You know, it's not the same as it was

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    « Ti giuro ma', non mi sono fatto neanche un graffio. » Teneva il cellulare incastrato tra la guancia e la spalla, mentre studiava il taglio profondo che aveva sul braccio, e con la bacchetta castava un Aguamenti silenzioso per pulire la ferita. « Ormai sono un professionista, te l'ho detto. » Che Brigitte sentisse l'esigenza di chiamare il figlio ogni qualvolta lo sapeva smaterializzarsi da qualche parte, per accertarsi che non si fosse spaccato, non era una novità. E di solito, malgrado l'apprensione della donna, Émile si muoveva con grande facilità da un posto all'altro e senza troppi danni. Eccezion fatta per l'incidente con la signora Bagshot, quando si era materializzato per errore nel bagno della vicina mentre la poveretta se ne stava tranquillamente seduta sul gabinetto, si riteneva più che bravo nell'arte della Smaterializzazione, e nei mesi successivi alla Patente era riuscito a non combinare gravi danni e a viaggiare sempre in sicurezza.
    Per questa ragione adesso esaminava il taglio sul braccio con una certa curiosità, mentre si premurava di rassicurare Brigitte al telefono - è stata lei a gufarmela, ne sono sicuro. « Sì, ma', sono arrivato a casa di Asa. Non so se torno per cena, forse mangio con lui. Ci sentiamo, ok? Ciao. Ferula. » Osservò la ferita ritirarsi nella pelle, lasciando una sottile linea rosata che sarebbe svanita nel giro di qualche giorno.
    Si guardò intorno, curioso e spaesato. Chissà, forse era stata proprio la sua destinazione a provocargli quella piccola ferita. Conosceva Flindrikin solo per sentito dire, ma non vi aveva mai messo piede prima. Smaterializzarsi in una meta sconosciuta aumenta le probabilità di spaccarsi. Recitò a mente quella regola imparata durante una delle prime lezioni del corso incominciato a Hogwarts poi mai concluso.
    L'ingresso all'interno del paese non fu eccessivamente complicato. Trattandosi di una zona franca tra lo stato inglese e quello di Inverness, Flindrikin era un luogo accessibile ad entrambe le parti. Dopo aver superato i controlli necessari, si ritrovò in una piazza pressoché deserta. Intorno pochi edifici: gli parve di riconoscere intorno a sé lo stesso stile semplice e rurale che regnava a Hogsmeade, se non ancora più accentuato: lì non c'era la calca di studenti che riempiva le strade, né in lontananza si udiva qualche scampanellio che segnalasse l'ingresso in un negozio di qualche cliente. Dalla piazza si diramavano quattro stradine strette e deserte, costeggiate da due file di casupole tutte appiccicate. Émile imboccò la seconda, e la percorse fin quasi alla fine; si fermò non appena notò alla propria sinistra l'insegna familiare di un locale: The Red Lion. Confrontò l'insegna con quella riportata sul volantino che gli aveva fatto da guida fino a quel punto, e appurò di essere nel posto giusto.
    Una volta sull'uscio del piccolo pub, diede una fugace occhiata all’interno: il posto era pressoché spoglio, e quasi deserto. Solo uno dei tavoli era occupato da una coppia, in fondo alla sala.
    Tentennò. Avvertiva improvvisamente uno strano senso d'agitazione montargli dentro. Il cuore gli picchiò nel petto un paio di volte, mozzandogli il respiro. Si chiese cosa avrebbero pensato i suoi genitori, se avessero saputo che, anziché essere a casa del suo compagno di scuola a Londra, si trovava piuttosto a pochi chilometri dal braccio dei Ribelli; che probabilmente stava per ritrovarsi a tu per tu con alcuni di loro. Fece un passo all'interno del locale, e contemporaneamente infilò una mano nella tasca dei pantaloni, per stringere le dita intorno al manico della bacchetta. Suo padre, letta la notizia dell'istituzione di una zona franca tra le due fazioni, aveva additato candidamente Flindrikin come « uno dei luoghi più pericolosi di tutto il Regno Unito in questo momento, te lo dico io. » Quelle parole riecheggiavano nella sua mente mentre avanzava nel locale, come travolto da un'illuminazione improvvisa. E se fosse stato un errore venire lì? E se quella storia della partita di Black Market fosse stata tutta una trappola dei Ribelli, per rapire dei ragazzi dello Stato Inglese e chiedere riscatto ai genitori? O peggio, ucciderli? Farò meglio a dirgli che sono ricco, così magari mi tengono in vita per un altro po', pensò tra sé e sé, col sudore in fronte. Nel frattempo tentava di ripassare mentalmente tutti gli incantesimi di Difesa che conosceva.
    Non v’era dubbio, a quel punto: stava per essere rapito. E così fervidamente ne era convinto, che per poco non sussultò quando gli si materializzò davanti una ragazza col grembiule e i capelli color chewing gum rosa.
    « Come, scusa? » La ragazza gli aveva appena rivolto delle parole ma lui, allerta com’era, non ne aveva colto il senso.
    « Ho detto » ripeté lei, sorridendo con gentilezza, suo malgrado « Sei qui per il torneo di Black Market? » Emi fece cenno di sì con la testa, senza aggiungere altro, visibilmente smarrito. « Allora vai oltre quella porta. Hanno iniziato da poco. »
    Senza dire nulla, il Tassorosso si ritrovò a seguire le indicazioni. Arrivato a questo punto, a tutti gli effetti nella tana del leone, gli pareva quasi inutile preoccuparsi, e stupido tirarsi indietro.
    La sala adiacente doveva essere protetta da un Muffliato, perché non appena vi mise piede fu travolto in pieno da uno tsunami di voci, schiamazzi e rumori d’ogni genere. Questo secondo ambiente era piccolo e poco luminoso, e reso ancora più angusto dalla presenza di quelli che, a occhio e croce, dovevano essere almeno una quarantina di maghi e streghe. Quasi tutti i presenti stavano seduti ai tavoli in coppie, uno di fronte all’altro, con un ventaglio di carte alla mano e l'aria assorta. Qualcun altro stava in piedi, a studiare le partite da spettatori o a commentarle come i più fedeli ultras. La volta della stanza era decorata da una moltitudine di scie luccicanti color verde smeraldo: come tante stelle cadenti impazzite che volteggiavano intorno ai tavoli senza una logica precisa. Un occhio esperto non aveva bisogno di indagare per riconoscere in quelle scie i movimenti del Nomade.
    Ogni tanto qualche piccolo lepracauno andava a scontrarsi contro le lampadine incantate che, ferme a mezz’aria in corrispondenza dei tavoli, proiettavano un fascio di luce diretto su questi, così da illuminare il gioco e focalizzare lì l’attenzione di tutti. Émile osservò uno dei piccoli lepracauni volargli sopra la testa, e istintivamente sorrise.
    Da quanto non giocava a Black Market? In quei mesi ci aveva provato con più persone, ma con nessun compagno riusciva a ottenere le stesse soddisfazioni che otteneva al castello. I suoi avversari non erano al suo livello, e semplicemente non era più lo stesso.
    Quando aveva trovato quel volantino che pubblicizzava il torneo, non ci aveva pensato più di un attimo a decidersi di andare. Gli piaceva pensare di poter trascorrere ancora un pomeriggio a fare una partita fatta bene, ma, a conti fatti, dentro di sé sapeva di essere stato attratto più dal luogo che dall'evento in sé.
    L’idea di recarsi in un posto così pericolosamente vicino a dove stava Otis gli faceva temere e al contempo anelare l'ipotesi di poterlo rivedere, anche solo qualche momento, anche per caso. Se esisteva un'occasione per ritrovare il suo migliore amico, quella era l'unica: Otis non aveva risposto alla sua lettera, e conoscendolo dubitava l'avrebbe più fatto. La loro chat era silente ormai da mesi. Si erano lasciati in un modo brutto, e per quanto Émile detestasse la scelta del giovane Branwell, detestava ancora di più quella terribile quiete che era calata tra loro.
    Gli bastò un secondo per trovarlo: Otis era in fondo alla sala, che dibatteva un gruzzolo di falci d'argento e qualche figurina delle cioccorane con un piccolo folletto dall'aria dispettosa, che per il momento deteneva il benestare del Nomade. Avvicinarsi sarebbe stata tutt'altra storia. Cosa avrebbe dovuto fare? Farsi vedere? Salutarlo? E se Otis fosse stato così arrabbiato da non volergli più parlare?
    Paralizzato dall'indecisione, restò a fissare l'amico, a debita distanza: gli erano cresciuti i capelli, e anche un po' di barba. Aveva addosso una camicia sgualcita arrotolata fino alle maniche, e un'aria... più adulta? Gli occhi azzurri e vispi, illuminati da una delle lampadine che fluttuavano a mezz'aria, erano ravvivati dall'entusiasmo della partita. Émile sospirò. E proprio in quell'istante, inaspettatamente, vide gli occhi del giovane Branwell puntati nella sua direzione. Incrociò il suo sguardo per un istante, quasi irrisorio, prima di scostarlo subito, guardare da tutt'altra parte e impegnarsi, con la sua solita codardia, nell'arte in cui da sempre eccelleva: fingere di non aver visto.


