Hello, Goodbye.

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    Savannah Hamilton si aggrappò alla tavoletta del water, tossendo. Aveva la gola in fiamme e gli occhi arrossati colmi di lacrime. Inspirò lentamente con il naso, rilasciando l’aria con la bocca, gradualmente, calibrando il flusso come se fosse questione di vita o di morte. Qualcuno provò ad aprire la porta del bagno, ma si imbatté nel chiavistello con cui la Serpeverde aveva serrato l’ingresso. Provarono ancora una volta, agitando la maniglia con più forza e fu a quel punto che Savannah gridò a chiunque si trovasse là fuori di togliersi dai piedi. Aveva la voce roca, resa strozzata dal sapore acido che aveva in bocca. Spostò il peso dalle ginocchia al fianco, sedendosi sul pavimento, poggiando le spalle alla parete di mattonelle gelide dietro di lei.
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    Ritirò le ginocchia al petto e respirò profondamente. Era affannata, come se avesse appena corso una maratona. Chiuse gli occhi, mordendosi l’interno della guancia, sempre più forte, come se si stesse accertando di provare ancora qualcosa. Si fermò solo quando percepì il sapore ferroso del sangue sulla lingua. Si sentiva vuota, sola e apatica. Era difficile spiegare a parole ciò che percepiva. Forse perché, semplicemente, non sentiva niente. E di nuovo il buio le avvolgeva gli occhi. Il suo segreto. La verità bella e buona era che Savannah Hamilton non era affatto così perfetta come si voleva far credere. Riaprire gli occhi era la parte più difficile. Era un vero e proprio sforzo contro sé stessa, contro quella parte bambinesca che voleva starsi a crogiolare ancora per un po’. Si alzò in piedi, aggrappandosi al lavandino con le mani e facendo forza sulle braccia. Evitò forzatamente di guardarsi allo specchio ed aprì il rubinetto. Si chinò, raccogliendo l’acqua gelida con le mani unite a formare una coppa ed infine si sciacquò il viso. Mise l’acqua in bocca e sciacquò più volte per poi sputarla fuori. C’era una leggera sfumatura rosea ricordo del sangue che le era uscito dalla guancia. Sciacquò ancora e ancora, finché quel sapore orribile che aveva in bocca non fu completamente scomparso. Le bruciava ancora la gola, ma ormai c’era abituata. Fu solo allora che trovò lo sguardo di guardarsi allo specchio, ricambiando l'occhiata di quella ragazza bionda che sembrava giudicarla aldilà della superficie trasparente. Aprì la borsetta, sistemando sulle labbra quel rossetto rosso che le piaceva tanto e la faceva stare bene. Fu solo molti minuti dopo, quando fu certa che tutto fosse apposto, che uscì dal bagno e sgattaiolò fuori nel corridoio.
    [...] Il College brulicava del chiacchiericcio di studenti. Nonostante fosse faticoso da ammettere, se c’era una cosa di cui Savannah aveva bisogno erano le persone. Era stata sola per così tanto tempo. Troppo a lungo aveva lasciato che l’oscurità la inghiottisse. Era rimasta assopita in una dimensione che risucchiava il tempo, lo spazio e tutta la sua energia vitale. Ne sarebbe uscita e la sua vita sarebbe tornata quella monotona di un tempo. Avrebbe imparato a godere di ciò che la le fosse stato offerto. A causa della situazione che il Mondo Magico si trovava a fronteggiare era stata costretta a rinunciare al suo sogno, a rinunciare a Parigi. Sarebbe stato tutto più facile. Partendo avrebbe potuto lasciarsi alle spalle tutte quelle situazioni che non aveva avuto il coraggio di affrontare. Vigliacca. Si, era facile sfuggire dalle responsabilità. Era più facile chiudere gli occhi e fingere che tutto quello di cui le avevano parlato Maeve e Derek non fosse vero. Era più semplice postare una foto sui social e fingere che la sua vita dipendesse esclusivamente dal numero di like che avrebbe ricevuto, come una normale adolescente. Si perché se riapriva gli occhi e guardava a fondo la sua vita le veniva la nausea. Da qualche mese a quella parte, Savannah si sentiva sola come non mai. Per quella che le sembrava una vita aveva camminato fiera per i corridoi della scuola spalleggiata da quei pilastri di nome Nana e Max, pilastri che la sorreggevano quando si sentiva fragile, quando le cose sembravano troppo grandi persino per Savannah Hamilton. Imperturbabile. Si perché Savannah la si poteva