we've not yet lost all our graces

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    « … in queste condizioni. E invece di fare qualcosa per sistemare la questione, ecco di cosa si occupa l’opinione pubblica! » Il tono di voce più seccato del solito del vecchio Gaius spinse Freya a sollevare lo sguardo dai boccali di birra che stava riempiendo. Non era certo una sorpresa che il mago, uno storico residente di Hosgmeade di età imprecisata per cui il tempo sembrava essersi fermato, avesse qualcosa da ridire su chiunque e qualunque cosa; indipendentemente dall’argomento, Gaius McGinty aveva un’opinione e, come gli abituali avventori della Testa di Porco ben sapevano, l’avrebbe condivisa con qualunque persona che – volente o nolente – gli fosse capitata a portata di orecchio. Scuotendo la testa con aria di disapprovazione, l’uomo colpì la prima pagina della Gazzetta del Profeta, borbottando qualcosa sottovoce. « Criminiali. Nient’altro che criminali. » Freya si trattenne a stento dal roteare gli occhi al cielo; visti gli ultimi avvenimenti, un simile commento avrebbe dovuto essere tutt’altro che divertente ma, ormai avvezza alla teatralità dell’uomo, non poteva fare a meno di provare un minimo di ilarità nei confronti di una scenetta quotidiana in cui, di giorno in giorno, l’unico cambiamento era rappresentato dall’origine di tanto livore: gli studenti di Hogwarts, gli Warlock, l’aumento del prezzo dell’acquavite e i reumatismi erano solo alcune delle innumerevoli piaghe esistenziali di cui era stata resa partecipe nel corso della mattinata. « Mhh, non sembra avere l’aria di un assassino. Con quella faccia sembra più uno di quei fantocci del Ministero. » L’ennesimo cliente abituale, costantemente in disaccordo col vecchio McGinty, si era sporto ad osservare l’articolo, meditabondo. « Certo che no! » McGinty scosse il capo con disprezzo, colpendo con forza il malandato bancone di legno. « Credimi, quelli con la faccia pulita sono i peggiori. Li crescono nella bambagia, pieni di soldi e senza alcuna responsabilità. Si credono intoccabili. » Scolò con ingordigia l’ultimo sorso di birra e sbatté il boccale sul tavolo, mancando di pochi millimetri la mano del compagno. « HEY! » Prima ancora che l’uomo potesse reagire, Freya si avvicinò rapidamente, togliendo i boccali vuoti dalle mani di entrambi. Ci manca solo che se li tirino addosso e non avremo più un boccale privo di ammaccature. « Signori! » Cinguettò, rivolgendo loro il più dolce dei suoi sorrisi. « Temo che per stasera abbiate bevuto abbastanza. » McGinty fece per aprir bocca ma la Corvonero lo anticipò, rivolgendogli un piccolo buffetto sul naso. « Ssssh, Gaius! Non vorrai mica costringermi a chiamare Jones per farti accompagnare a casa; oppure dovrei mandare un gufo a Diane? » Per quanto sottile, l’accenno al buttafuori della Testa di Porco – un uomo sulla trentina, alto e nerboruto da far invidia ad un mezzo-gigante – e l’ancor più terrificante menzione della moglie, furono un deterrente immediato: McGinty si raddrizzò sullo sgabello, improvvisamente quieto. Proprio come pensavo. Un sorrisetto divertito si stirò sulle labbra di Freya mentre incrociava lo sguardo di Mike, intento a pulire un tavolo poco distante. « Ti ringrazio. Domani la prima birra la offro io. » Promise, con un rapido occhiolino, sfilandogli di mano la copia del giornale per scongiurare ulteriori dibattiti. Incuriosita, abbassò lo sguardo sull’articolo di copertina e, d’un tratto, si ritrovò a fissare il viso pallido e tirato di Thomas Montgomery; istintivamente, le iridi chiare corsero al titolo che svettava in cima alla pagina: Sentenza Montgomery: ad Azkaban, possibiltà di appello. La confusione all’interno del locale sciamò in un fastidioso ronzio di sottofondo, accompagnato dalla sensazione di avere lo stomaco attanagliato in una morsa quasi dolorosa. « M-mike » Chiamò, con voce roca; aveva iniziato a respirare più rapidamente, senza nemmeno accorgersene. « vado in pausa! » Gettò bruscamente il giornale nel cestino e si avviò verso l’uscita laterale del locale, appoggiandosi al muro di mattoni scrostati; rapide, le mani pallide e tremanti corsero alla tasca posteriore dei jeans, ripescando un piccolo sacchettino di plastica trasparente. Non senza difficoltà, versò parte della polvere bianca sul dorso della mano ed inspirò. Il bruciore all’interno della cavità nasale fu una distrazione transitoria, ben presto trasformata in effimera assoluzione: nel giro di pochi secondi, la foto di Thomas Montgomery sparì dai suoi pensieri – e con lui il senso di colpa.