    Edited by (icarus) - 26/8/2022, 18:12
     
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    A Otis non sfuggiva affatto l'ironia di quella situazione. Aveva sentito parlare di Flindrikin come un luogo di speranza da coloro che consideravano la presente separazione tra lo stato inglese e quello di Inverness come una sfortunata parentesi nella storia delle due Nazioni. Che esistesse un posto adibito ad incontri diplomatici non gli pareva scontato. I lycan venivano discriminati regolarmente da parte dello Stato Inglese – soltanto un'ignorante non se ne sarebbe reso conto – e le tensioni rimanevano più accese che mai. Eppure avevano lasciato aperta quella porta, nella forma di un piccolo villaggio in cui il numero di abitanti vivi veniva ampiamente sorpassato dal numero di fantasmi – questa una stima di Otis, molto probabilmente azzeccata. Non era la sua prima volta qui. L'estate portava con sé il dono del tempo libero, l'ultimo prima del suo ultimo anno ad Hogwarts, ma lo stato d'animo del ragazzo assomigliava sempre di più a quanto più vicino alla disperazione. Era sprofondato in una noia particolare, atavica, minacciosamente profonda. Non l'avrebbe chiamata col suo vero nome finché fosse riuscito ad evitarlo. Rimanere nel Castello o nel suo perimetro si era fatto semplicemente insopportabile, così se ne era tornato a casa sua, alla ricerca spasmodica di una normalità che sembrava continuare a sfuggirgli tra le dita, come una piuma mossa sempre più lontana nel tentativo stesso di afferrarla. Ormai l'illusione di una stabilità cominciava a dissiparsi, lasciando il giovane Tassorosso completamente scoperto al mondo, totalmente vulnerabile. Continuava a fare sogni che, al suo risveglio, lo turbavano parecchio, con immagini del suo corpo senza pelle, la carne rossa e viva a contatto con il vento freddo dell'inverno scozzese. Da Inverness era facile arrivare al villaggio di Flindrikin, smaterializzandosi poteva arrivare ovunque, ma non gli piaceva farlo. Stava imparando proprio quando il Castello era stato occupato, e da lì in poi era stato costretto a portare a termine le lezioni, prendersi la licenza e farla finita, perché non era concepibile che continuasse a spostarsi ovunque con le passaporte o con la metropolvere, non alla sua età; prendere la patente, perciò, era diventata una tappa obbligata, ma priva di tutta l'eccitazione che aveva anticipato quel fatidico momento diventava una manovra estremamente faticosa e piuttosto pericolosa, e Otis non riusciva più a prendere con leggerezza l'idea del rischio – l'aveva mai fatto? Preferiva smaterializzarsi di rado e, più di tutto, in luoghi quanto più vicini possibile.
    L'ironia, dunque, risiedeva nel piacere singolare che Otis traeva dal trascorrere le sue giornate in una cittadina a metà, neutrale, offerta come tela bianca per poter essere riempita da visitatori passeggeri e diplomatici di due Stati impegnati in una lotta senza nome né fine. Ironico che fosse quello il suo rifugio del momento, quando possibile, e la culla dell'ultima estate della sua adolescenza. A lui quel posto dava la sensazione di essere l'ultimo abitante del pianeta Terra, fatta esclusione degli animali. Gli sembrava l'unico momento in cui riusciva a sopportarsi: quando non parlava con nessuno. Ogni volta che apriva la bocca sembrava dire la cosa sbagliata, tanto da far storcere il naso a lui stesso in primis. Sembrava aver dimenticato persino le buone maniere, così parlava il meno possibile. L'accento degli abitanti del villaggio era talmente stretto, comunque, da rendere estremamente difficoltoso qualunque scambio verbale, per cui Otis si esprimeva a gesti. Si sentiva come un asceta.
    Nonostante le difficoltà comunicative, aveva trascorso la quasi interezza dell'ultimo mese vagando per il borghetto senza meta né doveri, stringendo rapporti di cordiale conoscenza con la maggior parte delle persone locali. Aveva assaggiato i dolci della pasticceria, li aveva addentati seduto ai piedi della fontana di Trinity Place, per poi spostarsi nell'unico pub presente nei dintorni, e continuare la scrittura di qualcosa che sembrava tenerlo impegnato la maggior parte del tempo, tra una pausa e l'altra in cui tirava su gli occhi dalla carta, guardava i passanti saltuari, faceva un sorso di qualunque bevanda stesse sorseggiando, e riprendeva a scrivere.
