugnale e le dita dell’altra attorno alla bacchetta, in allarme. Eppure, dopo un gioco di sguardi che dura qualche secondo, l’istinto le fa chiudere la porta, scostare il chiavistello e lasciarlo finalmente entrare. Alza comunque il braccio che impugna l’arma prima di scostarsi dall’ingresso, ma non appena spunta dall’uscio, Penelope realizza che Raiden ha detto la verità: la spessa fasciatura che lega la sua gamba tradisce comunque il sangue fresco che ancora la bagna al di sotto. Dietro alle sue spalle, Penny chiude là porta con un doppio giro di chiave, spostando nuovamente il gancio e lasciando perfino le chiavi nella toppa.
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    «Siediti», non è difficile tornare alla sua lingua natale, anzi — lascia scivolare i suoni sulla lingua quasi sollevata. Gli fa un cenno con la mano in direzione della piccola poltrona, realizzata quasi sorprendente su misura per le sue fattezze minute. «Che cosa ti è successo?», domanda, andando ad infilarsi nuovamente il maglione con lentezza per non sforzare il collo dolorante. «Lei è uscita dal bagno», annuncia, quindi, spostandosi dall'altro lato del letto per recuperare il corpo di Aki, che trascina per i piedi, rimettendolo in bella vista, al centro della stanza. «È solo pietrificata», specifica. Non ha idea di come non si sia potuta accorgere dell’intrusione — si morde la lingua per la delusione, Penelope, tornando sui suoi passi per fronteggiare il ragazzo. «Sono curiosa di sapere che avrà da dire quando si sveglia», ammette, stringendosi nelle spalle, perfettamente inserita nella parte nonostante non abbia avuto alcun preavviso.
     
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    Non avrebbe saputo dire per quale ragione nello specifico, ma quando le chiese di farlo entrare e lei lo fissò in silenzio per qualche istante, Raiden ebbe l'impressione, da qualche parte nel proprio cervello, di potersi fidare di Penelope. Se logicamente poteva spiegare quella fiducia come una semplice intuizione - perché d'altronde, se anche lei era lì in Inghilterra e non in Giappone, una ragione doveva pur esserci -, istintivamente non si sapeva spiegare il perché di una tale convinzione poggiata sulla base del nulla più totale. Ma sei una lycan anche tu. E sei qui. Deve pur valere qualcosa. Il rumore del chiavistello che si apriva interruppe il silenzio, lasciandogli libero passo per entrare nella stanza e lanciare uno sguardo veloce al pugnale che la bionda brandiva. Osservò il coltello e poi il volto di lei, inespressivo, fin quando Penelope non ripose l'arma. « Siediti. » Rivolse un'occhiata veloce alla stanza, scandagliandola e individuando la poltroncina che lei gli aveva appena indicato. La raggiunse senza proferire parola, cadendovi quasi a peso morto prima di stendere meglio la gamba di fronte a sé e controllare la fasciatura già zuppa di sangue. Sospirò. Beh di certo la maratona non ha aiutato. « Che cosa ti è successo? » Le lanciò un'occhiata e sollevò in silenzio un orlo della felpa, estraendo dal pertugio tra la cintura e i jeans, il pugnale con cui il compagno lo aveva colpito. Se lo mise di fronte al volto, mostrando a Penelope quel kunai che doveva esserle piuttosto familiare. « Gentile omaggio dalla madrepatria. » Sospirò, facendosi rigirare l'arma tra le dita prima di proseguire a spiegare. « Sono entrato in stanza e lui era già lì. Mi ha aggredito praticamente subito. Faceva parte del mio stesso battaglione..ai tempi. » disse, guardandosi poi intorno per individuare alcuni piccoli segni di colluttazione che probabilmente sarebbero sfuggiti ad occhi meno esperti. Le