An end to anger, euthanasia

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    «Psst. Branwell. PSST!» Il piccolo orologio rettangolare continuava a librarsi nell'ampio spazio sopra le teste degli studenti, volteggiando di tanto in tanto, sapientemente incantato in modo da evitare di scontrarsi contro i tomi che, pigramente, uno studente biondino ed emaciato faceva sollevare dal carrello, sfiorandoli appena con la punta della bacchetta, come ad incitare i libri a fare ritorno al proprio posto sugli scaffali. «BRANWELL» fu l'ennesimo sussurro strozzato di George Culkin che Otis stava cercando, con evidenti difficoltà, di ignorare. Stava infatti fissando la stessa riga del manuale davanti a sé da almeno 10 minuti – “Apophis, o Apopi, è una divinità egizia. Rappresentato come un gigantesco serpente, incarnazione della tenebra e del caos, Apopi era generalmente opposto al dio-sole Ra, con il quale viveva in eterno conflitto.” – senza effettivamente riuscire a registrarne il significato. Stava scribacchiando qualcosa di poco sensato al margine del suo block notes a righe blu quando qualcosa l'aveva colpito sulla fronte. Alzando la testa, si era ritrovato davanti un aeroplanino incantato, che era dolcemente atterrato sul suo libro aperto prima di dispiegarsi e rivelare il messaggio all'interno. Uno stickman scarabocchiato piagnucolava – riusciva quasi a sentire la voce lagnosa di Culkin, a guardare quelle linee nere accartocciarsi e rimarcarsi a ogni smorfia di pianto dell'omino disegnato – e sotto una scritta in stampatello recitava: PAUSA? PER PIACERE ADESSO MUOIO DI NOIA. Otis si era limitato ad accartocciare l'opera d'arte con una mano sola, rispedendola al mittente concedendogli soltanto una rapida occhiata e un veloce “no” con la testa, prima di tornare a fissare inutilmente il manuale. Era stato soltanto dopo, quando il lamentoso Grifondoro con cui si era ritrovato a studiare quel pomeriggio aveva attaccato bottone con un sonnecchiante Serpeverde seduto accanto a lui, convincendolo a fare pausa insieme senza particolari giri di parole (“Ciao, George Culkin, Grifondoro. Il mio amico è un secchione e io non ne posso più di studiare. Andiamo
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    a fare merenda?”), che Otis era finalmente sbottato in un sonoro sospiro. Si era passato una mano sul volto, probabilmente sporcandosi di inchiostro ma senza badarci, e aveva disteso le lunghe gambe sotto al tavolo, ora che non aveva più nessuno di fronte. Annodando le dita dietro la testa, si era soffermato per qualche secondo sugli studenti che, come lui, avevano deciso di passare la domenica pomeriggio in biblioteca, nonostante l'indolenza del sole, che si ostinava a fissarli, da fuori. Ormai distratto, aveva sfilato il cellulare dalla tasca dei pantaloni della divisa scolastica. Nessuna notifica. Scorrendo lo schermo del telefono per sbloccarlo, era stata con abitudinaria naturalezza che le sue dita avevano cercato la chat con Ronnie, ormai inattiva da settimane. Come vuoi recitava l'ultimo messaggio che le aveva inviato, al quale non era conseguita una risposta. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa fosse successo tra loro due – cosa che nessuno aveva fatto, perché a conti fatti Otis non aveva più neanche un amico, non come prima, non nel vero senso della parola, e comunque non qualcuno con cui avrebbe mai parlato con sincerità – il Tassorosso non avrebbe saputo descrivere quale fosse stato il vero problema. Normalmente incredibilmente analitico, nell'ultimo periodo si era come disconnesso, sia con il mondo esterno che con se stesso. Ed è impossibile capire cosa succeda attorno a te e con gli altri se prima di tutto non capisci neanche che cosa stia accadendo dentro, se perdi la capacità di riconoscere le tue emozioni, metterle in fila indiana e classificarle, come aveva sempre fatto. E così i silenzi di Otis durante quelli che al ragazzo erano parsi soliloqui esasperanti della sua migliore amica (si vergognava un po' di aver formulato un pensiero simile) avevano parlato molto più forte e chiaro di lui, così come anche le sue strette di spalle, le domande evitate, che poi culminavano in sospiri sonori e irritati.


    Otis Branwell
    Otispocus
    online
    Non posso parlare, solo Whatsapp


    [19.10] > Le cose stanno così, non vedo che senso abbia continuare a parlarne
    > Che altro vuoi che ti dica?


    Gli occhi cerulei del ragazzo avevano scorso quelle righe per la prima volta da quando le aveva digitate, ma non avrebbe saputo dire se adesso, a distanza di un paio di settimane, si sentisse diverso. Era stato insensibile? Forse sì. Ma Ronnie era stata implacabile negli ultimi mesi. Avevano vissuto gli sconvolgimenti che avevano colpito il Castello in modi così diametralmente opposti che a Otis sembrava semplicemente naturale che ci fossero stati quegli scontri, tra di loro. La verità era che non si era mai sentito così, prima d'ora, ma desiderava ardentemente essere lasciato in pace. La rabbia di Ronnie disturbava la sua placida quiete. Aveva fatto lo stronzo, facendoglielo capire? Forse. Ma se c'era una cosa che sapeva era che era stufo marcio di quel processo alle intenzioni che il suo cervello attivava di fronte ad ogni minimo conflitto, quel costante domandarsi se avesse sbagliato, e dove, e come, e perché. A volte era una brutta persona. Forse questa era una di quelle volte. Forse diventare adulti significava accettare che a volte ci comportiamo male, e da egoisti, perché non siamo perfetti. O forse l'egoista era stata Veronica.
    Quello che sicuramente Otis non si aspettava, però, era veder mutare lo schermo della chat aperta sul suo cellulare di fronte ai suoi occhi, proprio mentre stava per oscurare lo schermo e tornare a fissare il manuale di Demonologia. Si stupì nel percepirsi vagamente affannato mentre cliccava delicatamente sullo schermo, per leggere il messaggio che Ronnie gli aveva appena inviato. Aveva riposto il telefono in tasca, quindi, per poi scostare la sedia dall'ampia e pesante scrivania in legno massiccio, avviandosi verso l'uscita della biblioteca.
    All'esterno, poco distante dal compagno di studi disertore, una Veronica Rigby accigliata era poggiata alla colonna del cortile. Non era da loro quella tensione, non ricordava quand'era l'ultima volta che avevano litigato e poi non si erano parlati per così tanto. E tuttavia non riuscì a sentirsi dispiaciuto per quella distanza, mentre la raggiungeva, le mani infilate nelle tasche. Si era poggiato muretto accanto a lei, e senza propriamente salutarla aveva lasciato che il suo sguardo fosse fisso sulla punta delle scarpe. Ad uno sguardo attento, forse, l'impressione sarebbe stata che Otis si stesse vergognando. «Volevi parlarmi?»

