things behind the sun

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    Una volta atterrata a Chinnor, Zelda Kane non immaginava a cosa sarebbe andata incontro. Abituata alla stramberia di vivere al castello di Kilkenny ogni estate, con tanto di abiti medievali da indossare e lezioni di scherma antica da seguire, credeva di essere abituata a qualsiasi cosa. Ma la bocca semiaperta che non sembra essere intenzionata a chiudersi non appena si ferma di fronte all'entrata del maniero dei Mortimer rinnega ogni suo precedente pensiero. « Porca vacca. » Si ritrova ad esclamare tra sé e sé, effettivamente strabiliata dall'imponenza di quel casermone gotico. Non è per nulla spaventata, anzi, se possibile, è ancora più entusiasta all'idea di accedere a quello che nella sua testa assomiglia così tanto ad un fantastico parco giochi lugubre. Davanti al massiccio portone, tira le cinghie dello zainetto come una boyscout che sta per bussare ad ogni porta del quartiere, smaniosa di vendere tutti i biscotti per la raccolta fondi che permetterà al gruppo di finanziarsi la vacanza studio in mezzo ai boschi. Alza la mano per bussare e.. « Eh no signorina, non bussare o interromperai la funzione che è in corso. » « Porco cazzo! » La bionda fa un balzo all'indietro, spaventata dalla presenza fluttuante che ha effettivamente trapassato la porta e ora la fissa con cipiglio divertito. « Mi perdoni, non me l'aspettavo. » Perché forse Tuesday ha menzionato una o due volte la presenza di qualche fantasma a casa sua..ma chi se lo ricordava ora? « Non volevo disturbare la..funzione fissa la presenza accennando un sorrisetto mortificato «- sono qui per vedere Tuesday. Non sa del mio arrivo, volevo fargli una sorpresa. » Giustifica così la sua apparizione lì a Tartaro Manor. « Occhioni da cerbiatto tragicamente ancora vivo, lunghi capelli color cerume, devi essere Zelda Kane. » Beh, grazie? La bionda sbatte gli occhi presa alla sprovvista dall'incedere dell'anziana ma rientra subito in careggiata. « Proprio io, piacere. » « Il dispiacere è tutto mio, signorina. Sono Verbena Forsyth, la nonna di quello sventurato di mio nipote. Vieni con me. » Il fantasma attraversa nuovamente la porta e Zelda rimane lì, bloccata dall'impedimento fisico. « Ehm.. » Non fa in tempo ad aggiungere altro che l'entrata si schiude lasciandole intravedere l'atrio, maestoso al pari della facciata. Si guarda intorno, alla ricerca di un qualsiasi vivente che possa avergli aperto ma vi è solo Verbena, che volteggia con fare decisamente felice. Com'è possibile? « Signorinella seguimi. Il mio tristissimo ragazzo è in giardino, forse sta andando a fare una capatina al cimitero. Lo spero, gli farebbe proprio bene una passeggiata lugubre. » Zelda l'ascolta in silenzio, non più tanto allibita dal modo di parlare della nonna di Tux, ritrovando nel suo modo di fare quello di sua sorella Weed. Atipico ma di certo particolare. « Non sta passando un bel periodo il mio pipistrellino. » Un tuffo al cuore la prende all'improvviso. Fino a quel momento ha avuto sue notizie, precise sì ma telegrafiche, solo da parte di un'infermiera ed è da quando lo sa a casa che lo tempesta di meme per cercare di tirargli su il morale, incapace com'è di gestire veramente il dolore umano. E tuttora non sa cosa gli dirà, come si comporterà, sperando di non apparire troppo deficiente nel suo cercare di essere il solito zimbello di corte per farlo sorridere. « Lo so, per questo sono qui. » Riesce a rispondere una volta attraversato un corridoio e un ampio finestrone che dà su alcune antiche rovine. E' sovrappensiero, si guarda intorno, per cercare di calmare la leggera ansia che prova e non si accorge che Verbena si è bloccata e lei l'ha letteralmente attraversata. Un brivido di freddo le passa lungo la spina dorsale. « Ehi! » « Oddio, mi disp-» « Ma no tranquilla. Tutto sommato è stato piacevole, non provavo simili brividi da secoli ormai. » Sgrana gli occhi la bionda prima di ritrovarsi a ridacchiare, felice che quella donna sia tanto stramba da riuscire a rompere lo strato di tensione che le si è creato intorno. « Vai, è proprio lì. » Segue la direzione dell'indice dinoccolato della donna e stringe le labbra vedendo il ragazzo seduto ricurvo tra alcune rovine. « Grazie infinite, è stata gentilissima. » La saluta pronta a scendere le scalette che la dividono dal giardinetto. « Mi raccomando la passeggiata terapeutica tra le lapidi. Potreste trovarne giovamento entrambi. » La vecchia le sorride e Zelda fa lo stesso, questa volta molto meno convinta. « Ovviamente ti conto per cena. » « Oh ma io davv-» « Radici e ghiande, una vera bontà. » O-okay. Pensa nel vederla fluttuare via, lasciandola lì da sola. E ci rimane per qualche altro istante prima di stringersi nel giacchetto e scendere le scale. Gli si avvicina, fissandone le spalle con intensità, aspettandosi di vederlo cambiato persino nella postura. Cielo, mi sembra essere passata un'eternità. Ed è probabilmente la sensazione pesante che sia tutto cambiato, nel giro di poche settimane, a farla parlare. « Il sole è arrivato in città, solo per te. » Gli sussurra all'orecchio, dopo aver scartato l'idea di chiudergli gli occhi con le dita, pensando di poterlo spaventare più che divertire. E quando gli scivola davanti non aspetta tanto prima di stringerlo a sé in un abbraccio. « Finalmente. » Affonda il naso nella sua spalla e sente che finalmente può tornare a respirare regolarmente, ora che lo sente, reale e vivo, sotto le sue dita. Si scosta di qualche passo per poterlo guardare negli occhi. « Lo so, ti sono mancata tanto. » Come tu sei mancato a me, tanto. Piega le labbra in un sorriso prima di lasciarlo andare per sedersi di fronte a lui, sopra un masso decadente. « Casa tua è una cazzo di figata. Io che pensavo di sconvolgerti con il castello e tu qua hai tutta questa roba. Pff. » Prende a riempire il silenzio lanciandogli un'occhiata di tanto in tanto per carpirne le reazioni. « Dato che mi sono dovuta autoinvitare per metterci piede, mi aspetto che tu sia più largo di manica in futuro. Anche perché tua nonna mi ha già invitato a cena. Non so effettivamente se ci sarà qualcosa di commestibile dal menù che mi ha proposto, ma le sto simpaticissima, è sicuro. » Sorride, forse un po' troppo e quando se ne accorge rilassa i muscoli intorno alla bocca e le spalle subito dopo. Vorrebbe dirgli tante cose, che è felice di vederlo bene, che è felice di essere stata lì, per poterlo portare in salvo quando ne aveva bisogno, che lo trova bene, sembra più tranquillo anche dei giorni prima della rivolta. Ultimamente mi sembravi sempre un po' strano, un po' troppo su di giri, come se.. non si permette nemmeno di pensarlo, sentendosi in colpa anche soltanto pensandolo. Ha piena fiducia in lui, se avesse ripreso a farsi, glielo avrebbe detto. Così, con una scrollata di capelli, si porta lo zaino sulle ginocchia e ci tuffa dentro le braccia, fin sopra i gomiti, armeggiando per qualche secondo prima di tirare fuori la