iridi scure del giovane, a quel punto, corsero subito al viso della propria interlocutrice, interrogative. « Lei è uscita dal bagno. » Ed eccola lì, la risposta: un'altra leva dell'esercito stesa in terra, rigida come un pino. La fissò, cercando di riconoscerne i tratti. L'aveva già vista, ma era solo uno dei tanti volti vagamente noti nella sua memoria. L'immagine non parve turbarlo: rimase piuttosto a squadrare con freddezza quella figura, interrogandosi cinicamente sul da farsi. « È solo pietrificata. » Annuì. Si vedeva. Te la sei passata meglio del tuo degno compare, eh? Sospirò, estraendo la bacchetta per puntarla sul kunai del compagno. « Revelio. » Non accadde nulla. Sbuffò una risata dalle narici, scuotendo leggermente il capo e riponendo il pugnale lì da dove lo aveva estratto poco prima. Nessun veleno? Strano. La qualità dell'esercito deve essere scesa drasticamente dopo la mia dipartita. Non mi sorprenderebbe: hanno fatto prendere il mio posto a quel pollo di Hiroshi. È solo normale che non riescano a far fuori due bersagli impreparati. Ma nonostante ciò, Raiden aveva una gamba ferita che grondava di sangue e aveva bisogno delle giuste cure. « Sono curiosa di sapere che avrà da dire quando si sveglia. » Lo sguardo passò dalla propria gamba, alla donna stesa e poi a Penelope. « Non possiamo farlo qui. » Lo studentato è pieno di gente e non sappiamo se questi due avessero compagni, se si siano dati una qualche organizzazione o cos'altro. Potrebbero piombarne qui altri da un momento all'altro, per quel che ne sappiamo. Volse uno sguardo alla finestra, allungando appena il collo. « Con un po' di attenzione potremmo usare le scale antincendio per portarla in qualche luogo sicuro e interrogarla. » Ci pensò un attimo. « Forse la Stamberga. » Tanto si chiama già Strillante. Se pure le urla dovessero sovrastare il Muffliato, nessuno si porrebbe chissà quali domande. Perché Raiden, nel parlare di interrogatori, dava per scontati i metodi che gli erano stati insegnati nell'esercito. Metodi che di gentile e rispettoso non avevano nulla e che ai più sarebbero risultati brutali. Scoccò quindi un'occhiata a Penelope. « Interrogavi, a casa? » le chiese, volendosi informare su quanto effettivamente la bionda fosse connessa all'esercito e quanto eventualmente fosse abituata a certe visuali. Una domanda che le pose con la stessa semplicità con la quale si chiederebbero le temperature previste per la giornata. Casa - era ancora così che la definiva. Era quello Raiden, o almeno quello era ciò che a lungo era stato. Un lato di sé che, in seguito alla rivelazione che lo aveva portato a fuggire, il giovane Yagami aveva iniziato a disprezzare. Eppure lì, di fronte a una persona che poteva capirlo e in una situazione che quel suo lato lo stanava facilmente, Raiden ebbe come l'impressione di essere tornato indietro nel tempo - di non essersene mai veramente andato dal Giappone. A volte rimani bloccato in un luogo anche se non ti trovi più lì fisicamente. E Raiden era così: bloccato. Voleva lasciarsi alle spalle ciò che era stato obbligato a diventare, ma allo stesso tempo non riusciva a disfarsene, portando perennemente con sé il fardello di insegnamenti che avevano preso radici troppo profonde nel suo animo per essere sradicati. « I più grandi miracoli della disciplina militare, che sono stati oggetto dello stupore di tutti gli intenditori, sono diventati oggetto del mio sincero disprezzo; Ho preso gli ufficiali come tanti maestri addestratori, i soldati come tanti schiavi, e quando l'intero reggimento faceva il suo dovere mi sembrava un monumento vivente alla tirannia. » - l'aveva