     
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    Se Veronica era già consapevole di non essere una persona particolarmente atletica, il periodo da Marzo a questa parte gliel'aveva provato in maniera abbastanza schiacciante. Aveva abbracciato l'idea di quelle lezioni di combattimento con la sua solita determinazione. Non poteva dire di aver mai nascosto dentro di sé il desiderio di diventare un'abile combattente, ma avendo visto con i propri occhi il pericolo che incombeva su tutti loro, era piuttosto normale che avesse fretta di imparare il più possibile per sapersi difendere. Le memorie del lockdown erano ancora ben impresse nella sua giovane mente; come se fosse facile, dimenticare quella sensazione: il senso di impotenza, di precarietà, di non sapere se si sarebbe arrivati a vedere il giorno successivo e al contempo essere certi che una tale benedizione dipendesse solo dalla fortuna di trovarsi accanto alle persone giuste. Non voleva più sentirsi così: in balia del fato e della protezione altrui. Così si era rimboccata le maniche, mettendo anima e corpo in quelle lezioni che tuttavia sembravano procurarle soprattutto lividi e acido lattico. « Rigby?! HEY RIGBY?! Guarda che così ti farai male da sola! » Non aveva una tecnica. Svilupparla le riusciva difficile. Quello che le insegnavano sembrava rimanere su una superficie teorica. Quando poi si ritrovava a doverlo mettere in pratica.. tabula rasa. Colpiva il sacco da boxe a caso, senza prestare alcuna attenzione al tipo di colpi, alla postura, al modo in cui teneva chiuso il pugno. Se da un lato era chiaro che avesse bisogno di tempo, dall'altro era altrettanto evidente che la rabbia le facesse da ostacolo. Una rabbia che, almeno nell'ultimo periodo, era stata alimentata a dismisura dalla discussione con Otis. Da quel momento in poi, la giovane Grifondoro se l'era passata male. Pensava e ripensava all'atteggiamento dell'amico in maniera ossessiva, ritrovandosi in balia di riflessioni che mutavano forma e umore ogni cinque secondi. Spesso sotto la doccia si ritrovava a pensare a tutte le cose che avrebbe potuto dirgli a brutto muso, prendendolo di petto a scaricando su di lui tutta la frustrazione di quell'allontanamento. Ah sì sì, gliene dico quattro se lo rivedo. Chi dimentica è complice, Otis. Scegliere di non fare nulla è pur sempre una scelta - lo sai? Eh? E dopo tutto quello che abbiamo passato! Dopo tutto quello che persone come tua madre hanno dovuto vivere! Sei proprio incommentabile. Lo sai che ti dico? Almeno Emi, per quanto mi abbia deluso, ha comunque fatto la propria scelta. Quei pensieri, poi, sembravano quasi naturalmente scivolare nei sensi di colpa e in toni più tristi. Quando la sera prima di addormentarsi scorreva la galleria del telefono e riguardava le vecchie foto insieme agli amici, la voglia di litigare la abbandonava e uno schiacciante senso di oppressione al petto e di chiusura allo stomaco le portava sulla bocca un sapore amaro. Io non capisco cosa sia cambiato. Parlavamo di tutto, io e te. Eri il mio migliore amico. Forse siamo cambiati - è vero, immagino che debba accettare che non tutto resta esattamente com'è per sempre. Però non so.. io non sono pronta a lasciar andare il nostro rapporto. Capisci? Non sono pronta a prendere come un dato di fatto l'idea di non poter venire da te a parlare.. o anche solo a fare qualche stronzata. Lo so che a volte sono un po' assillante, che sono too much. Però.. non lo so.. io avevo l'impressione che tu non mi giudicassi. Che il nostro rapporto fosse una zona sicura. A volte si trovava a scrivere lunghi paragrafi nelle note del proprio telefono: cancellava, modificava, aggiungeva, poi cancellava di nuovo. Ma quei discorsi sconclusionati, poi, non li inviava mai al destinatario. Semplicemente li lasciava lì: pensieri che appassivano puntualmente il giorno seguente - non più attuali. Si addormentava esausta, abbracciando il cuscino, svegliandosi di soprassalto alla vibrazione di ogni notifica che non era mai quella che attendeva. Dopo un po' aveva anche smesso di parlarne alle amiche: alcune avevano cose più importanti a cui pensare, altre invece, Ronnie semplicemente non voleva assillarle. Aveva deciso di tenersi la cosa per sé, timorosa di pesare sugli altri e ottenere lo stesso risultato avuto con Otis. Ma la Grifondoro non era mai stata brava a trincerarsi troppo a lungo, né tantomeno era in grado di vivere nei silenzi e nei sospesi. Il momento in cui raggiunse una decisione fu lo stesso in cui il lycan gli fece svanire il sacco da boxe sotto gli occhi con un colpo di bacchetta. Sul punto di caricare l'ennesimo pugno troppo agguerrito e impreciso, Ronnie perse l'equilibrio, venendo riacciuffata per la maglietta dal medesimo istruttore. « Che vuoi fare? Escoriarti le mani? Neanche dei cazzo di guantoni! » Ed effettivamente, abbassando lo sguardo sulle proprie nocche, le trovò tutte sbucciate. Fissò le dita come in trance, cominciando solo in quel momento a percepire il dolore della carne scoperta. « Non ci avevo fatto caso. » Suona stupido perché lo è. Lo so. Sospirò, sollevando lo sguardo in quello del ragazzo. « Forse è meglio se vado a farmi un giro. » « Eh. Direi. »

    « Volevi parlarmi? » Alla fine aveva ceduto - per prima, si era ritrovata ad aggiungere nei suoi pensieri, come se quella decisione la rendesse in un certo senso più debole, mettendola nella posizione di cedere terreno ad un ipotetico avversario. Un pensiero stupido, perché solo stupido può essere vedere le relazioni umane sotto quell'ottica. Estenuata da quella situazione, aveva velocemente digitato poche parole nella chat dell'amico, chiedendogli di vedersi. Aveva quindi raggiunto il cortile a lunghe falcate nervose, dandosi solo il tempo di castarsi un ferula sulle nocche prima di avviarsi. Una volta lì, si era accesa una sigaretta con dita tremanti, rimanendo ad aspettare pochi interminabili minuti mentre batteva nevroticamente il piede in terra, cercando di capire cosa volesse davvero dire ad Otis. Aveva un piano? Ovviamente no. Non sapeva se volesse prenderlo a brutto muso o se volesse tentare la strada della comprensione. In ogni caso, comunque, temeva che la propria compostezza potesse essere minata dall'ingiungere di un'eccessiva emotività. D'altronde non sarebbe stata nemmeno la prima volta: tendeva spesso a piangere durante le discussioni per via del troppo nervosismo e del sovraccarico emotivo. Il tremolio alle mani era il primo sintomo e, sapendolo, cercò di forzarsi a tenerle ferme, stringendo con una la tracolla della borsa. Quando però Otis arrivò davvero, persino il più piccolo straccio di idea sembrò svanire di colpo dalla sua mente, lasciandola in preda alla confusione di mille discorsi preparati di cui ricordava a malapena due parole. Lo fissò per un istante in silenzio, rossa in viso e al contempo paralizzata nell'espressione.
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    « Sì. Volevo parlarti. » E fin qui, poteva arrivarci da sola. Di nuovo silenzio. Prese un tiro nervoso di sigaretta, aspirando quella boccata di nicotina come se fosse l'ultima fiala di Felix Felicis nel mondo. Virò lo sguardo dal viso di Otis, puntandolo di fronte a sé, senza guardare nulla nello specifico oltre il pozzo del cortile. « L'ho capito che non vuoi parlare di questa situazione generale. Cioè.. penso che me l'hai fatto capire bene, ecco, che ti ho rotto i coglioni. » Si strinse nelle spalle, veloce, tradendo già così l'ostentazione di una tranquillità che non aveva. « Però io non capisco davvero per quale ragione dobbiamo essere due estranei, perché.. perché dobbiamo fare questo gioco del silenzio. » Ma forse per te non è neanche un gioco. Magari ti va bene così e volevi questo: non sentirmi, non vedermi, non avere rotture di coglioni. Come se bo.. fossi una mamma apprensiva che ti chiede venti volte se ti sei portato un golfino perché la sera rinfresca. Rimase per un istante il silenzio, tirando con i denti le pellicine del labbro inferiore costantemente screpolato. Poi, di scatto, trovò il coraggio di voltarsi a guardarlo, come se stesse cercando nel viso di lui un qualunque tipo di conferma. Chi sei, Otis? Sei ancora il ragazzo che conoscevo, il mio miglior amico? Oppure mi sono solo illusa che in tutto questo tempo non fosse cambiato nulla? « Io non ci posso fare nulla se sono così, Otis. Non riesco a far finta di non essere incazzata per tutto ciò che ho visto, o spaventata dal futuro che potrebbe attenderci. Io non riesco a dimenticare. » La paura, la frustrazione, la rabbia, il senso di smarrimento, la continua sensazione di non essere mai al sicuro, di dover sempre stare in guardia perché chissà chi potrebbe essere il prossimo. Io non ce la faccio. Non riesco a ignorare queste cose. Non riesco a ignorare mai nulla, lo so - forse è un mio limite. « E se tu non ti senti come me.. va bene così. Me ne farò una ragione. Ma non so.. io-io mi sentivo al sicuro a parlare con te e credevo che anche per te fosse lo stesso.. nei miei confronti. » Ma tu con me non vuoi parlare. Non mi vuoi dire cosa pensi, come ti senti.. nulla. Io vorrei solo aiutarti. Non lo so.. provare a starti vicina in qualche modo. Tu però non fai altro che sbattermi la porta in faccia con un implicito "fatti i cazzi tuoi". E fa schifo. Fa schifo ed è ingiusto. Tirò su col naso, passandosi istintivamente il dorso fasciato a tamponare un possibile rivolo di muco che l'avrebbe solo resa più ridicola di quanto già non si sentisse. Il suo viso si fece più rosso mentre un'ondata di rabbia la pervadeva improvvisamente. « Io però sarò anche un'illusa di merda e una rompicoglioni, ma se devi sbattermi fuori dalla tua vita e trattarmi come l'ultima delle stronze, almeno abbi le palle di guardarmi negli occhi e dirmi che vuoi mettere un punto alla nostra amicizia. Almeno questo me lo aspetto, dopo tutti questi anni, cazzo! » Gettò la sigaretta a terra con stizza, calpestandola con un po' troppa foga. « Mi scrivi "che vuoi che ti dica?" dopo non aver detto assolutamente nulla, mai, da Marzo a questa parte. E allora te lo dico io 'che-vuoi-che-ti-dica?'. Che devo fare per non farti girare di culo? Fingere di essere cascata dal pero? Non sbilanciarmi mai su niente? Devo limitarmi a parlare del meteo? Perché se deve essere così.. allora sì, forse è meglio troncarla, perché evidentemente abbiamo due idee molto diverse di cosa significhi essere migliori amici. »