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    refurtiva. « Finissime leccornie direttamente da quell'emporietto alla Corte, ti ricordi? Quello dove abbiamo preso il sidro ghiacciato la scorsa estate. » Gli consegna i dolciumi - che fanno sempre bene quando si è in convalescenza - impacchettati in una sobrissima scatola verde lime. « Questa è la maglia. » Gli mette tra le mani la sua maglietta oversize delle Spice Girls, quella che è solita prestargli quando rimane a dormire da lei. Quella che le è sempre parso avesse quasi un potere magico su di lui, aiutandolo a riposare se non un'intera nottata almeno qualche ora in più rispetto alle sue solite ore insonni. « E questa..beh, te la senti dopo, con il walkman che ti ho regalato per il compleanno. » Ciliegina di quella strampalata torta è la cassetta contenente una compilation fatta appositamente - alla vecchia maniera - dalla bionda. Sulla sua copertina compaiono le parole "tiramisù playlist" con una stellina brillante d'accompagnamento. « Assaggiamo qualcosa? » Devi mangiare. A costo che ti imbocchi con l'imbuto. Allunga senza troppe cerimonie le dita su un pasticcino al cioccolato e pistacchio e se lo infila in bocca masticandolo quanto più lentamente possibile. Si prende del tempo per osservarlo prima di allungare una mano a stringere quella libera di lui. « Ti va di parlarne? » Lo fissa negli occhi, storcendo le labbra in una smorfia accomodante. « O anche no. C'è un'intera casa che non vede l'ora di essere esplorata, dico bene? »


    Edited by anesthæsia¸ - 6/7/2022, 06:51
     
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    Per qualche giorno, Tuesday ci aveva provato, a restare pulito. Tornato a casa dopo il lungo periodo di degenza al San Mungo, ciò che rimaneva di Tuesday Asmodeus Mortimer, e cioè uno spettro fatuo dai colori sbiaditi, ci aveva provato a non toccare più quella merda. In fondo, in quel lugubre maniero che ogni Mortimer era solito chiamare casa, all'ex Serpeverde -ad onor del vero- non mancava proprio niente. Così come mai, in effetti, era mai mancato nulla. La famiglia Mortimer era strana, parecchio strana. Nel mondo magico, d'altra parte, bastava spesso nominare soltanto il loro nome per riuscire a far calare un velo di inquietudine nel bel mezzo di un qualsivoglia discorso. Si diceva sul loro conto di tutto, dalle supposizioni più raccapriccianti -probabilmente vere, il più delle volte- a quelle dettate più dal pettegolezzo che altro, ma una cosa era certa: che non fosse una famiglia unita, questo mai lo si sarebbe potuto dire. Seppur in una modalità tutta loro -sicuramente poco convenzionale, a tratti forse addirittura un po' illegale- Felix e Belladonna Mortimer volevano bene ai loro figli. A tutti quanti, non uno di meno. Mai niente avevano fatto mancare a quel triste ragazzo dai capelli bianchi che, da che era nato, non sembrava proprio volerne sapere di essere felice. Il ritorno a casa, per Tuesday, era stato trionfale. Beh..Per quanto possa considerarsi effettivamente trifonale un ritorno al Tartaro. Un sabba era stato organizzato in suo onore, con banchetti e rituali danze, per festeggiare tutti assieme, e rendere grazie ai loro dei di averlo riportato a casa. E per un po' Tuesday c'era quasi riuscito, ad essere felice, le gelide dita di Belladonna Mortimer ad accarezzargli i capelli ogni notte, fino a farlo addormentare. Pareva addirittura aver recuperato un minimo di rapporto con Felix, suo padre. Nonostante fosse stato informato dai medici circa l'elevato livello di sostanze ritrovate nel sangue di suo figlio, il signor Mortimer non aveva reagito come quest'ultimo si sarebbe immaginato. Si era già figurato, infatti, tutte le prediche che sarebbe stato costretto a sorbirsi una volta tornato a casa, Tuesday. Non che desse loro torto, a dire il vero. Aveva promesso ai suoi genitori che avrebbe smesso con quella roba così tante volte -fingendo di farlo ogni volta- che aveva ormai perso il conto. Non doveva esser facile, per i coniugi Mortimer, stargli dietro. Credergli per poi venire traditi nella fiducia ogni singola volta. Eppure di rimproveri, al suo ritorno, non ce n'erano stati. E persino quando si erano trovati da soli, sulle rive di quel lago dalle acque torbide e scure come tenebra, Felix Mortimer non aveva aperto comunque il discorso. L'aveva portato a pescare, quella sera. Mostri marini e piragna, ovviamente. Non che a Tuesday fosse fregato mai qualcosa della pesca, in realtà, ma trascorrere del tempo con suo padre -soltanto loro due in mezzo al nulla- era stato..Strano. Ma di uno strano positivo. Di uno strano sereno, bello. Così bello da indurlo, di ritorno alle prime luci dell'alba (inutile specificare si fossero recati a notte fonda, in quello sperduto lago infestato di orribili creature) come d'istinto, a pronunciare una semplice frase. "Papà? Te lo prometto", e scorgere nel sorriso di Felix, suo padre, che non ci sarebbe stato bisogno di specificare cosa. Lui ci sarebbe sempre stato comunque.
    Il problema, tuttavia, giungeva ogni qualvolta si trovasse solo. Le cure funzionavano, funzionavano davvero, ma le voci non ne volevano proprio sapere di lasciarlo in pace. Sussurri e bisbigli occupavano la sua mente, nel buio di una macabra stanza, a volte troppo grande, a volte troppo piccola da farlo soffocare. Gli venivan dette cose, cose che non voleva sentire. Era guasto. Rotto. Un peso per chi gli voleva bene. Probabilmente lo era sempre stato. Sin dal primo sorriso rubato alle labbra di sua madre, quando i medici avevano rivelato loro della sua malattia. O di suo padre, all'ennesima ricaduta dopo l'ennesima promessa. O ancora di Weedy, sua sorella, che aveva portato al punto, una mattina di Gennaio, di desiderare lei stessa la morte, piuttosto che vederlo uccidersi un poco per volta. Tutte le sue paure, i suoi rimorsi passati, si palesavano in mormorii lontani che tanto lontani poi non erano. Gli aleggiavano attorno come mosche, e quando poi decidevano di poggiarsi addosso.. Oh, lì sì che era un problema. E così, a soltanto pochi giorni dal rientro a casa, Tuesday Mortimer -da poco disintossicatosi- era caduto di nuovo. Perchè lui, da quell'abisso, mai ne sarebbe uscito. Le voci, dopotutto, avevano ragione.
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    « Ancora quel muso lungo? » Sadie Dien. Una vocina piuttosto squillante, la sua, per essere..Beh, morta. Sadie Dien era uno dei fantasmi che infestavano il maniero ormai da anni. Nel suo caso, tuttavia, non per scelta. Lo spettro di quella che doveva esser stata un tempo una bellissima ragazza, infatti, era apparso in una notte di Dicembre dalla parete della camera di Tuesday Mortimer. Non capitava di rado infatti -ahimè- che il ragazzo, a causa di quel suo dono -o maledizione, che dir si voglia- si trascinasse dietro, inconsapevolmente, spiriti erranti sparsi in chissà quale vicolo della città. Sadie doveva essere uno di quelli, e Tuesday l'aveva capito dal fatto che, lì dentro, potesse vederla soltanto lui. Era un tipino particolare, la Dien, ed all'inizio era stato..strano. Sadie era energica, allegra, iperattiva, così tanto da fargli dimenticare fin troppe volte fosse.. Beh, un fantasma. Non le aveva mai chiesto come fosse morta, un po' perchè quella era una domanda che -per esperienza- sapeva ai defunti non piacesse sentirsi rivolgere, un po' perchè a giudicare dai segni che riportava sul collo diafano, non doveva esser stata una bella fine. Con il tempo, ad ogni modo, si erano affezionati. Tanto che Sadie, ormai, era solita vivere dentro le pareti della sua camera. E dalla finestra della stessa lo osservava partire per Hogwarts, durante il periodo scolastico, per poi aspettarlo nelle vacanze estive. Era stata lei, quando aveva tentato il suicidio per la prima volta, recidendosi le vene dei polsi, ad allertare i suoi genitori e condurli in qualche modo da lui.
