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    Cammina spedita, cellulare alla mano sul cui schermo digita quasi compulsivamente messaggi, in direzione del luogo d'incontro con la sorella che a lei piace tanto definire maggiore, sennonché, in realtà, la loro nascita si è distanziata solo di pochi minuti, o addirittura secondi, e in ogni caso è proprio Camila ad esser venuta fuori per prima. Si ravvia i capelli mossi, sbuffando nell'aria afosa di quel Giugno inoltrato, finalmente decisa a prendere in mano la propria vita e a combattere per essa. Non è semplice, quando si ha l'indole di un agnellino - come molti l'hanno, in passato, definita -, né tanto meno se si scarseggia in agilità e prontezza di riflessi. Tuttavia, da qualche parte bisognerà pur iniziare. «Okay.», dice a se stessa, in una sala attrezzi completamente vuota, sul cui pavimento sono ancora vergate delle linee di quello che, probabilmente, un tempo era un campo da basket - o qualche altro sport simile che di certo la piccola Silente non conosce, avendo hobbies del tutto differenti. «Posso farcela.», borbotta dunque, individuando dei bastoni riposti in un contenitore all'angolo della sala e avvicinandovisi per saggiarne la pesantezza. Chiaramente, nell'esatto istante in cui ne sfiora uno, viene ripresa da una voce altisonante: « Ehi. Tu. Ragazzina. », subito si volta in direzione del richiamo. « Cosa ci fai qui? Ancora non siamo aperti. », Camila scuote la testa. «Oh, mi spiace, io credevo -» « Per Merlino. Ci sono delle regole, vi ci abituerete mai? », le guance della giovane si fanno rosse di vergogna. «Mi spiace, io pensavo -», fossero già le otto.. - avrebbe concluso, ma viene subito contrattaccata dal tipo: « Mi spiace, mi spiace. Non sapete dire altro. Se puoi attendere fuori, apriamo alle otto. » «Senti.», oddio, sto davvero parlando io? - percepisce già le lacrime affiorare all'angolo inferiore degli occhi, ma stringe i pugni e inghiotte il groppo che le si è già formato in gola. «Ti ho... Ti ho già detto che mi dispiace. Credevo fossero già le otto, anzi, guarda -», mostra le lancette sull'orologio che ha al polso, «- il mio segna le otto e zero due... E' stato solo un inconveniente, e comunque...», non c'è bisogno di fare così, solo per qualche minuto di anticipo. Tuttavia questo non lo aggiunge. E c'è un motivo ben preciso per cui non prosegue oltre: sta nell'espressione stanca che legge nel volto del ragazzo - o meglio, del gestore del locale. Nelle goccioline di sudore che individua all'altezza delle sue tempie, segno che, probabilmente, lo sfogo che ha avuto è stato dettato dallo stress per il suo presunto duro lavoro. Non che sia giustificato a prendersela con chiunque - e probabilmente, se Camila avesse avuto un carattere diverso da quello remissivo e docile che, invece, la contraddistingue, gliel'avrebbe fatto notare -, ma quanto meno ha una posizione che, benché discutibile, ha comunque un fondamento dietro. E Camila può solo immaginare che, in tempi critici come quelli che corrono, il tizio se la sia presa solo perché dal mancato rispetto delle regole alla rivolta è un attimo. E questo, lei, lo può comprendere. « .. Va bene. Puoi restare. A mezzogiorno si chiude per la pausa pranzo. Poi riapriamo alle tre. » «Sì. Lo so. Grazie..» « Mpf. », e dunque se ne va, lasciandola sola a trascorrere gli ultimi attimi di pace prima di doversi misurare con l'ennesimo dei propri limiti, con l'ennesimo dei propri fallimenti. Perché né Camila Davis,
    , né Aurelia Silente, sono mai state in grado di brandire un bastone e colpire l'avversario, anzi, direttamente non sono mai state in grado di mobilizzarlo, il fantomatico bastone. Lo sguardo già scoraggiato, ecco che la neo-Tassorosso - benché lo smistamento sia avvenuto ormai da quattro anni, non può comunque non sentirsi ancora tale: una nuova arrivata - prende in mano due di quelle armi e le trasporta al centro della sala, dove presume che l'allenamento con Ava inizierà. «Inspiegabilmente leggero.», sorpresa, soppesa uno dei due strumenti e, come prevedibile, lo fa cadere con un sonoro tonfo quando, ancora una volta, alle sue spalle giunge un rumore inatteso. «Oh. Ava. Credevo fosse ancora quel tipo.», tira un sospiro di sollievo, sorridendo flebilmente alla sorella. Dunque si siede a gambe incrociate, la schiena poggiata ad una delle spalliere a muro della palestra. «Sono... Pronta. Da cosa iniziamo?», corsa? Addominali? Cioè, come funziona? - la trepidazione, mista ad ansia, le si legge chiara e tonda in viso. Cerca di dissimularla, dandosi il tono di chi è pronto a far qualcosa, come appunto ha appena annunciato, ma è inutile fingere di fronte alla persona che meglio la conosce al mondo. Ha una paura matta. Paura di non farcela, paura di fallire dopo averci provato, dopo avercela messa tutta. Paura di non essere abbastanza, di essere soltanto un peso che Ava dovrà caricare sulle proprie spalle, già provate da altre innumerevoli sfide. Paura di perdere.

     
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