     
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    Il fumo proveniente dalla sigaretta di Veronica continuava a finirgli negli occhi, la direzione del vento a suo sfavore. Se normalmente avrebbe messo su una scenata da bambino, contorcendo il volto in smorfie disgustate – come se fosse forzato ad inalare scie chimiche della più nauseabonda delle sostanze – e agitando violentemente una mano di fronte al viso, giustamente provocando gli spintoni che Ronnie gli allungava seccata da tutta quella inutile teatralità, quella volta Otis si era limitato a spostarsi un po' più lontano, le braccia incrociate al petto, e non doveva aver percorso più di qualche centimetro, ma per qualche motivo quel gesto composto sembrava rivelare tutta la distanza che li separava adesso. «Sì. Volevo parlarti. L'ho capito che non vuoi parlare di questa situazione generale. Cioè.. penso che me l'hai fatto capire bene, ecco, che ti ho rotto i coglioni.» Non rispose, Otis, ma rimase ad ascoltare. Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto interromperla già lì, che forse Ronnie sperava l'avrebbe corretta. «Però io non capisco davvero per quale ragione dobbiamo essere due estranei, perché.. perché dobbiamo fare questo gioco del silenzio.» Tutto questo non era da loro, Otis lo riconosceva, lo capiva. Ma ormai si sentiva come assorto in un torpore onirico, come un sonnambulo, non propriamente sveglio, non propriamente addormentato. Eppure le parole di Ronnie, e più di tutto il suo tono di voce, sembrarono fare breccia oltre quella spessa coltre di insofferente tristezza. Si voltò a guardarlo, ma lui non riuscì a fare lo stesso, limitandosi a coglierne la forma con la coda dell'occhio, gli occhi azzurri che saettavano di nuovo sulla punta delle scarpe. «Io non ci posso fare nulla se sono così, Otis. Non riesco a far finta di non essere incazzata per tutto ciò che ho visto, o spaventata dal futuro che potrebbe attenderci. Io non riesco a dimenticare.» Otis, invece, non desiderava fare altro. Si tirò su impercettibilmente al sentire quelle parole, le spalle ricurve tenute appena più dritte, il mento più sollevato. Era stato esattamente quello il problema: non puoi ripararti dalla realtà delle cose se c'è qualcuno che, inesorabile, continua a sbattertela in faccia. Non puoi chiudere gli occhi, non puoi staccare la spina. Non hai tempi di ripresa. «E se tu non ti senti come me.. va bene così. Me ne farò una ragione. Ma non so.. io-io mi sentivo al sicuro a parlare con te e credevo che anche per te fosse lo stesso.. nei miei confronti.» «Tu come pensi che io mi senta?» Aveva risposto, aggrottando la fronte, cercando di modellare il suono e il tono della sua voce affinché potesse smussarli, mettere da parte la ruvidità che sapeva, capiva, non fosse utile allo scopo della conversazione che stavano avendo. La domanda era sincera, spontanea. Ronnie era lì, ferita e arrabbiata dal suo comportamento, ma aveva idea di come si sentisse lui? Che spiegazione si era data per il suo cambiamento degli ultimi tempi? «Ti sei domandata cosa dovessi star passando io, mentre tu elaboravi le cose a modo tuo?» Non era stato esattamente facile capire che cosa gli fosse passato per la testa negli ultimi mesi, questo lo sapeva. E sapeva anche che non stia agli altri psicanalizzarti, e decifrarti, e continuare a fornirti alibi. Ma nell'egocentrismo della sua sofferenza non c'era lucidità per pensare così chiaramente, e Otis non aveva alcuna voglia di spiegarsi, giustificarsi, o sentirsi in colpa: così come per Ronnie era stato un periodo di merda lo era stato anche per lui. Perché lei aveva il diritto di viverla a modo suo – parlandone, sviscerandolo, monopolizzando le tematiche delle conversazioni tra di loro, arrabbiandosi – e lui non poteva essere compreso nel suo? «Io però sarò anche un'illusa di merda e una rompicoglioni, ma se devi sbattermi fuori dalla tua vita e trattarmi come l'ultima delle stronze, almeno abbi le palle di guardarmi negli occhi e dirmi che vuoi mettere un punto alla nostra amicizia. Almeno questo me lo aspetto, dopo tutti questi anni, cazzo!» Soltanto a quel punto fu naturale, per lui, voltarsi a guardarla. Appurò soltanto in quel momento che stesse tremando. Il cuore gli si strinse appena, per qualche secondo, mentre riconosceva la rabbia di Ronnie prendere forma sotto la superficie: gli era ben nota. «Mi scrivi "che vuoi che ti dica?" dopo non aver detto assolutame
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    nte nulla, mai, da Marzo a questa parte. E allora te lo dico io 'che-vuoi-che-ti-dica?'. Che devo fare per non farti girare di culo? Fingere di essere cascata dal pero? Non sbilanciarmi mai su niente? Devo limitarmi a parlare del meteo? Perché se deve essere così.. allora sì, forse è meglio troncarla, perché evidentemente abbiamo due idee molto diverse di cosa significhi essere migliori amici.»
    Non distolse gli occhi da lei mentre le si avvicinava un po' di più. Succedeva spesso così: partiva rigido, impenetrabile, saldamente ancorato sulla sua posizione, e poi le cose diventavano troppo grandi, andavano ingigantendosi, perché portava avanti questo atteggiamento per troppo tempo, inconsapevole dei danni che arrecasse, incapace di confortare l'altro. Non è questo quello che volevo dire. Serrò la mascella per qualche secondo, deglutendo, ragionando. Non riusciva ad essere impulsivo neanche in momenti così, mentre invece Ronnie gli stava di fronte, tremando di rabbia, traboccante di emozioni. La invidiò, per questo. «Ti ho scritto “che vuoi che ti dica” perché io non so davvero più che cosa dirti, Ron. Non l'ho saputo più, perché io capisco che tu stessi soffrendo, o che fossi incazzata con i tuoi o con tutto il mondo, ma...» io non ci riesco «... non provo le stesse cose che provi tu. E non credo sia utile continuare a parlare di un problema all'infinito, continuare a lamentarsi... Non ce la faccio». Si era mordicchiato le labbra, parlando piano e tirando su col naso di tanto in tanto. «Non sono la persona più giusta per starti accanto adesso. Non so farlo Anche se vorrei, non ho più niente da dare, ho esaurito le parole di conforto. Non riesco a trovarne più neanche per me stesso, perché non ho le energie per cercarle. You can't pour from an empty cup. «Mi spiace se questo può portarti a non voler più essere amica mia. Lo capirei, se così fosse». Non era quello che avrebbe dovuto dire, non era la rassicurazione che Ronnie era certamente venuta a cercare, in fondo. Ma era l'unica cosa che era riuscito a dire. Più di tutto perché capiva che, allo stato attuale delle cose, la propria amicizia non valesse molto. Allargò le braccia, per poi lasciarle ricadere lungo i fianchi. «Io sto cercando di andare avanti. Sto cercando di non farmi prendere dalla paura, o dalla rabbia. Se per te questo significa essere una persona senza palle allora forse hai ragione tu. Non credo sia giusto, ma suppongo che in fondo anche io abbia giudicato te per il tuo modo di reagire a... tutto questo. Ed è giusto che tu faccia lo stesso.» Lo percepisce, il Tassorosso, che le proprie parole continuano ad avvicinarsi al punto, per poi virare all'ultimo e mancarlo del tutto? «Io non voglio troncare niente. Ma non riesco ad esserti d'aiuto, adesso. Per cui, se per te questo è un punto irrinunciabile, una di quelle priorità assolute in un'amicizia, mi dispiace non poterti venire incontro.»


