« E questo è quanto. » Lo sguardo basso e la faccia funerea accompagnano Fujiko nel silenzio che segue la sua confessione. E quel silenzio si prolunga talmente tanto che la ragazza comincia a sbiancare, un po' alla volta, con l'agonizzante pensiero di voler rialzare disperatamente la testa per guardare Goro e Mali Yamazaki in volto. Perché quel silenzio è diventato talmente opprimente e pesante da risultare una quarta persona, in carne e ossa, presente nella stanza numero 41 del reparto "Avvelenamento da Pozioni e Piante Velenose" del San Mungo. Ha una stanza tutta per sé, il signor Goro, la cara figlioletta, la perfetta e fedele Fujiko non avrebbe permesso niente di meno e mai come quel momento la ragazza ha odiato quel suo eccesso di zelo. Perché se ci fosse stato qualche altro paziente in stanza, è probabile che sarebbe riuscita a trattenersi dal vomitare fuori tutte le menzogne che ha raccontato loro per quei due interminabili anni non appena l'uomo, decisamente in forze quel giorno, ha cominciato a blaterare nuovamente di quanto fosse orgoglioso del posto che, ai suoi occhi, appariva sempre più chiaro essere il prescelto per Fujiko.
« Un giorno otterrai tutto ciò per cui abbiamo lavorato in questi anni. » Abbiamo. Abbiamo chi? « E ora che non ho più la spada di Ichiro calata sulla testa, potrai finalmente sposare Raji. » « Oh, il caro Raji non è ancora mai venuto a farci visita. Come sta? » E' forse il sentirli parlare di quella presunta libertà, quella che non ha mai veramente avuto sotto il loro stretto controllo in Giappone, che ha aperto gli argini e l'ha portata a raccontar loro quanto non abbia studiato nemmeno un giorno nella facoltà di Magisprudenza, quanto in realtà sia diventata il perfetto frutto di ciò in cui il Sacro Paese l'ha trasformata.
Un soldato. Diventerò ciò che non hai mai voluto diventassi. Vorrebbe aggiungerlo, Fuji, vorrebbe vomitargli tante altre cose addosso ma il senso di colpa e di vergogna la costringono ad un mutismo assoluto, la bocca cucita da mille aghi che diventano ancora più dolorosi quando sente il padre muoversi sotto le lenzuola, borbottando alla moglie che poteva benissimo farcela da sola.
Nell'impresa di sedersi, immagina la figlia che ha ancora la testa bassa, in quell'ultimo pallido riflesso di rispetto che la farebbe quasi ridere per quanto le appaia falso dopo averli pugnalati con la verità.
« Il dottore dovrebbe essere qui a momenti » Dice poi, con un tono di voce che le suona così vacuo e lontano.
« Lo vado a chiamare subito. » « No. » La mora che si era scongelata per muovere un passo verso la porta, si riblocca all'istante.
« Hai fatto già abbastanza per oggi. » Allora lo trova il coraggio per alzare la testa e fissarlo con gli occhi gialli che lasciano trasparire tutta la desolazione che al momento prova.
« Chichioya.. » « Questo è quanto. » Si morde il labbro inferiore, Fuji, dandosi della stupida quando vede che la madre rifugge il suo sguardo, decidendo di non darle alcun appoggio.
Sapevo che sarebbe andata a finire così, di che mi stupisco? Così annuisce a labbra strette, fa un piccolo inchino ed esce velocemente da quella stanza in cui non riesce più a respirare. E corre via, giù per le scale, con un magone crescente nel cuore e gli occhi che minacciano di riempirsi di lacrime. Una volta in strada, si guarda intorno, alla ricerca di un riparo per dare sfogo a tutto ciò che sente ribollire dentro. Ma è con un sonoro schiaffo che placa ogni suo impulso e si costringe a riprendere in mano le redini di se stessa.
Non sei questo, riprenditi. Stringe gli occhi, inspirando profondamente, prima di riaprirli e sorridersi attraverso il riflesso che ha di sé grazie alla vetrina di un negozio.