definire in migliaia di modi. Frivola, egoista, falsa e doppiogiochista, ma mai avrebbe usato queste sue armi contro chi teneva veramente. Perché era tante cose, forse anche una pessima amica, ma avrebbe fatto di tutto per le persone che amava. Amava Max, amava Nana, ma si era macchiata del peccato di tenerle all’oscuro di informazioni importanti. Si era ripetuta più volte che l’aveva fatto per il loro bene, che non doveva aspettare che le cose fossero più chiare, che come ogni volta sarebbe dovuta correre da loro ed informarle dell’accaduto. Per una volta che aveva deciso di andarci cauta, di comportarsi da persona matura con delle responsabilità, aveva sbagliato. Un errore che la faceva sentire come se avesse una gigantesca lettera scarlatta marchiata a fuoco sul petto. Continua a camminare mentre nasconde le mani dentro le maniche della giacca da cheerleader. Gli allenamenti erano alle cinque del pomeriggio dentro la palestra perché faceva troppo caldo per stare fuori. Eppure, Savannah continuava ad avere freddo. Era un freddo perenne quello che ormai l’aveva avvolta, un freddo che le penetrava le ossa. Forse era dovuto al fatto che mangiasse sempre così poco e che fosse diventata ancora più magra di quanto non fosse già. Non ci faceva caso. Chiudeva gli occhi e guardava altrove. Si truccava con maestria, facendo apparire il suo viso più bello di quanto in realtà fosse, ormai sciupato e scavato. Ma l’importante era apparire, mostrare agli altri solo quella parte di sé che voleva mostrare. Niente più, niente meno. Trovò posto in cortile, in un tavolino appartato dove nessuno si era ancora seduto. Tolse dalla borsetta il suo portapranzo contenente un’insalata ma ancor prima di riuscire a trovare l’appetito, il suo sguardo fu attirato da qualcos’altro. Un guizzo di colore, qualcosa che la fece sussultare, una speranza ed una paura. Sedute a pochi metri di distanza da lei, in un altro tavolino, c’erano Max e Nana.
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    Si ritagliò del tempo per guardarle, per percorrere i loro profili alla ricerca di qualcosa, sperando di non trovare un particolare diverso da quello che ricordava, segno che era passato troppo tempo dall’ultima volta che si erano parlate. Un intero anno scolastico passato senza le sue migliori amiche solo perché era troppo vigliacca per guardare in faccia la realtà, troppo vigliacca per andare da loro e spiegare come stavano le cose. Ma a cosa sarebbe servito? Ci aveva provato Derek a dire a Max che dovevano parlare, alla Cerimonia di inizio anno, ma non c’era stato niente da fare. « Oh. Ma vedi tu le sorprese. E' proprio vero che chi va con lo zoppo impara a zoppicare quindi. » Si morse le labbra, ripensando al modo in cui la compagna di Casa l’aveva guardata nel pronunciare quelle parole. Non ne poteva più. Si sentiva esplodere. Vigliacca. No. Non era vero. Vigliacca. Scattò in piedi, come se la panchina fosse appena diventata incandescente, attirando persino l’attenzione di una studentessa seduta al tavolo accanto che sobbalzò per poi tornare a concentrarsi sul suo panino. Infilò l’insalata nella borsetta e sistemò la tracolla sulla spalla, procedendo a passi decisi verso le due giovani. Ma via via che si avvicinava il passo rallentava e si faceva più incerto, come se non sapesse più come si cammina. Quell’ondata di coraggio che pochi secondi fa l’aveva travolta stava scemando man mano che si avvicinava a loro, man mano che i loro volti diventavano più dettagliati, più nitidi. Forse sarebbe dovuta tornare indietro. Forse avrebbe trovato solo disprezzo e non avrebbe potuto sopportare una pugnalata del genere. Non avrebbe retto. Nonostante all’esterno cercasse di mostrarsi come la Savannah Hamilton di sempre, si sentiva come una di quelle statuette di vetro con all’interno un sacco di crepe. Forse si sarebbe rotta con un semplice soffio di vento, forse sarebbe rimasta così per sempre. Un’equilibrista sul filo del rasoio. Prima che se ne rendesse conto era già davanti a loro. Le guardava, sedute davanti a lei, ed improvvisamente venne colta dal desiderio di scappare. Inspirò con il naso, sperando che bastasse per farle ossigenare il cervello, per darle un quadro della situazione. «Ciao.» Una semplice parola dopo mesi di silenzio.

