Clash of Cultures

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    Londra è la città più vicina per espansione e caoticità che potesse supplire alla nostalgia che aveva di casa. Hiro amava Tokyo; nato e cresciuto nel cemento, era sempre stato un giovane cosmopolita alla ricerca di ogni opportunità che una grande metropoli potesse offrirgli. Aveva deciso di restare temporaneamente nella capitale per trovare la sua dimensione, adattarsi un po' alla volta a quella nuova vita che lo aspettava almeno nei prossimi mesi. Faceva avanti e indietro tra l'Inghilterra e la Scozia ogni qual volta ci fosse bisogno e nonostante la sua famiglia vivesse ormai in pianta stabile dall'altra parte dell'isola, Hiroshi aveva capito che pur avendo bisogno della loro vicinanza, aveva anche bisogno di parecchio tempo per sé. Doveva leccarsi le ferite, abituarsi alla sua nuova condizione di uomo libero e soprattutto accettare tutti i crimini e i misfatti a cui aveva assistito e a cui aveva contribuito negli anni immediatamente precedenti. Aveva iniziato a uscire con Rooney, una studentessa di economia aziendale della East London. L'aveva incontrata durante una delle visite nella sala da tè sotto il suo albergo. Per tutto il mese appena trascorso aveva vissuto in un albergo - sì. Lui e Shinju, la Border Collie che le era stata regalata ormai più di due anni addietro. A Shinju Ronney non piaceva, e a dirla tutta il sentimento sembrava ricambiato dalla ragazza, che non amava i cani, né li considerava adatti per un appartamento, ancor meno per una suite d'albergo. Una vita regolare e apatica, smossa solo dalle regolari visite presso la Città Santa, che stava lentamente tentando di conoscere, provando a guadagnarsi la fiducia e il rispetto di quelle misteriose quanto fiere creature che la abitavano. Era l'unico motivo per cui si trovava lì, oltre alla sua famiglia: Hiroshi aveva preso quel viaggio come un impegno, un dovere che aveva nei confronti di una società che aveva permesso alla sua di tornare a germogliare. Ma era anche un impegno a sdebitarsi per tutto ciò che in passato non aveva fatto nei confronti del Giappone. Se era vero che qualcosa stava per accadere nuovamente, semmai avesse avuto modo di fermarla prima che potesse toccare il Paese del Sol Levante, Hiroshi avrebbe fatto quanto era in suo potere. Tutto ciò richiedeva un certo sforzo da parte sua. Immergersi lentamente in una società completamente diversa da quella che conosceva, integrarsi tra quelle persone, trovare un lavoro o svolgere un'attività che gli permettesse di avere maggiori contatti con nuove persone. Insomma - in generale tutto era più difficile quando era lui a dover andare dalle persone e non viceversa. In Giappone, Hiroshi era un rampollo ricercato, un ufficiale dell'esercito con una rendita di tutto rispetto e una casa da sogno e soprattutto era un giovane uomo di bell'aspetto che poco doveva sforzarsi per far sì che qualunque porta gli si aprisse. Lì, la maggior parte delle persone a malapena lo guardavano, gli rispondevano a mezza bocca e il più delle volte erano addirittura scortesi nei suoi confronti, nonostante l'innata educazione del giovane Nakamura. Ci aveva messo poi un po' per rispolverare il suo inglese arrugginito, motivo per cui, nelle prime settimane ha anche dovuto sorbirsi trattamenti di accoglienza e tolleranza discutibili. La parte peggiore era arrivata quel pomeriggio quando, si era recato al Ministero della Magia per ritirare il suo permesso di libera circolazione. Aveva dovuto subirsi un'ulteriore colloquio con un emissario dell'ufficio immigrazione che gli aveva fatto diverse domande a suo avviso fuori posto. Poiché aveva saltato la trafila del visto turistico, decidendo piuttosto di accedere a un permesso di permanenza stabile di sei mesi, le domande gli erano cadute addosso a pioggia. « Signor Nakamura, senza offesa offesa ma la sua richiesta necessita di una ragione valida. Lei ha una ragione valida? » Il moro assottigliò lo sguardo con un'espressione ormai spazientita. Non era abituato a essere trattato in quella maniera. « La presenza della mia famiglia non è sufficiente? » Spoiler: non lo era. Non in quel caso per lo meno. « Il contatto da lei indicato, signor Nakamura, non è valido. Ci risulta che ha indicato il signor... » L'impiegato scorre la sua domanda alla ricerca del nome di Raiden. « ..il signor Raiden Yagami. » « Professor Raiden Yagami. Dell'accademia di Hogwarts. » La vostra rispettabilissima accademia, se non vado errato. « Aha - proprio lui. Però il signor Raiden Yagami non è residente nel Regno Unito e - da quel che ci risulta tra lei e il signor Yagami attualmente non sussiste alcun legame di parentela. » La cosa lo colpì più del dovuto. Era mortificante e oltremondo offensivo mettere la questione in quella prospettiva. Dal suo punto di vista, gli Yagami erano la sua famiglia in tutto e per tutto. Ma non legalmente. Legalmente i parenti di Hannah non erano nulla per lui. A maggior ragione dopo la morte di Ichiro. « Le viene concesso un visto turistico della durata di tre mesi, prolungabile solo qualora dovesse trovare un impiego fisso nel Regno Unito oppure se ricoprirà una delle seguenti condizioni. » L'uomo gli allunga una lista prima di chiudere definitivamente la faccenda fino a nuovo ordine. Lavoro. Studio. Alti meriti. Attività diplomatiche. Attività di ricerca. E altre fattispecie in cui Hiroshi non rientrava. Era insomma per conto proprio. E se ciò non era bastato, si sentì ulteriormente mortificato quando all'entrata per Diagon Alley gli vennero richiesti i documenti per poter accedere al quartiere magico.