    Il viaggio verso Azkaban non fu né breve, né piacevole; più il traghetto si allontanava dalla terraferma, più il cielo si scuriva, ricoperto grossi nuvoloni grigi e carichi di piogga. Non che Freya si fosse aspettata qualcosa di diverso. Anche se non aveva mai raggiunto i confini della prigione, le testimonianze di coloro che vi avevano soggiornato – o meglio, dei pochi ancora in grado di fornirne una lucida descrizione – erano abbastanza vivide da fornirne un resoconto accurato; nonostante ciò, la realtà era ancor più spaventosa. Da lontano, Azkaban si stagliava come una fortezza, le cui mura triangolari sembravano emergere direttamente dalle profondità dell'oceano, come un sinistro monolito in mezzo alle onde tumultuose. Costruita con pietra grigia e spoglia, evocava una sensazione di disperazione e oscurità, come se ogni mattone fosse stato posto lì con il solo scopo di imprigionarvi l'anima di coloro che osavano varcarne la soglia. Un’onda più violenta delle precedenti si abbattè contro la sponda della nave e Freya si aggrappò alla balaustra del traghetto, strizzando gli occhi per ripararsi dalla pioggia. Ogni singolo centimetro della sua cute era ricoperta da pelle d’oca, come se il suo stesso corpo le stesse urlando di scappare. È troppo tardi per tornare indietro. Lo era da almeno due anni – dal momento in cui le porte di Azkaban si erano chiuse alle spalle di Thomas. « Si tenga forte, Miss. Stiamo per approdare. » La voce del comandante venne quasi inghiottita dal vento mentre, spingendo con forza il timone, indirizzava il traghetto contro il molo di legno scuro e scivoloso. Stretta nel mantello, avanzò rapidamente fino all’entrata, rivolgendo un rapido cenno di saluto ad una delle guardie. All’interno, l’odore di alghe e salsedine era più mite; sebbene l’ambiente fosse tutt’altro che accogliente, Freya provò un barlume di sollievo nel non trovarsi più alla mercé del vento urlante che le sibilava nelle orecchie e la pioggia che le inzuppava i capelli. Un secondino la accompagnò fino alla portineria, dove una seconda guardia le intimò di firmare il registro e prese in consegna i suoi pochi affetti personali. « Potrà ritirarli al ritorno. Prosegua a destra, Hawkins la accompagnerà alla sala adibita ai colloqui. » L’uomo le scoccò un’ultima occhiata, a metà tra il morboso e l’incuriosito. « Il contatto fisico è vietato e, per la sua incolumità, le suggerisco di non dare troppa confidenza ai detenuti. » Nel pronunciare quell’ultima frase, fece cenno ad un collega – Hawkins, probabilmente – di affrettarsi ad aprire l’ennesimo cancello. All’interno del labirinto della prigione, perse ben presto il senso dell’orientamento; i corridoi erano tutti uguali, bui e fiocamente illuminati da candele poste sin troppo in alto lungo le tetre pareti di pietra gelida. Infine, dopo aver attraversato un numero non ben precisato di cancelli, Hawkins spalancò la porta di un’ampia stanza circolare. All’interno, pochi visitatori erano accomodati a coppie in diversi tavoli di legno scuro e malandato; appoggiate alle pareti, alcune guardie controllavano la sala. « Aspetti qui. » Richiudendo la porta con un rumore metallico, Hawkins sparì nell’ombra. Freya tentennò, guardandosi rapidamente intorno con aria guardinga prima di sistemarsi nel tavolo vicino all’uscita, le spalle rivolte verso il muro. Intrecciò le dita sul tavolo, fissandole senza realmente vederle. Quando aveva deciso di recarsi ad Azkaban, lo aveva fatto d’istinto. Era stata una decisione improvvisa, profondamente emotiva e completamente priva di logica. Si era tormentata per giorni al riguardo, in bilico tra ciò che era prudente e ciò che era onesto. Era stata persino tentata di chiamare Eren, ma conosceva il fratello abbastanza bene da sapere quale sarebbe stata la sua reazione se lo avesse messo al corrente di quanto era accaduto e di come, la sua sola testimonianza, avrebbe potuto rovesciare la sentenza di Thomas. È un’idea del cazzo, Freya. Pensi davvero che Montgomery farebbe lo stesso, per te? Loro non sono come noi. Loro cadono sempre in piedi. Non infognarti in quella merda. La voce di Eren nei suoi pensieri venne bruscamente cancellata dal gemito stridulo del chiavistello di ferro. Freya alzò il capo di
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    scatto, mentre il cuore iniziava a battere rapidamente, talmente in fretta da rendere assordante il rumore del sangue che le circolava nelle tempie. Si sentiva inquieta, spaventata e – soprattutto - colpevole. Per una frazione di secondo, gli occhi chiari perlustrarono la stanza, alla spasmodica ricerca di un luogo in cui nascondersi. Che idea del cazzo. Che grandissima idea del cazzo. Con i nervi a fior di pelle, si rialzò di scatto, urtando la sedia e facedone stridere i piedi sul pavimento, appena in tempo per scorgere il profilo di Thomas avvicinarsi nella penombra, accompagnato da Hawkins. « Hey. » Sussurrò, a voce talmente bassa da risultare quasi inudibile. Strinse spasmodicamente le mani tra loro affondando le unghie nella carne tenera del palmo. Scioccamente, non aveva pensato a cosa dire – come spiegare la sua presenza ma, soprattutto, l’assenza che l’aveva preceduta. Dopo le notti trascorse a rigirarsi nel letto, sospesa in un sonno leggero ed inquieto, aveva ingenuamente pensato che fare la cosa giusta avrebbe espiato, o per lo meno alleviato, la sensazione di angoscia che le opprimeva il petto; ora che si trovava davanti a Tom, però, quel peso sembrava esser aumentato mille volte. Affondò i denti nel labbro inferiore e, stringendo le dita tra loro fino a farle sbiancare, sollevò infine lo sguardo lucido ad incontrare quello del Serpeverde. Mi dispiace. Quel contatto durò un istante; Freya si slanciò nella sua direzione, sollevandosi sulle punte per stringerlo in un abbraccio, quasi volesse sincerarsi che fosse vivo e non il fantasma del giovane che ricordava. « Niente contatto! » La voce di Hawkins rimbombò nella stanza, facendola sobbalzare, e Freya si allonatanò di un paio di passi. « Per una visita coniugale ci vuole un certificato di matrimonio, perciò vedete di tenere le mani dove posso vederle. A meno che non vogliate cimentarvi in uno show dal vivo. » La Corvonero tirò le maniche umide del cardigan a coprirle i pugni, tirando la stoffa fino a danneggiarne l'elasticità - una brutta abitudine che si portava dietro fin dall'infanzia, ogni qualvolta si sentiva schiacciare dalla pressione. Deglutì e fece un cenno impacciato in direzione del tavolo, accomodandosi sulla sedia. Non sapeva cosa dire, ma sapeva di dover essere la prima a rompere il silenzio. Almeno questo, te lo devo.. « Mi dispiace di non essere venuta prima. » Pronunciò le parole senza guardarlo, gli occhi fissi sul tavolo. « Sono tornata in Inghilterra solo poco prima del... del casino di Hogwarts. Per un po' non ho potuto lasciare Hogsmeade e - » E tu non hai chiesto il mio aiuto. Perché non lo hai fatto? Si era posta quella domanda innumerevoli volte da quando aveva saputo della sentenza, nel profondo spaventata dalla risposta. Sapevi che non sarei venuta? Si strinse nelle spalle, le labbra tremanti. « Ho visto l'articolo sul Profeta. Dicono che sono disposti a riaprire il processo. » Prese a tamburellare con il dito indice sul legno logoro, schiudendo le labbra alla ricerca di qualcosa da dire. D'un tratto, si sentiva schiacciare tra i sensi di colpa e l'assoluta apatia, come se tutto ciò che stava accadendo non fosse altro che frutto della sua fantasia. Era sempre stata brava ad estraniarsi, ad allontanarsi dalle conseguenze delle proprie azioni sino a dimenticarle - tuttavia, in quel momento era impossibile girarsi dall'altra parte. Sollevò appena lo sguardo, senza riuscire ad andare oltre il profilo della sua mascella. Era più magro di quanto ricordasse, incredibilmente pallido. « Come stai? » Domandò infine, interrompendo quel primo filo di pensieri, nell'impacciato tentativo di guadagnare un po' di respiro.


