Silent treatment

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    12 gennaio

    Otis non comprendeva fino in fondo il bisogno di tutta quella segretezza, e non capirlo lo frustrava, perché in genere, tra lui e sua sorella, quello più perspicace era lui. Non era tanto una questione di intelligenza, quanto piuttosto di attenzione e perspicacia. Otis si era sempre interessato abbastanza al mondo dei grandi, tendendo un orecchio attento a cogliere i significati più impliciti, le parole mormorate perché i bambini non capissero, e perspicace rispetto a ogni sospiro, sbuffo o moto di esitazione – domandandosi sempre il perché. Tendenzialmente, quindi, aveva una risposta. Quasi sempre aveva un'idea, anche soltanto vaga, di che cosa stesse succedendo attorno a lui, anche quando gli altri non sembravano intenzionati a spiegarglielo. Per questo, crescendo, era abitudine che Carrie gli strattonasse la manica della giacca, gli si facesse più vicina, e gli chiedesse conferme, come domandandogli di spiegarle, gentilmente, dov'è che stessero andando, e perché con tanta fretta, e come mai così di soppiatto, e servirà portarsi dietro qualcosa? Un ombrello, in caso piova? Anche il meteo sembrava difficilmente sfuggire alla mente affilata del Tassorosso, che non era tanto un genio, come tendeva a definirlo chi ammirava questa sua dote, quanto piuttosto un maniaco del controllo. Bussando alla porticina della stanza sul retro, dietro al bancone di legno massiccio, che aveva trovato seguendo l'indicazione di Renton Blake, Otis dovette ammettere di non avere le idee chiare come al solito, quel giorno.
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    La madre era strana da quando era tornato dal Giappone. Quello lo capiva. Lo prevedeva, persino, e chiaramente sapeva contestualizzarlo. Anche lui faticava a ricordarsi una sola cosa normale che avesse pensato, detto o fatto da quando era di nuovo a casa. Afferrando la maniglia consunta dal tempo, lo sguardo gli si posò sulle nocche arrossate, ancora un po' livide dalla settimana precedente. Fece un respiro profondo, prima di chiudersi la porta alle spalle. Aspettò che la madre pronunciasse un muffliato, l'ennesimo, si capiva, di quella sera. Non si parlavano da qualche giorno – dalla serata all'ospedale, con precisione. O meglio, lui non le parlava granché. Grugniva, mormorava, sibilava, schioccava la lingua. Faceva l'adolescente gli sembrava di sentir scandire alla madre nei suoi pensieri, e probabilmente quelle parole erano davvero le sue, colte involontariamente grazie alle doti innate del ragazzo, pronunciate forse parlando di lui a qualche sua amica. A Otis ronzava nella testa il verso di una canzone babbana che ascoltava spesso in quell'ultimo periodo. Need to be youthfully felt, 'cause God I never felt young, cantava la voce principale con un ricco accento irlandese. Non gli sembrava di essere mai stato più stanco di così in vita sua.
    Guardò la madre, che tornò di fronte a lui, prendendo posto su una poltroncina bordeaux dal tessuto consumato, come la maggior parte delle cose in quella stanzetta impolverata. Non era mai stato in quella saletta dei Tre Manici. Otis lo frequentava religiosamente, e si stupì di non averla mai notata. Inclinò leggermente la testa, sfilandosi la sciarpa a strisce oro e nere che teneva annodata attorno al collo. Non parlò, aspettò che lo facesse la mamma. Era calmo, ma attento. «Mi dici come mai si è reso necessario venire fin qui?» Chiese, aggrottando la fronte. Ci sarebbero state tante cose da dirsi, non era stato il richiedergli una chiacchierata da soli a stranirlo. Anzi, si era aspettato quella conversazione da quando era tornato a casa. Si era atteso interrogatori su interrogatori, discussioni disperate su quanto successo ai fratelli lycan della madre, resoconti articolati di cosa stesse succedendo ad Inverness mentre in Giappone i membri del Branco venivano decimati, e "tu, tu piuttosto, parliamone, avrai bisogno senz'altro di parlarne!". Ma niente. La madre si era chiusa in una bolla di emozioni che non sembrava voler chiaramente comunicare. Non aveva idea di come stesse, ma sapeva quanto intensi potessero farsi i sentimenti della madre, e quanto bui i suoi pensieri. C'era, tra di loro, un mare di non detto, ed era forse la prima volta, in tutti i suoi 17 anni di vita, in cui Otis avesse avvertito la mancanza di un dialogo aperto con la madre. Anche per quello, forse, era così arrabbiato con lei. Piuttosto, ciò che lo confondeva, era quella convocazione al di fuori della mura del Castello, di sabato sera, comunicata con un bigliettino dall'inchiostro evanescente, scomparso dopo che le parole che formava venivano lette dal ricevente. Conosceva la teatralità di sua madre, ma tutto ciò appariva insolito persino per lei. «Deve arrivare anche Carrie. Dobbiamo aspettarla?» Chiese poco dopo, cercando di celare la preoccupazione nella sua voce, l'impazienza che montava sempre di più.