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    Aveva appuntamento con Fujiko. Un incontro che avevano di parecchio rimandato considerando gli impegni di lei e il periodo di assestamento di cui lui aveva avuto bisogno. Shinju trotterellava allegramente al suo fianco quando imboccarono una delle vie del quartiere. Quelle strade ghermite di persone, nulla avevano in comune con i distretti magici di Tokyo. La tecnologia nel mondo magico asiatico era molto più all'avanguardia, mentre i maghi inglese dal canto loro, sembravano essere rimasti indietro di almeno trecento anni, a partire dall'abbigliamento decisamente medioevale che i più anziani indossavano. Hiroshi dal canto suo, in mezzo a quella marmaglia di gente sembrava un pesce fuor d'acqua, catapultato da quelle parte direttamente da un lontano futuro. Uno in cui i gufi non ti sfrecciano sopra la testa. Pensò con un'espressione leggermente infastidita dopo che un volatile gli sfrecciò velocemente sopra la testa. Avrebbe incontrato l'amica in una sala da tè su una delle vie principali. Pur non amando particolarmente il rituale delle ore cinque, così come imposto dagli inglesi, doveva ammettere che provava un certo senso di fascinazione nei confronti delle loro abitudini. A Hiroshi il tè piaceva molto. Ma doveva essere rigorosamente amaro - questa roba che ci versano il latte nel tè, mi sembra una delle cose più bizzarre. Bizzarra in mezzo a tante altre. Prese posto a uno dei tavoli vicino alla finestra, e indicò a Shinju il posto accanto alla sua sedia, chiedendo alla gentile cameriera di portare una piccola ciotola d'acqua per la cagnolina. La riconobbe subito, appena il campanello del locale tintinnò nuovamente. E in tutta risposta, come era solito fare, si alzò automaticamente dalla sedia facendole un cenno con la mano per attirare la sua attenzione. Non era cambiata molto, Fujiko; il suo aspetto era molto simile a quello che ricordava, tranne forse per qualche abitudine estetica che doveva aver adottato dagli occidentali. « È bello rivederti, scheggia. » Asserì infine, dopo aver fatto un leggero inchino di saluto in direzione dell'amica, prima di sedersi e ordinare velocemente un tè nero e un buffet di biscotti assortiti. Scheggia. Un soprannome con cui Hiroshi l'aveva presa bonariamente in giro sin da quando erano a scuola. Fujiko era veloce, ma era anche e soprattutto dolcemente fastidiosa esattamente come una scheggia. « Se un paio di mesi fa mi avessero detto che la prossima volta ci saremo incontrati in Inghilterra - terra della tolleranza e del rispetto - mi sarei messo a ridere. » Soprattutto perché definire questi luoghi come tolleranti e rispettosi fa veramente ridere. « Come sta Yamazaki-san? Spero che Jotaro li ha trattati bene durante il viaggio. Era l'unica persona di fiducia disposta a lasciare Tokyo subito dopo la liberazione. Ho fatto del mio meglio. » Troppi di noi erano sin troppo felici per allontanarsi dal Giappone subito dopo averlo visto nuovamente libero. Una volta ricevuto il tè e dopo aver gettato un veloce sguardo in direzione dei pasticcini e i biscotti che la cameriera aveva portato, Hiro tornò a osservare la moretta. « Quindi? Come stai? Che mi racconti su questo cambio di rotta in territorio inglese. » Un cambio di rotta che Hiroshi non condivideva. Per lui casa era Tokyo e lo sarebbe sempre stata, indipendentemente da tutto il resto. Lì era nato, lì voleva morire. La scelta presa da Fujiko lo sorprendeva, così come lo aveva sorpreso apprendere che lei e Raiden non solo avevano studiato nella stessa università per un intero anno, ma aveva frequentato per giunta lo stesso corso. Non si era voluto immischiare nelle loro faccende personali. Potevano aver deciso quella linea per tante ragioni differenti. Di certo, alla luce di quanto vissuto al Ministero della Magia poche ore prima, trovava davvero sciocco dividersi e non darsi supporto a vicenda. Avrebbe indagato, ma con discrezione. « Diventa più semplice col tempo? Dalla mia ti