Rewrite the stars.

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    Wednesday accartocciò la pergamena con entrambe le mani, sporgendosi appena verso destra per farla scivolare nel cestino, là dove -arrotolate in modo pressappoco identico- c’erano altri fogli. Scrivere le era sempre venuto naturale, più facile che usare la parola parlata, eppure quella mattina i vocaboli non sembravano mai essere quelli giusti. Nel momento in cui la piuma li imprimeva nella carta sembravano perdere immediatamente senso. Ma forse il problema non erano le parole, forse il problema era solo nella sua testa, perché dubitava che esistessero le parole giuste che potessero esprimere ciò che desiderava dire. Non lo vedeva da quel giorno fuori dal negozio di profumi. Non lo vedeva da quando, dopo averlo baciato, era corsa via, incespicando nelle stradine piene di neve di Hogsmeade. Da allora tutto aveva assunto sfumature diverse. Perfino la sua immagine riflessa allo specchio non le sembrava più la stessa. La cosa bizzarra, però, era che nonostante quella sensazione, non riusciva a vedere differenze. Era sempre lei, era sempre Wednesday. E allora cosa c’era che non andava? A tratti aveva l’impressione che le sarebbe scoppiata la testa. Erano successe tante cose negli ultimi mesi, così tante che persino una persona metodica ed organizzata come lei aveva faticato a tenere l’elenco degli avvenimenti. La cosa peggiore che aveva dovuto affrontare era stata la separazione con Tuesday. Era stato qualcosa che difficilmente era riuscita a mandar giù e che forse non aveva ancora fatto. La decisione del fratello di restare dall’altra parte l’aveva ferita profondamente. Forse, in qualche modo, si aspettava che anche lui sarebbe venuto via, che le sarebbe rimasto vicino, soprattutto dopo il loro riavvicinamento. Avere torto, avere torto su di lui, le aveva fatto male. Tuttavia aveva deciso di non mostrarsi ferita, di non mostrarsi ostile, e rispettare la promessa che aveva fatto a lui e a sé stessa: l’avrebbe sostenuto in tutto ciò che lo avrebbe reso felice. Abituarsi a non averlo sempre intorno, anche a scuola, sarebbe stato difficile e forse non si sarebbe mai abituata. Comunque, il villaggio di Flindrikin si era rivelato un buon compromesso, il loro compromesso. Era stato lui ad insegnarle ad essere più coraggiosa, a tirar fuori qualcosa che non sapeva di possedere. Ed era questo qualcosa che l’aveva spinta, un giorno, a sedersi alla scrivania e a scrivere una lettera, una lettera che aveva Benjamin Bellow come destinatario. La prima era stata la più difficile da spedire, ma quando lui le aveva risposto, scrivere le era risultato alquanto più semplice. Ed era così che era iniziata la loro corrispondenza epistolare, parlando del più e del meno, raccontandosi di come avevano passato la giornata, scambiandosi quelle frivolezza di cui Wednesday aveva bisogno per soffrire un po’ meno tutto ciò che le stava accadendo intorno. Non avrebbe saputo dire come fossero arrivati al punto di decidere di vedersi. Dopo quello che era successo, l’idea di ritrovarsi era un pensiero che le faceva accartocciare lo stomaco come quei fogli di carta che aveva gettato via. Aveva preso fiato e gli aveva dato appuntamento alla piccola pasticceria che si trovava in Trinity Place. In qualche modo, parlare davanti ad una tazza di thè sembrava tranquillizzarla. [...]