    Edited by the educator - 4/3/2022, 17:13
     
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    Pervinca ha passato i primi giorni post raduno dei ribelli in riflessione, permettendo alla propria mente di svagarsi giusto durante le lezioni. Perché se da una parte ha accettato di farsi tatuare, per non farsi ripulire la memoria - tasto ormai assai dolente per lei - e per non dimenticare dell'attacco così da potersi preparare ad aiutare e allertare i figli, dall'altra sente quel tatuaggio come corpo estraneo, che non le appartiene. Di certo, per quanto molti abbiano provato a farle cambiare idea durante la discussione, la Branwell è rimasta abbastanza sulla sua posizione, giusto appena influenzata dal discorso di Mia. Stavi andando così bene fin quando non hai fatto il nome di quel miserabile di King. E' quindi ancora convinta che, al di là di quello che tutti continuino a raccontarsi, come tanti piccoli cantastorie fiduciosi in un futuro fatto di arcobaleni e nuvole rosa, quello che si apprestano a fare non sarà un attacco veloce e indolore. Perché gli Auror non demorderanno e basterà un nonnulla per cominciare a vedere nuovamente del sangue bagnare i territori di Hogwarts. E se non stiamo attenti, moriranno anche ragazzi che con questa guerra non c'entrano assolutamente niente. In quei giorni, l'umore della bionda è piuttosto plumbeo, parla decisamente poco per il suo solito, si chiude spesso e volentieri nella sua torre, saltando questo e l'altro pasto, abbozzando giusto dei sorrisi agli alunni che occupano i tavolini sparsi nella sua aula durante le lezioni. E' rimasta piuttosto nelle sue anche con i propri figli, tanto da mandare loro un biglietto anonimo nel quale indicava luogo, data e ora prima che l'inchiostro scomparisse dal foglio pochi istanti dopo la lettura del messaggio. La prudenza non è mai troppa di questi tempi, aveva pensato nel chiedere a Renton una saletta lontana dal resto del locale nel quale poter rimanere da sola con i figli. E seppur abbia tutte le intenzioni di aprirsi un minimo con i gemelli e Stan, effettivamente non sa bene cosa dire loro. Può saggiare forse i limiti di quel tatuaggio che le decora ora il braccio sinistro ma che nessuno dei tre potrebbe mai vedere. Per fortuna. L'idea che si possano mettere in pericolo la terrorizza a tal punto che, lo sa perfettamente, se dovesse servire, non ci penserebbe due volte a mettersi contro chiunque pur di tirarli fuori dai casini e portarli in salvo. Sono una cazzo di mamma chioccia, si ritrova a pensare, piuttosto infastidita dal ricordo di lei che detestava sua madre proprio per la medesima attitudine. Ma a lei fregava solo della reputazione della famiglia e a me interessa solo del benessere dei miei figli. Quella conclusione la fa rilassare, giusto un po', mentre sorride al più piccolo della cucciolata che a breve farà quindici anni e non le sembra vero. « Non è che mi stai facendo un'imboscata per parlare del mio compleanno, vero? » Le dice, abbozzando un sorrisetto che ha del sarcastico. « Oh no, mi hai rovinato tutta la sorpresa, e ora come farò mai? » Lo canzona con tanto di alzata di sopracciglia prima di vederlo sfilare via dopo l'annuncio di dover andare in bagno. Qualche istante successivo avverte il passo ciondolante di Otis fuori dalla porta mentre è immersa nel rendere quella stanzetta malconcia a prova di orecchie indiscrete. «Mi dici come mai si è reso necessario venire fin qui?» Se un tempo aveva accettato di buon grado l'atteggiamento adolescenziale di Otis, accogliendone le novità miste alle amarezze che certe uscite potevano donarle, ora che è al limite del baratro della sua sanità mentale, ora