confesso che sto avendo un inizio abbastanza turbolento. A quanto pare devo trovarmi un lavoro per non diventare.. un clandestino. » L'ex sottotenente Nakamura, promosso al grado di tenente in seguito alla liberazione del Giappone, deve trovarsi un lavoro per non essere buttato fuori o accusato del reato di clandestinità. Cose di altro mondo. Accarezzò appena la testa di Shinju per poi spezzare semplice a metà rendendogliene una parte. Ma quanto burro e zucchero ci mettono nei dolci. Ecco un'altra cosa con cui non si stava ancora abituando: i forti sapori occidentali. Pungenti fino a fargli storcere appena il naso.


     
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    « E questo è quanto. » Lo sguardo basso e la faccia funerea accompagnano Fujiko nel silenzio che segue la sua confessione. E quel silenzio si prolunga talmente tanto che la ragazza comincia a sbiancare, un po' alla volta, con l'agonizzante pensiero di voler rialzare disperatamente la testa per guardare Goro e Mali Yamazaki in volto. Perché quel silenzio è diventato talmente opprimente e pesante da risultare una quarta persona, in carne e ossa, presente nella stanza numero 41 del reparto "Avvelenamento da Pozioni e Piante Velenose" del San Mungo. Ha una stanza tutta per sé, il signor Goro, la cara figlioletta, la perfetta e fedele Fujiko non avrebbe permesso niente di meno e mai come quel momento la ragazza ha odiato quel suo eccesso di zelo. Perché se ci fosse stato qualche altro paziente in stanza, è probabile che sarebbe riuscita a trattenersi dal vomitare fuori tutte le menzogne che ha raccontato loro per quei due interminabili anni non appena l'uomo, decisamente in forze quel giorno, ha cominciato a blaterare nuovamente di quanto fosse orgoglioso del posto che, ai suoi occhi, appariva sempre più chiaro essere il prescelto per Fujiko. « Un giorno otterrai tutto ciò per cui abbiamo lavorato in questi anni. » Abbiamo. Abbiamo chi? « E ora che non ho più la spada di Ichiro calata sulla testa, potrai finalmente sposare Raji. » « Oh, il caro Raji non è ancora mai venuto a farci visita. Come sta? » E' forse il sentirli parlare di quella presunta libertà, quella che non ha mai veramente avuto sotto il loro stretto controllo in Giappone, che ha aperto gli argini e l'ha portata a raccontar loro quanto non abbia studiato nemmeno un giorno nella facoltà di Magisprudenza, quanto in realtà sia diventata il perfetto frutto di ciò in cui il Sacro Paese l'ha trasformata. Un soldato. Diventerò ciò che non hai mai voluto diventassi. Vorrebbe aggiungerlo, Fuji, vorrebbe vomitargli tante altre cose addosso ma il senso di colpa e di vergogna la costringono ad un mutismo assoluto, la bocca cucita da mille aghi che diventano ancora più dolorosi quando sente il padre muoversi sotto le lenzuola, borbottando alla moglie che poteva benissimo farcela da sola. Nell'impresa di sedersi, immagina la figlia che ha ancora la testa bassa, in quell'ultimo pallido riflesso di rispetto che la farebbe quasi ridere per quanto le appaia falso dopo averli pugnalati con la verità. « Il dottore dovrebbe essere qui a momenti » Dice poi, con un tono di voce che le suona così vacuo e lontano. « Lo vado a chiamare subito. » « No. » La mora che si era scongelata per muovere un passo verso la porta, si riblocca all'istante. « Hai fatto già abbastanza per oggi. » Allora lo trova il coraggio per alzare la testa e fissarlo con gli occhi gialli che lasciano trasparire tutta la desolazione che al momento prova. « Chichioya.. » « Questo è quanto. » Si morde il labbro inferiore, Fuji, dandosi della stupida quando vede che la madre rifugge il suo sguardo, decidendo di non darle alcun appoggio. Sapevo che sarebbe andata a finire così, di che mi stupisco? Così annuisce a labbra strette, fa un piccolo inchino ed esce velocemente da quella stanza in cui non riesce più a respirare. E corre via, giù per le scale, con un magone crescente nel cuore e gli occhi che minacciano di riempirsi di lacrime. Una volta in