    Chiedo venia per questo aborto di post, mi farò perdonare giuro.
     
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    «Dove? Dove cazzo sta? Trovatelo immediatamente, volete che vi faccia lo spelling, Cristo santo?» Il corpo di sicurezza annuì all'unisono, come fosse comandati da remoto da un telecomando che lo azionasse contemporaneamente. Si dispersero, ognuno in direzioni diverse, facendosi strada tra i tavoli imbanditi e gli invitati ubriachi del vino che Mitchum Montgomery aveva personalmente offerto agli invitati al matrimonio della figlia. Il castello di Dunrobin era stato gentilmente concesso come sede del sontuoso ricevimento di quella sera dalla contessa di Sutherland in persona, in nome del rapporto di amicizia che legava il clan alla famiglia Montgomery, e Missy non mancava di ricordarlo ai presenti assieme a sua madre; Tom, dal canto suo, si era detto che, fosse stato in lei, avrebbe serenamente mentito e raccontato a chiunque fosse dotato di orecchie di essere il legittimo proprietario della fortezza – tanto, già che ci sei. Non ci volle molto prima che i bodyguard del padre di Tom Montgomery individuassero l'erede della fortuna familiare seduto su uno dei divani in velluto scuro, nella biblioteca del castello. Chiaramente non era da solo. «Sì, sì, ho capito, arrivo» bofonchiò, prima di finire di inalare la striscia di polvere bianca che aveva accuratamente disposto sul retro di un centrotavola di cristallo. Tirò su col naso un paio di volte, piegando la bocca in una smorfia, prima di premere con l'indice sul vetro e catturare gli ultimi granelli rimasti. «Signorino Montgomery, deve venire con noi immediatamente, suo padre è stato molto chiaro.» Thomas infilò in bocca il dito coperto di polvere, chiudendo appena gli occhi, e lasciando correre la lingua sulle gengive. «Mh, mh» annuì piano, prima di schioccare la lingua. «Bo-hoo, party pooper» si lamentò una delle ragazze sedute accanto a lui. Non c'erano più di quattro o cinque persone, nella biblioteca, la musica proveniente dalla sala principale che arrivava ovattata, e ancor di più veniva filtrata dalle orecchie stordite di un Thomas decisamente troppo fatto per poter pensare di dover avere una conversazione con il patriarca. «Torno subito» la rassicurò lui, poggiando per qualche istante la mano sul suo ginocchio e stringendo appena. Il paparino ordina, tu obbedisci.
    «Dove cazzo eri finito?» Tom richiuse le pesanti porte dello studio della contessa di Sutherland dietro di sé, roteando gli occhi al cielo e trattenendo l'istinto di rispondere al padre che poteva anche, serenamente, farsi i cazzi propri. «Controllavo le cucine, che il servizio filasse liscio, tutto sotto controllo, hanno avuto un problema con il branzino ma Gil ha risolto subito, vecchia volpe» «Non sono dell'umore per le tue stronzate, Tom, e presto non lo sarai neanche tu.» Oh-oh. My Spidey-senses are tingling. Non era mai dell'umore per il suo sarcasmo, Mitchum, ma il figlio non potè che corrugare appena la fronte quando alzò finalmente lo sguardo e lo poggiò sul viso del padre. Sembrava più che arrabbiato, più che deluso, insomma non lo guardava come faceva tipicamente: era... spaventato? «Beh, allora? Cos'è questa suspance?» Il padre sospirò sonoramente, passandosi una mano pesante sul viso rugoso, che appariva particolarmente provato. Tom si sedette, l'espressione sempre più confusa che non sapeva mascherare, e si schiarì la gola per riempire il silenzio che suo padre non sembrava determinato a interrompere. «C'è un mandato d'arresto per te, Tom, se non ti consegni entro stasera. Mi ha chiamato Greengrass, che l'ha sentito da un collega del Wizengamot. Gli ho chiesto la cortesia di non farlo al matrimonio di tua sorella, creerebbe uno scandalo senza precedenti per la New Writing.» Ah, certo, cattiva pubblicità, il crollo delle azioni, bla, bla, bla. Tom cambiò posizione sulla sedia, prima di stringersi nelle spalle. Fece uno sforzo per tenere gli occhi ben aperti e dissimulare quanto poco fosse presente a se stesso, in quel momento, la mente che ragionava in modo rallentato, senza trovare spiegazione per tutta quella preoccupazione. «E quindi? Mi faranno altre domande, risponderò come ho già fatto, e mi lasceranno andare.» Una pausa, lo sguardo che cercava quello di Mitchum, che gli dava le spalle.
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    «No?» «Hanno la bacchetta.» Tom sbuffò in una risatina, scuotendo la testa mentre si passava la lingua sulle labbra. «Quale bacchetta, pa'? Di che stiamo parlando?» «Dobbiamo contenere quanto più possibile lo spargimento di questa notizia. Sui giornali abbiamo controllo, non c'è problema, ma il problema sono le reti indipendenti e la Wiz–» «Ma chi cazzo è questo?» «Paul Chapman, responsabile PR e pubblicità» «Ma che cazzo me ne fotte, perché sta qui questo?» Mitchum continuava a rivolgergli le spalle, il che continuava a snervarlo. «Mi spieghi qualcosa, cazzo?» Il padre sospirò sonoramente, ancora una volta, prima di voltarsi e scuotere la testa. «Dio mio, non credevo fossi rincoglionito fino a questo punto. Ti arrestano Tom, perché hanno le prove per procedere ad un'imputazione. Hanno la bacchetta che hai – che hanno usato quella sera.» «Ma questo non ha senso. Sarà un falso, un duplicato, la mia bacchetta l'ho fatta appositamente distruggere» «Non c'è tempo per pensare a come, se, e ma, lo capisci? Riesci a ragionare per cinque cazzo di minuti o hai il cervello troppo fottuto per capire costa sta succedendo?» Tom serrò la mascella, deglutì, il sangue che gli saliva vorticosamente alla testa al punto di sentire il battito del suo cuore rimbombare nelle orecchie. «Io posso provare ad aiutarti. Ma tu devi sapere che se vai a picco ci andiamo tutti: io, tua madre, l'intera cazzo di baracca. Non possiamo permetterci uno scandalo del genere.» Tom trattenne una risata isterica. Che stronzo. «Per cui, pensa bene, sforzati: esiste qualcosa o qualcuno al mondo che può costituire una controprova sufficientemente salda da scagionarti, Thomas?» «Non... Non mi viene in mente... Io non... Non sono stato io, non è colpa mia» Balbettò, la voce pericolosamente rotta, adesso evitando lo sguardo del padre, che gli si faceva più vicino. «Questo potrebbe essere il momento che definisce il resto della tua vita, Tom. Divorerebbe tutto. “Ragazzo ricco uccide una babbana”: non sarai mai nient'altro che questo.» Una singola lacrima, scacciata via con forza. «O potrebbe essere ciò che dovrebbe essere: un incidente, un caso di persona nel posto sbagliato al momento sbagliato. Pensa, Tom.»