    L'idea di organizzare un torneo di Black Market era partita da lui. O meglio, era partita dal gestore del Red Lion, al quale Otis aveva – più o meno forzatamente – insegnato a giocare. Non immaginava che avrebbe preso piede fino a quel punto. Il gioco doveva essere parso come una novità interessante, di quelle a cui le piccole città guardano con fascinazione esotica perché portata da forestieri di luoghi più alla moda e modernizzati, per quanto il gioco fosse estremamente poco trendy, dalle parti da cui proveniva Otis. Era un gioco da bettole, spesso con derive illegali, uno di quelli vecchi come il sole, e non si sarebbe mai immaginato di doversi ritrovare a insegnarlo a qualcuno con il doppio dei suoi anni, ma immaginava che fosse naturale per un posto così remoto e a sé stante essere fuori dal loop. Aveva portato con sé il mazzo un pomeriggio di noia, cercando di ricordarsi le regole per poterci giocare da solo, ma presto il Nomade aveva catturato l'attenzione dei presenti e l'aveva obbligato a rispondere alle domande inquisitorie. Per sua fortuna il leprecauno di quel particolare mazzo di carte era di indole piuttosto tranquilla, andavano sufficientemente d'accordo da ritenerla una buona idea portarlo con sé in un luogo pubblico, ma avrebbe dovuto aspettarsi che un esserino eccentrico come quello in un ambiente completamente nuovo avrebbe fatto voltare qualche faccia.
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    «È chiaro che possa succedere che il Nomade sviluppi una preferenza personale per un giocatore, ma è molto raro. E comunque non è il suo principale catalizzatore... A lui interessano principalmente le Dame.» «Ma non mi dire... E ci si gioca anche grosse somme di denaro, giù da voi?» Aveva prontamente chiesto un folletto seduto poco distante, che si era avvicinato di soppiatto mentre il ragazzo cercava di spiegare le regole del gioco al proprietario della locanda, che non sembrava riuscire a seguirlo appieno. «Non se ne parla.» era stata la risposta perentoria dell'omone dietro al bancone. «Non voglio niente di losco o neanche vagamente illegale in questo posto, mi sono spiegato bene, Phineas? Togliti dalla testa qualunque strana idea tu ti sia fatto su un possibile guadagno personale che potrai trarre da questo gioco. Non voglio alcuna rogna.» Il folletto aveva alzato le mani in segno di resa, e per qualche motivo anche il giovane studente sentì di dover dire qualcosa. «No di certo, lo capisco. Si può giocare anche solo oggetti simbolici, come zellini finiti o fiche. Io e un mio amico ci giocavamo le caramelle.» Zeke aveva annuito, accarezzandosi la folta barba brizzolata. «Si potrebbe fare. Mi piacerebbe organizzare un evento per gli avventori di entrambe le zone, qui ce ne sono di tutti i tipi, tipi strambi come te, che non si capisce cosa vengano a fare in un posto come questo, forse soltanto stufi di starsene segregati. Un torneo, si potrebbe fare. Mi dici che gli inglesi questa roba la conoscono bene?» Aveva annuito energicamente, distrattamente mescolando le carte consunte. «Di sicuro...» «E allora si può fare. Dovrò chiedere un paio di permessi, ma finché viene tenuto tutto pulito e consono alle regole...» – aveva allungato una gomitata al folletto, che era cascato giù dallo sgabello – «non dovrebbero fare storie. Flindrikin è e deve rimanere un luogo sicuro per permettere alle persone di incontrarsi, ma un amichevole torneo di carte potrebbe creare del buon movimento per la locanda e risollevare gli spiriti. Qui dentro si vedono soltanto musi lunghi e stregoni in tenute formali, con tanto di cappelli a punta! Non se ne vedevano da tempo di cappelli così. Ci vuole un po' di sano divertimento. Il gioco rimane incomprensibile per me, ma se dici che la gente potrebbe partecipare... Si può provare.» Al che gli aveva assestato sulla spalla una sonora pacca, sotto il cui peso Otis si era dovuto fisicamente piegare.
    A lui l'idea era piaciuta molto, sul momento, e si era sentito molto orgoglioso di aver partecipato o dato il via ad un'occasione di incontro pacifica e amichevole tra chiunque avesse piacere a partecipare e giocare. Si era offerto di pensare ai volantini, avendo già sufficiente esperienza con gli annunci, lasciandone anche qualcuno in giro per Inverness. Si rendeva conto che ci sarebbero stati dei nasi storti, al sentir parlare di un'occasione amichevole in cui incontrare anche persone dello Stato Inglese, ma a cosa serviva la predisposizione di una zona franca se non per favorire l'incontro e la comunicazione? La segregazione non era la risposta, si diceva, ma più si avvicinava la data del torneo, più si preoccupava all'idea di ritrovarsi in mezzo agli inglesi, per la prima volta in quanto forestiero, in quanto affiliato ai Ribelli, e pertanto indirettamente in quanto lycan. Ben presto, però, si rese conto che niente di tutto ciò contasse, per i visitatori di un posto come Flindrikin: le tensioni esistenti tra le due nazioni venivano sapientemente lasciate fuori dai cancelli del villaggio, o al massimo contenute dalle mura del Castello dove si tenevano gli incontri diplomatici, e non ci sarebbe stato spazio per nient'altro che amichevoli scambi all'interno di quella locanda, complice la supervisione attenta e minuziosa delle forze dell'ordine. Era un equilibrio estremamente precario e percepiva come tutti si stessero sforzando per non romperlo. Ma che ci fosse uno sforzo, un tentativo di camminare insieme sulla fune sottile – tanto gli bastava.