    « Andiamo, che noioso che sei! » Un brivido gli percuote la schiena, quando Sadie decide di passargli attraverso, svolazzando in una risata cristallina e dispettosa. « Quante volte devo dirtelo che non devi passarmi attraverso? » Inveisce un Tuesday Mortimer particolarmente pallido, quel giorno. « Nessuna battuta sull'entrarti dentro, questa volta? » Ribatte lei, un sopracciglio inarcato sul viso di porcellana. « Cavolo..Allora sì che stai male.. » Una smorfia maliziosa, prima di oltrepassarlo di nuovo (« Porca troia Sadie! ») e precederlo nei passi. « Capatina al cimitero per sentirti meglio. Davvero? Non puoi fare una passeggiata al parco come tutte le persone normali? » « E tu non puoi ululare e smuovere catene e basta, come tutti i fantasmi normali? » Sbuffa, ricevendo in risposta una linguaccia. Sta percorrendo il vasto cimitero di famiglia da qualche minuto, ormai, non sa nemmeno lui bene perchè. Forse ha soltanto bisogno di allontanarsi da quella dannata stanza. Si passa una mano tra i capelli spettinati, prima di sedersi in mezzo all'erba; di fronte a sè, la statua di un angelo piangente riposta su di una lapide. « Tuesday? » Sadie, a suo fianco, lo osserva con sguardo serio. Vitreo. Per una volta, si rende conto, gli sembra davvero..Morta. « L'hai fatto di nuovo? » « Cosa? » « I lividi. Sulle braccia. » « Torna dentro, Sadie. Tra poco sarà buio, non dovresti stare qui » « Tuesday.. » Scuote la testa, gettando lo sguardo altrove: non vuole ascoltarla. « Perchè lo fai? Sei a casa, adesso. C'è la tua famiglia.. - » Percepisce le sue dita fredde come ghiaccio sfiorargli una spalla « Ci sono io » « Già. Peccato che tu sei morta. » Silenzio. Alza lo sguardo, e per un attimo, potrebbe giurare di intravedere una lacrima perlacea solcare il volto traslucido della giovane. Merda. « No aspetta io non.. - » « Hai visite. » « Sadie! » Ma in una ventata gelida, Sadie è già svanita.

    « Il sole è arrivato in città, solo per te. » La riconosce, quella voce. Come potrebbe fare altrimenti? Quella, dopotutto, è la stessa voce che l'ha tirato fuori dall'inferno più e più volte. Ad Hogsmeade. Al San Mungo. A casa. Tutte le volte in cui si è sentito perso, Tuesday ha sempre sentito la sua voce richiamarlo a sè. Si volta, e se la ritrova davanti, a poca distanza dal proprio viso: Zelda. Sei tu davvero? E la risposta arriva ben presto, quando l'ex Grifondoro non aspetta un minuto oltre, prima di abbracciarlo. Avviene tutto così in fretta, e Tuesday -preso alla sprovvista- rimane dapprima immobile, in una reazione che assai poco gli appartiene. Deve ancora riabituarsi, a quella vita che gli sembra ormai estranea. La sua vita. « Finalmente. » Ma alla fine gli basta sentire il suo profumo, per riuscire ad accoglierla dietro quel muro di fobie e paranoie che sembra essersi creato attorno ormai da un po' di tempo a questa parte. E allora la stringe, a sua volta, il mento poggiato sulla sua testolina bionda. Chiude gli occhi, e per qualche momento, gli sembra andare tutto bene. Per qualche momento, quasi la sfiora, quella felicità puttana. « Lo so, ti sono mancata tanto. » Trattiene una risata, prima di fare una smorfia di sufficienza, e stringersi nelle spalle, come a prenderla in giro. Mi sei mancata tantissimo. Ma non parla, ancora, Tuesday. Non parla perchè è intento ad osservarla. Ad osservare come il sole sia arrivato in città. E' la stessa di sempre, Zelda. Una ventata fresca d'energia persino lì, nel bel mezzo del Tartaro. Dimmi, Zelda, dimmi come fai. Svelami come riesci a farla in barba persino alla morte. « Casa tua è una cazzo di figata. Io che pensavo di sconvolgerti con il castello e tu qua hai tutta questa roba. Pff. Dato che mi sono dovuta autoinvitare per metterci piede, mi aspetto che tu sia più largo di manica in futuro. Anche perché tua nonna mi ha già invitato a cena. Non so effettivamente se ci sarà qualcosa di commestibile dal menù che mi ha proposto, ma le sto simpaticissima, è sicuro. » Ha la testa piegata di lato e lo sguardo fisso su di lei, Tuesday, mentre Zelda continua a parlare, forse messa a disagio dal suo non dire una parola. « Zelda? » E decide di rompere il silenzio così, l'ex Serpeverde, lo sguardo -visibilmente vacuo- fermo su di lei per qualche momento ancora. « MA QUANTO CAZZO PARLI? » E a quel punto, scoppia a ridere. Quello strano quanto sinistro velo sopra i suoi occhi ormai del tutto scomparso. Per ora. « Sai che hanno ucciso visitatori per molto meno, in questa casa, sì? » La prende in giro per il solo gusto di farlo. Non vuole smetta di parlare. Non vuole smetta di essere..beh, Zelda. « Ad ogni modo hai ragione, credo tu le stia simpatica. Io però ordinerei comunque una pizza per stasera, fossi in te. Sai, a scopo preventivo. Nonna è un'esperta di veleni.. » Se si sta divertendo a spaventarla? Sì, tantissimo.
    « Finissime leccornie direttamente da quell'emporietto alla Corte, ti ricordi? Quello dove abbiamo preso il sidro ghiacciato la scorsa estate. » Annuisce, mentre allunga le mani per afferrare il pacchetto che lei gli porge. Ma non ha molto tempo per aprire la scatolina, che la bionda -inarrestabile- gli sta già riempendo le mani con dell'altro. « Questa è la maglia. E questa..beh, te la senti dopo, con il walkman che ti ho regalato per il compleanno. » « Ma.. » Mormora allora, lo sguardo basso « Non dovevi portarmi tutte queste cose.. - Io non ho niente per te.. » Borbotta, e adesso, è lui quello che si sente a disagio. Perchè Tuesday, ai gesti d'affetto, non è abituato. Non perchè non ne riceva, semplicemente perchè.. Crede sempre di non meritarli. Non senza dare qualcosa in cambio. La primaria legge dell'Antica Tradizione, in fondo, gli ha sempre insegnato questo. Non puoi ottenere nulla, senza prima dare nulla. Eppure Zelda, da lui, non ha mai voluto niente. Zelda ha sempre dato, dato e dato, senza mai pretendere nulla in cambio. Se non forse un suo sorriso. « Assaggiamo qualcosa? » E allora, quando alza lo sguardo su di lei, forse per la prima volta da quando ha messo piede fuori dall'ospedale, Tuesday sorride. Le sorride. « Sì.. - » Annuisce « Assaggiamo qualcosa. » E di fame, in realtà, Tuesday non ne ha nemmeno l'ombra. Ma sa che a lei fa male quando lui si fa male, non mangiando per esempio. Dunque si sforza, scegliendo dopo qualche minuto un pasticcino ricoperto di glassa rossa. Lo mette in bocca, masticando lentamente e deglutendo a fatica. Zelda, dall'altra parte, ha già finito il suo. Ride. « Ti va di parlarne? » Chiede poi lei, d'improvviso. Le dita che si stringono attraverso le sue. Sobbalza a quel contatto, Tuesday. In ospedale, i primi tempi, ha temuto il contatto fisico. Ogni qualvolta qualcuno si avvicinasse a lui, squarci si aprivano laddove poggiassero le mani. Ma quel contatto, però, lo conosce. Quel contatto l'ha tirato fuori dall'inferno, quando tutto ha avuto inizio. E allora si rilassa, stringendo le dita di lei a sua volta. Scuote la testa « O anche no. C'è un'intera casa che non vede l'ora di essere esplorata, dico bene? » « No, non parliamone » Dice, dando un altro morso al pasticcino, per prendersi qualche altro minuto. « Non ce n'è di bisogno, sto bene » Sì. Sto bene. La