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    Quanti anni aveva allora? Forse sei o sette, difficile da saperlo perché non aveva ricordi molto chiari di quel tempo. Per il compleanno i suoi nonni le avevano regalato una casa delle bambole che somigliava alla loro, con il soggiorno, la sala da pranzo e una grande cucina. C’era anche lo studio di suo padre con la scrivania e la libreria. Le pagine dei libricini finti sugli scaffali erano vuote. Domandò a sua madre perché fossero bianche e lei le rispose che non doveva rimuginarsi troppo: era solo un giocattolo. Al primo piano della casa delle bambole c’erano grandi camere da letto con le tendine, la tappezzeria e i quadri appesi -bei dipinti di frutta e fiori- e al secondo piano c’erano stanze più piccole, due bagni, la stanza per la cipria -ignorava tutt’oggi cosa fosse la cipria- e uno scantinato pieno di provviste. Nel corso degli anni, il baule dei giochi della piccola di casa Baker aveva accumulato non pochi balocchi tra cui un sacco di bambole che la bambina considerava a malapena. Quando i nonni insieme alla casa le regalarono l’ennesima bambina -con tre vestitini: uno rosa, uno bianco e uno prugna ricoperti di fiocchi e merletti-, lei non aveva potuto fare a meno di far notare che non c’era neanche un maschio e che se quella era casa loro dovevano esserci anche papà ed Oliver. Così, quella sera stessa, aveva tagliato i capelli a due bambole, come se quel semplice gesto potesse servire a cambiarne le identità. E’ forse questo il bello dei bambini: avevano una soluzione semplice per ogni cosa. I bambini non ci rimuginano troppo, loro agiscono, loro fanno. Crescendo Daphne Baker non aveva mai abbandonato questa abitudine, essendo totalmente priva di ciò che alcuni chiamano <l>la coscienza dell’età. La giovane non era mai stata una gran pensatrice o una grande stratega. La sua mente viaggiava su un’alta frequenza che trasmetteva note veloci che non le lasciavano il tempo di respirare. Bum-bum-bum, una cosa dietro l’altra senza fermarsi mai. Qualcuno avrebbe detto che voleva godersi la vita in ogni sfumatura, qualcun altro invece l’avrebbe definita solo una sciocca sconsiderata con gravi problemi che riguardavano la sua paura di diventare grandi ed affrontare le proprie responsabilità. Non si può avere sempre sedici anni. Forse per una volta avrebbe fatto meglio a scendere da quella giostra che era la sua vita e saltare il prossimo giro, guardando seduta in panchina come una semplice spettatrice. Era stata la sua incapacità di riflettere a portarla lì dov’era. Fermarsi a riflettere. Solo per un giro, solo per riprendere fiato. Solo per non rischiare nuovamente di mettere in pericolo sé stessa e gli altri. [...]
    Formicolio. Sembrava che il suo intero corpo vibrasse, come la corda di un violino troppo tesa sfiorata dalle dita inesperte di un musicista alle prime armi. La prima cosa che percepì fu un pungente e penetrante odore di disinfettante, così vigoroso da farle credere che il suo corpo ne fosse interamente ricoperto. Si sentiva intorpidita come se il suo corpo si stesse risvegliando da un sonno durato troppo a lungo e le sue cellule cercassero di riattivarsi come un ingranaggio metallico rimasto fermo per tanto tempo e ormai arrugginito. Cosa stava succedendo? Perché non riusciva a dischiudere le labbra per dire una sola parola? Perché era tutto così buio? Percepì chiaramente il suo battito cardiaco che aumentava. Lo sentì arrivare in gola, dandole l’impressione che potesse saltarle fuori dal petto da un momento all’altro. Cos’era quel rumore? Appena percepibile, in lontananza, eppure c’era. Era come un “bip” stranamente ripetitivo. Provò a concentrarsi su di esso, al modo insolito in cui a tratti il ritmo pareva aumentare e poi rallentare subito dopo. Un flash. Fuoco. La pelle che brucia, un dolore primitivo in grado di tirarle provare un male così intimo e difficile da descrivere. Adesso però quel dolore era sparito, non c’era più. C’era pace, una tranquillità mai provata prima d’ora. Quel dolore era solo un flashback sbiadito che ricordava appena. Percepiva qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Era come una sensazione, qualcosa che non riusciva a spiegare. Aveva come l’impressione di non essere sola. Sul campo da Quidditch le era stato insegnato a non abbassare mai la guardia, a dover avere sempre la percezione dello spazio attorno a lei. Provò ad aprire gli occhi, ma non ci riuscì. C’era stato uno sfarfallio luminoso, come se le sue palpebre si fossero sollevate appena e la luce della stanza fosse penetrata appena attraverso le ciglia. Riprova. Nulla. Ancora. Niente. Cazzo, Baker! Concentrati e smetti di frignare come una femminuccia! Ancora, ancora e ancora. Di nuovo quello sfarfallio luminoso. Era solo a pochi passi dall’uscita di quel tunnel. Doveva solo allungare la mano ed afferrare quella luce. Quando aprì gli occhi,
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    i neon attaccati al soffitto parvero accecarla. Nonostante avesse lottato con tutta sé stessa, ora ebbe l’impellente necessità di richiudere gli occhi, disturbata da tanta luminosità. Ci vollero alcuni secondi perché i suoi occhi così sensibili si riabituassero alla luce. Li riaprì con un tocco di esitazione, lentamente, come un bambino quando muove i primi passi e testa il terreno prima di poggiare il piede. Un letto d’ospedale. Era in ospedale. Quindi quel flash e quel dolore non erano stati un sogno.. E poi lo vide. Se prima era solo una chiazza di colore, lentamente tutto quanto risultò più chiaro, tutti i particolari andarono al loro posto lasciando spazio ad un viso che conosceva bene. Le sue labbra tremarono appena mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, smosse da quel senso di sollievo ed appartenenza che sentì avvolgersi attorno al suo corpo come una rassicurante coperta. La sensazione di essere al sicuro. Non le importava se si trovava in uno stupido letto d’ospedale: le bastava la sua presenza per sentirsi a casa. «...» Le sue labbra si mossero appena. Provò ad allungare la mano per stringergliela, ma non ci riuscì. «O...» Il primo suono che uscì dalla sua bocca aveva un timbro gutturale, profondo, che sembrava appartenerle appena. Ci riprovò. «O.. Lly...»
     
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