che vorrebbe semplicemente smettere di prendere gli stabilizzatori dell'umore e lasciarsi andare a quei suoi oscillamenti tra uno stato maniacale e uno di pura depressione, ora le dà terribilmente sui nervi. « Non lo so, Otis, tu che dici? » L'intuito giornalistico che ti ha portato a rimanere in Giappone fin quando hai voluto non ti ha fatto fiutare niente? Il tono di voce è piuttosto piatto seppur l'impeto di rimetterli al loro posto, lui e quel suo atteggiamento da ragazzino indisponente, sia tanto. Deglutisce però, portandosi alla finestra per guardarvi attraverso, aspettando di vedere comparire la chioma bionda di Carrie prossima all'entrata del locale. «Deve arrivare anche Carrie. Dobbiamo aspettarla?» Annuisce mentre gli dà le spalle, le braccia conserte al petto e lo sguardo preoccupato di chi si ritrova intrappolato in un mondo troppo grande e troppo difficile. « Ta-dan. Ho intercettato Renton e dato che sono quasi le sei, le ho chiesto qualcosa per la merenda. Ringraziatemi pure dopo. » Stan fa capolino nella stanzetta con un vassoio ricolmo di leccornie, svettano sopra tutto dei calici ricolmi di Burrobirra. E io vorrei solo un barile di Whiskey nel quale annegare. « Grazie tesoro. » Gonfia appena la guancia sinistra nel voltarsi a guardarlo mentre sistema allegramente tutto il necessario sopra il tavolino da caffè di fronte alle poltroncine malconce. Si mette a sedere su una di esse non appena nel loro campo visivo entra anche Carrie.
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    « Chiudi pure la porta, grazie! » Le intima la bionda nel farle poi cenno di sedersi di fianco a lei. « Okay, ora che ci siamo tutti..» cosa? Cosa vi dico? Cerca di guadagnare qualche istante in più nella scelta difficoltosa tra l'addentare un tramezzino di tonno o un pasticciotto alla crema. « Scusate, non è facile. » Si giustifica poi sospirando. Ricerca lo sguardo di Stan nel quale quasi ricerca una sorta d'appoggio. « Non sono stati mesi facili. » Per me e Stan ma anche per voi. « E non lo saranno nemmeno quelli a venire perché tempi bui covano nell'ombra. » Sentenzia lasciando scivolare lo sguardo ceruleo in quello dei gemelli. « Sapete alla perfezione cos'è successo ad Inverness negli ultimi anni, cos'è successo alla nostra famiglia e conoscete altrettanto bene il pericolo che ci aspetta all'orizzonte. Per questo motivo vi ho chiesto di incontrarci qui e non all'interno del Castello. Lì ci sono troppe orecchie che potrebbero sentire, manipolare i contenuti o servirsene per il loro vantaggio. Le politiche contro di noi, in fondo, parlano da sole. » Io e Stan ci siamo dovuti censire come bestie, voi avete dovuto ottenere un passaporto per studio. Cerca di soppesare le parole, Pervinca, preoccupata all'idea di terrorizzare ognuno di loro irrimediabilmente. « Quello che c'è stato è ormai sicuro che ritornerà e per questo motivo c'è bisogno di essere più preparati per poter resistere e proteggere, più vigili per non essere presi alla sprovvista, più tempestivi per poter reagire e non rimanere alla mercé degli eventi. » Ricerca nello sguardo dei figli la consapevolezza di aver capito che non si tratta più di se ma di quando. Perché che la Loggia tornerà, dopo la Brown e i due sin eater crocifissi, l'episodio del rave, i rag'nak evocati all'interno delle mura sacre di Inverness, è certo. « E quando certe cose accadranno, dobbiamo rimanere uniti, dobbiamo rimanere presenti a noi stessi, non fare cose avventate ma rimanere focalizzati sulla priorità di mettervi al riparo. » E sì, lo dico anche per me, un monito per la mia testa sperando mi dia retta. Sembra quasi un'affermazione profetica quella che esce dalle