Va tutto bene, alla grande come sempre. Si convince, così come ha sempre fatto in vita sua, ogni volta che il signor Yamazaki ha deciso di fare una
scenata, mentre si incammina frettolosamente verso il quartiere magico di Diagon Alley. Lì dove incontrerà Hiroshi, l'unica persona che ha veramente voglia di vedere in quel momento.
Così come è sempre stato. Non è cambiato niente. Scuote la testa, imponendosi di smetterla di pensare agli occhi persi di sua madre nel non riconoscere la propria figlia. Si stringe nel lungo cappotto lungo fino ai piedi, verde scuro, e abbassa lo sguardo per non incontrare quello dei maghi di cui ha sempre attirato la curiosità.
Tutta colpa degli occhi. Così cammina fissando i ciottoli che via via si vanno dispiegando fin quando non arriva alla porta della sala da tè a cui le è stato dato appuntamento. E' quando lo vede alzarsi, da lontano, per farsi notare che si ritrova a trarre un respiro di sollievo.
Sono al sicuro ora. « È bello rivederti, scheggia. » Si ritrova a gonfiare le guance con un sorriso nel sentire nuovamente quel suo soprannome e nel notare l'inchino che le porge.
Non c'ero più abituata. « Hiro. » Saluta di rimando prima di abbassare gli occhi per notare la terza figura del quadretto.
« E tu chi saresti? » Saluta il cagnolino, fissandolo qualche istante prima di prendere posto davanti a lui per poi ordinare giusto una tazza di tè nero e null'altro da mangiare. Torna a guardare l'animaletto incuriosita ma non abbastanza da toccarlo.
Magari poi mi morde perché sente che sono un gatto.« Se un paio di mesi fa mi avessero detto che la prossima volta ci saremo incontrati in Inghilterra - terra della tolleranza e del rispetto - mi sarei messo a ridere. » Inarca le sopracciglia con fare ironico mentre viene raggiunta dalla consapevolezza che sì, sembra surreale essere lì con lui, così lontani da casa.
Ma è mai stata davvero casa per me? « Dal tuo tono azzarderei che hai scoperto già le meraviglie di questo posto. » Piega le labbra in un sorriso sibillino mentre appoggia le spalle contro lo schienale.
« Per un'esperienza completa ti consiglio di farti un salto da Madama McClan. Vedrai che accoglienza con i fiocchi. » Dopo essersi ritrovata faccia a faccia con la pura ignoranza della proprietaria - e no, l'avanzata età non può essere considerata una scusa -, Fujiko non vi ha più rimesso piede eppure eccola lì, con gli occhi da gatto che ispeziona fuori dalla finestra per indicargli la vetrina del negozio incriminato, dall'altra parte della strada.
« Però sappilo: non vendono tappeti orientali, nel caso te lo stessi chiedendo. » Abbozza una risata leggera prima di tornarlo a guardare. No, osservare. Ricerca i cambiamenti nel suo volto sempre così pulito, nota un paio di cicatrici in più sulle guance.
Ferite fresche, accanto alla pallida ombra che gli delinea da sempre la mascella. Si domanda allora se gli ha mai chiesto a cosa fosse dovuta.
« Come sta Yamazaki-san? Spero che Jotaro li ha trattati bene durante il viaggio. Era l'unica persona di fiducia disposta a lasciare Tokyo subito dopo la liberazione. Ho fatto del mio meglio. » Una domanda che si aspettava di certo a cui reagisce però con una stretta di denti evidente. Cerca di rilassarsi nell'immediato.
« Si è comportato come d'accordi, può dormire sonni tranquilli. » Risponde ironica cercando di trovare il giusto distacco per rispondere alla domanda primaria.
« Non posso dire che stia meglio, l'avvelenamento era già troppo inoltrato e i danni che ha fatto rimarranno. C'è di buono che perlomeno stanno lavorando sull'arginarli, bloccando quanto più possibile la malattia. » Si stringe nelle spalle, piegando la testa di lato.
« Jotaro, d'altro canto, non ha avuto vita facile con Mali. » Sciabola le sopracciglia.