    Edited by the educator - 10/7/2022, 16:35
     
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    « Ti ho scritto “che vuoi che ti dica” perché io non so davvero più che cosa dirti, Ron. Non l'ho saputo più, perché io capisco che tu stessi soffrendo, o che fossi incazzata con i tuoi o con tutto il mondo, ma... non provo le stesse cose che provi tu. E non credo sia utile continuare a parlare di un problema all'infinito, continuare a lamentarsi... Non ce la faccio. » Spostò di scatto lo sguardo altrove, mordendosi l'interno del labbro inferiore in un tentativo disperato di non interrompere Otis. Gliel'avevano fatta spesso presente, quella sua brutta abitudine di tagliare i discorsi altrui prima ancora che l'altro avesse modo di finire il proprio pensiero, e a modo proprio ci stava lavorando, sebbene spesso non fosse semplice lasciare che il suo interlocutore andasse lungo una strada di incomprensioni. Chi cazzo te lo ha mai chiesto, Otis, di sentirti come mi sento io?! Cazzo tu lavori davvero un po' troppo col cervello, ma la briga di sentire se le tue versioni sono accurate non te la prendi mai. « Non sono la persona più giusta per starti accanto adesso. Non so farlo. Mi spiace se questo può portarti a non voler più essere amica mia. Lo capirei, se così fosse. » A quelle parole, Veronica rivolse ad Otis uno sguardo che se avesse avuto il magico potere di incenerirlo lì sul posto, probabilmente lo avrebbe fatto. Non sapeva davvero come prendere ciò che lui le aveva appena detto, sapeva solo come ciò la faceva sentire: rifiutata. Nella concezione di Veronica, non esistevano persone giuste e persone sbagliate per dare supporto quando si trattava di amicizie di tale portata: semplicemente ciascuno faceva ciò che poteva per stare accanto all'altro, a volte senza fare necessariamente nulla di particolare. La giovane Rigby, d'altronde, non si aspettava di certo che il migliore amico fosse in grado di risolvere i suoi problemi. Come poteva? Con quali strumenti? Si aspettava, tuttavia, che quanto meno le stesse accanto e che le lasciasse spazio per fare altrettanto con lui. È così che funziona tra amici. Non si è presenti solo quando è facile o comodo. Non pensava che sarebbe mai arrivata a fare pensieri simili proprio su di lui, sulla persona che più credeva essere leale e dedita all'amicizia. Una parte di lei non riusciva a capacitarsi di come fosse arrivato a quel punto, e forse voleva credere che fosse colpa di qualcos'altro - qualcosa di esterno - che lo aveva reso così piuttosto che accettare l'idea che Otis avesse davvero una simile indole. « Ma chi sei?! Chi è questa persona che sei diventato? Perché io davvero non la riconosco, Otis. » disse, squadrandolo dalla testa ai piedi mentre faceva un passo indietro, come a sottolineare ulteriormente quella distanza emotiva che sembrava essersi messa tra loro dal giorno in cui Inverness aveva preso controllo di Hogwarts. « Io sto cercando di andare avanti. Sto cercando di non farmi prendere dalla paura, o dalla rabbia. Se per te questo significa essere una persona senza palle allora forse hai ragione tu. Non credo sia giusto, ma suppongo che in fondo anche io abbia giudicato te per il tuo modo di reagire a... tutto questo. Ed è giusto che tu faccia lo stesso. Io non voglio troncare niente. Ma non riesco ad esserti d'aiuto, adesso. Per cui, se per te questo è un punto irrinunciabile, una di quelle priorità assolute in un'amicizia, mi dispiace non poterti venire incontro. » Se una grossa parte della rabbia di Veronica nasceva dalla tristezza, le parole dell'amico la mutarono in un sentimento di vera e propria irritazione. Tutto di lui, in quel momento, la irritava: ciò che diceva, il fatto che lo dicesse come se stesse semplicemente constatando un prevedibile cambiamento del meteo e la generale inerzia con cui sembrava muoversi quotidianamente. Tu non stai cercando di andare avanti, Otis. Stai evitando. E ci sta una bella differenza tra le due cose. « Lo sai che ti dico? » Riprese dopo qualche istante di silenzio, riavvicinandosi di un passo per mettersi di fronte a lui e guardarlo dritto negli occhi. « Che ci vuole davvero una bella faccia a rigirare la questione su di me e farmi passare come la damigella in difficoltà che ha bisogno di aiuto per reagire al mondo. Io con te ci parlo e mi confido perché pensavo che il nostro fosse un legame di fiducia. Cosa pensavi, mh? Che il mio fosse un grido d'aiuto? » Sbuffò una risata cinica dalle narici, scuotendo il capo. Dovresti conoscermi abbastanza bene da sapere che quella è l'ultima cosa che chiederei a chiunque. Veronica aveva sempre avuto problemi con l'idea di dipendere da qualcuno o anche solo di mostrare una fragilità. Quel suo lato caratteriale nato dal modo in cui affrontava la propria condizione economica si era velocemente espanso ad ogni altra area, portandola ad essere particolarmente restia all'idea di far conto su qualcun altro che non fosse se stessa. Eppure delle eccezioni c'erano: con Otis non aveva mai sentito la necessità di fingere, di mostrarsi più forte o più capace di quanto non fosse; nel parlare con lui non si sentiva giudicata e quel parlare aveva in fin dei conti solo uno scopo: condividere con qualcuno la propria verità senza aspettarsi nient'altro. Alla luce di ciò, cosa dovrei pensare di tutto il resto? Dovrei credere che quando ti parlavo di quanto mi sentissi in imbarazzo a dover dire di no ad una birra fuori perché non potevo permetterla, tu lo intendevi come un'implicita richiesta di soldi? Perché la logica sembra essere quella. « Beh, non lo era. Avevo solo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse, nient'altro. E speravo che parlandone, magari anche tu ti saresti pian piano deciso ad aprirti e dirmi qualcosa - qualcosa di te, di come ti senti, di cosa pensi, di cosa vorresti. È davvero così tanto difficile credere che mi interessi sapere come si sente il mio migliore amico? » Si strinse nelle spalle, facendo vagare lo sguardo come se davvero non si capacitasse del motivo per cui dovesse spiegargli quelle cose dopo anni ed anni di amicizia. « Ti conosco da una vita, Otis. Lo vedo che non sei tu. Non prendermi per il culo con questo atteggiamento da "c'est la vie" che non ti è mai appartenuto. » Cominciò quindi ad elencare sulle dita. « Ti sei evitato il lockdown per un soffio, stando mesi senza sapere se i tuoi compagni fossero vivi o morti. Hai visto una guerra apocalittica. Sei stato chiuso a Mahoutokoro sotto un regime dittatoriale. Torni libero e ti ritrovi in mezzo ad un'altra guerra. Emi se ne è pure andato chissà dove.. e tu seriamente mi vuoi far credere che non hai un cazzo da dire? » Va bene che siamo giovani, ma non sono nata ieri. E sono ancora abbastanza fiduciosa da voler pensare che tu non sia un totale sociopatico. « CAZZO, TU HAI SEMPRE UN'OPINIONE SU TUTTO! E neanche sei tanto bravo a tenertela per te, se proprio vogliamo andare a vedere. Adesso invece mi vuoi dire che improvvisamente.. meh.. » Si strinse platealmente nelle spalle, incurvando le labbra all'ingiù in una smorfia come a voler dare una rappresentazione visiva dell'atteggiamento di Otis. « ..non ti fa né caldo né freddo. » Fece una breve pausa, stringendo le labbra in una linea retta e scuotendo velocemente il capo. « No caro, tu non stai andando avanti. Non stai andando proprio da nessuna parte, a dire il vero. Hai semplicemente scelto di stare sotto anestesia. » E non me ne frega un cazzo, a costo di farmi odiare per sempre, ti ci trascino fuori per i capelli da questa scelta del cazzo.


     
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    Otis si era ritrovato a desiderare ardentemente che la conversazione potesse concludersi lì. Pur mantenendo una certa compostezza – uno dei bonus derivanti dall'apatia che soffocava la maggior parte dei suoi slanci emotivi – percepiva di starsi addentrando in un territorio pericoloso. E questo non soltanto perché ogni parola che pronunciava sembrava far soltanto innervosire Ronnie ancora di più, riuscendo a veder cambiare la propria forma, riflessa negli occhi della sua migliore amica, che pareva non riconoscerlo più; c'era anche, in lui, la consapevolezza che discutere con i propri amici più cari non sia mai uno spasso, ma che farlo con Veronica Rigby significasse uscirne praticamente tumefatto. Non era come con Émile. Si dicevano cose pesanti, ma che chiaramente non pensavano, e che uscivano male, e due secondi dopo averle pronunciate, quando l'aria che le avvolgeva e li circondava aveva avuto il tempo di suggellarle, si guardavano terrorizzati di aver ferito troppo l'altro, di non trovare più tracce di perdono nei loro occhi, “ecco, ho fatto una cazzata”. Con le ragazze, l'esperienza di Otis restringeva di molto il proprio campo d'azione, ma era tutto più... Vero. E pesante. E le parole che pronunciava la sua migliore amica erano più analitiche, puntuali, precise, perché non si sgarrava, neanche quando si discuteva: se dici una cosa la pensi, e se parli male è finita. In quel terreno minato, Otis si sentiva disarmato, più che altro perché si avvertiva sgraziato, maldestro, un elefante in una cristalleria: aveva perso tutto il tatto che forse non aveva mai avuto davvero, e doveva stare attento a quello che diceva. Così, mentre Veronica lo osservava con un'espressione che gli parve sbigottita, si ripetè tutto ciò che le aveva appena detto mentalmente, passando in rassegna ogni pensiero e decidendo se avesse o meno esagerato. No, non mi sembra, è questo quello che penso davvero. Giusto? Sì, giusto, certo. Ma poi perché devo mettermi sotto processo? Perché Ronnie è la tua migliore amica, e non vuoi ferirla. Sì, okay, però è estenuante continuare a pensare sempre agli altri. Questo il monologo che, a dirla tutta, aveva preso dimora fissa nella testa di Otis tutto il tempo, nelle ultime settimane. Preoccuparsi per chi aveva intorno sembrava un compito di eccezionale gravosità. «Ma chi sei? Chi è questa persona che sei diventato? Perché io davvero non la riconosco, Otis.» Che ho detto? Si era stretto nelle spalle, corrugando la fronte, visibilmente confuso. Sono sempre stato questo. È così assurdo che io voglia pensare un po' a me? Alla mia tranquillità? Perché devo stare qui a farmi processare per essere, semplicemente, esausto? «Lo sai che ti dico?» Inclinò la testa, voltandosi in modo da guardare di fronte a sé, sospirando. Brace for impact. «Che ci vuole davvero una bella faccia a rigirare la questione su di me e farmi passare come la damigella in difficoltà che ha bisogno di aiuto per reagire al mondo. Io con te ci parlo e mi confido perché pensavo che il nostro fosse un legame di fiducia. Cosa pensavi, mh? Che il mio fosse un grido d'aiuto?» Corrugò la fronte di nuovo, ma stavolta la sorpresa era sincera, non celava nient'altro, puro stupore. Veronica aveva pronunciato quelle ultime parole come se fossero un insulto. E conosceva la radice di quel disgusto, di quella repulsione all'idea di mostrarsi bisognosa, ma la verità era che lei aveva avuto bisogno di lui – forse più di qualsiasi altra occasione passata, sicuramente più di quanto le piacesse ammettere. Erano rimasti in pochi. Ronnie si era confidata con Otis e si era aggrappata a lui – pensava il Tassorosso – esattamente come lui avrebbe voluto saper fare con lei. Era una fortuna che fossero rimasti entrambi, almeno loro due, un lusso, una risorsa. Ma una di cui Otis non sapeva fare uso, né mettere a d
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    isposizione. Nessuno potrebbe portare il peso delle cose che ho bisogno di dire. E non credo abbia neanche senso stare lì a parlarne. A cosa serve? Non c'è niente che l'altro possa fare per aiutarti. Non può neanche pienamente capirti. E allo stesso modo non c'era niente che lui avesse potuto fare per la sua migliore amica in quei momenti di sfogo, nessuna parola di speciale conforto, nessun gesto concreto, mano tesa, manovra sensata. Era impotente con se stesso e con gli altri – ed era in quell'impotenza, lo sentiva adesso, che si annidava il suo malessere. Impotente e immobile, passivo e inerte, come alla Mahoutokoro, come all'occupazione di Hogwarts, come in ogni rapporto della mia vita. Pedina. Ti sono inutile. «Beh, non lo era. Avevo solo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse, nient'altro. E speravo che parlandone, magari anche tu ti saresti pian piano deciso ad aprirti e dirmi qualcosa – qualcosa di te, di come ti senti, di cosa pensi, di cosa vorresti. È davvero così tanto difficile credere che mi interessi sapere come si sente il mio migliore amico?» «Non c'è niente da dire. Sono lo stesso di sempre, ma ho finito le cose da dire, non ne ho più, non so più dove andarle a cercare, e non riesco ad ascoltare e basta.» Allargò le braccia, per poi farle ricadere, battendo il palmo sulla gamba. Aveva fatto lo psicologo in erba per tutta la vita. Era quello il suo apporto alle amicizie. Ascoltare, consolare, sbrogliare la matassa, riordinare i pensieri altrui, trovare la chiave per aiutare a cambiare prospettiva. Sembrava un talento naturale, con le persone più care. Quella, forse, la sua unica specialità, e ora non la trovava più. «Ti conosco da una vita, Otis. Lo vedo che non sei tu. Non prendermi per il culo con questo atteggiamento da "c'est la vie" che non ti è mai appartenuto.» L'elenco di eventi traumatici che seguì quelle parole assestò un colpo dopo l'altro, il respiro di Otis che accelerava appena, e d'improvviso apparve più irrequieto, cambiando posizione, allontanandosi dal muretto per poter voltarsi nella direzione opposta a Ronnie. Non ti voglio sentire. Smetti di parlare. «... E tu seriamente mi vuoi far credere che non hai un cazzo da dire?» Deglutì, umettandosi le labbra, e prendendo a mordicchiare le pellicine percepite sotto la punta della lingua, e poi l'intero delle guance, fino a percepire un sapore dolciastro e metallico. «No caro, tu non stai andando avanti. Non stai andando proprio da nessuna parte, a dire il vero. Hai semplicemente scelto di stare sotto anestesia.» Era un colpo basso. Era uno smascheramento, quello, al quale Ronnie non aveva alcun diritto. Non le aveva chiesto di risvegliarlo dal proprio sonno profondo, non le aveva detto proprio un bel niente, di fatto, e lei non soltanto pensava di sapere esattamente cosa stesse provando Otis, ma si permetteva di affondare le mani nella sua testa, provando ad aprirla, per poi sbattergli in faccia la realtà, ancora una volta, inesorabilmente. Cosa c'era di così difficile da capire, nel suo bisogno di starsene per i cazzi suoi? Cosa c'era di così inammissibile da meritarsi una simile cattiveria? «Questa conversazione non mi piace più, Ron.» Aveva bisbigliato dopo il silenzio che aveva dato eco alle ultime parole di Veronica. «Non sono venuto qui per sentirmi dire da te che “non sto andando avanti”. Che me ne faccio, di una frase del genere? Come dovrei prenderla? Che ti aspetti che faccia?» Chiese guardandola, adesso, il tono di voce più alterato. Lui non si sarebbe mai permesso di dirle che mentiva, quando diceva di non avere bisogno di nessuno. Si sentiva come se il castello che aveva costruito con tanta cura fosse stato spazzato via con un calcio da un bullo qualsiasi, un compagno di spiaggia maldestro e un po' sadico. Perché dire una cosa del genere? Per farmi svegliare? Chi ti ha detto che è quello che voglio? Come puoi decidere al posto mio che reazione posso o non posso avere? Cosa è da me e cosa invece non lo è? «Io... Ci sto provando. Ognuno ci prova a modo proprio. Questo è il mio. Mi dispiace se non ti sembro io, se ti fa cambiare idea sulla mia persona...» Faceva cambiare idea anche a lui. E sentire la propria migliore amica verbalizzare quei pensieri più tristi e cattivi era un colpo duro, che probabilmente Otis riusciva a incassare proprio grazie a quella corazza che Ronnie sembrava tanto determinata, per qualche motivo, a buttare giù. «Non essere più mia amica, se pensi questo. Va bene. Lo capirei. Hai amici nuovi, tra l'altro, vi ho visti. Dopo le lezioni, nei corridoi, con i tuoi compagni di combattimento...» E lui, invece, sempre da solo. Li aveva guardati di sottecchi, sentendosi un emarginato sociale, ma decidendo che quella fosse l'opzione migliore, per quanto desiderasse unirsi agli altri: non aveva niente di interessante da dire, non aveva davvero voglia di ascoltarli. «Io... Credo che sia meglio non parlarsi per un po'. Tipo, evitarsi.» Era stato il bisbiglio finale, mormorato mentre lo sguardo cupo si fissava dritto di fronte a sé, poggiando sul cortile fiorito popolato di studenti sdraiati al sole. E lì finivano le grandi doti diplomatiche di Otis Legolas Branwell, il Saggio, il ragazzo-mamma, così maturo per la sua età, capace di gestire i conflitti e trovare un compromesso. Chiuso a riccio. Ma l'unica cosa che sapeva fare era allontanare, proprio adesso che la vicinanza gli sarebbe stata più necessaria che mai. Forse sarebbe stato meglio continuare con il gioco del silenzio.
     