    «Beh, che fai, mocciosetto?» Si passò la lingua sulle labbra con una lentezza studiata, mordicchiandosi l'interno delle guance. Otis aveva dei piccoli rituali, dei tic ricorrenti, che solo un avversario attento e ben rodato avrebbe notato, svelando in tal modo ogni suo bluff. Per sua fortuna lì non lo conosceva nessuno. «Bluff. Stai mentendo.» Poggiò la schiena alla sedia, ora un'aria di arroganza molto meno celata. «Come osi?» «Oso eccome. Non hai la Dama e non ci vuole neanche un genio per capirlo. Sgancia». Fu nel momento in cui gli sbuffi di protesta del folletto si erano conclusi e le sue dita nodose si schiudevano nel palmo di Otis per consegnargli le caramelle vinte che il ragazzo si accorse della figura in fondo alla sala. Fu un breve istante, perché Émile si voltò presto per guardare altrove, e Otis fece lo stesso, serrando la mascella. Non un velo di sorpresa sul suo viso, tranne che per quello scatto automatico. La verità era che non si sarebbe mai immaginato di vederlo. Tirò su col naso, quindi scostò la sedia, congedandosi con una sorta di inchino accennato. «Ho vinto. Contro Phineas» riferì a Zeke, dietro al bancone, che in tutta risposta scoppiò in una risata fischiante e segnò il risultato sul tabellone. Accanto al suo nome e quello di Phineas erano riportato gli altri duelli del primo round. La sua partita era durata molto poco, per cui avrebbe avuto il tempo di starsene in disparte a osservare gli altri giocare. Fu senza particolari problemi che tracciò, con il dito, una linea invisibile per individuare il nome di Émile e quello del suo avversario, e il numero di tavolo al quale si sarebbero scontrati. Tenendo per il manico il secondo bicchiere di burrobirra della serata, quindi, si fece strada tra la gente. Tavolo 4. Trovò una parete libera contro la quale poggiarsi e con un misto inaspettato di rabbia e silente rancore a montargli nel petto aspettò, paziente, che Émile Carrow cominciasse la propria partita. Ti auguro di vincerla, così poi potrò batterti personalmente, come al solito. Sarà il tuo regalo per il mio diciottesimo compleanno.
     