     
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    Maxime Picquery ha passato gli ultimi mesi a fingere. Fingere di stare bene, fingere di aver processato la situazione, fingere di vedere il bicchiere mezzo pieno e non soltanto terribilmente vuoto. Ultimo ma non per importanza: fingere di non essere fatta costantemente. Non ha più toccato droghe pesanti, questo no, ma ci sono sempre due o tre cannette ad allietarle le giornate. O meglio, fargliele superare. Una volta saputo del ritorno delle Logge, quello spettro orribile che è rimasto intangibile nei suoi peggiori incubi, ha provato a fare le cose nel verso giusto, seguendo la strada che Nana ha spianato per entrambe, convincendola ad allenarsi sotto l'occhio vigile di Barbara, ma il prepararsi non ha mai risolto il problema principale, quello nella sua mente. Il terrore era sempre lì, vivido e presente a ricordarle quanto non sarebbe durata quella buona volontà, quanto a nulla sarebbe servito allenarsi quando la Loggia Nera si sarebbe presentata a lei, in tutta la sua maestosità. Così come non l'ho saputa affrontare in passato, non saprò farlo ora. Un pensiero, quello, che Max ha sempre trovato estremamente logico nel suo insieme, forse perché non ha mai visto margine di miglioramento nella sua essenza stessa. Si è sempre lasciata controllare dalla corrente, servendosi a lei su un piatto d'argento, per essere portata in salvo o verso un precipizio senza preferenza alcuna. Trascinata totalmente dagli eventi con rari guizzi di lucidità. E proprio seguendo questo principio, percependo ancora una volta la propria mente come una persona distinta da se stessa, la sua nemesi ma allo stesso tempo il suo complementare, quando non ha retto più la sua pressione, le ha lasciato semplicemente le redini del gioco, dando una sbirciatina oltre quel gran burrone che si era imposta come off limits dopo la riabilitazione. Così la paura è scivolata via grazie a quella dose giornaliera di anestesia generale, promettendole di non tornare se avesse continuato ad evocare quelle nebbie invitanti, che sanno di zucchero filato e di vita normale. Perché in fondo è da quando ha la pace a portata di mano che Max si sente una persona piuttosto normale, risolta. Non più a metà ma completa. Certo, gli effetti collaterali sono il dover mentire perennemente a Domiziana e il convivere con la costante mania di controllo nei riguardi di ogni minimo dettaglio per non farla insospettire. E se all'inizio c'era il senso di colpa, lentamente è subentrata una particolare giustificazione che si è data. Fa tutto questo anche per Nana, per non doversi preoccupare di un peso morto come lei. Lo faccio per non avere paura, per essere come lei, per essere per lei ciò che lei è per me. Se la racconta spesso questa storia, specie quando il panico torna a strisciarle nelle vene, perché l'effetto dell'erba è scemato, e ha l'irrefrenabile voglia di raccontarle tutto. Di dirle che è una bugiarda, falsa, codarda, una pazza da rinchiudere per poi buttare la chiave. Proprio come ha sempre pensato Cassandra Black. Ma poi il fumo di una nuova canna la rilassa, le fa poggiare la schiena contro la parete del bagno e le abbassa i battiti, lasciandole quel sorriso pacifico che l'accompagnerà per tutto l'allenamento serale al Polis. E poi sono un paio di canne, non esagero mai quindi non ne sono mica dipendente. Mi aiuta soltanto a tenere sotto controllo il bpd, è una cura. Se lo racconta anche ora mentre guarda i capelli biondi di Domiziana in contro luce e ha l'impulso di allungare le dita per giocarvi. La luce del sole li rende ancora più chiari, di un colore tanto simile a quello del grano. Mi andrebbe proprio un bel panino ora, pensa. « Quindi dicevamo.. » cerca di recuperare il filo del discorso ma l'erba è decisamente in circolo e non riesce in quella titanica impresa. « La voglia di farti vedere dei metodi alternativi per mangiare il gelato è talmente tanta che non ricordo più che stavamo dicendo. » Decisamente vero ma non è effettivamente tutta la verità. Si tira su dalla panca sulla quale è stesa e le fa scivolare una mano lungo il braccio prima di depositarle un bacio sulla spalla. Vi indugia