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    « Questa conversazione non mi piace più, Ron. » Sbuffò una risata amara dalle narici, alzando gli occhi al cielo. Certo, non appena qualcuno è onesto con te, improvvisamente la conversazione non ti piace più. Molto comodo. « A volte bisogna affrontare anche le cose che non ci piacciono, Otis. » sentenziò con tono tagliente. Più quella situazione si trainava avanti e più Ronnie non riusciva a capacitarsi di come Otis potesse davvero sentirsi a proprio agio in quell'atteggiamento evitante. Non si era mai aspettata da lui una presa di posizione forte, forse perché non trovava che la cosa fosse compatibile con la sua indole, o forse ancora perché una parte di lei era piuttosto consapevole della posizione di privilegio in cui si trovava Otis. Il privilegio che scaturiva dall'avere alle spalle una madre lycan, dal sapere che in ogni caso le sue spalle sarebbero state coperte pure se avesse scelto di non esporsi in alcun modo. Ma anche il privilegio di non aver vissuto certi avvenimenti sulla propria pelle; Otis si era evitato il lockdown per un colpo di pura fortuna, trovandosi a viverlo solo tramite le parole sconnesse e amputate dei compagni che la stessa fortuna non l'avevano avuta. E forse, alla luce di ciò, ci sta che non vuoi sentirmi. Che non vuoi sentire nessuno. Immagino ti metta a disagio, vero? Come quando passi di fronte a un vecchio barbone malato che chiede l'elemosina per strada e distogli lo sguardo, continuando per il tuo percorso. È facile: se nulla ti riguarda, se nulla potrebbe comunque mai cambiare, puoi permetterti tranquillamente di non scegliere e stare con la coscienza a posto. La tua fortuna pesa di meno, quando ignori la sventura altrui e l'irrazionalità del destino che ripartisce le due cose. « Non sono venuto qui per sentirmi dire da te che “non sto andando avanti”. Che me ne faccio, di una frase del genere? Come dovrei prenderla? Che ti aspetti che faccia? » Che ti svegli, qualunque cosa ciò significhi per te. Era doloroso vedere il proprio migliore amico in quello stato d'apatia. Otis andava avanti per inerzia, stipando in un angolino remoto di sé tutto ciò che non gli piaceva o che non voleva affrontare. Ignorava. E quella sua ignavia feriva Ronnie più di una qualunque altra scelta contrastante alle proprie. La giovane Rigby aveva visto scorrere sotto i suoi occhi sin troppo giovani una serie di eventi che un giorno, tra diversi anni, qualche studente sereno avrebbe lamentato di dover studiare per l'interrogazione imminente. Quei numeri che noi leggiamo sui libri di storia.. adesso lo capisco, che per qualcuno sono stati la realtà. Le parole stampate che scegliamo di saltare quando sottolineiamo lunghi paragrafi, un tempo erano la vita di qualcuno. E un giorno succederà che qualcun altro sceglierà alla stessa maniera di saltare i nomi dei nostri compagni - perché ai loro occhi non sono importanti, perché non puoi ricordarti tutto. Lentamente verranno cancellati sempre più dettagli, sempre più identità finiranno dimenticate. E nasce così. Dalla noncuranza che permette puntualmente alla storia di ripetersi. « Io... Ci sto provando. Ognuno ci prova a modo proprio. Questo è il mio. Mi dispiace se non ti sembro io, se ti fa cambiare idea sulla mia persona... Non essere più mia amica, se pensi questo. Va bene. Lo capirei. Hai amici nuovi, tra l'altro, vi ho visti. Dopo le lezioni, nei corridoi, con i tuoi compagni di combattimento... » Scosse il capo, stirando un sorriso amaro tra sé e sé. Quella rabbia che provava nei confronti di Otis c'era ancora, ben presente nel suo cuore e sotto la sua pelle, ma le parole dell'amico riuscivano a trasformarla almeno in parte in delusione. « Io... Credo che sia meglio non parlarsi per un po'. Tipo, evitarsi. » Risollevò gli occhi in quelli di lui, guardandolo per la prima volta come se quella distanza la percepisse anche lei. Rimase in silenzio per un po', senza proferire alcuna parola mentre teneva i grandi occhi nocciola puntati in quelli di lui alla ricerca di.. niente. Non sapeva più cosa cercare in lui. Amicizia? Comprensione? Una scintilla di un sentimento qualunque che potesse darle modo di tendere una mano nella sua direzione e tirarlo fuori da quella caverna in cui aveva deciso di piazzarsi? « Sì.. ci stai provando. Devo farti proprio i
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    complimenti per l'impegno che metti ogni giorno nel fingere che nulla di tutto questo ti riguardi. »
    Si strinse nelle spalle, stendendo un piccolo sorriso dai tratti ironicamente spensierati. « Sciocca io a credere che ti importasse di qualcosa. Forse mi sono fatta illudere da questa figura del caporedattore coi sogni di gloria. Ma alla fine si esaurisce lì, vero? Sì. Direi che il giornale rispecchia proprio l'anima del suo creatore: la pretesa di essere ascoltati quando non si dice assolutamente nulla. » E poi ti stupisci che la gente se ne freghi. Le persone non sono stupide, lo percepiscono quando qualcosa manca d'anima. E Otis, negli ultimi tempi, sembrava aver perso completamente di vista quella parte di sé. Già solo il modo in cui parlava ne era una prova: freddo e cinico, distaccato da qualunque cosa accadesse fuori dalla porta della sua stanza al castello. I tratti del sorriso di Ronnie si fecero più amari a quella constatazione, portandola a stringersi nelle spalle in risposta a quel dolore che sentiva dentro. « Non sei l'unico a rivolere indietro la propria vita. Fingere che il tempo non ci sia stato strappato via, che non ci sia stato tolto il diritto di essere ragazzini stupidi e spensierati.. è inutile. È un tentativo destinato solo a fallire e farti più male. » E non è d'aiuto. Per nessuno. Men che meno per te stesso. Forse questa finzione ti aiuterà a rimandare per un po' l'inevitabile. Ma poi? « Pensi che a me non piacerebbe tornare indietro? Che non mi senta derubata della mia età e al contempo troppo indietro rispetto ai miei coetanei? Credi davvero che non preferirei avere come unica preoccupazione i miei voti o la mia popolarità? Lo vorrei, Otis. Cazzo, mi manca ogni giorno quella persona. » Nel dirlo, i suoi occhi si fecero più lucidi. Non parlava spesso di quei dettagli - di come si sentisse nei confronti dei traumi che aveva vissuto, ma in quel momento sembrò uscirgli naturale dalle labbra, senza vergogna o paura. « E ogni maledettissimo giorno faccio del mio meglio per conservarla, per non lasciarmi scappare del tutto i miei diciotto anni. Ed è l'unico modo per andare avanti: accettare ciò che ti è stato tolto ma continuare a combattere per te stesso, per trovare un equilibrio tra ciò che vuoi e ciò che questo mondo di merda è disposto a darti. » Combatti con le unghie e con i denti per riprenderti sempre più terreno, per riconquistare un pezzo in più della tua vita. Fece un passo in avanti, fissandolo negli occhi intensamente. « Sii sincero con me. A parti inverse, se io fossi nella tua stessa posizione.. mi lasceresti fare? Non faresti assolutamente nulla per aiutarmi a reagire? » Domande sincere, quelle di Ronnie, che scrutava negli occhi dell'amico alla ricerca di una risposta che forse aveva bisogno di ricevere per più ragioni. Nell'amicizia con Otis, lei aveva sempre creduto, e nella sua ostinatezza continuava a crederci. Non voleva pensare di essersi illusa o di aver visto in lui più di quanto ci fosse veramente. Tuttavia a quel punto non aveva più certezze e se doveva finire lì, quanto meno voleva tornare a casa con l'idea di aver fatto il possibile, e di aver avuto la prova concreta del fatto che non ci fosse più alcuna ragione di salvare quanto rimasto.