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    La prima partita fu ben poco entusiasmante. Ad Émile bastarono un paio di turni per capire di avere di fronte un avversario non degno del suo livello. Mentre osservava annoiato le mosse inesperte di Joshua, il Tassorosso si ritrovò a pensare quanto perfino una lezione di Storia della Magia del professor Fraser contenesse più colpi di scena di quegli scambi di carte. « Mhm… Io vado con la Megera, e punto due falci. » Mamma mia Joshua, oggi mi stai proprio facendo salire sulle montagne russe. Émile giurò di aver visto il Nomade, piantato sulla sua spalla già da un paio di turni, sbadigliare impietosamente.
    « Eddai… Io rilancio con la Veggente e quindici falci. » Che poi Veggente non era: si trattava di un Camaleonte enorme, ma che dico enorme: gigantesco, grande almeno quanto tutta Hogwarts - ma dubitava che il ragazzo fosse in grado di cogliere quel dettaglio, che pur stava ben stampato sul sorrisetto malizioso del Tassorosso.
    « Quindici?! » replicò l’avversario, intimidito da quel rialzo. Neanche stessimo giocando coi soldi veri.
    Di solito, le partite di Black Market che Émile portava avanti tendevano ad assorbirgli tutte le energie: normalmente se ne sarebbe rimasto ricurvo alla propria postazione, con gli occhi fissi sul proprio ventaglio di carte, ad analizzare ogni possibile combinazione esistente. Ma l’inesperienza del ragazzo seduto di fronte a lui fu presto evidente a tutti i presenti, e ad ogni lunga pausa seguita dall’ennesima mossa poco scaltra, Émile sentiva sempre più la vittoria in pugno. Se la prese comoda, dunque, senza mettere fretta al povero Joshua, sulla cui fronte intravedeva già le prime perle di sudore.
    Mentre il suo avversario meditava se fosse o meno il caso di sacrificare una Dama di Corte per l’occasione, o se sfruttarla più avanti - senza minimamente cogliere il tranello in cui stava cadendo con entrambe le scarpe - il giovane Carrow scandagliava con lo sguardo la piccola stanzetta, e pregustava già il proprio trionfo scambiando occhiate d’intesa con alcuni spettatori lì intorno, che avevano già compreso l’andazzo della partita.
    Soltanto quando incrociò, per la seconda volta in quella serata, il volto di Otis, la sua maschera boriosa si trasformò in una smorfia incomprensibile. Deglutì rumorosamente, tornando allora con gli occhi sulle carte. Aveva notato subito la presenza dell’amico, e si era ritrovato, suo malgrado, a controllarne i movimenti con la coda dell’occhio. Quando lo vedeva spostarsi, sospirare, o scambiare qualche parola con i presenti, Emi diventava d’improvviso irrequieto: picchiettava con il tallone sul pavimento e si guardava intorno nervoso, impaziente di liberarsi da quella partita inconcludente. Di tanto in tanto spostava lo sguardo verso la porta, colto dal timore di poter vedere l’amico attraversarla e lasciare il locale, cancellando così ogni possibilità di ricongiungersi. Si sentiva come un tredicenne alle prese con la prima cotta: terrorizzato all’idea di avere un confronto a tu per tu, eppure conscio di avere di fronte l’occasione perfetta e di non volerla mandare a monte.
    Otis aveva cominciato a seguire (con interesse?) la sua partita, o almeno così gli pareva: pensò che gli sarebbe piaciuto sfoderare qualcuna delle sue mosse più scaltre, non seppe spiegarsi se per sorprenderlo o per intimidirlo - l'orgoglio è sempre una sensazione curiosa. Ma il gioco era ormai agli sgoccioli, e non c'era il tempo di farsi belli: furono sufficienti un paio di minuti perché Joshua cadesse nella sua trappola e perdesse definitivamente la partita, non riconoscendo di aver avuto a che fare con una finta Dama.
    « Sei stato un avversario tosto. Buona fortuna per le altre partite. » Una bugia a fin di bene ed una stretta di mano chiusero quel match, per la gioia di Émile, che, una volta in piedi, fece un gran sospiro e si apprestò a guardarsi intorno con una certa impazienza. Si era deciso: non sopportava più quella spada di Damocle che pendeva sul proprio capo. Era arrivato il momento di affrontare Otis Branwell una volta per tutte.
    Quando si voltò per cercarlo tra i presenti, però, lo vide già accomodato ad uno dei tavoli, in procinto di iniziare una nuova partita con l’avversario del secondo turno. A quel punto, la soluzione più logica e coscienziosa sarebbe stata una: avvicinarsi a Otis, chiedergli come stesse, e se avesse voglia di prendersi un momento di pausa dai giochi; a quel punto gli avrebbe proposto di uscire e magari prendersi una burrobirra insieme, così da poter parlare con calma, lontani da quel contesto un po’ caotico. Ma siccome si chiamava Émile, e siccome le opzioni più semplici e lineari non erano proprio alla sua portata, anche in quell’occasione non mancò di dimostrare che ometto maturo, serio e poco contorto stesse diventando.
    Non si diede il tempo di riflettere: attraversò la stanza a grandi falcate, guidato da una risoluzione per lui rara, e si affiancò al tavolo di Otis. Apparve proprio alle spalle del Tassorosso, di modo da apparire nel campo visivo del suo avversario, che nel frattempo stava già mescolando il mazzo di carte. Quando questo sollevò lo sguardo nella sua direzione, incuriosito, Emi non mancò un colpo: « Oliver, hai sbagliato postazione. La tua partita è al tavolo 2. » Vide l'altro guardarsi intorno spaesato. « Ne sei sicuro? Io credevo di essere proprio qui... » « E invece no. Te lo dico io che hai visto male. Guarda il tabellone! Ci sto io a questo tavolo. » Oliver allungò il collo contrariato, per dare un'occhiata alla lavagna di gesso dove, effettivamente, il suo nome figurava ora insieme a quello di un altro sfidante. In quel momento Emi allungò la manica della felpa sulle dita, per nascondere la propria bacchetta di noce. « Ah caspita! Devo essermi confuso. Perdonami, vado via subito. » Mortificato, Oliver impiegò pochi secondi per raccogliere le proprie cose e svuotare il posto. « Ma figurati, capita a tutti. Buona partita! » Complimenti Emi, anche stavolta hai brillato per la tua saggezza e maturità.
    Quando finalmente prese posto di fronte
    all'amico (ex amico? Compagno di scuola? Conoscente?) non seppe come comportarsi. L'istinto primordiale era quello di scoppiare a ridere, per il contesto in cui si trovavano, la bugia appena detta e che il giovane Branwell aveva certamente colto, e più di tutti il fatto che non si vedevano né parlavano da mesi (cosa mai avvenuta prima d'ora: il tempo più lungo trascorso senza sentirsi erano state le due settimane in cui Mahoutokoro era stata invasa, e ad Émile era quasi preso un infarto) e ora stavano faccia a faccia, a dividerli un tavolino traballante ed un mazzo di carte. Il volto di Otis era impenetrabile, e ciò diede ad Emi la percezione che anche la sua espressione dovesse adeguarsi. Cercò di trasformare quindi il suo sorrisetto smorzato in una faccia da poker che fosse degna di quel nome; una volta impugnato il mazzo di carte lo allineò contro la superficie del tavolo con una mossa secca. Iniziò a mescolarlo con calma, e lasciò che il Nomade prendesse confidenza con l’ambiente: lo vide sfrecciare in aria un paio di volte, posarsi sulla spalla di Otis, e infine al centro del tavolo. Una volta accertatosi dello stato di comfort del lepracauno, tirò fuori dal mazzo dodici carte, tenendone sei per sé e consegnando la restante parte ad Otis.
    In questa fase, non si arrischiò nemmeno per un istante a incrociare lo sguardo del suo avversario: se lo avesse fatto, era certo che sarebbe scoppiato a ridere per la tensione o, peggio, avrebbe detto qualcosa di terribilmente imbarazzante. Come una frase da film del tutto inappropriata, tipo: At last, we meet again. Si accontentò quindi del silenzio, e solo dopo aver esaminato il proprio ventaglio di carte, ne estrasse una e la mise al centro. Forte della sua Dama di Compagnia che si era aggiudicato già al primo turno, scelse di iniziare in maniera soft con uno scontro, e optò per scagliare uno dei due Kelpie che aveva nel proprio ventaglio. Solo allora, dopo lunghi istanti di silenzio, alzò lo sguardo, e i suoi occhi nocciola incontrarono quelli cerulei di Otis. « Tocca a te. »