guarda « Grazie Zelda. Per.. Tutto. Mi hai salvato, quella mattina. Io.. - io non ero più lì e tu mi hai salvato » Si sporge in avanti, per lasciarle un bacio sulla guancia. Esita qualche istante, prima di scostarsi. Poi, però, lo fa comunque « Mi dispiace averti fatta preoccupare.. Tu come stai? Dove sei, adesso? Hai bisogno di un posto dove stare? » Lancia un'occhiata alle sue spalle. « Lo sai che, in caso, qui puoi rimanere quanto vuoi. Puoi chiamare anche tua madre, se dovesse averne bisogno.. » Finalmente, con un ultimo morso, finisce quel titanico dolcetto. Allora, batte le mani. « Bene! Allora! Adesso parliamo di cose veramente serie! Tipo che io mi devo mettere subito la mia maglia perchè mi sto sentendo nuda in questo momento, ad averla qui senza indossarla. » Senza troppe cerimonie, dunque, si leva l'enorme giacca nera che indossava, cimelio di nonno Mortimer, rimanendo a petto nudo. Che Tuesday Mortimer non abbia il minimo pudore, in fondo, questa non è una novità. Si infila la maglia, sbucandone fuori dopo qualche istante, i capelli spettinati. « Allora, sono bellissima vero? » Squittisce, e per qualche momento, sembra esser tornato il Tuesday di sempre. « Questa - » Agguanta la giacca, poggiandogliela con cura sulle spalle « Te la metti tu. Fidati che ti servirà. Il clima del Tartaro è tutta un'altra storia, specie al calar del sole » E non solo per il freddo. « Quindi? Cosa vorresti visitare per.. - » Prima. Ma non termina la frase, Tuesday, che il suo sguardo viene attirato da un particolare. Le cicatrici. Le cicatrici dei tagli sui polsi. Sono lì, non poi così visibili, è vero, semi nascoste dai numerosi tatuaggi, ma comunque lì, sulla pelle nuda. Ed assieme a loro i lividi delle ultime due o tre volte che si è fatto, nei giorni precedenti. E' sempre stato solido nascondere, quel genere di particolari. Incantesimi, unguenti magici o chissà cosa, ha sempre evitato di far trapelare quelle verità agli occhi di chiunque. Merda. D'istinto, si stringe le braccia al petto. E di colpo, si fa visibilmente inquieto. La fronte corrugata, mentre si mordicchia l'interno della guancia e si tortura la pelle della spalla con le unghie. « Entriamo dentro? » Sbotta, d'improvviso. « Tra poco sarà sera, e non siamo nel posto più adatto per te. Non tutti i fantasmi del Tartaro sono simpatici come nonna » Si sforza di sorridere « Entriamo dentro? » E poi lo chiede, di nuovo.
     
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    « Zelda? MA QUANTO CAZZO PARLI? » Tira un respiro di sollievo non appena lui apre bocca, intromettendosi in quel suo soliloquio strabordante di parole per riempire il silenzio. Gli fa una linguaccia, in tutta risposta. « Ma se lo sappiamo tutti che ami la mia loquacità. » Lo prende in giro grata che il biondo abbia voglia, nonostante tutto, di scherzare. Che sia insieme a lei poi è la ciliegina sulla torta, quella che riesce finalmente a rilassarla e la porta a riproverarsi mentalmente nell'aver provato ansia all'idea di cosa si sarebbe trovata di fronte, una volta ritrovatasi da sola con il suo miglior amico. Ma tu sei ancora tu e noi siamo ancora noi. Un pensiero, quello, che le gonfia il cuore. « Sai che hanno ucciso visitatori per molto meno, in questa casa, sì? Ad ogni modo hai ragione, credo tu le stia simpatica. Io però ordinerei comunque una pizza per stasera, fossi in te. Sai, a scopo preventivo. Nonna è un'esperta di veleni.. » Scocca la lingua contro il palato, con fare contrariato. « Tux ma per caso ti sei scordato chi è Zelda Aphrodite Pandora Kane? » E sti cazzi a festa dove li mettiamo? « Grifondoro purosangue. Posso davvero avere paura di una nonnina versione fantasma? » Sì, potrei perché la prima volta che ho visto il Barone Sanguinario sono scoppiata a piangere. Ma avevo comunque undici anni e subito dopo ho tentato di conficcargli la bacchetta nel naso. « Poi, a scopo preventivo, avrete sicuramente quello schifo di pietra caprina in casa. » Lo fissa per qualche istante d'eloquenza. Questo sarebbe il momento giusto per rispondere, Tuesday. « Ti vedo un attimo in difficoltà, aspetta che ti aiuto. La risposta esatta sarebbe "Sì, luce dei miei occhi, ti pare che non abbiamo un potente antidoto sotto il tetto dove abitano scienziati pazzi a cui piace fare esperimenti con veleni?" » Sbuffa fuori una risatina, tirando giusto un po' il freno a quella sua logorrea fulminante con gli occhi fissi su di lui per registrarne le reazioni. « Non dovevi portarmi tutte queste cose.. - Io non ho niente per te.. » Non può far altro che arricciare il naso in una buffa espressione. « Sei qui. » E tanto basta. Gli lancia un'occhiata veloce da sotto le ciglia, stringendosi un po' nelle spalle non appena una folata fredda le si insinua sotto i capelli, a contatto con la nuca nuda. Non aggiunge altro, sapendo bene quanto l'approfondire quel discorso potrebbe far calare una coltre di disagio su entrambi. Fa cadere invece il discorso, aggrappandosi ai dolcetti come rimedi naturali per ogni male. Lo guarda di sottecchi, mentre sgranocchia il proprio, e si sente in colpa all'istante nel vederlo mangiare lentamente, quasi con fatica. Non è la prima volta che si accorge che lo fa ma se prima credeva non fosse semplicemente un gran mangione, lentamente ha cominciato a consolidarsi nella sua mente l'idea che ci fosse dell'altro. E ora, come sempre quando prova a fare la mamma che gli ricorda di mangiare, lui si sforza di farlo. Per lei. « Se non ti piace non fa niente, lascialo pure.. » Si ritrova a dire allora, un po' confusa dalle proprie intenzioni, perché se da una parte non vuole che si senta costretto, dall'altra sa benissimo che non mangiare non gli fa bene e per questo entra in modalità apprensiva. Anzi, piuttosto andrebbe ad aggravare una situazione di cui non sa assolutamente nulla ma di cui può intuire qualcosa dal pallore generale e dall'estrema magrezza in confronto alla sua elevata statura. « No, non parliamone. Non ce n'è di bisogno, sto bene » No, non stai bene. Deglutisce, Zelda, e si accorge soltanto dopo di quanto sia stato rumorosa nel farlo. Non che si aspettasse una risposta differente ma ci ha sperato comunque. Accantona la delusione in un angolo della mente, raccontandosi che, quando si sentirà pronto, sarà lui stesso a parlargliene. Annuisce allora, silenziosamente. « Grazie Zelda. Per.. Tutto. Mi hai salvato, quella mattina. Io.. - io non ero più lì e tu mi hai salvato » Inclina la testa per accogliere il suo bacio e sulle labbra piene compare un sorriso impacciato in risposta alle sue parole, accompagnato dal pollice che prende a carezzargli il dorso della mano, come a volerlo rassicurare. Va tutto bene. « No, non serve, Tux. » Lo fissa negli occhi con i propri che sembrano scaldarsi, diventando quasi arancio. « Non ti avrei mai lasciato. Non ti lascerò mai indietro. » E lo pensa davvero, l'ha sempre fatto dal momento in cui la sua vita si è intrecciata a quella del Serpeverde. Ed è lì anche per quello, per non lasciarlo indietro. Vorrebbe chiederle di più, riguardo il "non esserci più", ma riesce, non si sa bene come, a mordersi la lingua per non girare il coltello nella piaga. « Mi dispiace averti fatta preoccupare.. Tu come stai? Dove sei, adesso? Hai bisogno di un posto dove stare? » Finisce l'ennesimo dolcetto e si impone di non andare oltre, essendo un regalo per lui. O alla peggio per la sua famiglia. « Io sto cercando di capire. E' una situazione un po' complicata..