     
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    «A volte bisogna affrontare anche le cose che non ci piacciono, Otis.» Quello di cui il ragazzo non riusciva a farsi capace, durante tutto il corso di quella conversazione, era l'assoluta mancanza di empatia che percepiva arrivare dalla sua migliore amica. Che fossero diversi non era di certo una scoperta, per nessuno dei due. Probabilmente si annidava proprio lì, nella loro unicità – che tuttavia si incontrava in alcuni punti del loro carattere – la chiave di accensione del loro rapporto. Non era mai stata un'amicizia che aveva necessitato di troppe parole, la loro, proprio come piaceva a lui; e in fondo, qualunque cosa ciò significasse, essere amico di Ronnie per Otis era stato facile quanto diventare amico di un ragazzo. Veronica non veniva associata, nella sua mente, alla categoria “ragazze”. Si erano avvicinati giocando ai videogiochi, parlando sopratutto di nerdate che pochi altri avrebbero potuto capire – roba talmente tanto da sfigati che persino Emi se ne era tirato fuori, non riuscendo mai realmente a comprendere che cosa ci trovassero di così emozionante, loro due, nello starsene ore a parlare, fitti fitti, di quel film realizzato da quel regista o quel videogioco babbano che il cugino di Otis era riuscito a farsi passare con metodi loschi da individui altrettanto loschi. E così, facilitati dal non doversi neanche guardare in faccia, gli occhi puntati su uno schermo, erano diventati molto più che compagni di squadra, riuscendo ad aprirsi anche sulle questioni più spinose, che risultavano più difficili da rivelare per entrambi. A lui piaceva sopratutto ascoltarla, e Ronnie aveva sempre moltissimo da dire. Sperava di poterle offrire non molto altro che le proprie orecchie, ma presto si era ritrovato ad essere spinto a darle consigli, prospettive e punti di vista, che la Grifondoro richiedeva spesso, sollecitandolo, sfidandolo – un po' come stava facendo adesso. Preso quelle sessioni di gaming erano diventate il preludio, o la scusa per incontrarsi e finire a parlare interamente di altro. Otis notava che il problema fondamentale di Ronnie, che sembrava porla sempre in situazioni difficili, risiedeva nella sua diffidenza verso le altre persone, l'imperativo di doversela sempre, ineluttabilmente, vedere da sola, e le conseguenze che l'una e l'altra caratteristica causano nelle relazioni con gli altri. Ricordava di aver chiaramente pensato che non avrebbe mai voluto mettersela contro, ma non l'aveva mai temuta, perché sapeva che Veronica non attaccasse briga con gli altri per il gusto di farlo, e sopratutto mai senza una ragione valida. Talvolta questa poteva non essere completamente ragionevole, secondo i criteri di Otis, ma si fidava del fiuto dell'amica verso le persone, per quanto considerasse alcune sue tendenze un po' troppo paranoiche. Era stato un buon amico, si diceva, aveva cercato di sostenerla e incoraggiarla quando aveva avuto paura, e lei aveva fatto lo stesso con lui. Ma adesso si chiedeva se, tutto quell'ascoltare, e consigliare, e quella sua tipica posizione da porto sicuro e psicologo tascabile non l'avesse sottratto alla possibilità di esprimersi davvero. O non si era mai davvero fatto conoscere, proiettando un'immagine
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    di sé soltanto parziale, oppure Ronnie era completamente sprovvista di empatia. Non trovava altre spiegazioni per quella crociata che, inarrestabile, la ragazza sentiva la necessità di continuare a portare avanti. «Non pensi che ne abbia affrontate abbastanza?» Mormorò, scuotendo la testa. Probabilmente lei non poteva rendersene conto, ma qualunque fosse il suo intento, per quanto buono, puro, amorevole, non c'era angolazione peggiore da cui prendere Otis per poterlo riscuotere da qualunque stato di insofferenza l'avesse avvolto. Sopratutto perché, per come la vedeva lui, non c'era alcun bisogno di farlo, perché se a volte decidiamo che la realtà sia troppa, da affrontare, abbiamo tutto il diritto di smettere di investirla di significato. Si sarebbe ripreso, ma con i suoi tempi, e questo era un concetto che Veronica non sembrava riuscire ad afferrare. Perché prendeva tutto così sul personale? Era questo che Otis non riusciva a capire. Perché ci teneva così tanto? «Sì.. ci stai provando. Devo farti proprio i complimenti per l'impegno che metti ogni giorno nel fingere che nulla di tutto questo ti riguardi. Sciocca io a credere che ti importasse di qualcosa. Forse mi sono fatta illudere da questa figura del caporedattore coi sogni di gloria. Ma alla fine si esaurisce lì, vero? Sì. Direi che il giornale rispecchia proprio l'anima del suo creatore: la pretesa di essere ascoltati quando non si dice assolutamente nulla.» «Ti risulta che esista un giornale? No, infatti. Non pubblichiamo articoli da quando è successo tutto. Non ho niente da dire e non ho nessuna pretesa, Ronnie. Voglio soltanto essere lasciato in pace, e che tu non mi faccia il terzo grado soltanto perché probabilmente sei incazzata e hai trovato qualcuno con cui sfogare la tua frustrazione. Non sono la tua punching bag, sto solo cercando di recuperare la mia vita di prima e di andare avanti.» Il suo tono di voce, dapprima neutro seppure afflitto, si era indurito percettibilmente, si era fatto più categorico, rivelando così la sua irritazione. «Non sei l'unico a rivolere indietro la propria vita. Fingere che il tempo non ci sia stato strappato via, che non ci sia stato tolto il diritto di essere ragazzini stupidi e spensierati.. è inutile. È un tentativo destinato solo a fallire e farti più male. Pensi che a me non piacerebbe tornare indietro? Che non mi senta derubata della mia età e al contempo troppo indietro rispetto ai miei coetanei? Credi davvero che non preferirei avere come unica preoccupazione i miei voti o la mia popolarità? Lo vorrei, Otis. Cazzo, mi manca ogni giorno quella persona. [...] Ed è l'unico modo per andare avanti: accettare ciò che ti è stato tolto ma continuare a combattere per te stesso, per trovare un equilibrio tra ciò che vuoi e ciò che questo mondo di merda è disposto a darti.» Era esattamente quello il motivo per cui Otis andava avanti a testa bassa, preoccupandosi unicamente dei propri voti, del proprio futuro, mettendo da parte delle emozioni troppo ingombranti per poterle elaborare. Se avesse prestato orecchio al caos che aveva racchiuso in un angolo della sua testa, avrebbe dovuto rispondere a domande troppo travolgenti per poter essere comprese. Avrebbe dovuto affrontare emozioni come il senso di colpa, il rimorso, e – prima di tutte – la rabbia, che non aveva mai imparato ad esprimere, che temeva perché la considerava distruttiva, tossica, pericolosa. Combattere era esattamente quello che voleva evitare. «Sii sincero con me. A parti inverse, se io fossi nella tua stessa posizione.. mi lasceresti fare? Non faresti assolutamente nulla per aiutarmi a reagire?» Sebbene avesse la risposta pronta, sulla punta della lingua, Otis volle prendersi qualche secondo per soppesare le parole, ancora una volta riflettere sulla veridicità di quanto stava per pronunciare. Capiva che per Ronnie un mondo troppo diverso dal suo non fosse soltanto incomprensibile, ma inammissibile. L'avrebbe voluto combattivo, arrabbiato, probabilmente anche disperato, pur di non vederlo com'era adesso. «Per cosa credi che io debba combattere, esattamente?» Cominciò, recuperando la calma di poco prima, sebbene diverse parti di ciò che aveva detto Ronnie l'avessero profondamente ferito. Ovviamente, però, non avrebbe detto niente. «Che senso ha combattere, e arrabbiarsi, pestare i piedi e sbraitare, quando concretamente non c'è niente che tu possa fare per cambiare le cose? L'unica strada percorribile è quella dell'adattamento. Dell'accettazione.» Ci credeva davvero? «C'è stato un periodo in cui vivevo mosso dal desiderio di smascherare le verità più profonde. Sai, tipo, le vere intenzioni della classe dirigente, gli accadimenti occultati dal Ministero e mai spiegati... Sognavo di poter avere una voce che veramente dicesse qualcosa di sensato, con la pretesa di essere ascoltato, come dici tu.» Parlava elaborando quei pensieri per la prima volta in modo così lineare. «Vivere le cose che ho vissuto... che abbiamo vissuto nell'ultimo anno, però, mi ha fatto capire quanto mi sbagliassi e che abbaglio io avessi preso. Non posso neanche cominciare ad immaginare quale sia quella verità che tanto rincorrevo. Non siamo altro che pedine, lo capisci questo?» Sospirò, passandosi la lingua sulle labbra screpolate e prendendo a mordicchiarsele. «Non potrò mai cambiare il mondo, perché non sono nessuno, e non ho niente da dire, esattamente come dici tu. Non siamo abbastanza neanche per le persone della nostra famiglia, che non ci hanno messo al corrente di quanto sarebbe successo, che non ci hanno giudicati degni di partecipare ad un'azione rivoluzionaria di questa dimensione. Per quanto io non sia sicuro di che cosa avrei detto, qualora me l'avessero chiesto, rimane il fatto che valiamo niente. Il mondo si muove attorno a noi in una lotta costante e noi non siamo altro che briciole!» I pensieri di Otis si facevano così filosofici e trascendentali, certe volte, da parere quasi ridicoli, senza che lui se ne rendesse conto. Ma in fondo quelle parole, che adesso sembravano finalmente fluire fuori da sole, non erano rivolte a nessuno in particolare. «Non ti aiuterei a reagire perché non c'è niente a cui opporsi. Devi accettare le cose e basta. E se non sei disposta a farlo puoi protestare quanto vuoi, ma devi sapere – esattamente come l'ho capito io – che non puoi pretendere di chiedere al mondo di ascoltarti quando ha cose più importanti di te a cui pensare.»
     