    «Mortimer, Wednesday Allegra.» La guardia incaricata di controllarle i documenti si sporse leggermente in avanti sulla scrivania, come se volesse guardarla meglio. Sembrava lievemente divertito da qualcosa che la Corvonero non riusciva a mettere a fuoco. Aveva un angolo della bocca leggermente sollevato che gli donava un’aria davvero stupida e spavalda. Restò in quella posizione per alcuni secondi, guardandola dal basso attraverso gli occhiali dalle lenti spesse che gli erano scivolati leggermente giù, sul naso affilato, forse con il solo scopo di intimorire la ragazzina che se ne stava in piedi davanti a lui. Wednesday pensò che dovesse essere stato uno degli ultimi della classe al suo corso e che fosse stato piazzato lì con il solo scopo di tenerlo fuori dai piedi. Magari gli avevano falsamente venduto quel nuovo posto come una promozione ed era per questo che lui doveva essersi montato la testa. C’era persino una targa placcata da una patina dorata sulla sua scrivania, su cui era inciso un cognome italiano che Wednesday non avrebbe saputo come pronunciare. Guardando meglio quella targa sembrava essere stata dipinta due volte. Forse, precedentemente, c’era su scritto il nome di qualcun altro. «Motivo della visita?» scandì quelle parole una alla volta, senza interrompere il contatto visivo. Chissà, magari credeva che facendo così -prima o poi- un giorno sarebbe riuscito a sventare chissà quale piano terroristico. Patetico. «Personale.» Rimasero così, in quella situazione di stallo per alcuni secondi. Forse lui pensava che continuando a guardarla così alla fine avrebbe ceduto e gli avrebbe raccontato per filo e per segno il suo tremendo piano criminale. «Potrei riavere la mia bacchetta?» La Mortimer indicò l’oggetto sopra la scrivania al quale era appena stato fatto un incantesimo che l’avrebbe tracciata per tutto il periodo in cui sarebbe rimasta a Flindrikin. L’uomo tentennò per un po’, forse irritato dal fatto che la giovane stesse cercando di porre fine a quel loro ridicolo e obbligato incontro. Pochi secondi dopo si lasciò scivolare contro lo schienale della sedia, allungandole il documento e facendole un cenno col capo verso sinistra. «Fuori dai piedi, ragazzina.» [...]
    L’aria odorava di umidità. Alzando il naso verso l’alto, Wednesday poté notare il cielo abbuiarsi a causa di una nuvola scura di passaggio. Ricordava che da piccola i temporali la spaventavano, ma -paradossalmente- aveva sempre trovato qualcosa di affascinante nella pioggia. Nelle domeniche uggiose, mamma e papà radunavano sempre tutti in salotto ed ognuno si dedicava a qualcosa che amava fare. A sua sorella Thursday piaceva fare i puzzle e Weedy le si sedeva accanto, sul pavimento, con un libro tra le mani. Non era insolito che, tra una pagina e l’altra, incastrasse un pezzo da qualche parte. Aveva sempre dato per scontati certi momenti, illudendosi che non sarebbero finiti mai, senza riflettere sul fatto che diventare grandi significava in un certo senso, inevitabilmente, lasciare il nido. Le occasioni per stare tutti insieme, come una volta, sarebbero diminuite drasticamente. Ci sarebbero riusciti per le feste e forse per qualche altra occasione. Eppure Wednesday non si sentiva pronta. Aveva passato la vita concentrandosi sullo studio, guardando al domani per tutto ciò che faceva. Costruirsi una vita professionale adeguata era tutto ciò che le importava, l’unica cosa di cui le importava fino a poco tempo prima. Ma non si era mai soffermata a pensare che quella situazione familiare sarebbe inevitabilmente cambiata.
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    Non per colpa di nessuno, semplicemente del tempo. Un tempo che lei avrebbe voluto fermare, imprimendolo su di una tela come un prezioso quadro bucolico da poter osservare quando voleva. Ma, sorprendentemente, seppur facesse fatica ad ammetterlo, anche a lei tutto quello cominciava a starle stretto. Era un desiderio profondo, primitivo, adolescenziale. Qualcosa dentro di lei scalpitava per emergere, qualcosa che Wednesday cercava inutilmente di tenere a freno. La ex Corvonero entrò nella piccola pasticceria. Aprendo la porta il campanellino posto sopra l’entrata trillò, rivelando la sua presenza. Wednesday domandò alla giovane dietro il bancone dove potesse sedersi e lei le indicò un tavolino accanto alla vetrata, adiacente alla porta. Sfilò la borsa, poggiando la sottile tracolla di cuoio sulla sedia, ed infine si sedette. A quel punto il tempo cominciò beffardamente a scorrere in modo più lento. I secondi sembravano non passare mai. Se, solitamente, Wednesday era sempre capace di mostrarsi sicura di sé in qualsiasi situazione, dubitava di essere in grado di farlo, stavolta. Aveva riflettuto molto su tutta quella situazione, forse più di quanto avrebbe dovuto fare. Lanciò uno sguardo aldilà della vetrata alla sua destra. Ben dritta sulla schiena, Wednesday attese.


     
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