    Oggi
    «Hey.» Freya aveva scelto una giornata no. L'ultima visita di Nate era stata seguita da un silenzio assordante. Sulla Gazzetta si parlava già di possibilità di riaprire il processo e lui non ne sapeva niente. Lo faceva sentire sull'orlo della pazzia, quello starsene rinchiuso senza avere notizie di ciò che sarebbe stato della sua vita. In stanze lontane da lì la gente si riuniva per parlare di lui, il suo nome sulla bocca di tutti e ora addirittura di nuovo su uno dei giornali di suo padre, per altro, e lui fermo, escluso, all'oscuro. Ma sapeva di dover mantenere la calma, tenere la testa bassa, riuscire a trovare la forza per continuare a limitarsi ad aspettare. Ogni tentativo di quieta meditazione, tuttavia, era stato facilmente infranto dalla voce atona dell'Auror che aveva battuto la propria bacchetta contro il ferro delle sbarre della cella di Tom. «Altra visita, sei popolare, Montgomery. Una biondina niente male, stavolta» era stato sufficiente per destare la sua attenzione. E così adesso che se la ritrovava di fronte, la divisa da detenuto che gli stringeva sul corpo trasformato da due anni di regolare e severo esercizio fisico, Thomas si limitò a guardare Freya per qualche secondo, senza parlare, in attesa che lei ricambiasse il suo sguardo. Sbuffò in una risatina quando cercò di abbracciarlo, e indietreggiò di un passo, non volendo infrangere alcuna regola. Ci teneva molto, a rigare dritto. «Sono contento di vederti» le disse sincero mentre seguiva il cenno di sedersi. Come di riflesso, aspettò che lo facesse prima lei, per poi prendere posto dal capo opposto del tavolo. Non la vedeva da almeno cinque anni. Faticava a distogliere lo sguardo da lei, la sincera curiosità di che cosa l'avesse spinta a venire adesso, i ricordi di quel breve lasso di tempo che avevano trascorso insieme che cominciavano a risvegliarsi. «Mi dispiace di non essere venuta prima. Sono tornata in Inghilterra solo poco prima del... del
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    casino di Hogwarts. Per un po' non ho potuto lasciare Hogsmeade e –»
    «Non serve che ti giustifichi, Freya. Non so se io sarei venuto a trovarti se i ruoli fossero stati inversi.» Disse, un po' provocatorio, piegando un angolo della bocca in un mezzo sorriso. In fondo non avevano condiviso così tanto, loro due. Si era sempre trovato bene con Freya, ora cominciava a ricordare bene le lunghe chiacchierate all'adiaccio, sotto il cielo stellato, separati dal mondo esterno da un Protego Totalum castato alla bell'e meglio. Avevano passato bei momenti insieme, ma in fondo il tempo che si erano dedicati era sempre stato limitato, e questo l'avevano saputo dal primo momento. Erano stati una parentesi l'uno per l'altra, quando si trovavano dall'altra parte dell'Atlantico a giocare a fare i criminali. Solo che poi uno dei due lo era diventato davvero. «Ho visto l'articolo sul Profeta. Dicono che sono disposti a riaprire il processo.» «È per questo che sei venuta?» Fece, espirando e cambiando posizione sulla sedia. Era inquisitivo, genuinamente curioso, oppure voleva soltanto sentirselo dire? «Bah, sto...» indicò lo spazio attorno a se con un movimento della testa. «...come si sta nel carcere di massima sicurezza per maghi, insomma. Come un pesce fuor d'acqua» Sorrise nuovamente. Irremovibilmente poco serio. Più di tutto, Tom cercava normalità. Starsene lì a parlare con una ragazza che era presente al momento del delitto di cui era accusato, dopo non averla vista per cinque anni e mezzo, poteva essere reso tollerabile soltanto da quell'atteggiamento disperatamente leggero. E se gli altri lo prendevano per coglione immaturo, Thomas sapeva che era l'unica cosa a tenerlo ancorato alla realtà. «Ti frequenti ancora con quel Kadmus?» la provocò, con un cenno del mento nella sua direzione e sollevando le sopracciglia. «In giro si dice che il MACUSA si sia accertata che lui e i suoi amici tengano la bocca chiusa assicurandosi che la mantengano ben impegnata, e non solo nel senso ambiguo dell'espressione.» Del resto tutti loro, tranne Freya, erano stati assoldati direttamente dal MACUSA per svolgere tutte quelle operazioni non proprio limpide e cristalline che si può lasciar compiere all'intelligence. Voci di corridoio parlavano di un accordo tra il Ministero inglese e il MACUSA, un'intesa volta a interrompere ulteriori ricerche sulle persone coinvolte nell'omicidio di Lilian Murphy per non ribaltare mattonelle che avrebbero fatto bene a lasciare dov'erano. Questa era l'idea che si erano fatti Tom e i suoi avvocati, ed era anche la più probabile. I nomi delle persone coinvolte negli eventi che lo vedevano considerato responsabile non erano mai venuti fuori, chissà perché. «Hanno contattato anche te? Ti hanno proposto qualche accordo per non farti parlare? Il Ministero americano sa che eri lì?» Del resto, non era esattamente tra di loro in veste ufficiale. Poggiò i gomiti sulla superficie dura del tavolo, sorreggendo la testa sui palmi aperti.