-» manda giù la saliva, cercando di carpire dal proprio vocabolario le parole giuste per raccontargli quanto ha scoperto la sera stessa dell'attacco «- non sono più ad Hogwarts. Sono tornata a Londra, da mamma. Il paese si è spezzato di nuovo, Inverness contro lo Stato Inglese. » Prosegue con cautela, osservandolo. « Ma non credo ci rimarremo, non sarebbe la scelta più logica per la sopravvivenza. » Non quando lo Stato Inglese continua ad insabbiare la questione Logge. Fa per intraprendere quel discorso per lei tanto difficile, quello che le ricorda che non può essere veramente una diciottenne, non può più essere spensierata e libera al cento per cento, non può farlo perché ne va della sua stessa vita e di quella dei suoi cari, ma lui tutto emozionato, è pronto ad indossare la maglia che gli ha portato. E lei non può far altro che sorridere di quell'interruzione, gioendo internamente nel vederlo così elettrizzato. Poi però lui si spoglia e lei sgrana gli occhi, non tanto nel vederlo nudo - non è decisamente la prima volta che lo fa di fronte a lei, con tutta la disinvoltura del mondo - ma quanto più nei massimo dieci gradi che vi sono intorno a loro. « Allora, sono bellissima vero? Questa te la metti tu. Fidati che ti servirà. Il clima del Tartaro è tutta un'altra storia, specie al calar del sole» Fa per scuotere la testa ma le mani ossute del biondo hanno già deciso per lei, mettendole la giacca sopra le spalle con decisione. « No, Tux, non se ne parla proprio. Sono una donna del Nord, che ti credi? Sono stata generata nella taiga incontaminata, il freddo fa parte di me. » Dice e l'ennesimo spiffero, proprio in quel momento, la fa rabbrividire. Ridacchia, imbarazzata e affonda le dita nel tessuto caldo. « Okay, bugia, sono fatta di caldo e sole, lo sappiamo entrambi ma non sono io che deve riguardarsi, quindi questa la ripren- » Non finisce la frase perché lui si accavalla sopra di lei e poi si blocca, lasciandola lì, confusa nel seguire il suo sguardo vacuo. Dapprima non capisce, continua ad essere disorientata mentre guarda con faccia interrogativa le sue braccia, l'oggetto dell'attenzione del Mortimer. Poi aguzza la vista, sbattendo le ciglia e mette a fuoco le macchie scure che adornano l'interno delle braccia del ragazzo. Passerebbero quasi inosservate, tra i fiumi di colore che gli decora la pelle ma ci sono, ben presenti. E lei le vede. Ed è come se un treno in corsa la travolgesse all'improvviso, facendola volare via. Ne accusa la botta con gli occhi che si sgranano, sempre più. E per ogni minuto che passa, la vocina mentale che lo giustifica, quella che le racconta che non sono altro che lividi di una caduta, probabilmente riportati durante l'attacco, si fa sempre più bassa e quasi udibile, lasciando spazio a quella razionale e lucida. Si sta drogando. L'irrequietezza che lo coglie qualche istante dopo ne è la prova ultima. Non lo ascolta nemmeno, riesce a captare giusto le ultime parole. « Entriamo dentro? » E' allora che, scioccata com'è, prende a scuotere la testa con decisione. « No, non entriamo dentro. Non andiamo proprio da nessuna parte. » E' quasi un sussurro flebile, la sua risposta e il suo cervello sembra riprendere a lavorare, riaffiorando dallo shock generale. Una mano corre veloce alla bacchetta nella sua tasca, la sfodera illuminandola con un Lumos non verbale. Poi gliela punta contro, folgorandolo per avere qualche attimo di confusione così da tirarlo per un braccio, esponendolo poi sotto la luce. Deglutisce con fatica non appena i lividi sembrano quasi diventare più accesi. « Che..che sono, Tux? » Una domanda retorica a cui spera che lui possa dare una risposta differente da quella che le appare ormai evidente. « Da quanto hai ripreso? » Continua, mettendolo letteralmente con le spalle al muro. Poi la coglie all'improvviso il ricordo di lui confuso, in preda alle allucinazioni durante l'attacco e lei che gli chiedeva se avesse assunto qualcosa, a bassa voce per non farsi sentire da nessuno. « Eri fatto anche quel giorno. » Conclude senza domandarglielo, cercando soltanto nei suoi occhi la conferma. « Non mi raccontare cazzate, ti prego, non me lo merito. » Un soffio quasi impercettibile il suo, carico di dolore. Guarda ancora una volta i lividi e manda giù il boccone amaro con sforzo e sta quasi per farsi scivolare dalle dita il suo polso quando lo sguardo cade proprio su di esso. E allora sbianca, di colpo, con gli occhi che si fanno sempre più cupi e spaventati. Le stesse dita che lo tengono fermo prendono a tremare appena. Il polso è adornato di segni lattiginosi, prova di tagli rimarginati. A conferma di un qualcosa che deve aver fatto Tuesday. In un passato remoto o in un passato più recente. Un qualcosa a cui Zelda si rifiuta di dare un nome. Stringe i denti, arricciando il naso per la sofferenza che sta provando in quell'istante. « Cosa.. » non riesce nemmeno a formulare un pensiero pulito, lineare, solido. « Quando.. » Ci riprova mentre abbassa,
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    sconfitta, la bacchetta, lasciandola cadere a terra. Si morde il labbro inferiore per evitare che continui a tremare come fa la voce. « Non mi sono mai accorta di nulla. » Sussurra più a se stessa che a lui. E' probabilmente quello il pensiero più doloroso, la terribile verità in cui lei, non accorgendosi di nulla, non ha potuto aiutarlo standogli vicina. « Che amica di merda devo essere per non accorgermi che hai ripreso a farti e che hai tentato..hai tentato.. » Non ce la fa, non riesce a dirla la parola suicidio. « Perché non mi hai detto nulla? Perché ti sei nascosto ai miei occhi escludendomi? Io avrei potuto aiutarti, avrei cercato di farlo in tutti i modi a me possibili, ti sarei stata accanto. Non ti avrei lasciato indietro. » Ripete quel concetto, per l'ennesima volta perché ora più che mai lo sente chiaro nella sua testa. Poi una cieca rabbia le monta inaspettatamente nel petto, affiancandosi al tormento. « Perché lo fai? Perché mi fai questo? » La voce si alza e diventa più dura. « Me lo merito questo trattamento? » Non le frega niente di apparire egocentrica, non quando si sente ferita mortalmente. « No cazzo, non me lo merito. E nemmeno te lo meriti. Non puoi continuare così, a farti del male, consapevolmente. » Scrolla la testa e si accorge che ormai è tutto il corpo a tremare. Non sa se è per il freddo o per lo shock ma punta tutto sulla seconda. « Hai un problema? Okay, ci rimbocchiamo le maniche e lo risolviamo. » Continua poi, come un fiume in piena che ha rotto definitivamente ogni diga. « Perché che ti sia chiara una cosa: ora che so, non me ne starò zitta e buona a guardarti mentre ti distruggi, lasciandoti scivolare la vita tra le mani. Questa cosa si risolve ora. » La voce calca sull'ultima parola, alzandosi di qualche ottava. Negli occhi compare una nuova emozione ad affiancare la rabbia e il dolore: la decisione.