    Carte in mano ad Émile:
    - occamy


    - thunderbird


    - gargoyle


    - kelpie


    - kelpie

 (carta lanciata)
    - dama compagnia


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    Quando si è un giocatore di un certo livello, di qualunque disciplina si parli – che si tratti di sport, di videogiochi, di abilità nel suonare uno strumento musicale o persino nei giochi da tavolo – è fisicamente impossibile riuscire a divertirsi insieme a qualcuno di livello nettamente inferiore. Tautologico, per Otis; eppure sembrava che nessun altro, al di fuori di lui e del ragazzo che un tempo era stato il suo amico più stretto, venisse irritato da quell'ovvietà. Il pubblico rimaneva a guardare una partita le cui sorti erano state scritte dal momento in cui Émile aveva messo il suo sedere flaccido e maleodorante su quella sedia. Così, Otis se ne stava a guardare, la schiena poggiata al muro, con gli occhi di fuori. Non poteva spiegarsi la stupidità delle mosse dell'avversario, e così la sua pantomima da misterioso-viaggiatore-solitario-intento-a-partecipare-a-un-torneo-di-black-market-in-incognito-battendo-tutta-la-concorrenza-Emi-non-ti-ho-minimamente-notato era stata rovinata. Non c'era autocontrollo che reggesse di fronte ad un gioco cosi pietoso. «Quindici?!» «E certo che si gioca quindici falci, cretino! E dài! Pure per te, e che diamine!!!» Era stato il suo commento spontaneo, scappato dalle sue labbra prima che potesse trattenerlo. «No, ma scusa, ma come ti viene in mente con una M-E-G-E-R-A in mano di giocarti due falci. Fai ridere. Si può dire che fa ridere, scusate?» Aveva continuato a borbottare, un po' più sommessamente, con uno sconosciuto che casualmente si trovava in piedi accanto a lui in quel momento. Calmati. Non si capiva perché fosse così preso dalla partita. In fondo, a lui di Émile Carrow non interessava più così tanto. Non come un tempo, di sicuro. Émile aveva preso la sua strada, Otis la propria, si erano cordialmente separati. Se ci era rimasto male per la sua risposta di un mese prima alla lettera che gli aveva inviato? Senz'altro. Non aveva alcun problema ad ammetterlo: c'era rimasto molto male, anzi. Ma c'è un tempo per sentirsi offesi e un tempo per riprendersi, e sicuramente non gli aveva fatto piacere leggere certe cose, ma era arrivato il momento di metterci una pietra sopra e abbandonare i propri ricordi di infanzia. Del resto erano cresciuti ora, no? Erano passati soltanto pochi mesi ma erano persone radicalmente diverse, giusto? Era questo quello che voleva dire Émi nella propria lettera, con quel “Te lo confesso, Otis, speravo di leggerti diverso, in questa tua lettera”: ancora una volta Otis era quello che rimaneva indietro, ancorato alle proprie tradizioni, routine, ai propri modi infantili e ai ricordi, e Emi era il grande navigatore del futuro, il Cristoforo Colombo del loro duo, l'inventore, il progressista! Si vede, come sei progressista. Ad ascoltare tutta la spazzatura che ti propinano mamma e papà. Ma stava bene, Otis, anzi, non era per niente arrabbiato. E sì, poco prima aveva pensato che avrebbe voluto batterlo, ridurlo al tappeto, sconfiggerlo e umiliarlo di fronte a tutta Flindrikin fino a farlo tornare a casa in lacrime; e sì, aveva pensato che quella scena sarebbe stata un ottimo regalo di compleanno, e che ne avrebbe goduto senz'altro per tutta la durata degli anni a venire. Ma non era mica per rancore, o per livore, o perché c'era rimasto male. Era perché era diverso, proprio come avrebbe voluto Emi nella sua lettera! Era diverso, era cresciuto, grande e grosso proprio come lui, un uomo fatto e finito, no? E diverso sarebbe stato! Del resto è solo da veri uomini fatti e finiti, barbuti e vaccinati, recarsi in un pub a giocare con carte magiche e un folletto volante, come facevano loro due da quando avevano undici anni. Una pratica matura, virile, quasi senile, senz'altro. «Sei stato un avversario tosto. Buona fortuna per le altre partite.» Tutta quell'ipocrisia gli dava il voltastomaco. Quando i due ragazzi incrociarono i propri sguardi per una seconda volta, Otis intuì – in qualche strano modo – che la ragione per l'indecisione che aveva avvertito fino a quel momento, nel prendere una posizione, nell'individuare una morale, fosse in qualche modo legata a lui. Forse, quel giorno, sarebbe finalmente riuscito a darsi una risposta. La resa dei conti.
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    Il pomeriggio trascorse piuttosto in fretta, nello schiamazzo generale, con pinte su pinte di una burrobirra sciacquata che impiegò molto più del previsto per fargli effetto. Occupava la propria postazione al tavolo 3, il mento pigramente poggiato sui palmi delle mani, quando assisté alla farsa che prese luogo di fronte a lui. Non intervenne, però, e rimase a guardare con un sopracciglio sollevato mentre il povero Oliver, un elfo domestico non più alto di un metro e dieci, si scusava per un errore che non aveva commesso a si allontanava. «Ci tieni così tanto a farti battere?» Pronunciò infine, soltanto con un vago accenno di ironia, quando Émile si mise a sedere di fronte a lui. Fuori, un lampo improvviso, seguito dopo qualche secondo da un tuono distante, dalle vibrazioni profonde. Le dita sottili di Otis scrivolarono tra i capelli corvini, che adesso portava più lunghi rispetto all'ultima volta che si erano visti. «Chi non muore si rivede» gli disse infine, cambiando posizione sulla sedia. «Tocca a te fare carte» lo invitò poi, umettandosi le labbra e approfittando quel lasso di tempo per esaminare il viso della persona che aveva di fronte. Non sembrava diverso di una sola virgola. Lo stesso identico ragazzo che aveva condiviso il sonno con lui per metà della sua vita, e che adesso, probabilmente, andava ai festini a casa di Asa King. Come si può cadere in basso! Pregustò il momento in cui l'avrebbe visto sconfitto in quell'istante, quando le carte venivano distribuite e tutto era ancora da decidersi – ma Otis sapeva già come sarebbe andata a finire. «Ricordiamo ai gentili signori legilimens che è severamente vietato fare uso di qualsiasi tipo di abilità di lettura per manomettere la partita. A tal proposito è stata data istruzione al Nomade di interrompere immediatamente il gioco – e portarsi via l'annesso bottino – qualora percepisse una qualsiasi difformità al regolamento.» Non c'è problema, pensò mentre raccoglieva le sei carte che la sua nemesi aveva pescato per lui. So leggerti nel pensiero soltanto guardandoti.