detta bene Kleist. Ormai il giapponese aveva perso ogni tipo di sensibilità di fronte alla morte o alla violenza: entrambi elementi che erano stati parte così integrante della sua vita negli ultimi anni, che ormai gli apparivano quasi naturali, inevitabili, come la pioggia. Sospirò, srotolandosi le bende per controllare lo stato della ferita. Era piuttosto profonda. « Ci vorrà qualche giorno. » constatò, dandogli un'occhiata. Ma guarirà, con le giuste cure. Devo solo capire come ottenere certe pozioni senza dover dare spiegazioni a nessuno. « Hai del disinfettante? E magari una pozione curativa di base per tamponare un po' i danni fino a domattina. » Ma qualcosa sembrò attirare il suo sguardo, portandolo ad aggrottare la fronte ed aguzzare la vista nell'osservare meglio la ferita. Impugnò la bacchetta con decisione. « Lumos. » Strinse i denti, ignorando il dolore mentre col pollice e l'indice stirava la pelle quanto bastava a guardare l'interno di quello squarcio. Macchioline nere, piccole ma abbastanza visibili ad occhio nudo. Un brivido freddo andò a corrergli lungo la schiena mentre la luce della sua bacchetta si affievoliva fino a sparire. Sentiva il cuore martellargli nel petto con decisione, ma deglutì, lasciando la presa sulla ferita. « È avvelenata. » una constatazione che uscì glaciale dalle sue labbra, senza alcuna inflessione, come se le stesse comunicando qualcosa di estremamente triviale. Not my first rodeo. « Penso sia qualche sostanza non tracciata. Dobbiamo interrogarla alla svelta. Non so quanto possa metterci a fare effetto. » E detto ciò, castò una nuova fasciatura sulla propria gamba, facendo leva sui braccioli della poltrona per alzarsi in piedi. Col cazzo che muoio in questo campus di merda.

     
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    « Gentile omaggio dalla madrepatria. », non si avvicina, Penelope, ma il suo sguardo cattura la luce della lampada pendente pende dal soffitto che si specchia nella lama del kunai. Tra lei e quel pugnale ci sono solo una manciata di passi, ma tutto ciò che è stata e tutto ciò che è oggi è lì, steso a terra, nei passi che la dividono dal ragazzo e dall’arma. « Sono entrato in stanza e lui era già lì. Mi ha aggredito praticamente subito. Faceva parte del mio stesso battaglione..ai tempi. », resta interdetta per una frazione di secondo, fissando Raiden con un sopracciglio sollevato, confusa. Anche tu eri nell’esercito, quindi. Lo sospettava, ma non ne era sicura. Annuisce, breve, un semplice cenno del mento che si abbassa, la mascella che taglia l’aria come un coltello da burro affonda nel morbido.
    Dopo aver trascinato il corpo di Aki fino al tappeto, solleva la schiena con un sospiro, «Anche lei faceva parte del mio battaglione», e non c’è emozione, nel tono di voce. Non c’è quell’umanità che tutti le assegnano con una schioccata di dita, solo al primo sguardo. È ferita, forse, nel profondo, ma ci penserà tra due, tre, sei mesi. Un anno. Ci penserà quando tutta questa notte sarà chiusa in un cassettino della memoria, buttata alle sue spalle come un sacco pieno di balocchi che penzola contro alla schiena possente di un padre.
    « Non possiamo farlo qui. », Vero, gli concede, mentalmente. Si appoggia sul bordo del letto, quindi, le braccia tese all’indietro per sostenerla mentre lancia uno sguardo d’assenso a Raiden. «No, non possiamo farlo qui», conclude, sulla sua scia. Tutti sentirebbero, tutti accorrerebbero alla loro porta e sarebbero scoperti in tempo zero, senza contare i possibili — sicuri, per Penelope — altri fedeli alla causa che camminano per le strade di Hogsmeade e dintorni.