     
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    « No, non serve, Tux. » Lei gli sorride, spontanea, mentre lui la guarda, in silenzio. « Non ti avrei mai lasciato. Non ti lascerò mai indietro. » Ed a quel punto annuisce, un sorriso ad attraversargli per qualche istante il viso pallido. E’ un sorriso che ha delle note amare, il suo. Perchè Tuesday lo sa, sa quanto lei sia sincera in quel momento. Sa quanto ciò che dice corrisponda a realtà. Zelda, per lui -in un modo o nell’altro- c’è sempre stata. Ed il suo senso di colpa scaturisce dal fatto che, alle volte -per non dire spesso, ahimè- questo, barricato in quel suo muro di pessimistica angoscia, Tuesday finisce sempre per dimenticarlo. Non dice niente dunque, grato del fatto che l’amica -alla stregua di un fiume in piena, come sempre- sembra già aver cambiato discorso. Si sforza anzi per ascoltarla, lasciando da parte i brutti pensieri. E’ così, d’altra parte, che ha sempre funzionato in sua presenza. « Io sto cercando di capire. E' una situazione un po' complicata..-» Annuisce, a testimonianza del fatto che la stia ascoltando, mentre -comunque- fruga un po’ tra le cose che lei gli ha portato. «- non sono più ad Hogwarts. Sono tornata a Londra, da mamma. Il paese si è spezzato di nuovo, Inverness contro lo Stato Inglese. » Una realtà, quella, che non lo stupisce più di tanto. Dopotutto, sono anni -ormai- che il mondo magico sembra non godere più della pace. Ed il motivo -quello reale- Tuesday Mortimer lo conosce bene. « Ma non credo ci rimarremo, non sarebbe la scelta più logica per la sopravvivenza. » Un motivo che forse sarebbero giunti a snocciolare assieme, se non fosse che lui, distratto -forse del tutto volutamente, chi lo sa- ormai da quella maglietta che ha preso ad indossare teatralmente, la costringe ad interrompere il discorso. « No, Tux, non se ne parla proprio. Sono una donna del Nord, che ti credi? Sono stata generata nella taiga incontaminata, il freddo fa parte di me. » « Mh-mh. Sì, certo » La ignora bellamente mentre le poggia comunque la giacca sulle spalle, una smorfia divertita ad illuminargli leggermente il viso emaciato. « Okay, bugia, sono fatta di caldo e sole, lo sappiamo entrambi ma non sono io che deve riguardarsi, quindi questa la ripren- » Poi, però, avviene. Alla fine dei conti, il mondo inizia a precipitargli addosso. Di nuovo.
    Sono attimi di tensione. Attimi di puro ed incommensurabile panico, quelli in cui Tuesday Mortimer spera con tutto sè stesso che l’amica non sia così attenta da notare ciò che, avrebbe sperato, non notasse mai. Ma nonostante la tendenza di Zelda Kane a darsi sempre della stupida, il biondo lo sa, così come lo ha sempre saputo, non è mai stata tale. A dimostrazione di ciò, suo malgrado, passano pochissimi istanti -lunghi tuttavia quanto ore- prima che la bionda posi il suo sguardo ambrato su ciò che l’amico -senza riuscirci- ha provato goffamente a nascondere sino ad ora. « No, non entriamo dentro. Non andiamo proprio da nessuna parte. » E’ ciò che risponde dunque, lapidaria, mentre Tuesday sospira, iniziando già a pregustare l’amaro sapore del conflitto. Merda. E la situazione è subito pronta a degenerare -come, d’altra parte, non si aspettava di certo altrimenti- quando l’ex Grifondoro estrae la bacchetta, puntandogliela dritta in faccia. Un fascio di luce lo colpisce in pieno, costringendolo ad indietreggiare di qualche passo, socchiudendo gli occhi, istintivamente. « Zelda ma che cazzo fa- » ha giusto il tempo di imprecare, prima che lei, pronta, lo afferri per un braccio. « Mi stai ispezionando, davvero? » Tuona, mentre batte ancora le palpebre più e più volte, per cercare di riprendersi da quel dannato lumos. « E mollami! » Ruggisce allora dopo qualche istante, strattonando il braccio con forza. Ma l’amica non sembra intenzionata a dargli retta. E Tuesday allora rimane lì, a serrare la mascella mentre un moto di cieca rabbia gli rimonta dentro. Una delle cose che ha sempre odiato dell’essere un tossico, è venire trattato così. Alla stregua di un delinquente, quando hai la sfortuna di essere un drogato di merda, perdi automaticamente d’umanità. La gente inizia a trattarti come una bestia, prendendosi libertà che probabilmente, in una situazione assai più lecita, non si sarebbe mai presa. E così Zelda continua a stringergli le dita attorno al braccio, nonostante lui non voglia essere toccato. O peggio, ispezionato. Gli è già successo, in passato, e più di una volta in verità. Non con Zelda, chiaramente. C’era stato un periodo, qualche anno addietro, in cui i suoi genitori non facevano altro che controllare le sue cose, ogni qualvolta tornasse da fuori. Tuesday sapeva non lo facessero per male, anzi il contrario, ma gli dava sui nervi comunque. Così come gli aveva dato sui nervi quella volta, alla clinica di recupero. Era stato internato da circa una settimana. La signorina Stacey, l’infermiera del suo reparto, non era mai stata cattiva con lui. Gli parlava con gentilezza, sempre. C’erano volte in cui, addirittura, si soffermava per qualche momento ad ascoltare cosa effettivamente lui avesse da dirle. Non che Tuesday parlasse poi molto, in realtà, rintanato in un angolino di quell’opprimente camera asettica, le ginocchia costantemente strette al petto. C’era stato un pomeriggio, però, che quel dannato demone -uno tra i tanti- si era rivelato più forte rispetto ad altre. L’astinenza. Non chiedetevi come quella bustina di polverina bianca fosse arrivata tra le sue mani. Che ci crediate o no, i posti anti droga sono sempre quelli più pieni di merdate. Se avesse avuto un’arma a portata di mano, quel giorno, quando Stacey Jackson aveva avuto la triste idea di controllarlo, sotto comando dei piani superiori, Tuesday Mortimer l’avrebbe uccisa. Tanta era la rabbia che aveva provato nei suoi confronti. La stessa rabbia che prova adesso. La percepisce pulsare nelle vene, e questo lo spaventa. Perchè dall’altra parte, non c’è Stacey. Dall’altra parte, questa volta, c’è Zelda. Ed a Stacey Jackson, Tuesday, quel pomeriggio d’agosto, aveva staccato un orecchio a morsi.