un po' sopra mentre le indica il camioncino dei gelati fermo all'ombra, poco distante dal loro tavolinetto. « Con questo caldo ti scivolerebbe addosso così facilmente. » Continua a punzecchiarla risalendole il collo con le labbra, infilando il naso tra i capelli. Dischiude la bocca e la punta della lingua incontra la sua pelle. « E lei non vede l'ora di aiutare a ripulirti. » Sghignazza divertita nel captare lo sguardo di una ragazza che passa davanti al loro tavolo e sgrana gli occhi. « Cazzo guardi? La via per i cazzi tuoi è da quella parte. » Del riso di pochi istanti prima non c'è più neanche l'ombra. « Che noia certe Madri Terese. » Commenta poi con uno sbuffo tornando a distendersi sulla panchina. Gli occhiali dalle lenti verde lime le ricadono sul naso e si gode un po' del calore che il sole di fine Luglio offre loro. « Dobbiamo ancora finire il discorso vacanze. » Dice dopo un po', risollevando la questione che è rimasta in sospeso, per lei di vitale importanza. Rivedere suo padre, infatti, sa perfettamente quanto le farebbe bene. E farebbe incazzare la Megera da morire. Sapere che prima ho scelto Inverness a lei, perdendo pure il lavoro per il quale mi ha cresciuta, e ora vado pure a trovare papà.. Un effettivo paradiso per lei. Ad occhi chiusi, fa ciondolare il piede fuori dalla panca senza preoccuparsi che il vestito possa muoversi lasciando intravedere tutto l'armamentario al di sotto. Se non sconvolgessi le povere menti ingenue di questi quattro rincoglioniti mi metterei pure a prendere il sole in topless, si ritrova a pensare. E in effetti, potrei provare a mettermi la canotta sopra la testa per vedere che faccia fa Madre Teresa di Calcutta. Le dita già intente a giocherellare con il bordo della maglia rossa quando una voce interrompe quel flusso di coscienza interiore. «Ciao.» Max sa già chi si troverà davanti non appena apre gli occhi di scatto. La guarda dal basso, con uno sguardo piuttosto imbambolato, pensando che la gonna che sta indossando le sembra proprio di riconoscerla. Rimane in silenzio, aspettando che lei aggiunga altro. Quando non lo fa, posa lo sguardo blu su Domiziana e sospira. « Apperò, ti è ricresciuta la lingua. Gioia e giubilo a corte! » Commenta pigramente continuando a passare gli occhi da una all'altra aspettandosi chissà quale reazione. « Vuoi per caso giocare a chi abbassa lo sguardo prima? Lo sai che perderesti miseramente contro di me, figurati contro Nana. » Arriccia il naso con fare divertito mentre si mette a sedere, con le gambe a cavalcioni, alzando poi gli occhi sopra la testa, a tenere fermi i capelli corvini, ormai
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    ben più lunghi delle spalle. Fissa in silenzio la bionda, notando dopo qualche istante che, seppur la voce sia sempre identica, i zigomi sono più pronunciati rendendo il viso più emaciato. Le chiederebbe se ha preso il vizio di sua madre nel farsi qualche punturina benefica qua e là quando la sua mente vola di palo in frasca e si ritrova a sporgersi oltre la sua spalla. Controlla chissà cosa e poi sbatte le ciglia, incredula. « Non ci credo. E Maeve dov'è? » Non eravate Terry e Maggie? Inarca le sopracciglia regalandosi un'espressione ludica sul volto. « Ahhh, con Derek, certo. Ecco perché sei qui. » La condiscendenza che le si dipinge addosso è inequivocabile. Per quanto tu abbia scelto il silenzio, facendo esattamente come ti era stato comandato, sei sempre il loro +1 e la solitudine tu non la sopporti. Non è stata una buona scelta non avere la minima fiducia nelle tue migliori amiche dopotutto. Sono passati mesi, ha avuto decisamente altro a cui pensare ma quella faccia da cane bastonato accompagnato ad un ciao del cazzo senza altro, dopo mesi di silenzio stampa, le fanno girare altamente il culo da morire. Dovrai fare decisamente di meglio. « Ho fame. » Se ne esce poi, completamente dal nulla, girandosi verso Nana. « Ci prendiamo il gelato? » E' la faccia dell'eloquenza quella che ha addosso. « Chiederei anche a te ma non sembri molto loquace oggi. » Lo dice continuando a guardare Nana, lo sguardo blu si posa su Savannah giusto all'ultimo prima di sciabolare le sopracciglia.