strada, si guarda intorno, alla ricerca di un riparo per dare sfogo a tutto ciò che sente ribollire dentro. Ma è con un sonoro schiaffo che placa ogni suo impulso e si costringe a riprendere in mano le redini di se stessa. Non sei questo, riprenditi. Stringe gli occhi, inspirando profondamente, prima di riaprirli e sorridersi attraverso il riflesso che ha di sé grazie alla vetrina di un negozio. Va tutto bene, alla grande come sempre. Si convince, così come ha sempre fatto in vita sua, ogni volta che il signor Yamazaki ha deciso di fare una scenata, mentre si incammina frettolosamente verso il quartiere magico di Diagon Alley. Lì dove incontrerà Hiroshi, l'unica persona che ha veramente voglia di vedere in quel momento. Così come è sempre stato. Non è cambiato niente. Scuote la testa, imponendosi di smetterla di pensare agli occhi persi di sua madre nel non riconoscere la propria figlia. Si stringe nel lungo cappotto lungo fino ai piedi, verde scuro, e abbassa lo sguardo per non incontrare quello dei maghi di cui ha sempre attirato la curiosità. Tutta colpa degli occhi. Così cammina fissando i ciottoli che via via si vanno dispiegando fin quando non arriva alla porta della sala da tè a cui le è stato dato appuntamento. E' quando lo vede alzarsi, da lontano, per farsi notare che si ritrova a trarre un respiro di sollievo. Sono al sicuro ora. « È bello rivederti, scheggia. » Si ritrova a gonfiare le guance con un sorriso nel sentire nuovamente quel suo soprannome e nel notare l'inchino che le porge. Non c'ero più abituata. « Hiro. » Saluta di rimando prima di abbassare gli occhi per notare la terza figura del quadretto. « E tu chi saresti? » Saluta il cagnolino, fissandolo qualche istante prima di prendere posto davanti a lui per poi ordinare giusto una tazza di tè nero e null'altro da mangiare. Torna a guardare l'animaletto incuriosita ma non abbastanza da toccarlo. Magari poi mi morde perché sente che sono un gatto.« Se un paio di mesi fa mi avessero detto che la prossima volta ci saremo incontrati in Inghilterra - terra della tolleranza e del rispetto - mi sarei messo a ridere. » Inarca le sopracciglia con fare ironico mentre viene raggiunta dalla consapevolezza che sì, sembra surreale essere lì con lui, così lontani da casa. Ma è mai stata davvero casa per me? « Dal tuo tono azzarderei che hai scoperto già le meraviglie di questo posto. » Piega le labbra in un sorriso sibillino mentre appoggia le spalle contro lo schienale. « Per un'esperienza completa ti consiglio di farti un salto da Madama McClan. Vedrai che accoglienza con i fiocchi. » Dopo essersi ritrovata faccia a faccia con la pura ignoranza della proprietaria - e no, l'avanzata età non può essere considerata una scusa -, Fujiko non vi ha più rimesso piede eppure eccola lì, con gli occhi da gatto che ispeziona fuori dalla finestra per indicargli la vetrina del negozio incriminato, dall'altra parte della strada. « Però sappilo: non vendono tappeti orientali, nel caso te lo stessi chiedendo. » Abbozza una risata leggera prima di tornarlo a guardare. No, osservare. Ricerca i cambiamenti nel suo volto sempre così pulito, nota un paio di cicatrici in più sulle guance. Ferite fresche, accanto alla pallida ombra che gli delinea da sempre la mascella. Si domanda allora se gli ha mai chiesto a cosa fosse dovuta. « Come sta Yamazaki-san? Spero che Jotaro li ha trattati bene durante il viaggio. Era l'unica persona di fiducia disposta a lasciare Tokyo subito dopo la liberazione. Ho fatto del mio meglio. » Una domanda che si aspettava di certo a cui reagisce però con una stretta di denti evidente. Cerca di rilassarsi nell'immediato. « Si è comportato come d'accordi, può dormire sonni tranquilli. » Risponde ironica cercando di trovare il giusto distacco per rispondere alla domanda primaria. « Non posso dire che stia meglio, l'avvelenamento era già troppo inoltrato e i danni che ha fatto rimarranno. C'è di buono che perlomeno stanno lavorando sull'arginarli, bloccando quanto più