     
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    Quando aveva deciso di recarsi ad Azkaban, lo aveva fatto senza sapere cosa aspettarsi. In preda all’inquietudine, la sua mente aveva vagliato – consciamente e non – almeno un centinaio di diverse possibilità; razionali, improbabili, possibili e assurde al contempo. Infine, una volta entrata nella tetra stanza adibita alle visite, lo aveva fatto con la consapevolezza di dover affrontare, se non altro, la frustrazione che pensava sarebbe emerse dal giovane Montgomery. Tuttavia, Thomas non espresse nessun segno di rabbia o risentimento; semplicemente, si limitò a guardarla per qualche istante, senza proferire parola, aspettando che lei trovasse il coraggio di ricambiare il suo sguardo. Al contrario, se avesse alzato lo sguardo, Freya avrebbe notato che sembrava piuttosto incuriosito. «Sono contento di vederti» La Corvonero strinse appena le labbra, distendendo le braccia sul tavolo. « Sei uno dei pochi, allora. » Replicò, con l’accenno di una risata. Avrebbe dovuto essere una battuta, ma suonò più tetra di quanto avesse voluto. In genere, quella non era la reazione che la sua presenza suscitava nel prossimo; soprattutto, non quando si presentava alla porta di qualcuno, inaspettatamente, dopo mesi – o anni – di totale silenzio. Negli anni aveva imparato che la sua presenza raramente veniva accolta placidamente; in un modo o nell’altro scateneva sempre una reazione evidente, positiva o negativa che fosse. Ma, in fondo, il suo legame con Thomas non era poi così intenso. Tutto ciò che avevano condiviso era relegato al passato, lotano ed effimero, nient’altro che un superficiale bisogno di intimità e calore – se solo non fosse stato per quell’incidente. «Non serve che ti giustifichi, Freya. Non so se io sarei venuto a trovarti se i ruoli fossero stati inversi.» D’improvviso, gli occhi chiari della strega si sollevarono dalla superficie del tavolo, fissandosi in quelli di lui. Scosse appena il capo, lentamente, facendo ondeggiare i lunghi capelli biondi, ancora umidi a causa della pioggia. Pessima battuta. Quelle parole avrebbero dovuto farla sentire meglio eppure, per qualche strano motivo, alimentarono ancora di più il nodo che le stringeva lo stomaco. Ai tempi di Hogwatys, nessuno avrebbe mai immaginato un simile esito. Anzi, tra i due, quella che aveva apertamente dimostrato un certo talento per il crimine era sempre stata Freya. Trasgressioni e infrazioni di piccolo calibro, certo, ma che facilmente le avrebbero spianato la strada per trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Esattamente come Montgomery. « Immagino che nessuno si stupirebbe se ci fossi io, seduta qui dentro. » Replicò. con un filo di ironia, stringendosi nelle spalle. Non aveva viaggiato fino al luogo più spaventoso che avesse mai visto per dilungarsi in chiacchiere inutili, ma qualcosa nel modo di fare di Montgomery le suggerì che quel tipo di conversazione fosse esattamente ciò di cui aveva più bisogno. «È per questo che sei venuta?» Sì e no. Non so perché sono venuta, né se è stata una buona idea. Tenne quel pensiero per sé, annuendo. « Sei innocente. Non dovresti essere qui. » Per quanto fosse vero, la realtà era assai più complicata. Da quello che Freya aveva letto sui giornali, le prove nei confronti di Thomas erano poco chiare, ma numerose. E, a peggiorare il tutto, gli unici testimoni disposti a presenzionare in tribunale lo avevano indicato come il colpevole materiale dell’omicidio. Ricco Purosangue uccide una babbana indifesa. È sicuramente più semplice da dare in pasto all’opinione pubblica. Un giovane viziato è il perfetto agnello sacrificale, per cui non si può accusare il sistema. Era piuttosto lampante: far ricadere la colpa su Thomas avrebbe permesso al MACUSA di uscirne impeccabilmente pulito sotto tutti i punti di vista. Fece per aggiungere altro, ma Thomas la precedette. «Ti frequenti ancora con quel Kadmus?» Presa alla sprovvista, l’espressione di Freya si indurì. Kadmus non era mai stato un conoscente, tantomeno un amico; all’epoca in cui lo aveva conosciuto, aveva ingenuamente accettato di unirsi al loro gruppo unicamente perché l’uomo le aveva promesso informazioni circa I suoi genitori. Inutile dirlo, il tutto si era rivelato una menzogna. « No. » Il tono di voce risuonò secco, asciutto. Sebbene stesse cercando di non darlo a vedere, quei preamboli iniziavano ad infastidirla e le allusioni, non troppo mascherate, a cui Thomas aveva fatto riferimento la spinsero sulla difensiva. Non farò parte dell’élite, ma anche tra i poveracci c’è una netta differenza tra l’essere disgraziati e l’essere ripugnanti. In un altro contesto avrebbe perso la pazienza assai più rapidamente, sbottando probabilmente in una risposta velenosa. In quel momento, però, si limitò ad appoggiarsi nuovamente al muro di pietra gelida, le braccia incrociate al petto e lo sguardo chiaro fisso sul viso di Montgomery. Non sembrava più spaventata o a disagio – quelle emozioni erano improvvisamente svanite, sostuite da un barlume di irritazione. A dispetto del tono amichevole, Thomas aveva detto quelle parole appositamente per provocarla – o, forse, persino umiliarla - in una piccola vendetta personale. « [...] Il Ministero americano sa che eri lì?» Mantenendo la calma apparente, Freya fissò intensamente Thomas, cercando di nascondere l’irritazione. « Se così fosse dubito che sarei qui. Probabilmente sarei in qualche luogo soleggiato, al caldo, con un cocktail in mano. » Sollevò entrambe le sopracciglia, serafica. L'insinuazione su Kadmus e l'accusa velata che avesse accettato un accordo per tacere la verità erano un colpo basso. « E per rispondere al resto delle tue domande… No, non ho alcun rapporto con Kadmus. Non ce lo avevo prima e di certo non ce l’ho adesso. Non ho idea di cosa ne sia stato di lui da quando me ne sono andata – non mi è mai piaciuto, nemmeno quando ero costretta ad averci a che fare. » E tu questo lo sai. All’epoca, Kadmus le aveva offerto un generoso compenso per accompagnarli nel loro viaggio attraverso gli Stati Uniti. Soldi e informazioni, in cambio della sua mera presenza che, agli occhi esterni, li avrebbe resi meno sospetti e minacciosi. Nel mese trascorso con il gruppo di