     
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    « Quindi dicevamo.. La voglia di farti vedere dei metodi alternativi per mangiare il gelato è talmente tanta che non ricordo più che stavamo dicendo. », Domiziana sogghigna. Vorrebbe davvero sperimentare le strategie proposte da Max - peccato le due ragazze si trovino al cortile del campus, uno dei luoghi maggiormente frequentati da, letteralmente, chiunque. « Con questo caldo ti scivolerebbe addosso così facilmente. », inarca le sopracciglia, la Serpeverde, percependo distintamente le labbra di Max che risalgono dalla propria spalla sino al collo, provocandole una vistosa accelerazione di respiro e battito. Socchiude gli occhi, senza aggiungere ciò che a parole non renderebbe l'intensità delle emozioni che prova. Una breccia di passato che la distoglie dal pensiero del presente, dalle responsabilità che questo comporta. Non che Nana viva giorno dopo giorno con particolare ansia o timore, anzi, quasi oserebbe dire si sia venuta a creare una situazione per lei ideale: ha finalmente a che fare con un ambito che stuzzica il suo ingegno e la sua partecipazione. Solo che, come ogni novità, va affrontata sia nei lati positivi che in quelli negativi: tra questi ultimi, per l'appunto, vi è la notevole ed imprescindibile quantità di impegno richiesta per poter eccellere in un campo totalmente nuovo. Nuove materie, nuova realtà, nuovo panorama. E in tutto questo, la minaccia della Loggia Nera è sì un mostro che cova e promette di aggredirli alla prima occasione buona, ma è anche impalpabile dal momento che, di essa, non se ne è più avuta alcuna traccia. Per di più, la Dragomir è rinvigorita dal fatto che Max sembri averla superata. Forse anche per lei, dato che stiamo imparando a difenderci e a combattere, dato che stiamo studiando le fondamenta e le origini delle Logge, il presente ha un altro sapore. Un sapore che non è di sconfitta. E' questo che la bionda legge nel verde prato, incantevole, degli occhi della Picquery. Nella sua lingua che indugia sul collo e le promette sensazioni che conosce già alla perfezione, ma di cui mai si stancherebbe. Ignora persino gli sguardi divertiti di chi non comprende cosa sia il loro amore, cosa che non avrebbe mai fatto se non avesse avuto una sensazione di tanta pace dentro di sé, come se ogni tassello si trovasse al posto giusto. « Che noia certe Madri Terese. », ridacchia, Domiziana, riservandosi soltanto di commentare: « Mi ricordano giusto qualcuno. », un riferimento che Max certamente coglierà. Hanno già avuto a che fare, le due, da squadra che solo l'apocalisse potrebbe scindere, con soggetti di questo tipo - Madri Terese. Individui che si fingono politically correct ma, in realtà, hanno l'anima da poveracci in cerca di attenzioni, che nessuno rivolgerebbe loro se non si ergessero a portavoce di "opinioni terribilmente scontate, ma commerciali al punto giusto da far gola alla massa". Peccato che non le sposino, davvero, quelle opinioni. Ne risulta unicamente un teatro di falsità e di incoerenza. « Dobbiamo ancora finire il discorso vacanze. », la Dragomir schiude le labbra in un mezzo sorriso. « Davvero dobbiamo finirlo? », domanda, sarcastica. Punta gli occhi in quelli di Max, rispondendole in tono complice: « Credevo avessi già deciso. », suggerendo che, senza alcuna esitazione, ha intenzione di seguirla in qualunque viaggio abbia intenzione di intraprendere. Persino un viaggio finalizzato a far esagitare una ben precisa madre - perché sì, Nana ha ormai intuito quale sia il vero proposito di Max. Sarà che gira intorno all'idea da settimane. «Ciao.», quella semplice parola ha il potere di infrangere il quadro idilliaco del presente. E se la minaccia delle Logge pare lontana poiché, pur dimostrata, lontana nel tempo, altra cosa è la consapevolezza che la persona che mai, mai Domiziana avrebbe potuto immaginare la tradisse, le abbia invece nascosto il fulcro scatenante la scissione tra Inverness e Stato Inglese. La riapertura della Loggia Nera, e la conseguente necessità di difendersi, professata a spada tratta dai lycan. La negazione, invece, da