    Émile partì con un patetico piccolo Kelpie. Otis se la prese con calma, rispondendo strategicamente con uno dei sue due gargoyle. In automatico, quindi, pescò una sola carta per sé, mentre ad Émile ne spettavano due.



    -1 Carte in mano ad Otis: gargoyle, gargoyle, veggente, megera, occamy, dama compagnia

    +1 Otis pesca una veggente.
     
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    Fuori pioveva. « Hai sentito, Branwell? Evita di fare giochetti strani. » Non che si aspettasse davvero che Otis gli leggesse nella mente: sapeva che anche per lui, l'etica e il rispetto per quel gioco sacro andavano oltre qualsiasi tipo di faida tra loro due. Attese che Otis pescasse la propria carta, per poi raccogliere il premio per la sua vittoria di quel turno, che si materializzò nella forma di un Occamy ed una Megera. Strinse le labbra in una linea sottile, lasciandosi sfuggire una piccola smorfia di disappunto. Decise che, con quello che aveva in mano, aveva disperato bisogno di almeno una carta speciale: senza aspettare, perciò, lanciò uno dei due Occamy, che significava vittoria assicurata (o per lo meno pareggio). « Che dici, non lo tiri un altro Gargoyle? Farebbe proprio comodo. »





    +2 Émile pesca un Occamy e una Megera.

    -1 Carte in mano ad Emi (6): occamy, occamy, thunderbird, gargoyle, kelpie, dama di compagnia, megera


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    Non ebbe nessuna reazione quando Emi scartò il proprio Occamy. Ragionò sul da farsi: aveva in mano praticamente soltanto dame – al completo, per altro. Se avessero cominciato con le contrattazioni in quel momento, Otis avrebbe sicuramente giocato con una delle sue due veggenti. Non la preferita del Nomade, ma comunque una solida certezza se accompagnata da una puntata significativa. Aveva racimolato un buon gruzzoletto dalle proprie partite precedenti, ma non sapeva quanto avesse a disposizione Emi, né conosceva i gusti di questo particolare Nomade in fatto di caramelle. Il mazzo non era il suo, né di Emi, e nessuno doveva sentirsi particolarmente sicuro di riuscire a leggere le preferenze dell'omino. Non sarebbe sceso in Contrattazioni con l'unica dama di compagnia che aveva – non subito. Ma non aveva alcuna intenzione di rischiare che Emi ne pescasse una a propria volta, se non ne aveva già una in suo possesso. Meditò ancora un po', prima di sospirare sonoramente. Solo un altro Occamy, si disse, prima di aprire le danze al turno successivo. E qualora fosse stato Emi a farle partire, dopo aver pescato una carta ciascuno, allora Otis avrebbe considerato cosa fosse più furbo fare. La strategia di Emi era tipicamente più avventata della sua – almeno così era stato in passato. Sapeva, quindi, che se avesse pescato una dama o un Camaleonte, molto probabilmente l'avrebbe sfidato immediatamente, senza particolari esitazioni o attese di turni successivi. C'era, quindi, il rischio che di lì a poco avrebbero iniziato a contrattare. Accettò questo rischio, quindi, scartando il proprio Occamy, e pescando una carta ciascuno. Un inutile kelpie. Avrebbe potuto tornare utile solo qualora Emi non avesse iniziato l'asta al turno successivo, ma Otis continuava ad avere la netta sensazione che l'avrebbe fatto con certezza. «A te.»



    -1 Carte in mano ad Otis: gargoyle, veggente, veggente, megera, occamy, dama compagnia

    +1 Otis pesca un kelpie.
     