    « Con un po' di attenzione potremmo usare le scale antincendio per portarla in qualche luogo sicuro e interrogarla. », attende, quindi, muove le orecchie impercettibilmente, mentre cerca di aiutarlo in qualche modo — ma non conosce ancora abbastanza il suo luogo d’espatrio per fornire una lista di luoghi sicuri per interrogare qualcuno come è stato loro insegnato. « Forse la Stamberga. », alza gli occhi, quasi come un automa, puntandoli nelle iride scure di Raiden. Quindi, sorride. «Sì, può funzionare», concorda. « Interrogavi, a casa? », A casa. A Casa. Non pronuncia quelle parole da troppo tempo, che il concetto si è ridotto ad una serie di sfocate linee di contorno. A casa, le cascate Nunobiki sono considerate tra le cascate più grandi, addirittura divine — Penelope le ha visitate con Kimiko e Satoshi ancora da bambina, e ricorda che era così, così fiera di vivere nella sua città, con i suoi genitori
    Distoglie gli occhi da un punto imprecisato nella stanza in cui si era appena aperto un passaggio per tornarci, a Casa, per sentire gli spruzzi dell’acqua e del vapore in faccia anche a metri di distanza, per la potenza con cui la cascata tocca il terreno. Torna su Raiden, libera dalla trappola della nostalgia, «Poche volte da sola», ammette, quindi, piccata, «Ma ho guardato ed aiutato per anni».
    Non è priva di una morale, o di una coscienza, Penelope — non è né era nemmeno così incline alla violenza, in tutto ciò che non riguarda la sua esperienza con l’esercito. Il branco è ancora qualcosa di troppo estraneo alla sua concezione di vita, forse, nonostante all’assemblea si sia detta favorevole. Fluttua nel mezzo, Penny, tra la macchina e la persona, gli ordini e lo spirito critico che sua madre temeva confluisse nella sua buona condotta di soldato — ma non è successo. Penny è brava, a seguire gli ordini. Arriva addirittura ad anticiparli, una volta ingranata la marcia giusta.
    « Ci vorrà qualche giorno. », annuisce, rilassa le spalle, chiude gli occhi per un secondo, lasciando cadere il capo all’indietro. Non pensava che Casa avrebbe bussato alla porta così presto.
    Ma non ha molto per riposare la mente — « Hai del disinfettante? E magari una pozione curativa di base per tamponare un po' i danni fino a domattina. », scatta in piedi, piegando la testa di lato, «Certo». Si avvia verso l’armadio, allungando la mano verso una scatola delle scarpe, anonima, lasciata sul fondo. È ancora con la testa infilata tra i vestiti che penzolano dalle grucce, che si immobilizza completamente: « È avvelenata ». Si volta di scatto, passando lo sguardo dalla gamba di Raiden ai suoi occhi improvvisamente chirurgici. Ovviamente. Afferra la boccetta contenente l’essenza di dittamo e la infila nella tasca della giacca, che indossa senza perdere tempo. « Penso sia qualche sostanza non tracciata. Dobbiamo interrogarla alla svelta. Non so quanto possa metterci a fare effetto », non ha bisogno di dedicargli tutta l’attenzione, mentre già ha compreso l’antifona e si è voltata per afferrare le lenzuola del letto, in cui avvolge il corpo di Aki. Fortunatamente, la ragazza è abbastanza piccola da evitare di sporgere dalle coperte, perché il tempo di pensare a qualcosa di più furbo non c’è. Non era preparata ad una cosa del genere, e forse è il momento di rivedere tutte le sue priorità, perché si è rilassata troppo. Nell’altra tasca infila il cellulare, e si avvicina nuovamente all’armadio per tirarne fuori uno zaino, che lancia ai piedi di Raiden, «Puoi portarlo?», gli domanda, mentre raccoglie la bacchetta da terra per infilarla nella tasca dei pantaloni. Si abbassa sulle ginocchia, quindi, raccogliendo il corpo di Aki tra le braccia e tirandosi su piano, controllando di riuscire ad essere stabile e che, tra tutte quelle coperte, anche se dovessero incontrare qualcuno non si potrebbe dire che cosa stia trasportando con cura. «Ce la faccio», scatta, anticipa quella che immagina sia la sua prossima battuta, «Tu facci arrivare senza problemi alla Stramberga, io ce la faccio a portarla».
     
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