parte del Ministero della Magia e dei suoi seguaci. E in tutto questo, Savannah Hamilton che tace. Che non si preoccupa di renderle partecipi. « Apperò, ti è ricresciuta la lingua. Gioia e giubilo a corte! », il gioco non vale se ricresce per dire cazzate. Perché è una chiara stupidata quella che Savannah ha appena compiuto. Salutare Domiziana. Cosa le fa anche solo lontanamente pensare che sia degna che, di rimando, la Dragomir posi lo sguardo su di lei? Tant'è che non lo fa, la bionda, passa oltre come se semplicemente la sua migliore amica non esistesse. Non la vede. Sa che è lì, perché quel timbro di voce - che ormai reputa fastidioso - le è giunto alle orecchie, ma non la vede. Non la vede a tal punto che se ne convince. Non la vede a tal punto che quasi vorrebbe chiedere a Max: con chi stai parlando?. « Non ci credo. E Maeve dov'è? », perché, Maeve è davvero ancora viva? Credevo fosse morta soffocata dalla falsità, una delle sue doti più lustri. « Ahhh, con Derek, certo. Ecco perché sei qui. », qualcuno mi ricordi chi è Derek e la vastità di quanto mi frega delle dinamiche di questi tre. « Ho fame. Ci prendiamo il gelato? », annuisce, senza decisamente aggiungere null'altro. Non servirebbe perché non ne ha il desiderio. Sì, è proprio così. Domiziana non ha desiderio di aggiustare le cose - o comunque di muovere anche solo un passo affinché ciò avvenga. Non tocca a lei, dal suo punto di vista. E' per questo che si dirige verso il carretto dei gelati, al fianco di Max, senza neanche attendere la reazione di Savannah - cento per cento che saranno lacrime di coccodrillo. E Nana non ha voglia di sorbirsele. La chiuderebbe lì, non fosse per una stoccata che sente da confabulazioni e bisbigli di due tipi lì vicino, che evidentemente stanno messi peggio di due vecchie di paese che commentano la gente che cammina per le stradine di loro proprietà. « ..adesso non ha più manco una prima, sicuro.. rachitica, io non ho parole.. ora non è che ti puoi adagiare sugli allori solo perché ti chiami Hamilton e quindi tutti ai tuoi piedi.. se sei uno scheletro sei uno scheletro, noi vogliamo le curve.. dov'è la Savannah che va in palestra e ci fa sognare il suo culo?.. », e via dicendo con altre opinioni non richieste. Domiziana ha gli occhi iniettati di sangue. Da ghiaccio sono diventati fuoco, e lei non se ne rende neanche conto. A passo di marcia, inverte la direzione del proprio cammino e vola ad affrontarli.
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    La sua espressione è terribile. Non è più la principessa misurata di un tempo. « Ma c'hai il cazzo al posto della bocca e del cervello? Altrimenti non si spiegherebbe perché parli come pisci. », non è più la principessa che non dice parolacce. « Ti senti dal macellaio? O al mercato di frutta e verdura? Fammi capire, pensi che siamo pezzi di carne che puoi scartare, scegliendo quello che più ti aggrada? "No, in quello c'è troppo grasso, no, quello è tutto osso?" », non fosse impegnata a sputargli addosso sentenze, probabilmente l'avrebbe già Schiantato. Non per altro, ha la bacchetta stretta in pugno. « Ah no. E' che tu hai potere perché sei maschio. Quindi sì, tu puoi scegliere. Noi invece no, noi dobbiamo ingrassare o dimagrire in base al tuo cazzo di umore. », la punta della bacchetta di Domiziana gli va quasi a perforare il petto. « La verità è che la Hamilton non ti si inculerebbe neanche in un universo alternativo in cui fossi in grado di mettere insieme un verbo e un sostantivo, figuriamoci nella triste realtà in cui dalla bocca sai solo pisciare anziché parlare. », ritrae lentamente la bacchetta, la Serpeverde. Non meriti che il mio legno ti sfiori. « Non so chi cazzo sei - non meriti che io lo sappia - ma di certo sei patetico. », lo pianta lì, in asso, tornando indietro dove Max è ancora a poca distanza da Savannah. E' proprio a quest'ultima che si rivolge, infine, dicendo: « Non l'ho fatto per te. », non pensarci neanche. L'ho fatto per me. Per noi. Perché mi sei attualmente insopportabile, ma so quanto la bulimia ti fa soffrire. So quanto ci fa soffrire. E non lo auguro a nessuno.
