Birra Pong!

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    Il telefono vibrò all’interno della tasca posteriore dei jeans. Abbandonò lo strofinaccio sul bancone, tirando fuori il cellulare e premendo sullo schermo l’icona che segnalava la presenza di un messaggio da leggere. Era Chris. A quanto pareva si era beccato l’influenza e quella sera sarebbe rimasto a casa. Ed eccone un altro che si univa al rifiuto già ricevuto da Liz che doveva lavorare fino a tardi e di Josh che aveva finalmente trovato il coraggio di invitare a bere qualcosa il commesso di quel negozio di calzini dove trascinava sempre Lexie. Sbuffò scuotendo appena la testa nel leggere il resto del messaggio, quello in cui Chris le suggeriva di chiedere ad Allison che probabilmente quella sera non aveva nulla da fare. Digitò “Sei un coglione” e schiacciò “invio” per poi rimettere il telefono al suo posto. Forse, arrivata a quel punto, avrebbe dovuto scrivere a Susan ed avvisarla che neppure lei sarebbe più andata. Susan era una sua ex collega che aveva trovato lavoro come barista all' "Oyster", quel locale che aveva aperto immediatamente fuori Hogsmeade. Susan le era sempre stata simpatica e aveva persino trovato divertente quel siparietto in cui le aveva dato il vero numero di Adam e lei si era calata nel ruolo della stalker perfetta. Sembrava passata un’eternità da allora. Ma sì, sarebbe passata, si disse continuando a pulire il bancone. Solo una bevuta, avrebbe salutato Susan e sarebbe andata via. Dentro e fuori, come durante un colpo ben programmato. E poi erano diversi giorni che subito dopo il lavoro se ne tornava a casa. Non avrebbe neppure saputo spiegare cosa le era successo. Forse, semplicemente, aveva bisogno di una pausa. Una pausa da tutto, una pausa da sé stessa. Dopo la chiacchierata con Adam al parco si sentiva strana, diversa. Eppure era sempre la stessa, eppure lo specchio le propinava la stessa faccia di sempre. C’era come un tarlo nella sua testa, qualcosa che scavava nella sua mente sempre più in profondità. Scavava e grattava, allontanandola spesso dalla realtà. Non erano rare le volte in cui agiva per inerzia, per conoscenza tattile, percorrendo una strada o preparando qualcosa senza neppure ricordarsi come aveva fatto. Quando accadeva cercava di non pensarci troppo, dicendosi che doveva solo riposare un po’ e tutto sarebbe tornato come prima. Ammettere che dentro di lei si stava muovendo qualcosa, qualcosa che credeva sepolto ormai da un pezzo, qualcosa di cui pensava di non avere bisogno, era un passo ancora troppo grande per lei. Non si poteva chiedere di correre una maratona a qualcuno che aveva appena imparato a camminare. Mancavano pochi minuti alle ventuno. Jeremy si era proposto di fare lui chiusura e Lexie aveva accettato senza troppe cerimonie. La verità era che poco prima aveva fatto il suo ingresso il solito tipo che si sedeva da solo nel tavolo all’angolo, ordinava un caffè lungo e se ne stava lì per una mezz’ora a leggere un libro sempre diverso. Non le era sfuggito come Jeremy riuscisse sempre ad arrivare primo per prendergli la comanda. Erano da poco passate le 21 quando Lexie lasciò il posto di lavoro avvolta nel cappotto forse troppo leggero. Le sue guance si arrossarono immediatamente, diventando di un pungente colore rosso acceso, così come la punta del suo naso. Infilò le mani nelle tasche, sperando di trovare un po’ di sollievo. Le strade di Hogsmeade brulicavano di giovani che si spostavano in branco, come api, e di coppiette che camminavano tenendosi per mano, parlando una lingua che conoscevano solo loro. Dalle vetrine dei negozi erano sparite le luci colorate di Natale, ritornando anonime come un tempo. Non nevicava da un paio di giorni ma tutto era ancora ricoperto di bianco. Da piccola Alexandra impazziva per la neve. Quando guardava fuori dalla finestra e vedeva giganteschi fiocchi cadere dal cielo, indossava la prima cosa che le capitava ed usciva in giardino a giocare per ore. Spesso non erano abiti appropriati e quando tornava in casa aveva la pelle arrossata e gelida anche sotto i vestiti. Improvvisava battaglie di neve, costruiva fortini e pupazzi ai quali non dimenticava mai di mettere sciarpa e berretto ed ogni volta suo padre doveva usare tutta la sua forza di volontà per convincerla a rientrare. Spesso e volentieri doveva caricarsela in spalla cercando di essere bravo ed evitare i pugni e i calci che la bambina tirava alla cieca. Sbatté le palpebre, come per svegliarsi da un sogno ad occhi aperti, per poi infilarsi una sigaretta tra le labbra ed accenderla. La musica che davano dentro il locale si poteva sentire anche senza varcare l’ingresso dell' "Oyster". Giungeva ovattata, i bassi sembravano rimbombarle nello stomaco. Gettò la sigaretta e varcò la porta. Nonostante la luce soffusa, una marea di colori le esplose davanti agli occhi. Al centro della stanza alcuni macchinari proiettavano luci di sfumature diverse. La musica le riempì la testa e il tepore l’avvolse facendole percepire nuovamente la punta delle dita. Si sfilò il cappotto lasciandolo nell’appendiabiti tra una marmaglia di altri cappotti ammassati che con molta probabilità non avrebbero mai ritrovato il vero proprietario. Lanciò un’occhiata verso il punto in cui si trovava il bancone, ma il muro di persone le impedì la visuale. Si infilò tra la folla che si muoveva al ritmo di una canzone di cui Lexie non ricordava il titolo. Qualcuno le fece un cenno di saluto con la testa e lei ricambiò. Ricordava le facce come dei flash, come se appartenessero ad un sogno, facce di cui conosceva a malapena la fisionomia, facce senza nome. Scivolava tra la calca, trovando con facilità un passaggio fino al bancone, lì dove scorse Susan impegnata a preparare due cocktail ad una coppia di ragazze che parlottava animatamente davanti a lei. «Prendo quello che ha preso la signorina, grazie.» Si sporse sopra il bancone, tamburellando le dita sulla lastra marmorizzata resa a tratti appiccicosa dalle gocce di cocktail versatici sopra. Rivolse un occhiolino a Susan nel momento in cui la giovane barista posò lo sguardo su di lei.