sue labbra mentre gli occhi si soffermano su ogni figlio per qualche secondo. Allunga poi la mano verso Carrie, stringendo la sua per poi portarsela in grembo. « Se rimarremo uniti, se ci prenderemo cura gli uni degli altri, vi assicuro che riusciremo a venirne fuori ancora una volta. Insieme. » La visuale le si appanna leggermente mentre deglutisce e cerca di ricacciare indietro quella commozione figlia della paura che ha nel sapere che i figli si ritroveranno in mezzo ad uno scontro diretto. Quando saprò data e ora, chiederò anche l'aiuto di Betty per tenervi al sicuro. « Vi chiedo solo di promettermi che starete attenti e che non farete niente d'impulsivamente stupido quando a rischio potrebbe esserci la vostra vita. »

     
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    Nei libri si parla dei gemelli dizigoti maschio e femmina come “falsi gemelli”, quasi più fratelli che gemelli, viste le differenze fisiche facilmente percepibili agli occhi dei terzi. Oltre alla diversa fisicità, vi sono differenze attitudinali e comportamentali dettate proprio da fattori genetici legati al sesso. Le differenze si vedono sin dal primo anno di vita: normalmente i bambini maschi crescono fisicamente più robusti, sono più attivi, hanno un’indole da esploratori poiché si stancano facilmente degli stessi giochi e degli stessi luoghi e hanno bisogno sempre di nuovi stimoli; le bambine, invece, sono solitamente più riflessive, si appassionano agli oggetti e ne studiano i dettagli, rimanendo anche a lungo a giocare con gli stessi pupazzetti. Carrie aveva sempre ammirato il modo in cui Otis vedeva il mondo. Le aveva insegnato tante cose, cose che a lei erano sfuggite perché le passavano accanto senza che lei se ne accorgesse, troppo impegnata a focalizzare la sua attenzione verso altre cose. Era stato chiaro fin da subito, fin dalla nascita, chi fosse il gemello che si appoggiava all'altro. La prima cosa che Carrie Branwell aveva fatto una volta uscita dal ventre di sua madre era stato piangere, tirando fuori una quantità di aria che nessuno credeva potesse avere una creaturina così piccola. Avevano provato a calmarla in molti modi: cullandola su e giù per la stanza, attaccandola al seno della madre e con quelle vocine sciocche che fanno gli adulti quando si trovano davanti ad un bambino. Non c’era stato nulla da fare. Carrie si era finalmente tranquillizzata solo nel momento in cui l’avevano messa nel lettino vicina a suo fratello. Aveva mugolato qualcosa prima di assopirsi con il respiro che si faceva sempre più regolare per poi crollare finalmente in un lungo sonno. Crescendo, Carrie non era mai riuscita a nascondere quanto avesse bisogno del fratello al suo fianco. Sgattaiolava nel suo letto quando la pioggia batteva nei vetri delle finestre e i tuoni illuminavano la notte. Aveva sempre avuto l’impressione che a lui la cosa non piacesse molto, ma era felice che non le chiedesse di andarsene. Sotto quelle coperte, al sicuro dai temporali, Carrie desiderava che le cose non cambiassero mai. Ma non era andata così. Era successo qualcosa ad un certo punto. Lo aveva percepito come uno strappo, come se qualcuno avesse tirato forte un pezzo di stoffa, riducendolo in due brandelli. Otis stava crescendo mentre a lei era stata diagnosticata la Sindrome di Peter Pan. Lui aveva cominciato a sbirciare qualcosa di cui Carrie era terrorizzata, che non riusciva a guardare senza farsi venire un attacco di panico: la consapevolezza che sarebbero cresciuti. Avrebbe voluto che le cose restassero come prima per sempre, come dentro quelle sfere che agiti per far scendere la neve, come in una vecchia foto dove erano tutti sorridenti.