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    « Per cosa credi che io debba combattere, esattamente? » Per.. te stesso? Tipo? « Che senso ha combattere, e arrabbiarsi, pestare i piedi e sbraitare, quando concretamente non c'è niente che tu possa fare per cambiare le cose? » L'unica strada percorribile è quella dell'adattamento. Dell'accettazione.» C'erano tante cose che Ronnie non capiva nei comportamenti altrui, ma l'inerzia era di certo una di quelle che meno riusciva a comprendere o giustificare. Come qualcuno potesse semplicemente lasciare che la vita gli passasse sopra, senza reagire in alcun modo, senza nemmeno provare a mettersi in gioco, per lei era quanto di più incomprensibile ci fosse. Fin da piccola la Rigby era stata cresciuta dai propri genitori con l'idea che nulla fosse scontato e che nessuno le avrebbe mai dato niente in maniera gratuita; almeno non quando, come loro, non si poteva vantare un nome noto, nobili natali o anche soltanto una buona situazione economica. Tutte cose, quelle, che nella società magica ancora fortemente centralizzata sembravano essere tutt'altro che scontate. Fin dai suoi primi giorni ad Hogwarts, Veronica aveva potuto notare con i propri stessi occhi quanto differente fosse la propria vita rispetto a quella dei compagni e quanta disparità ci fosse nelle opportunità a loro disposizione. C'è chi nasce con tutte le porte aperte davanti a sé e un paracadute di salvataggio sempre sulle spalle. Non lei. Lei non aveva conoscenze importanti, non aveva un nome e di certo non aveva un terreno morbido su cui atterrare qualora avesse fallito. Per questo i genitori, consapevoli della sua forte ambizione e del suo desiderio di riscatto, avevano tenuto a farle presente fin dall'inizio che avrebbe dovuto lavorare tre volte più duramente dei suoi compagni se intendeva ottenere i loro stessi risultati. Inizialmente credevo che esagerassero. Che provassero solo astio nei confronti di chi aveva più soldi di noi. Ma in realtà non è così - l'ho visto da sola, con i miei occhi, e queste sono cose che vedi solo quando le vivi. Perché altrimenti.. semplicemente non le noti. Questo sistema di pensiero, questa necessità di impegnarsi sempre al massimo in qualunque cosa, di lottare anche per il più piccolo posticino, col tempo era entrata sempre di più a far parte di lei sino a permeare ogni aspetto della sua vita, diventando un vero e proprio atteggiamento nel reagire a qualunque ostacolo o avversità. « C'è stato un periodo in cui vivevo mosso dal desiderio di smascherare le verità più profonde. Sai, tipo, le vere intenzioni della classe dirigente, gli accadimenti occultati dal Ministero e mai spiegati... Sognavo di poter avere una voce che veramente dicesse qualcosa di sensato, con la pretesa di essere ascoltato, come dici tu. » Era quello l'Otis che ricordava, il ragazzo verso il quale aveva imparato ad avere un affetto spropositato anche a dispetto delle loro differenze. In lui aveva trovato un'anima affine, qualcuno che potesse capirla su un certo livello e che almeno in parte condividesse con lei i massimi principi in cui credere. E dov'è adesso quella persona? Adesso che più è necessaria. Esisteva solo quando il gioco era semplice? Quando non ti toccava abbastanza da vicino? Ci hai mai anche solo creduto veramente, Otis, alle cose che dicevi? « Vivere le cose che ho vissuto... che abbiamo vissuto nell'ultimo anno, però, mi ha fatto capire quanto mi sbagliassi e che abbaglio io avessi preso. Non posso neanche cominciare ad immaginare quale sia quella verità che tanto rincorrevo. Non siamo altro che pedine, lo capisci questo? » Scosse il capo con veemenza, come a voler rigettare fisicamente quella visione disfattista della situazione. Per quanto lei stessa si sentisse piccola e inutile, non voleva comunque gettare la spugna e forse, sotto sotto, non voleva nemmeno darla vinta a tutte quelle persone che come tale la vedevano. « Non potrò mai cambiare il mondo, perché non sono nessuno, e non ho niente da dire, esattamente come dici tu. Non siamo abbastanza neanche per le persone della nostra famiglia, che non ci hanno messo al corrente di quanto sarebbe successo, che non ci hanno giudicati degni di partecipare ad un'azione rivoluzionaria di questa dimensione. Per quanto io non sia sicuro di che cosa avrei detto, qualora me l'avessero chiesto, rimane il fatto che valiamo niente. Il mondo si muove attorno a noi in una lotta costante e noi non siamo altro che briciole! » A quelle parole, Ronnie si trovò a stringere i pugni, affondando le unghie nei palmi. Si sentiva ancora ferita dal modo in cui le persone a lei più care l'avevano tenuta all'oscuro dell'attacco. E checché se ne dicesse, quella situazione aveva messo ben in chiaro che nei suoi confronti non ci fosse una gran fiducia o che, in ogni caso, non venisse vista come una persona utile. Col passare dei giorni seguenti all'attacco, pian piano ci era passata sopra, ponendo su di sé la responsabilità delle scelte altrui. Non ho dimostrato abbastanza. Non ho fatto abbastanza. Dovevo impegnarmi di più. In cosa, nello specifico, non era chiaro, ma era così che lei la viveva: come una propria mancanza portata alla luce dalle decisioni che le persone a lei più care avevano preso. « Non ti aiuterei a reagire perché non c'è niente a cui opporsi. Devi accettare le cose e basta. E se non sei disposta a farlo puoi protestare quanto vuoi, ma devi sapere – esattamente come l'ho capito io – che non puoi pretendere di chiedere al mondo di ascoltarti quando ha cose più importanti di te a cui pensare. » Rimase in silenzio per qualche istante, rimuginando sulle parole di lui - prendendole forse in considerazione. Otis non aveva completamente torto: singolarmente presi, nessuno di loro contava poi così tanto e di certo non poteva aspettarsi di cambiare il mondo. « Hai ragione. » disse dopo un po', stringendosi nelle spalle e scrollando lievemente il capo prima di riportare lo sguardo sul viso dell'amico. « Il mondo ha cose più importanti di me a cui
    tumblr_inline_quqydvnnQN1rjo696_500
    pensare. È sempre stato così e non pretendo di certo che le cose cambino oggi. »
    Come potrebbe andarmi peggio, esattamente? Nessuno mi ha mai cagata, nessuno mi ha mai dato un soldo di fiducia, nessuno mi ha mai inclusa nei propri schemi. Quando parti dal basso, la strada può essere solo in salita. E nella peggiore delle ipotesi, al basso ritornerò. « Ma non ci sono solo io al mondo. E non ho intenzione di starmene in panchina a guardare, in attesa di andare a nascondermi sotto un tavolo della Sala Grande la prossima volta. » Scosse il capo, continuando con voce più calma ad esprimere ciò che aveva scelto - ciò che era sicura di voler essere, forse non oggi, ma un giorno. « Io voglio essere qualcuno su cui i miei amici e la mia famiglia possono contare. Forse non potrò cambiare il mondo, ma posso cambiare me stessa e la mia vita. Quella è l'unica scelta che rimarrà sempre e soltanto mia. E se abbastanza persone decidessero di prenderla ogni mattina.. beh, allora io credo che davvero il mondo potrebbe cambiare. » Sospirò, allargando le braccia mentre un sorriso amaro si stendeva sulle sue labbra. Sarò un'illusa, ma il contrario a cosa serve di preciso? « Non siamo isole, Otis. Viviamo all'interno di una comunità. Le nostre non saranno scelte indispensabili, ma sono comunque decisive e ne siamo responsabili. Isolati non valiamo niente, è vero, ma il punto che non regge nel tuo ragionamento è proprio questo: che non siamo isolati. Ogni singola scelta si somma a quella degli altri e può cambiare le sorti. Pensare che nulla di ciò che si fa conti è solo un bel modo per lavarsi le mani e la coscienza - una comoda deresponsabilizzazione. » E se lo avessero fatto con noi? Se questo tuo ragionamento fosse stato adottato da chi mi ha permesso di sopravvivere nel lockdown? Fece una pausa, tirando un lungo sospiro e passandosi una mano tra i capelli prima di farsi più vicina ad Otis. Non disse nulla, semplicemente si mise a sedere sul muretto, avvicinando la mano a quella di lui e intrecciandovi le dita in una presa decisa ma non troppo forte. Per un po' rimase così, senza aggiungere altro, senza spingere più del dovuto in quella direzione che Otis continuava a non capire. Ormai era piuttosto certa che semplicemente, tra di loro ci fosse una qualche forma di incomunicabilità. Tu continui a non comprendere che io non ti sto chiedendo niente. Che non voglio obbligarti ad essere come me, ma solo starti vicina e aiutarti a trovare la tua di direzione - qualunque essa sia. E io, probabilmente, non capisco del tutto il modo in cui ti senti e ciò di cui hai bisogno. Però non voglio smettere di provarci. « Non dobbiamo per forza sviscerare ogni cosa se non lo vuoi. Però.. non sei solo, ok? E io vorrei solo essere qualcuno su cui puoi contare. » Sospirò. « Almeno per te, adesso. »