« Racconta da settimane, ormai, di quando l'ha schiaffeggiato una volta ripresa dalla dose di morfina che le ha fatto per farla salire sull'aereo. » Deglutisce una risata nervosa che nasce dal pensiero che la sua famiglia sia veramente un disastro. Padre allettato, prossimo al decadimento neuronale sempre più rapido, madre con una forma piuttosto asfissiante di agorafobia, tanto da non essere uscita di casa per svariati anni, figlia delusione totale per i suddetti genitori.
« Il tuo viaggio invece com'è stato? » Decide di evitare di parlare appositamente di Ichiro, chiedendogli tra le righe di sua madre ed Eriko.
Quando la smetterai di preoccuparti per lei? Sorride alla cameriera che porta loro le ordinazioni e passa qualche secondo a fissare il liquido scuro dentro la tazza verde menta che ha di fronte a sé. Fissa le spire che risalgono verso l'alto disperdendosi poi nell'aria.
« Quindi? Come stai? Che mi racconti su questo cambio di rotta in territorio inglese. » La voce del moro la costringe ad alzare gli occhi, con un sorriso steso sulle labbra altrimenti disposte in una linea apatica.
« Ho preferito l'America ma anche qui mi trovo bene. » Almeno fino a quando non ho deciso di ricordarmi di essere una figlia, con delle responsabilità sulle spalle. Perché dovevo proprio ricordarmelo? « Per me è stato inaspettatamente liberatorio, questo cambio di rotta. » Ne ricalca le parole usate, immaginandosi quanto lui non si trovi altrettanto bene lì.
« In un certo qual modo è quello che mi serviva. » Spero davvero sia così anche per te. Le parole le rimangono in bocca, decidendo di non renderlo
partecipe di quei pensieri.
« Diventa più semplice col tempo? Dalla mia ti confesso che sto avendo un inizio abbastanza turbolento. A quanto pare devo trovarmi un lavoro per non diventare.. un clandestino. » Ci pensa lui ad aprire il discorso, lasciandola lì a stringersi nelle spalle, con una buffa espressione sul volto, simil senso di colpa. Quello che Raiden le rinfaccia ogni volta, d'altro canto. Perché lei aveva il passaporto diplomatico e non ha avuto alcun problema a scappare dal paese. E una volta lì, iscritta al college, nessuno ha potuto mai darle della clandestina, per quanto l'ha letto in alcuni volti, persino in quelli dei suoi stessi colleghi. Le
r che diventavano
l quando, dopo un'esercitazione batteva il gradasso di turno e questo la prendeva per il culo così, ridacchiando con gli altri.
Ma io sono una Yamazaki. Un mantra che si raccontava per non reagire, lo stesso che ora come ora non sente nemmeno più suo.
« Lo diventa se lasci andare il ricordo. » Fissa per qualche altro istante il tè prima di prenderne un sorso, amaro come il fiele. Esattamente ciò che le serve sul momento.
« Se ti attacchi a casa con le unghie e con i denti, non lo diventerà mai. » Alza gli occhi dalla tazza e fissa le iridi in quelle di lui.
« Hai pensato di iscriverti al college? » Inarca un sopracciglio continuando a fissarlo.
« Anche se non sei interessato, avresti così qualche mese bonus per guardarti intorno e capire cosa vuoi fare veramente. » Che sia un lavoro o qualsiasi altra cosa. Manda giù un'altra sorsata e poggia la tazza sul suo piattino verde menta abbinato.
« Ma c'è qualcosa che ti vedi veramente a fare? » Continua poi, inclinando appena la testa di lato.
« Se vuoi posso dare un'occhiata alle offerte nella bacheca al campus, anche se credo siano perlopiù posizioni part time. » Poco utili per un visto definitivo. Corruga le labbra per qualche istante prima di ridacchiare al pensiero che le nasce spontaneo.
« A meno che tu non voglia sposarti un'inglese. Permesso di soggiorno e rotture a vita in un unico e pratico pagamento, cosa potresti mai desiderare di più? »