    Carrie camminava per le strade di Hogsmeade fissando le vetrine dei negozi. Alcuni non avevano ancora tolto le lucine natalizie e dei buffi Babbo Natale in miniatura erano ancora intenti ad arrampicarsi lungo le pareti di Mielandia. Salivano e scendevano con movimenti sempre uguali, ripetitivi, portando sulle spalle un sacco pieno di dolciumi. Helen Mellark le aveva detto che il proprietario aveva stregato le caramelle in modo che, se qualcuno avesse provato a rubarle, avrebbero colorato per sempre di blu la lingua dei ladruncoli. Chi ruberebbe mai le caramelle a Babbo Natale?, aveva chiesto Carrie. Helen si era stretta nelle spalle e poi aveva cambiato discorso. La testolina di Mr. Bacon spuntava dalla sua borsa e le lunghe orecchie del peluche sobbalzavano leggermente ad ogni passo della bionda. La Tassorosso canticchiava, un sorriso che le arrivava da una parte all’altra del volto. Tutto ciò che aveva capito del biglietto che aveva ricevuto era che avrebbe passato un pomeriggio con sua madre e i suoi fratelli. Aveva volutamente ignorato la segretezza e il modo misterioso con cui il messaggio era svanito dalla pergamena un attimo dopo essere stato letto. Se Carrie Branwell decideva che sarebbe andato tutto bene allora tutto sarebbe andato bene. Non c’erano vie di mezzo: sarebbe stato un pomeriggio delizioso. Quando mise piede dentro la stanzetta del pub che era stato loro riservato sorrise, nonostante, in modo più prepotente di quanto si immaginasse, non poté fare a meno di notare la pesantezza dell’aria che si respirava là dentro. Chiuse la porta, così come le aveva chiesto sua madre, per poi precipitarsi verso Otis e scoccargli un sonoro bacio sulla guancia. Ridacchiò un po’ quando si accorse di avergli lasciato l’impronta del suo lucidalabbra color ciliegia e ci passò il pollice sopra per cancellarla. Posò un bacio tra i capelli di Stan per poi andare a sedersi vicino a Pervinca. Quando le fu accanto baciò anche la guancia di lei. «Scusate il ritardo.» ci tenne a precisare togliendo il cappotto. Indossava ancora la divisa scolastica. «Uuuh, tartelletta alle fragole!» cinguettò allungando una mano ed afferrando il dolcetto. Tolse la carta con le dita e diede un piccolo morso. « Okay, ora che ci siamo tutti..» Si voltò verso la madre, mandando giù il boccone e posando il resto della tartelletta. Strofinò le dita tra di loro, eliminando i residui di briciole e si mise seduta composta. « Scusate, non è facile. » Ok, forse adesso tutta quella tranquillità che aveva addosso stava scemando lentamente via. Lanciò uno sguardo ad Otis e uno a Stan prima di tornare a concentrarsi sulla mamma. « Non sono stati mesi facili. [...] Per questo motivo vi ho chiesto di incontrarci qui e non all'interno del Castello. Lì ci sono troppe orecchie che potrebbero sentire,
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    manipolare i contenuti o servirsene per il loro vantaggio. Le politiche contro di noi, in fondo, parlano da sole. »
    Tu-tum. Il suo cuore parve battere più forte. Avanti, siamo sinceri, Carrie. Cosa ti aspettavi? Un biglietto tanto enigmatico, una stanzetta tutta per voi lontani da occhi indiscreti.. Cosa ti aspettavi, che avreste giocato alla famiglia felice? No, ma non poteva negare che una piccola particella di lei ci aveva sperato fino alla fine. Togliti quelle stupide mani dagli occhi, “piccina”. Persino la vocina nella sua testa la prendeva in giro. Persino Stan sembrava molto più maturo di lei. Probabilmente lo era davvero. « Quello che c'è stato è ormai sicuro che ritornerà e per questo motivo c'è bisogno di essere più preparati per poter resistere e proteggere, più vigili per non essere presi alla sprovvista, più tempestivi per poter reagire e non rimanere alla mercé degli eventi. » Vigili, tempestivi. Non erano certo aggettivi che si potevano elencare parlando della ragazzina dai capelli color oro. Quando sua madre la guarda lei mantiene il contatto visivo. Sembrava una disperata richiesta di aiuto. Quando Pervinca le prese la mano, stringendola, lei ricambiò la stretta più forte. « [...] Se rimarremo uniti, se ci prenderemo cura gli uni degli altri, vi assicuro che riusciremo a venirne fuori ancora una volta. Insieme. » Hogwarts non era più un luogo