     
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    «Hai ragione.» Otis non credeva che gliel'avrebbe sentito dire, né in quel momento, né probabilmente nel resto della propria vita. Tranne, tipo, in accordo ad un suo “sono un cretino”, o ancora un “avrei dovuto ascoltarti, sei meglio te”. Sarcasmo a parte, Ronnie era una persona capace di cambiare idea, sì, ma soltanto su alcune specifiche questioni. Per esempio: non avrebbe mai e poi mai ammesso che, oggettivamente, lei non fosse più forte di lui a Super Mario Kart. Non importava quante scorciatoie credesse di conoscere, Otis ne conosceva di più. Il problema – gliel'aveva spiegato un migliaio di volte – stava nella sua ostinazione a scegliere Bowser, invece di optare per un'imperdonabilmente sottovalutata Principessa Daisy, che per un qualche concetto machista al contrario era il personaggio d'elezione del ragazzo, mentre Ronnie continuava ad associare la forza bruta con la migliore strategia vincente. E lui la lasciava vincere, di tanto in tanto, pur di permetterle di gongolare fiera e di ricordargli ancora una volta chi fosse, tra i due, l'unico campione. Adesso, mentre si stringeva nelle spalle, guardandolo con un'espressione che assomigliava più al dispiaciuto che al rassegnato, Otis si chiese se non stesse cedendogli anche lei quella vittoria. «Il mondo ha cose più importanti di me a cui pensare. È sempre stato così e non pretendo di certo che le cose cambino oggi. Ma non ci sono solo io al mondo. E non ho intenzione di starmene in panchina a guardare, in attesa di andare a nascondermi sotto un tavolo della Sala Grande la prossima volta.» No, pensò subito dopo. Nessuna resa. E se ne rallegrò, perché a lui piaceva – nonostante lo massacrasse – quell'implacabile fiamma che sembrava arderla inesorabile. Otis tendeva a fidarsi istintivamente delle persone testarde e determinate, tanto che per un periodo, forse, aveva cercato di plasmarsi in modo da assomigliargli. Ammirava le persone capaci di credere così tanto nelle proprie idee da non lasciarle vacillare da pareri contrastanti, circostanze avverse o scontri. Credeva di poter essere così a sua volta, ma adesso tutto ciò che sapeva fare era dubitare e interrogarsi. Capiva, d'improvviso, il senso delle religioni, dei dogmi, delle verità assolute. «Io voglio essere qualcuno su cui i miei amici e la mia famiglia possono contare. Forse non potrò cambiare il mondo, ma posso cambiare me stessa e la mia vita. [...] Non siamo isole, Otis. Viviamo all'interno di una comunità. Le nostre non saranno scelte indispensabili, ma sono comunque decisive e ne siamo responsabili. Isolati non valiamo niente, è vero, ma il punto che non regge nel tuo ragionamento è proprio questo: che non siamo isolati. Ogni singola scelta si somma a quella degli altri e può cambiare le sorti. Pensare che nulla di ciò che si fa conti è solo un bel modo per lavarsi le mani e la coscienza - una comoda deresponsabilizzazione.»
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    Era d'accordo con lei? Si stava comportando da irresponsabile, parlando così? Chiudendo i contatti con il mondo esterno, dopo aver capito di non poterlo controllare? In quanto persona parte di una comunità, quanto doveva agli altri? Quanto era una suo dovere devolvere di sé stesso e delle proprie risorse e abilità al bene comune? E gli altri, coloro che considerava parte della propria famiglia, avevano considerato il bene comune, nel loro agito? Avevano deciso ponderando costi e benefici per tutti – non solo per sé stessi? O avevano seguito l'istinto, la rabbia, la vendetta, la sete di potere? Doveva aprioristicamente schierarsi con loro, in nome di questo spirito collettivo, di appartenenza? In nome di questa responsabilità? Avrebbe voluto porre queste domande a Veronica, ma decise di tenerle per sé, lasciarsi del tempo per riflettere e lasciare le risposte sedimentare. Fissava una delle pietre antiche che acciottolavano il patio esterno quando Ronnie intrecciò le proprie dita alle sue. D'istinto, il ragazzo inspirò più profondamente, gonfiando il petto, prima di espirare piano, gli occhi chiusi per qualche secondo. «Non dobbiamo per forza sviscerare ogni cosa se non lo vuoi. Però.. non sei solo, ok? E io vorrei solo essere qualcuno su cui puoi contare. Almeno per te, adesso.» Si voltò a guardarla, un angolo della bocca piegato in un sorriso accennato, ancora troppo distante per sentire davvero la sua mano in quella di Ronnie, ma grato per quelle parole, e per l'intenzione dietro. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a renderla fiera di lui, ma in quel momento desiderò, un giorno, di riuscire a farlo. Di essere all'altezza della sua determinazione. «Mi dispiace se io non sono riuscito a esserci per te.» Deglutì, accarezzandole il dorso della mano con il pollice. «Non hai potuto contare su di me. Mi dispiace. Cercherò di essere migliore, davvero... Se non per me stesso per le persone a cui tengo.» È ciò che avrebbe portato con sé da quella conversazione, quella consapevolezza. Avrebbe pensato a lungo a ciò che Ronnie gli aveva chiesto di provare a fare: guardare oltre la punta del proprio naso e battersi per qualcosa di più grande di sé – solo per il desiderio di provarci, e non a nome proprio. Quell'autocommiserazione aveva cominciato a stancarlo, e non l'avrebbe lasciato così presto, ma capiva, ora lo capiva, stava trascurando le persone attorno a sé, nel frattempo. E anche se non sentiva di poterle dare nient'altro che la propria presenza fisica in quel momento, come un cartonato, Ronnie non sembrava credergli, né disposta ad accettare quella descrizione che Otis offriva di sé e delle proprie capacità. Si fidò di lei.
    Tirò sul col naso, prima di stropicciarsi l'occhio con il pugno, in quel solito modo un po' infantile. «Allora. Dimmi, cos'è che vuoi fare? Andiamo a menare i tuoi?» La canzonò poi, spingendo la testa contro la sua spalla. «No, sul serio. Sono stanco di ripassare demonologia. C'è qualcosa che vuoi organizzare? Un'assemblea con gli studenti? Un gruppo di dibattito? Vuoi scrivere qualcosa sul giornalino, quando riapre? Voglio darti una mano a fare qualcosa, se c'è qualcosa che vuoi fare.»
     
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