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    Dopo aver pescato l'ennesima carta inutile - uno stupidissimo Thunderbird - Émile sospirò. Rimase qualche secondo in silenzio, ad osservare le proprie carte e a ponderare la mossa successiva. Era messo oggettivamente male: solo una Dama di Compagnia a dargli qualche speranza, ma aveva come la sensazione che a Otis le cose stessero andando meglio. Lo spiò oltre il proprio ventaglio; quello sguardo serafico non poteva che essere quello di uno con in mano almeno una carta speciale: un camaleonte, o uno snaso perfino.
    Émile avrebbe potuto lanciare il suo secondo Occamy e sperare in una pescata migliore: in fondo le probabilità che anche il suo avversario ne avesse un secondo erano ben poche. Decise piuttosto che era arrivato il momento di aprire le danze: lo avrebbe fatto gradualmente, però, tastando le acque con una certa cautela. Non avrebbe bruciato la bella Dama di Compagnia per un primo turno di contrattazioni, non stavolta. Senza pensarci ancora, mise a terra la Megera, e rimase a guardare il piccolo Lepracauno - che nel frattempo sonnecchiava accanto al mazzo - svegliarsi con calma, mettersi in piedi sul tavolo, sbadigliare e stiracchiarsi come un bimbo disturbato nel sonno dai genitori. « Che te ne pare? » gli domandò Émile, accennando alla propria carta. Nel frattempo spinse con le dita qualche fiches verso il centro: la Megera, si sapeva, non poteva camminare da sola, ed era saggio iniziare a puntare qualcosa già da ora, per iniziare a convincere il Nomade. « Anzi, sai che ti dico? » Un lampo gli attraversò lo sguardo. Iniziò a frugare nella tasca, prima di tirare fuori un altro mazzo, alto almeno il triplo rispetto a quello delle carte da gioco, tenuto insieme da un elastico giallo. Otis quel mazzo lo conosceva bene: era difficile che i due Tassorosso andassero in giro senza portarsi dietro la propria collezione di figurine del Quidditch - perché una partita o uno scambio di doppioni erano sempre dietro l'angolo. Riservò ad Otis un'occhiata di sfida. « Perché non rendiamo le cose un po' più interessanti? » In fondo, questa roba di usare le monete finte è proprio da principianti. Sfilò dal mazzo una figurina non particolarmente rara - Emi ne aveva ben cinque di Samuel Scamander - e la posizionò al centro, proprio accanto alla megera. Incrociò poi le braccia sul tavolo, e restò in attesa della risposta dell'avversario.





    +1 Émile pesca un Thunderbird.

    -1 Carte in mano ad Emi (6): occamy, thunderbird, thunderbird, gargoyle, kelpie, dama di compagnia, megera

    CONTRATTAZIONE: puntato due fiches + una figurina di Samuel Scamander, Chudley Cannons stagione 2021


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    «Che sei prevedibile come il tuono dopo il lampo, ecco che me ne pare» È il tuono che segue il lampo, giusto? Sì, sì. Puntuale come un orologio svizzero, ecco che Emi – dopo aver maniacalmente ordinato le carte scoperte al centro del tavolo – aveva fatto iniziare le contrattazioni. Il Nomade aveva avuto un guizzo di eccitazione, e si era messo in piedi, manine grassottelle sui fianchi, sbuffando sonoramente. «Allora, ci vogliamo dare una mossa o no? Qui purtroppo c'è qualcuno che, a differenza vostra, ha voglia di lavorare». «Oh! È forse un'inflessione gallese, quella che sento?» Il Nomade era apparso sorpreso. «Beh... In effetti sì... Ho trascorso qualche anno lì con la mia famiglia, quando giravamo nelle tasche di questo vecchio stregone gallese... Quelli sì che erano bei tem–» «Anzi, sai che ti dico? Perché non rendiamo le cose un po' più interessanti Gli amabili (strategici) convenevoli che Otis stava intavolando con il Nomade vennero interrotti quando Emi rivelò la propria figurina di Scamander del 2021. Nel mentre, una strega dall'aspetto anziano e bitorzoluto prendeva posto di fronte al viso dell'amico, proiettata come una sorta di ologramma traslucido dalla carta scoperta, al centro. Il viso del Leprecauno si contorse nella sua solita espressione disgustata, mentre rimase enigmaticamente neutro di fronte al giocatore di Quidditch che ammiccava fascinoso al proprio pubblico. Il Tassorosso, così, tornò immediatamente concentrato, sollevando un sopracciglio e valutando la propria mossa successiva. A meno che Emi non sapesse qualcosa che a lui sfuggiva, nessuna contrattazione può essere vinta con una Megera – tranne se il tuo avversario ne ha una uguale, perché a quel punto valgono le puntate. Le cose erano due: o Emi credeva che Otis avesse in mano una Megera (e magari si era fatto quell'idea perché Otis aveva esitato a iniziare le contrattazioni, al turno prima), oppure aveva un qualche asso nella manica che avrebbe reso quella Megera ancor più preziosa. Magari conosce già questo Nomade, si disse, e sa che con lui una figurina di Quidditch fa presa. Sicuramente non aveva il Camaleonte, perché aveva puntato qualcosa che molto chiaramente era in suo possesso – avendo mostrato la propria puntata – per cui per ora la vittoria non sarebbe potuta essere sua. A prescindere, comunque, si disse che sarebbe stato più sicuro custodire le proprie carte più preziose, ma di non giocare la Megera a propria volta non avendo con sé nient'altro che fiches e caramelle. A meno che... Niente gli vietava di bluffare. Questo round, del resto, avrebbe anche potuto perderlo, perché gli sarebbe servito per tastare il terreno, comprendere le inclinazioni e i gusti del Nomade, prima di giocarsi il tutto per tutto. Così scartò a sua volta una Megera, la quale prese forma, con lunghi bianchi legati in uno chignon ordinato, nascosto dal capello consunto, davanti a sé. Tenendo d'occhio il Nomade, poi, pronunciò la propria puntata. «Tre falci. E punto una figurina rarissima di Daphne Baker – che non vi mostro perché le contrattazioni non si fanno mostrando le puntate. Ma tu forse il nostro amico Émile, qui, l'ha dimenticato.» Fece, ammiccando al Nomade. «Mi sembra che tu abbia perso un po' del tuo smalto...»



    -1 Carte in mano ad Otis: gargoyle, megera, veggente, veggente, dama compagnia, kelpie

    CONTRATTAZIONI APERTE
    megera vs megera

    Otis punta: tre fiches + una figurina di Daphne Baker, Holyhead Harpies, 2018 (edizione limitata).
     
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7 replies since 12/8/2022, 17:11   165 views
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