ghermidori, era stata spacciata come la figlia o la ragazza di qualcuno almeno un centinaio di volte, a seconda della necessità. Ma, rapporto lavorativo a parte, Freya si era sempre ben guardata da Kadmus. In qualche modo, la sua sola presenza era in grado di renderla inquieta a tal punto che, considerandolo il meno pericoloso tra i presenti, aveva ben presto iniziato ad accamparsi accanto a Thomas. « È per questo che non hai mai fatto il mio nome? » Domandò, dondolando pigramente un piede sotto al tavolo. « Pensavi avessi accettato un accordo per lasciarti marcire qui dentro? » Scosse il capo, soffocando una risata, bassa e amara. « È quasi comico, sai? » Lo fissò, accennando ad un sorriso tutt’altro che sincero. « Ho saputo del primo processo troppo tardi per poter essere d’aiuto in alcun modo. Merlino solo sa quanto mi sono sentita in colpa. Ogni volta che vedevo un articolo sul giornale mi veniva da vomitare. » Ridacchiò, tra sé e sé. Mi sono persino fatta un paio di strisce, per non pensarci. « E nel mentre, tu hai deciso super partes che mi hanno pagata per farmi stare in silenzio, e che ho accettato senza battere ciglio. » Che pezzo di stronzo. Si mordicchiò il labbro, lottando per controllare la sua risposta; razionalmente, riusciva a comprendere il punto di vista di Thomas ma, al tempo stesso, si sentì insultata. Si sporse leggermente verso di lui, lo sguardo freddo e distante. « Nessuno mi ha contattata, ma anche se lo avessero fatto non avrei accettato. Il fatto che sia disposta ad accettare denaro per altro, non significa che la mia morale è in vendita. Sappiamo entrambi che sono ben lontana dall’essere una persona moralmente ineccepibile, ma ciò non vuol dire che non sappia distinguere tra cosa è giusto e sbagliato. » Suo malgrado, le sue parole tradirono una sfumatura di indignazione e dispiacere. A dispetto del poco tempo trascorso assieme, non poteva credere che Thomas la vedesse in quel modo, come qualcuno disposto a scendere a compromessi per il proprio tornaconto. Il suo sguardo si irrigidì, fissando intensamente Thomas. « Io ero lì, Thomas. E sappiamo entrambi che non sei stato tu a uccidere quella
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    donna. »
    Sospirò, raddrizzandosi leggermente sulla sedia. Sembrava confusa, stanca di difendersi. Non è per questo che sono venuta. Aveva ancora una scelta da fare. Poteva lasciare che le parole di Thomas la consumassero, oppure poteva cercare una via per riparare il danno che aveva causato. « Il punto è che… non dovresti essere qui. Non hai ucciso nessuno e non meriti di essere rinchiuso qui dentro. » Il suo tono di voce si era addolcito leggermente. « Non so esattamente perché sono venuta, o se è stata una buona idea. Ho mancato il primo processo di poco, non volevo che accadesse un’altra volta – non se posso essere utile. » Tacque per un istante, incerta. « Perché non mi hai menzionata come testimone? » Domandò, di nuovo, confusa. Perché hai consapevolmente sprecato due anni della tua vita in questo inferno?



    Edited by vanitatem - 2/8/2023, 23:10
     
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    «Sei innocente. Non dovresti essere qui.» Strinse le labbra, soffocando la leggera ma insistente fitta che quelle parole, quel pensiero generavano ogni volta che venivano formulate. Eppure normalmente chi le aveva pronunciate non aveva veramente idea di che cosa stesse dicendo: i suoi avvocati, Nate, ribadivano continuamente l'ingiustizia di quella situazione, in un modo che assomigliava più ad una presa di posizione, ad una dichiarazione che non ammetteva eccezioni, sei innocente e basta, per tenere a bada ogni traccia di dubbio che potesse non essere così, come un mantra a cui affidarsi e da ripetere finché la realtà non avesse cominciato ad assomigliare alla versione delle cose che ci si racconta. Per loro che Tom fosse davvero innocente o meno contava poco: se lo era per loro, se se ne convincevano con sufficiente determinazione allora prima o poi avrebbero potuto convincere anche il Wizengamot e tutti gli altri, perché l'unico obiettivo era la libertà, che fosse giustamente meritata o meno. Lo percepiva, Tom, quel leggero velo di negazione che aleggiava sulle loro conversazioni, l'oggetto di tutto quel macello, l'omicidio, mai veramente menzionato, mai veramente questionato, forse per paura di come avrebbe reagito, forse perché non importava davvero; a volte Thomas avrebbe voluto chiedere ai suoi avvocati se ci credevano davvero, che era stato tutto un errore, soltanto per vederli confermare la sua ipotesi, e sentirli dire qualcosa tipo “non importa cosa pensiamo noi, ma cosa pensa la giuria”, come un meccanismo di difesa che ignorasse le parti scomode della realtà, come se in fondo che Tom avesse o non avesse ucciso quella babbana importasse poco. Lo facevano sentire come un criminale. Ma di cosa pensavano loro, alla fine, a lui interessava poco: stavano svolgendo il loro lavoro, e spesso e volentieri dovevano essersi trovati a difendere gente che quei crimini li aveva commessi davvero. Il modo migliore per ottenere quello che volevano era agire come se Thomas fosse innocente – a prescindere da che lo fosse davvero o meno. Ma con Freya era diverso. In quella dichiarazione di innocenza Tom lesse la reale assoluzione: non come se. E fece ancora più male, perché in quella frase c'era tanta consapevolezza della verità quanto della conseguente ingiustizia. Era l'unica persona al mondo che sapesse quanto tutto ciò fosse sbagliato oltre a lui. Qualcuno lo capiva, e si sentì irritato da quel bruciore familiare, il cuore che batteva appena più forte, acceso di rabbia. Deglutì, serrando appena la mascella. Tu lo sai quanto avrebbe voluto dirle, ma pensò che l'avrebbe fatto sembrare disperato, quel suo bisogno di essere compreso e aiutato lo disgustava, e disgustava che fosse inevitabilmente così, che la vita l'avesse condotto a trovarsi in una posizione di estrema dipendenza dagli altri e dal loro aiuto. Non voleva essere compatito, più di tutto. Forse fu per questo che le rivolse la domanda su Kadmus, poco dopo – quella semplice constatazione di Freya che aveva messo in luce la sua condizione da vinto che aveva fatto scattare in lui il bisogno di