sicuro. Quel pensiero le attraversò la mente con la velocità di un fulmine. Improvvisamente non aveva più voglia di quella tartelletta alle fragole. Forse le stavano tremando le mani. Aveva l’impressione che un macigno gravitasse sopra le loro teste, pronto a cadere da un momento all’altro. « Vi chiedo solo di promettermi che starete attenti e che non farete niente d'impulsivamente stupido quando a rischio potrebbe esserci la vostra vita. » Carrie ha paura. Ha paura all’idea di rischiare la vita, ha paura all’idea di perdere le persone sedute attorno a quel tavolo insieme a lei, ha paura nel vedere negli occhi di sua madre quanto tutta quella storia sia vera e sia più vicina a loro di quanto abbia mai pensato. Pensa alle serate passate a parlare con Camila, pensa alle tante ore insieme a Nathan a chiacchierare e ridere di qualsiasi cosa gli passasse per la mente, anche la più sciocca. Quotidianità. Aveva lottato tanto per recuperarla ed ora qualcuno progettava di portargliela via, così, per un motivo che ignorava. Avrebbe voluto mettersi a gridare, alzarsi in piedi e cacciare fuori tutta l’aria che aveva in gola. Aveva la nausea. Aveva il respiro superficiale, quasi impercettibile. Forse aveva smesso di respirare e non se ne era accorta. Aveva ancora le dita della mano intrecciate a quelle della mamma. Allungò anche l’altra così che entrambe stringessero quelle della madre. «Non c’è niente che possiamo fare?» quelle parole risuonarono come una preghiera. «Potremmo... Andarcene.» Che cosa vigliacca da dire. Ma infondo, Carrie era solo una ragazzina di diciassette anni spaventata. «Potremmo portare con noi tanta gente.. Andarcene per un po’ finché questa follia non sarà finita...» Due grosse lacrime le solcarono le guance, ma lei non fece niente. Restò immobile, gli occhi fissi sulla madre. «Tenere tutti al sicuro..» Tirò su con il naso, guardando prima Stan, poi Otis, soffermandosi di più su quest’ultimo. Era consapevole di star delirando. Quella guerra sembrava riguardarli particolarmente da vicino. «Ok, siamo sinceri.. Se restassimo qui.. Come faccio a prometterti di non fare qualcosa di stupido se dovessi vederti in pericolo? O Otis? O Stan?» Le lacrime gocciolarono giù sui suoi jeans. «E’... E’ una pazzia!»
     
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    «Non lo so, Otis, tu che dici?» Sollevò le sopracciglia, sorpreso dal fatto che la madre rispondesse alle sue provocazioni, non perché non se lo meritasse, quanto piuttosto perché, secondo lui, non c'era niente al mondo per cui potesse essere lei ad avercela con lui. E ancor di più perché i commenti piccati, le frecciatine, i commenti passivo aggressivi non si addicevano alla loro modalità di comunicazione – non tanto per merito del ragazzo, che invece era classicamente piuttosto subdolo, ma grazie alle preoccupazioni di sua madre, che non amava lasciar imbrigliato neanche un nodo, che necessariamente gli richiedeva uno sforzo per comunicare. Era forse di questo che voleva parlare? Una sorta di seduta di terapia familiare autogestita? In una saletta malconcia del Tre Manici? Tenne gli occhi puntati sulla sagoma della madre, che continuava a dargli le spalle, sempre più stranito da quel clima così pesante. Sapeva che per la madre fosse un periodo difficile, ma forse non immaginava fino a che punto. Si domandò, cambiando leggermente posizione sulla sedia, se forse lei non stesse così male da non riuscire ad applicare le sue stesse regole al proprio comportamento, e se, in fondo, quell'imperativo alla comunicazione aperta e sincera non fosse stato stabilito perché più necessario per lei che non per lui, Stan e Carrie; se forse, alla fine, non costasse uno sforzo enorme anche a lei dover sempre dissipare ogni emozione più forte con le parole. Turbato, dimenticò di reagire come tipicamente faceva ai baci molesti di sua sorella, rimanendo fermo e assorto per qualche secondo, e soltanto dopo qualche secondo si portò una mano alla guancia, strofinando via le tracce di lucidalabbra che Carrie aveva già provveduto a cancellare. «Okay, ora che ci siamo tutti...» Allungò una mano verso il vassoio di dolcetti che aveva portato Stan, scuotendo la testa alla vista della burrobirra, e ridacchiando pensando a come Renton non si fosse