    Respira a fondo. « Che..che sono, Tux? » Secondo te che sono? Avrebbe l’istinto di rispondere, secco e velenoso. Ma non lo fa, scuotendo la testa « Non sono niente » Dice invece, pur sapendo quanto sia inutile tentare di negare l’evidenza. Zelda, infatti, continua: « Da quanto hai ripreso? » Ma non ha il tempo di cercare una risposta. « Eri fatto anche quel giorno. » « Cosa? No! » Ribatte, di scatto. Ed eccoci giunti ad un’altra delle cose che odia, dell’essere -di nuovo- un drogato di merda. Quando ti droghi, sembri quasi entrare a far parte di una categoria a sè stante. Automaticamente, in pochi attimi -ad occhio esterno- perderai ben presto personalità. Identità. Ogni tua azione sarà ricondotta ad una reazione. Se sei triste, sarà colpa della droga. Se sei spaventato, nervoso, arrabbiato, felice: sarà sempre colpa della droga. Anche quando sarai pulito, non ti crederanno. E come biasimarli, dopotutto? « Non mi raccontare cazzate, ti prego, non me lo merito. » « Vaffanculo, Zelda » Sibila allora, senza però guardarla negli occhi. Sa che ciò che potrebbe scorgerci dentro, gli farebbe troppo male. « Non ero fatto anche quel giorno. » E la discussione, per lui, finirebbe anche qui. Se solo lei lo lasciasse, si riavvierebbe verso casa, chiaro segno che quell’argomento, personalmente, non lo vuole aprire. Ma, appunto, Zelda non lo lascia. Anzi, il suo sguardo è ancora fisso sulla sua pelle, e quando Tuesday la vede sbiancare, di colpo, perde qualche battito. Merda. « Cosa.. Quando.. » Cala lo sguardo, in silenzio, mordendosi con così tanta forza l’interno della guancia, da sentire trapelare l’amaro gusto del sangue. Gli sembra quasi, suo malgrado, esser precipitato in uno dei suoi peggiori incubi. Perchè sulla sua tossicodipendenza, ci si può anche passare sopra. Lo hanno sempre saputo tutti, in fondo. E’ evidente. E che possa o meno ricaderci un giorno, questa non è certo una novità. Difficile da accettare, forse, ma non di certo una novità. Ma di ciò che quelle cicatrici sui polsi rappresentano, Tuesday non ne ha mai fatto parola con nessuno. Neanche sua sorella Weedy. E nemmeno Zelda. « Non mi sono mai accorta di nulla. » Il dolore che percepisce nel suo tono di voce, gli fa male. « Che amica di merda devo essere per non accorgermi che hai ripreso a farti e che hai tentato..hai tentato.. »
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    « Smettila » Asserisce, secco « Non è colpa tua » C’è dell’apatia, nel suo tono di voce. E’ stanco. « Perché non mi hai detto nulla? Perché ti sei nascosto ai miei occhi escludendomi? Io avrei potuto aiutarti, avrei cercato di farlo in tutti i modi a me possibili, ti sarei stata accanto. Non ti avrei lasciato indietro. » Perchè non gli abbia mai detto nulla -ed avrebbe continuato a non farlo, probabilmente- Tuesday lo sapeva bene. Zelda Kane, da che ne abbia memoria, è sempre stata il suo porto sicuro. Il suo posto felice. Un momento di spensieratezza in mezzo ad una vita fatta di tanti, troppi pensieri. C’erano state delle volte, ed erano state parecchie, in cui inconsapevolmente, l’amica l’aveva salvato. Il pensiero di come l’avrebbe fatta sentire. O anche solo il ritrovarsela lì, tutta sorridente, abusivamente seduta sul materasso della sua camera ad Hogwarts, un pacchetto di gelatine in mano e chissà quale piano malefico da compiere in testa. Zelda Kane era un concentrato d’energia che riusciva ad intersecarsi alla perfezione con quel suo muro d’apatia. E quel legame che aveva dell’idilliaco, Tuesday non aveva mai voluto spezzarlo. Sporcarlo, contaminarlo. C’erano dei giorni in cui avrebbe voluto. Avrebbe voluto davvero raccontarle ogni cosa. Sfogarsi, in qualche modo. Chiederle aiuto. Ma lo avrebbe fatto davvero, Zelda? Avrebbe continuato a non lasciarlo indietro, sapendo quanto di orribile, in passato, aveva fatto? « Sì, lo so » Dice, il tono basso, mentre spera solo lei finisca di parlare. Ma Zelda non lo fa. Non smette di parlare e anzi, le parole che pronuncia dopo, sono le più dolorose. « Perché lo fai? Perché mi fai questo? Me lo merito questo trattamento? No cazzo, non me lo merito. E nemmeno te lo meriti. Non puoi continuare così, a farti del male, consapevolmente. » La verità è che no, Zelda non se lo merita. E come lei Weedy, sua sorella. O i suoi genitori. Tuesday lo sa, sa bene quanto nessuno di loro si meriti di soffrire per lui. Di vederlo sgretolarsi e deteriorarsi, consapevolmente, ogni giorno di più. Ma Tuesday sa anche che non è capace di smettere. Non può farlo. Non sa farlo. Non quando continua sempre a mancargli qualcosa, in quell’esistenza del cazzo. Non quando non ha mai capito cosa. « Hai un problema? Okay, ci rimbocchiamo le maniche e lo risolviamo. Perché che ti sia chiara una cosa: ora che so, non me ne starò zitta e buona a guardarti mentre ti distruggi, lasciandoti scivolare la vita tra le mani. Questa cosa si risolve ora. »
    Una risata. Ecco cosa rompe il silenzio, in quel pomeriggio che inizia già ad assumere le note lugubri della sera. Tuesday ride, dapprima sommessamente, poi in maniera sempre più rumorosa ed evidente. Non che sia una novità, certo, che uno come lui -da sempre abituato a non prendere nulla sul serio- rida. Specie, poi, se in presenza di Zelda, la sua migliore amica. Di risate, la Grifondoro, gliene ha sempre rubate tante. E tante gliene ha regalate, di sincere, il Serpeverde. Ma questa volta è diverso. C’è del marcio, in quel suo ridere, c’è qualcosa che non va. C’è una freddezza da far accapponare la pelle. In quell’atmosfera sempre più cupa, Tuesday Mortimer sembra quasi un pazzo. « Si risolve ora? Davvero? » Sibila, tagliente. Il tono è freddo, di una freddezza che mai ricorda di averle rivolto. Sembra quasi un altro, Tuesday, e se potesse vedersi allo specchio, se ne accorgerebbe. I lineamenti induriti, lo sguardo vuoto, glaciale, ed un ghigno che ha del diabolico a deformargli le labbra, quando smette di ridere. « Si risolve ora… » Ripete, alzando lo sguardo al cielo, come per pensare « Mmh, okay, vediamo un po’. » A quel punto la inchioda. La guarda, ma non la vede davvero. E’ in piena fase di delirio. « Vedo i morti ogni giorno, da quando sono nato. Non posso camminare, non posso dormire, perchè loro sono sempre lì. Nella mia camera. Nella mia testa. Dentro di me. » Primo. « Ai morti si sono aggiunte da qualche tempo a questa parte le voci. Sempre nella mia testa, sì. Mi parlano, la maggior parte del tempo urlano. Mi dicono di uccidermi. Mi dicono di uccidere. » Secondo. « Sono malato di DIV, ed inizio a pensare non solo di questo. Ho quasi ammazzato la ragazza che amavo un tempo, perchè non gliel’ho mai detto. I medici dicono che starò presto bene, ma le analisi non sembrano d’accordo. » Terzo. « Mi drogo, e non riesco a smettere. Lo prometto ogni giorno a mio padre, a mia madre, ma so già che sarà la solita presa per il culo. » Quarto. « Ho staccato un orecchio a morsi ad un’ infermiera, durante uno dei miei.. Mille? Programmi di recupero. » Quinto. « Sono innamorato di mia sorella. Che, per la cronaca, ho quasi ammazzato, qualche mese fa. » Sesto. « Ah, dai! Quasi dimenticavo. Ho evocato un demone, durante il periodo buio. Ed adesso che la Loggia Nera - scandisce bene quella parola - sta tornando, sento, so che non mi lascerà in pace. » Settimo. Sorride, a quel punto « Quindi forza, dai! Dimmi, sono curioso. Qual è la tua soluzione? Mh? » La incalza. « E adesso mollami il braccio, e non toccarmi più, o giuro che ti faccio male. »
     