possibile la malattia. » Si stringe nelle spalle, piegando la testa di lato. « Jotaro, d'altro canto, non ha avuto vita facile con Mali. » Sciabola le sopracciglia. « Racconta da settimane, ormai, di quando l'ha schiaffeggiato una volta ripresa dalla dose di morfina che le ha fatto per farla salire sull'aereo. » Deglutisce una risata nervosa che nasce dal pensiero che la sua famiglia sia veramente un disastro. Padre allettato, prossimo al decadimento neuronale sempre più rapido, madre con una forma piuttosto asfissiante di agorafobia, tanto da non essere uscita di casa per svariati anni, figlia delusione totale per i suddetti genitori. « Il tuo viaggio invece com'è stato? » Decide di evitare di parlare appositamente di Ichiro, chiedendogli tra le righe di sua madre ed Eriko. Quando la smetterai di preoccuparti per lei? Sorride alla cameriera che porta loro le ordinazioni e passa qualche secondo a fissare il liquido scuro dentro la tazza verde menta che ha di fronte a sé. Fissa le spire che risalgono verso l'alto disperdendosi poi nell'aria. « Quindi? Come stai? Che mi racconti su questo cambio di rotta in territorio inglese. » La voce del moro la costringe ad alzare gli occhi, con un sorriso steso sulle labbra altrimenti disposte in una linea apatica. « Ho preferito l'America ma anche qui mi trovo bene. » Almeno fino a quando non ho deciso di ricordarmi di essere una figlia, con delle responsabilità sulle spalle. Perché dovevo proprio ricordarmelo? « Per me è stato inaspettatamente liberatorio, questo cambio di rotta. » Ne ricalca le parole usate, immaginandosi quanto lui non si trovi altrettanto bene lì. « In un certo qual modo è quello che mi serviva. » Spero davvero sia così anche per te. Le parole le rimangono in bocca, decidendo di non renderlo
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    partecipe di quei pensieri. « Diventa più semplice col tempo? Dalla mia ti confesso che sto avendo un inizio abbastanza turbolento. A quanto pare devo trovarmi un lavoro per non diventare.. un clandestino. » Ci pensa lui ad aprire il discorso, lasciandola lì a stringersi nelle spalle, con una buffa espressione sul volto, simil senso di colpa. Quello che Raiden le rinfaccia ogni volta, d'altro canto. Perché lei aveva il passaporto diplomatico e non ha avuto alcun problema a scappare dal paese. E una volta lì, iscritta al college, nessuno ha potuto mai darle della clandestina, per quanto l'ha letto in alcuni volti, persino in quelli dei suoi stessi colleghi. Le r che diventavano l quando, dopo un'esercitazione batteva il gradasso di turno e questo la prendeva per il culo così, ridacchiando con gli altri. Ma io sono una Yamazaki. Un mantra che si raccontava per non reagire, lo stesso che ora come ora non sente nemmeno più suo. « Lo diventa se lasci andare il ricordo. » Fissa per qualche altro istante il tè prima di prenderne un sorso, amaro come il fiele. Esattamente ciò che le serve sul momento. « Se ti attacchi a casa con le unghie e con i denti, non lo diventerà mai. » Alza gli occhi dalla tazza e fissa le iridi in quelle di lui. « Hai pensato di iscriverti al college? » Inarca un sopracciglio continuando a fissarlo. « Anche se non sei interessato, avresti così qualche mese bonus per guardarti intorno e capire cosa vuoi fare veramente. » Che sia un lavoro o qualsiasi altra cosa. Manda giù un'altra sorsata e poggia la tazza sul suo piattino verde menta abbinato. « Ma c'è qualcosa che ti vedi veramente a fare? » Continua poi, inclinando appena la testa di lato. « Se vuoi posso dare un'occhiata alle offerte nella bacheca al campus, anche se credo siano perlopiù posizioni part time. » Poco utili per un visto definitivo. Corruga le labbra per qualche istante prima di ridacchiare al pensiero che le nasce spontaneo. « A meno che tu non voglia sposarti un'inglese. Permesso di soggiorno e rotture a vita in un unico e pratico pagamento, cosa potresti mai desiderare di più? »
     
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