     
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    « Apperò, ti è ricresciuta la lingua. Gioia e giubilo a corte! » Fin da quando era solo una bambina, Savannah era stata abituata a ricevere attenzioni. Se ne nutriva e spesso e volentieri erano tutto ciò che le bastava. Erano un bisogno primario, qualcosa di essenziale senza le quali si sentiva come se le mancasse qualcosa. Era come un fiore che veniva privato della luce e i cui petali cominciavano inevitabilmente a sbiadirsi, perdendo i propri colori e la propria brillantezza. Spenta come lo stoppino di una candela il cui fumo svaniva definitivamente nell’aria. Eppure, sembrava che in quell’ultimo periodo si fosse abituata all’indifferenza della gente, si fosse adattata, si fosse sforzata per diventare invisibile, per sparire. Sparire era esattamente ciò che stava facendo. Se prima le ragazze la guardavano con invidia, ora pareva che la deridessero. Se prima i ragazzi le correvano dietro, ora sembravano evitare la sua presenza. Cosa le era successo? Era come se il suo stato d’animo, ciò che aveva dentro, si rispecchiasse inevitabilmente su quell’apparenza su cui tanto aveva lavorato, che aveva costruito pezzo per pezzo in tutti quegli anni. Eppure, fino ad allora, tutto quello sembrava non interessarle. Le andava bene non essere notata, le andava bene diventare invisibile. Lo avrebbe accettato da tutti, ma non da loro, non dalle sue migliori amiche. I loro sguardi di indifferenza erano come pugnalate dritte al petto. Forse non sarebbe dovuta andare da loro. Forse loro stavano meglio così, senza di lei. Si sentiva come se qualcosa gravasse sopra la sua testa e rischiasse di caderle addosso al primo passo falso. « Non ci credo. E Maeve dov'è? » Max non era mai stata una che gira intorno alle questioni. Andava dritta al sodo ed era una di quelle qualità che Saw aveva sempre ammirato in lei. Stavolta, però, era ben diverso. « Ahhh, con Derek, certo. Ecco perché sei qui. » Fece fatica ad inghiottire quel boccone, un boccone che le era stato lanciato con l’unico scopo di ferirla, di farla sentire sola. Alla fine era vero. Se nella sua vita Savannah era sempre stata costantemente circondata da persone -più che conscia del fatto che molte di esse le stessero accanto solo per il suo cognome e il suo stato sociale-, improvvisamente si era ritrovata a dover fare i conti solo con sé stessa. E non era facile convivere ogni minuti con qualcuno che a tratti si ama e a tratti si odia. Per l’ennesima volta, Savannah non aveva imparato dai propri errori. Si era allontanata pensando di fare la cosa migliore, il modo migliore per proteggere le persone a cui voleva bene. Sembrava non essere in grado di prendere la scelta giusta. Faceva di testa sua e feriva qualcuno, faceva come le veniva chiesto e finiva inevitabilmente per ferire qualcuno. Si sentiva totalmente incapace di decidere. C’erano mattine in cui proprio non voleva alzarsi dal letto e sere in cui faticava a prendere sonno perché la sua mente non smetteva di pensare. Anche nel silenzio più assoluto, tutto ciò che sentiva era il rumore. Il rumore, l’incessante chiasso prodotto dai suoi pensieri, da quelle voci che le dicevano cose che la ferivano, che le facevano male. Ma preferiva le voci nella sua testa alla reale delusione che leggeva ora nel volto delle sue migliori amiche. Poteva chiamarle ancora così? Probabilmente loro non la consideravano più loro amica e magari anche lei avrebbe dovuto imparare a fare lo stesso, perché continuando ad aggrapparsi a loro, a volersi sentire legata a loro, si faceva solo del male. Se avesse potuto cancellare quel sentimento sarebbe stato tutto più semplice: il peso sul suo petto si sarebbe alleggerito e Max e Nana avrebbero avuto la tranquillità e la felicità che si meritavano, non quell’espressione che leggeva loro in volto. Il pensiero di essere lei stessa il frutto di quella delusione le faceva venire la nausea. Doveva essere bianca come un lenzuolo. « Ho fame. Ci prendiamo il gelato? Chiederei anche a te ma non sembri molto loquace oggi. » Era vero. Savannah aveva sempre avuto una stordente parlantina, fin da quando era piccola. Era una cosa che gli adulti sembravano trovare divertente e a lei piaceva che la notassero, le piaceva stare al centro delle loro attenzioni. Era allora che aveva notato quanto per lei fosse importante l’adulazione altrui, quanto fosse importante saper attirare l’attenzione. Eppure, le sue labbra sembravano essersi sigillate e prima che riuscisse a spiccicare anche solo una parola, Maxime e Domiziana le stavano già dando le spalle, dirette al chioschetto dei gelati. Avrebbe voluto gridar loro di fermarsi, di aspettarla, ma non ci riuscì. Aveva fatto tanta fatica ad avvicinarsi a loro, a rivolgergli la parola -anche se una sola, magari sciocca e totalmente fuori luogo- ed ora si ritrovava lì a fissarle come una statua di sale. Ma forse, infondo, era meglio così. Le aveva osservate prima di intromettersi tra di loro con quel suo sconveniente intervento. Non le aveva mai viste così