controbattere. «No», le rispose evidentemente seccata. Era stata una mossa un po' da stronzo, se ne rendeva conto – del resto il rapporto con il ghermidore, Thomas lo sapeva bene, era stato strettamente professionale e anche piuttosto manipolatorio. Era stato persino un po' geloso, però, quando Freya li aveva raggiunti, qualche giorno dopo che Tom si era unito al gruppo di ghermidori, al fianco di quel maiale di Kadmus. Geloso e preoccupato, non poteva negarlo, sia per il tipo di persona che la ragazza avrebbe dovuto accompagnare, che per l'idea che lui le avrebbe messo le mani addosso con ogni probabilità, che per l'idea che Freya avesse voluto seguirlo fino ad un altro continente, e capì che non doveva trattarsi di una regolare prestazione lavorativa, per lei. L'aveva guardata a lungo, quando era arrivata all'accampamento arrangiato che avevano messo su quella sera, in una delle innumerevoli foreste della Pennsylvania di cui Thomas non ricordava più il nome. Aveva aspettato di appurare nel suo sguardo che lei l'avesse riconosciuto, prima di porgerle la mano e presentarsi lo stesso, per evitare domande o gelosie da parte del capo. Freya l'aveva fatto sentire un po' meno perso, in quei mesi, un ricordo di casa, della vita che aveva avuto prima di partire, il rapporto tra i due che era andato a mutare sempre di più dai tempi delle pomiciate maldestre e frettolose negli sgabuzzini di Hogwarts o le sveltine nelle aule vuote e polverose. Avevano parlato tanto, forse più di quanto Thomas avesse mai fatto con una ragazza – e di conseguenza più di quanto avrebbe voluto, ma non gli era mai pesato. Sopratutto gli piaceva ascoltarla. Ora che l'aveva rivista, se ne rendeva conto adesso, non aveva provato quelle stesse sensazioni di cinque anni prima, quasi dimentico di quanto i due avessero condiviso. Provò quasi imbarazzo, in quel momento, all'idea di quanto le avesse mostrato di sé in un momento della sua vita in cui non aveva alcuna difesa, alcuna precauzione, alcuna sovrastruttura: erano stati due ragazzi persi, in un Paese distante migliaia di chilometri, senza un posto, senza un'idea di chi fossero né qualcuno che volesse suggerirglielo, e paradossalmente ebbri di una libertà che almeno Tom, dal canto suo, non avrebbe mai più provato. E ora erano lì, ad Azkaban, e lui era un detenuto a cui lei era venuta a far visita. Perché? Sicuramente non poteva servirle qualcosa, non era nella condizione di offrirle favori, ma l'idea che potesse trattarsi di nient'altro che un legame che li univa o che l'aveva spinta fin lì era talmente distante da non essere neanche concepibile: ciò che avevano condiviso, per quanto impreciso fosse nella sua memoria, era stato sicuramente limitato, contestuale, di passaggio, sia per lui che per lei, no? Quale interesse poteva nutrire una persona nei suoi confronti che non fosse finalizzato al raggiungimento di qualche tornaconto personale, in fondo? Voleva aiutarlo, forse, per sentire di aver agito nel modo eticamente più corretto? Si sentiva forse in colpa, responsabile perché Tom era dentro e lei era una testimone? Solo l'idea lo faceva sentire così tremendamente piccolo, piccolo e necessitante.
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    Le domande che le pose successivamente, rispetto alla possibilità che avesse accettato la protezione del MACUSA, furono assolutamente pragmatiche nella loro natura, diversamente rispetto alle precedenti. Fu per questo che fu molto sorpreso dalla reazione della ragazza, che sembrò molto più piccata dall'insinuazione che avesse accettato dei soldi per proteggersi che non dalle suggestioni un po' di cattivo gusto su lei e Kadmus. «Se così fosse dubito che sarei qui. Probabilmente sarei in qualche luogo soleggiato, al caldo, con un cocktail in mano.» «Non ci sarebbe niente di male, in questo» sentì il bisogno di precisare. Nessuno l'avrebbe mai potuta biasimare per aver cercato di trarre profitto da una situazione di merda come quella. Eppure lei gli sembrò determinata a precisare che fosse oltraggiosa anche solo l'idea. «È per questo che non hai mai fatto il mio nome? Pensavi avessi accettato un accordo per lasciarti marcire qui dentro?» «L'hanno fatto tutti gli altri, Freya.» Pronunciò con voce atona. «Perché tu non avresti dovuto? Non ti avrei biasimato né giudicato.» Fece spallucce. Non mi serve il tuo sacrificio. «È quasi comico, sai? Ho saputo del primo processo troppo tardi per poter essere d'aiuto in alcun modo. Merlino solo sa quanto mi sono sentita in colpa. Ogni volta che vedevo un articolo sul giornale mi veniva da vomitare.» Espirò con un colpo secco, passandosi la lingua sui denti. Le aveva fatto pena. «E nel mentre, tu hai deciso super partes che mi hanno pagata per farmi stare in silenzio, e che ho accettato senza battere ciglio.» Scosse la testa, soffocando una risatina incredula, e fece per risponderle prima che lei riprendesse a parlare. «Nessuno mi ha contattata, ma anche se lo avessero fatto non avrei accettato. Il fatto che sia disposta ad accettare denaro per altro, non significa che la mia morale è in vendita. Sappiamo entrambi che sono ben lontana dall’essere una persona moralmente ineccepibile, ma ciò non vuol dire che non sappia distinguere tra cosa è giusto e sbagliato.» «Ma non è sbagliato, Freya. Non ha alcun senso ragionare in termini così binari su cose come questa, e anzi troverei più naturale agire secondo il proprio tornaconto personale, così come hanno fatto tutti in questo caso, visto quanto c'è in ballo. Certamente per me è una merda, certamente dal mio punto di vista ciò che hanno fatto è dannoso, nocivo, diciamo pure sbagliato se vogliamo parlare di morale, ma è così che gira il mondo, così che funzionano le cose. Non puoi avercela con l'uomo per la sua natura, né puoi cambiarla. A tutti è stata data un'opportunità e hanno deciso di coglierla, e non c'è vergogna in questo, né amoralità.» Anche tu, del resto, adesso sei qui per un tuo tornaconto personale, e cioè tenere a bada il tuo senso di colpa, ripulirti la coscienza visto che non riesci a non tormentarti per qualcosa che in fondo non hai neanche voluto tu, pensò, ma si astenne dal dirlo, un briciolo di consapevolezza del fatto che in fondo ciò che aveva portato Freya a