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    Abbassa gli occhi a controllarsi le braccia. Ha la pelle d'oca e sa bene che non è l'aria pungente di Chinnor. No, è l'agghiacciante risata di lui a provocarle quella reazione. Ha squarciato il silenzio con quelle sue note pungenti e amare al contempo. E i brividi che Zelda prova sono nient'altro che la conseguenza a quella reazione inaspettata. Perché alla sua proposta di trovare una soluzione insieme, lui ride. Non sa se ride di lei o ride della situazione ma si sente irrimediabilmente ferita da quel tono, sarcastico quanto sprezzante. Come se la sua opinione, in tutto ciò, non valesse altro che una misera risata. Sente montarsi dentro una gran rabbia che le fa formicolare il naso per il fastidio. Se lo vorrebbe strofinare ma è troppo occupata e concentrata nel tenere serrati i pugni, così da distogliere l'attenzione da quell'irritante pungere che avverte agli occhi. Non prendermi in giro, non deridermi così cazzo. « Si risolve ora? Davvero? » Rabbrividisce nuovamente ma cascasse il mondo non si muove, seppur effettivamente turbata da quel tono di voce che le saprebbe di chiunque tranne di Tuesday. Odora di sconosciuto, così come ogni movimento di lui le suggerisce che chi ha davanti non è il suo miglior amico. Non può essere altrimenti. E così cerca di trattarlo, di identificarlo per prepararsi alla botta che sa per certo di stare per ricevere. E le pensa tutte per difendersi, per non farsi ferire a morte da quello che sta per travolgerla. « Vedo i morti ogni giorno, da quando sono nato. Non posso camminare, non posso dormire, perchè loro sono sempre lì. Nella mia camera. Nella mia testa. Dentro di me. » Comincia così, a raccontarle tutti i suoi tormenti, di cui alcuni era a conoscenza, altri le risultano completamente nuovi, tanto da schiaffeggiarla in pieno volto e lasciarla lì, stordita, a sgranare gli occhi come una deficiente. E' certa che nella confusione e nella celerità in cui sta cercando di assimilare ogni sua parola, qualcosa se la sia persa per strada ma tanto non è quello il punto. Il punto è rimanere lì, immobile, con il viso all'insù mentre continua a fissarlo, con quella valanga di parole che la investe, vorticandole intorno come una tromba d'aria che ha tutta l'intenzione di spazzarla via. Di farmi a pezzi. « Ah, dai! Quasi dimenticavo. Ho evocato un demone, durante il periodo buio. Ed adesso che la Loggia Nera sta tornando, sento, so che non mi lascerà in pace. Quindi forza, dai! Dimmi, sono curioso. Qual è la tua soluzione? Mh? » Quel sorriso del cazzo, algido e tagliente, non se l'è mai visto riservare e il suo primo istinto è quello di staccarglielo via a morsi. Così la smetti di fare il borioso del cazzo. « E adesso mollami il braccio, e non toccarmi più, o giuro che ti faccio male. » Senza alcun preavviso, ora è lei a sbottare con una risata aspra. « Davvero? Vuoi farmi ancora più male? » Un sorrisino triste fa capolino tra i suoi lineamenti, accorgendosi solo nel momento in cui si fa avanti di essersi stretta ben salde le braccia intorno al busto, a mo' di protezione. Ma ora le libera, spalancandole con eloquenza. « Se credi di esserne capace, forza, che aspetti? Dai, fammi più male, fammene fin quando non soddisferai il tuo senso di autodistruzione, che ti piace talmente tanto da preferirlo a qualsiasi stronzo ti vortica attorno e ti vuole bene. » Lo squadra, inclinando la testa di lato. Poi la mano destra si fa avanti, poggiandosi sul suo petto e gli dà una leggera spinta all'indietro. « Dai, erano davvero solo minacce vane? Non ci credo, eri così convincente da avermi illuso. Devi arrivare fino in fondo, devi farmi male davvero, davvero, davvero tanto se vuoi che prenda anche solo in considerazione l'idea di andarmene. » Una scintilla iraconda serpeggia nei suoi occhi nocciola. Perché è convinta che lui stia facendo di tutto per farle girare i tacchi e scappare via, più lontano possibile, così da crogiolarsi nell'idea di averla salvata da se stesso o, in alternativa, in quella di non potersi fidare veramente del mondo perché non è nemmeno degno di una battaglia combattuta con le unghie e con i denti. Non ti darò questa soddisfazione, né in uno né nell'altro caso. E continua a sfidarlo, con gli occhi e con la mano destra che prosegue in quelle spintarelle in cui mette quasi una forza nulla. Poi allarga le braccia, con eloquenza. Perché ti trattieni? Cosa aspetti? Fammi male. « Perché mi hai buttato addosso tutto quanto sperando di farmi scappare via. » Quindi è questa la considerazione che hai di me? Che hai di noi. Non è nemmeno una domanda la sua, è una constatazione perché è sicura che sia così, che sia questo il grande ragionamento dentro la sua testa. Stringe forte i denti, con la frustrazione che le vela gli occhi mentre un'altra manata si infrange sul suo petto prima di stringergli forte la maglietta. « Allora? » Lo incalza nuovamente, aspettando che lui si decida a farle male, così come le ha espressamente promesso. « Io la soluzione a tutti i problemi non ce l'ho, non ora perlomeno, non sono la cazzo di fata turchina. Ma sono sicura che una soluzione possa esserci, se non che risolva tutto che quantomeno ti faccia vivere in pace, serenamente, che ti permetta di vivere la vita che ti meriti. » Glielo urla addosso, sentendo il bisogno estremo di fare quell'ultimo tentativo, di farsi vedere da lui, in mezzo ai suoi deliri interiori. Di fargli capire che lei è lì, per lui e per nessun altro. « E posso prometterti che qualunque strada dovrai intraprendere io sarò qui, proprio qui, vicino a te. » Come sempre. Stringe ancora più forte le mani intorno alla maglia delle Spice prima di fiondarvici contro, stringendoglisi addosso come una disperata. « Ti accompagnerò da ogni dottore, psicologo, terapista, divinatore, medium, da chiunque servirà. Non sarai solo. » Non lo sei mai stato, non con la tua famiglia, non con me. Si chiede allora cosa abbiano fatto di sbagliato, tutti loro, per non averglielo mai fatto comprendere a fondo. Perché non ci senti dentro di te nonostante tutto? Quel pensiero la stordisce, facendola sentire completamente impotente. Il suo dargli tutto non è abbastanza per lui e allora non sa cos'altro fare, cos'altro
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    inventarsi per fargli capire quanto sia importante per lei. « Ma se questo non è abbastanza..-» prende a dirgli scansandosi da lui di qualche passo «- se io, il mio volerti bene incondizionatamente, il mio esserci sempre, il mio chiederti di mettercela tutta per uscirne, per aiutarmi ad aiutarti, non sono una motivazione sufficiente a farti desiderare di non farti più, di vivere una vita piena con me e con tutta la tua famiglia, con tutti quelli che ti amano, allora dimmi cosa vuoi. Cosa ti serve. Cosa ti farebbe dire "Okay, è abbastanza!" » Si accorge di star piangendo solo quando le lacrime cadono dal mento andando ad inzupparle la felpa. L'aria pungente non perde l'occasione per trasformare quel piccolo laghetto in ghiaccio contro la sua pelle, facendola rabbrividire nuovamente. « Dimmi cosa posso darti di più per farti desiderare di vivere senza quella merda. » La voce le trema e fa un ulteriore passo indietro, amareggiata, spaventata e totalmente in balia dell'impotenza più totale. « Oppure spiegami perché alla fine preferisci l'oblio a tutti. A me. Dimmi perché rischi tanto, come se non avessi nulla da perdere. » Come se il perdermi, alla fine dei giochi, possa essere un prezzo accettabile se significa poter avere un'altra dose. « E l'ho capito, immagino che nella tua testa tu l'abbia dipinta come una soluzione definitiva a tutti i problemi che mi hai elencato, ma non lo è. Non quando lasceresti persone a piangerti, a disperarti per la tua assenza. Non quando c'è per forza un'altra strada. C'è per forza per le voci, c'è per forza per i morti, c'è per forza per qualsiasi altra cosa tu abbia, c'è per forza per il richiamo della Loggia. C'è. Tu devi solo cominciare a desiderare più la vita della morte. » Più noi della fine di ogni cosa. I suoi occhi ambrati si alzano allora su di lui e si stringe semplicemente nelle spalle, abbracciandosi con le proprie braccia. Dimmi cosa vuoi o fammi ancora più male. « Io non ti lascio indietro, ma tu non lasciarmi da sola a combattere per te. Non farmi combattere anche contro di te, ti prego. » Potrei prometterti di farcela, per entrambi, ma non posso farcela se mi remi contro, desiderando di affogarti invece che respirare a pieni polmoni.
     
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