felici, così spensierate, così innamorate. Se ripensava a qualche tempo prima, al coming out di Max e alle sue paure.. Vederle così le faceva battere il cuore. Non meritavano questo, non meritavano ciò che lei stava facendo. Vai via, Savannah. Salva quel briciolo di dignità che ti è rimasta. Perché non insisteva? Perché era stanca. Stanca di lottare inutilmente. Si sentiva come privata di ogni forza vitale ed era ormai impossibile non ascoltare quella vocina che le diceva che tanto non sarebbe mancato nulla. Forse doveva rimanere sola. Se ne sarebbe andata più veloce che poteva se non fosse stato per qualcosa che sentì: qualcuno che pronunciava il suo cognome. Generalmente non ci avrebbe fatto caso: la Savannah che era un tempo era abituata a sentire il suo cognome uscire dalle labbra della gente e aveva smesso di farci caso quando questo accadeva. Ma tanto tempo da sola l’aveva resa sensibile ai più piccoli rumori. Non ebbe il coraggio di guardare chi fossero quei due che le stavano rivolgendo quelle parole. Non sapeva se stessero parlando a voce alta per errore o con il chiaro intento di farsi sentire da lei. « [...] ora non è che ti puoi adagiare sugli allori solo perché ti chiami Hamilton e quindi tutti ai tuoi piedi.. se sei uno scheletro sei uno scheletro, noi vogliamo le curve.. dov'è la Savannah che va in palestra e ci fa sognare il suo culo?.. » Già, dov’è quella Savannah? Il cuore sembrava batterle in gola. Lei non ci avrebbe pensato due volte a farvi ritirare tra i denti quella lingua biforcuta. Ed è in quel momento che accade qualcosa. Qualcosa che sa di speranza, qualcosa che la scaldò dentro, come se qualcuno avesse acceso un lumino. La voce di Domiziana. Alzò lo sguardo quel tanto che bastava per vedere la sua chioma bionda inveire contro quelli che erano sicuramente stati gli artefici dei commenti non richiesti di prima. Si accorse che neanche li conosceva. « Ti senti dal macellaio? O al mercato di frutta e verdura? Fammi capire, pensi che siamo pezzi di carne che puoi scartare, scegliendo quello che più ti aggrada? "No, in quello c'è troppo grasso, no, quello è tutto osso?" » Ha la bacchetta in mano, la Dragomir e per un attimo Savannah pensa che lo Schianterà. Lei sa. Nana sapeva come ci si sente a voler sparire, a guardarsi allo specchio e vedersi sempre troppo anche quando le ossa sporgono prepotentemente dall’addome, a pensare che forse gli altri ci apprezzeranno di più quando anche le ultime protuberanze sarebbero sparite. E lo avesse Schiantato si sarebbe sicuramente cacciata nei guai. E lei non lo meritava. Non meritava che Domiziana facesse una cosa del genere per lei. Non meritava niente. « La verità è che la Hamilton non ti si inculerebbe neanche in un universo alternativo in cui fossi in grado di mettere insieme un
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    verbo e un sostantivo, figuriamoci nella triste realtà in cui dalla bocca sai solo pisciare anziché parlare. »
    La vede abbassare la bacchetta e una parte di lei sembra ricominciare a respirare. Domiziana lancia l’ultima freccia dal suo arco e poi se ne va, lasciando i due fessi lì a guardarla senza dire una parola. Hanno le guance paonazze. « Non l'ho fatto per te. » Eppure una parte di sé sperava davvero che l’avesse fatto per lei. Abbassò lo sguardo, annuendo appena. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa. Scusarsi, giustificarsi, dir loro che voleva solo proteggerle da qualcosa che sapeva di non poter gestire, dir loro che se fosse potuta tornare indietro avrebbe sicuramente rimediato, dir loro che essere ignorata da loro era la cosa peggiore che le fosse accaduta in tutta la vita. Purtroppo non poté fare a meno di notare che avevano attirato l’attenzione. Sentiva addosso gli sguardi dei curiosi e l’ultima cosa che leva fare era ricoprirsi ancor più di ridicolo. «Ok..» Rialzò lo sguardo, guardando le due ragazze davanti a lei ed annuì appena. «Non vi tratterrò ancora.. Devo andare e..» Non sapeva neppure come continuare, non sapeva neppure cosa stesse dicendo. Le girava la testa e il suo stomaco non smetteva di attorcigliarsi per il dolore e per la fame. Inghiottì a vuoto prima di prendere un bel respiro. «Mi dispiace...» Quelle parole le scivolarono fuori con la velocità di un pensiero. Era stato come lanciare una fune nel buio e sperare che qualcuno, dall’altra parte, ci si aggrappasse. «Voi siete le persone più forti che conosco e.. Ho sbagliato a mentirvi.. Dovevo sapere che potevate sostenere tutto questo..» Forse qui l’unica a non voler realizzare ancora come stanno le cose sono io.. Si morse le labbra, respirando nuovamente a fondo. Distolse lo sguardo volgendolo altrove, come se stesse cercando qualcosa a cui appigliarsi o forse solo le parole giuste. «Devo andare..» La sua scenata aveva già attirato l’attenzione di troppe persone. «Ci...» Cosa? Ci sentiamo? Ci rivediamo? Non puoi esserne sicura.. «Buona giornata..» Lanciò loro un ultimo sguardo prima di voltarsi.

     
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