minimamente posta il problema nel vendere alcolici ad un bambino – in risposta ad una richiesta di «qualcosa per la merenda». Afferrò un biscotto alle nocciole che però non addentò. «Scusate, non è facile. Non sono stati mesi facili. E non lo saranno nemmeno quelli a venire perché tempi bui covano nell'ombra.» Finalmente la madre lo guardò, e Otis si ritrovò a pensare con sincerità che avrebbe preferito non lo facesse. Gli parve incredibilmente stanca e inquieta. Ascoltò tutto quanto ebbe da dire loro, la testa leggermente chinata. «Quello che c'è stato è ormai sicuro che ritornerà, e per questo motivo c'è bisogno di essere più preparati per poter resistere e proteggere, più vigili per non essere presi alla sprovvista, più tempestivi per poter reagire e non rimanere alla mercé degli eventi. E quando certe cose accadranno, dobbiamo rimanere uniti, dobbiamo rimanere presenti a noi stessi, non fare cose avventate ma rimanere focalizzati sulla priorità di mettervi al riparo.» Sapeva di cosa la madre stesse parlando, ma si ritrovò a desiderare che lo dicesse chiaramente. «Vi chiedo solo di promettermi che starete attenti e che non farete niente d'impulsivamente stupido quando a rischio potrebbe esserci la vostra vita.» Rimase in silenzio, un leggero mal di stomaco che sentiva nascere e la fame assolutamente spazzata via. Ripose, così, il biscotto sul vassoio, e si ripulì le dita, sporche di briciole, sfregando le mani. «Perché ci dici tutto questo?» Sapeva di cosa parlasse la madre. Non era la prima volta che affrontavano discorsi così. Per quanto tutti loro – chi più, chi meno – trovassero conforto nell'evitare di discuterne, gli eventi degli ultimi tempi erano accaduti, ed erano spaventosi. Otis non sapeva neanche
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    che cosa fosse, in fondo, una Loggia Nera. Ma che esistessero delle forze nemiche, e che fossero una cosa seria, e che bisognasse proteggersene come possibile lo aveva sentito dire dal giorno uno. C'era un'urgenza, tuttavia, se non nel tono della voce della madre quantomeno dal fatto stesso che si fosse reso necessario dover ribadire la necessità di stare attenti. Stiamo sempre attenti. Ma era incredibilmente complicato capire da cosa bisognasse difendersi, e pertanto era estremamente facile dimenticarsi di quell'incombente minaccia. «Potremmo... Andarcene. Potremmo portare con noi tanta gente.. Andarcene per un po’ finché questa follia non sarà finita... Tenere tutti al sicuro..» «Ma finirà mai?» Mormorò, la testa ancora un po' china, mentre con le dita tracciava le righe dei suoi pantaloni di velluto blu. Ripetè quelle parole, quando la sorella ebbe finito di parlare, aspettando qualche secondo. «Ma'... Finirà mai?» La sua voce tradì un tremore, e Otis prese a mordicchiarsi nervosamente l'interno della bocca. Se pure dovessimo andarcene, cosa che non credo sia la soluzione, avremmo la certezza che al nostro ritorno tutto sarebbe finito? C'era tanto che non si erano detti, e oltre alla paura che gli causava la situazione in sé, e il fatto che si fosse reso necessario metterli nuovamente in guardia rispetto ad una minaccia che a quel punto doveva essere più incombente del normale, Otis era preoccupato dal modo in cui la madre aveva deciso di dirglielo. Aspettando così tanto, richiamandoli in segreto, lontani dal Castello e da “orecchie che potrebbero sentire”. «Hai paura» gli sfuggì, prima che potesse fermarsi. «Possiamo parlare chiaramente?» Sospirò infine, passandosi una mano sul viso. «Cioè, puoi dirci che cosa vogliono da noi? E perché nessuno fa niente? Perché dobbiamo arrivare a rischiare la nostra vita?» Perché ricade tutto anche sulle spalle di bambini e ragazzi? «Perché il Ministero non fa niente? Perché ce l'hanno con noi?» Prese ad animarsi sempre di più, ma non apparve arrabbiato – solo molto triste. «Perché tu e Stan vi siete dovuti far censire? Perché in Giappone hanno ammazzato tutti i lycan della scuola?» Non avrebbe dovuto parlare così, non di fronte ai suoi fratelli. Ora lo capiva, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime che si impegnava strenuamente di mandare via: nessuna emozione dovrebbe rimanere taciuta così a lungo.
     
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