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    Questa squittì, allargando un sorriso sul volto. «Sei venuta!» Lexie si strinse nelle spalle e sorrise. «Allora, serata interessante?» Susan annuì, consegnando i due cocktail alle ragazze che si voltarono, immergendosi nella folla. «Non mi aspettavo così tanta gente, ad essere sincera. Ma devo dire che le mance sono piuttosto buone..» Susan afferrò un bicchiere ed iniziò a versarci dentro della vodka. Lexie infilò la mano nella tasca dei jeans, ma la giovane aldilà del bancone le lanciò un’occhiataccia. «Non ci provare neanche. Questo lo offro io.» Le porse il vodka lemon nel quale aveva infilato una cannuccia. Avrebbe detto qualcos’altro, ma una massa di giovani sghignazzanti e palesemente oltre il limite della sobrietà si fiondò davanti a Susan cominciando ad ordinare sguaiatamente chi questo chi quell’altro cocktail. «Faccio un giro, Suz. Ci rivediamo tra poco.» Riuscì ad intravedere Susan che le annuiva come risposta, prima che il bancone venisse preso d’assalto da un gruppo di giovani donne urlanti. Una di loro aveva un velo da sposa e una fascia sulla quale era scritto qualcosa in rosa. Bevve un sorso del drink, facendo scorrere lo sguardo sulla folla. Fu a quel punto che vide un viso familiare. Non la conosceva di persona, forse addirittura non l’aveva mai incontrata, ma le era stato impossibile non notare la sua faccia nei giornaletti di gossip. La verità era che prima aveva visto qualcun altro, poi lei al suo fianco. Erano stati fotografati insieme diverse volte e i giornalisti di quelle sciocche riviste sembravano già parlare di fiori d’arancio all’orizzonte. E quindi era lei. Lei era la nuova fiamma di Caél Bastardo Cousland. Avrebbe mentito se avesse detto che provava ancora interesse per il giovane imprenditore. Sì, era stato probabilmente il primo per cui aveva provato qualcosa di leggermente più profondo, ma era acqua passata ormai. Ciò che non le era andato giù, quel boccone amaro che percepiva ancora ogni volta che ci pensava, era con quanta facilità fosse stata scaricata. Le ci era voluto un po’ per riprendersi, qualche sbronza seguita da pianti inconsolabili in compagnia di una canzone dannatamente triste. Virginia aveva avuto ragione: doveva solo buttare tutto fuori e poi, un po’ alla volta, sarebbe rinata. E lo aveva fatto davvero: rinascere, ma senza dimenticare di portarsi dietro una bella dose di odio nei confronti del giovane Cousland. «Le regole sono semplici: ognuno dispone di sei bicchieri ed una pallina. Vince chi fa centro in tutti i bicchieri dell’avversario. In premio stasera disporrete di un braccialetto che vi farà avere gratis tutto quello che volete dal bar.» Fu solo allora che si accorse di essersi mossa trasportata dalla folla, senza badare a dove stesse veramente andando e fu così che si trovò attorno ad un tavolo dove erano stati sistemati in forma piramidale dei bicchieri, una piramide per i due lati opposti del tavolo. Un tipo si era fatto spazio nel centro della folla e spiegava le regole ai novizi del gioco. «Su, non siate timidi! Si facciano avanti i primi due!» Sembrava quasi scocciato del fatto che nessuno si stesse proponendo. «Ma sì, tipo.. Tu!» e fu a quel punto che l’avvicinò a sé, mettendole un braccio intorno alle spalle. Era lei. La bionda con Cousland. «Ti va una bella partita? Ma certo che ti va! Un bell’applauso!!» Non le diede neppure il tempo di rispondere. Un boato entusiasta si alzò dalla folla. «E chi sfiderà.. Come hai detto che ti chiami?» No, Lexie. E’ una pessima idea. «Zelda! Chi sfiderà la nostra Zelda, signori e signore?» Zelda. Allora era così che si chiamava. Non osare. «Suu, forza gente. In palio c’è un premio unico questa sera!» Non si era detto una bevuta e poi a letto? Prima che se ne rendesse conto la sua mano si alzò da sola. Si fece avanti, bevendo un altro sorso del suo drink. «Io. La sfido io.»

     
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