incontrarlo potesse andare oltre la lavata di faccia e la quiete personale, ma troppo orgoglioso per concepire che qualcuno potesse semplicemente avere a cuore la sua causa per nessun motivo se non la cura. «Io ero lì, Thomas. E sappiamo entrambi che non sei stato tu a uccidere quella donna. Il punto è che... non dovresti essere qui. Non hai ucciso nessuno a non meriti di essere rinchiuso qui dentro. Non so esattamente perché sono venuta, o se è stata una buona idea. Ho mancato il primo processo di poco, non volevo che accadesse un’altra volta – non se posso essere utile.» Si passò una mano sul viso, sospirando, sentendosi improvvisamente stanco. Capiva bene che quel senso di imbarazzo, di dignità calpestata era qualcosa con cui avrebbe dovuto fare i conti e superare. Le cose stavano così: lui aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di una mano, aveva necessità che qualcuno – e non chiunque, ma proprio Freya – testimoniasse in suo favore. Ma questioni di indole personale a parte, Tom non era ancora del tutto sicuro che avrebbe funzionato. «Perché non mi hai menzionata come testimone?» Si mordicchiò l'interno delle guance, posando lo sguardo su di lei per qualche secondo, per poi abbassarlo, e rialzarlo istanti dopo. «Ho supposto che i casi potessero essere due. Che avevi accettato i soldi e che volevi viverti la tua vita in pace, lontana da tutto questo casino, come chiunque con un po' di sale in zucca avrebbe fatto» – fece, stringendosi nelle spalle – «oppure che non li avevi accettati, e in tal caso coinvolgerti nel processo sarebbe stato controproducente per entrambi, perché tu non hai idea dello schifo e del marcio che c'è dietro questo caso, Freya.» Aveva soltanto fatto bene i conti e aveva capito che non gli sarebbe convenuto, oppure aveva voluto proteggerla? «Se ti avessi menzionata come testimone la tua intera vita sarebbe stata scandagliata alla ricerca di informazioni che potessero metterti fuori gioco. Saresti stata esposta ai media, alle indagini off the record, e avrebbero senz'altro trovato qualcosa. Saresti finita a picco, e l'esito finale non sarebbe cambiato.» E questa era stata una scelta strategica oppure una mossa di tutela dell’altro? O addirittura c’entra dentro una quota di malsano masochismo nel chinare la testa e immolarsi? Accettare la perdita senza combattere e in segreto aspettare la punizione per qualcosa che neanche lui riusciva a perdonarsi, in fondo? «Tutt'ora ti dico, non credo cambierebbe qualcosa. Non sono sicuro che esista un modo per te di renderti utile, mi dispiace per te.» Non potè astenersi dall'aggiungere, aggrappato a quell'orgoglio che lo faceva sentire una merda a essere soltanto un progetto per il quale rendersi utili, perché rimarcavano la sua dipendenza. Provò nostalgia per i tempi in cui lui e Freya non erano altro che due ragazzini che si piacevano a tal punto da vedersi alle spalle di un compagno del Clavis per lui, e da scegliere uno dei migliori amici del suo pseudo-ragazzo per lei; delle scappatelle notturne, quando Thomas non era mai stato sconfitto, e non aveva bisogno di niente e di nessuno, ed era libero di scegliere, così tanto da scegliere sempre male, e farlo di proposito. «Anche se...» cominciò poi, inspirando profondamente, il petto irrobustito che si gonfiò in quel respiro. «Forse qualcosa sta cambiando, in effetti. Tu da sola, come testimone, potresti essere facilmente messa a tacere. Ma con Nate stiamo pensando di agire su più fronti.» Tamburellò con le dita sul tavolo, lo sguardo che continuava a vagare sulla figura di Freya. Poteva fidarsi? «Posso metterti in contatto con lui, e ti può tenere aggiornata sulla faccenda. Ma Freya» – esitò, la fronte corrugata – «io voglio che ti sia chiaro che io non ti chiederei mai di buttare la tua vita nel cesso per me. Non lo voglio, questo tipo di sacrificio. Non te l'ho chiesto due anni fa e non te lo sto chiedendo adesso. Voglio che ci ragioni. E che non agisci soltanto perché senti che sia la cosa giusta da fare. Io per agire nel modo più giusto adesso sono chiuso qui dentro.» Si sciolse appena, in una risatina roca. «Per me è difficile accettare un aiuto così... Così disinteressato.» Confessò, ingoiando il rospo. «Non vivrei bene con me stesso se pensassi che ti sei sentita costretta, da me e dalla pena che posso farti chiuso qua dentro o da qualcos'altro che ti spinge, inspiegabilmente, a volerti infilare in questo casino.» La fatica che gli costò dover pronunciare quelle parole fu resa più leggera soltanto dall'umiliante consapevolezza che con Freya, ormai, avesse scoperto quasi tutte le proprie carte.
     
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    Dall’esterno, il mondo di Freya e Thomas sembrava appartenere a due dimensioni distinte, divise da un abisso incolmabile. Lui era cresciuto nel lusso e nell'agiatezza, circondato da una famiglia apparentemente perfetta, il cui futuro era colmo di innumerevoli opportunità: erano lì, a portata di mano, tanto che avrebbe semplicemente dovuto scegliere quale cogliere. Freya, d'altra parte, aveva conosciuto solo l'instabilità, spostata di casa in casa, senza un punto fisso e una famiglia che le offrisse sicurezza e fiducia nel mondo. Ai tempi di Hogwarts, Freya si era convinta che non avessero nulla in comune. Gli si era avvicinata proprio per quello, attratta dalla leggerezza con cui il Serpeverde sembrava non curarsi del mondo. Non aveva cercato le sue attenzioni a caso: all’epoca, Thomas Montgomery era quanto di più distante vi fosse da Zip Trembley. Qualcuno a cui non avrebbe dovuto dare spiegazioni e che non ne avrebbe chieste, la cui esistenza appariva felice, pulita, priva di qualunque preoccupazione. Forse aveva peccato di ingenuità nel confondere l’apparenza con la realtà ma, anni dopo, aveva finalmente iniziato a vedere oltre la superficie. Nell'aspro e freddo inverno trascorso insieme negli Stati Uniti, le imperfezioni dietro la maschera avevano iniziato a emergere, in un'immagine che contrastava fortemente con quella del ragazzo viziato e cresciuto nell'agiatezza che aveva conosciuto in precedenza. Al principio, la semplicità con cui Montgomery si era adattato a quella nuova realtà, perfettamente a suo a suo agio in mezzo a ladri e criminali, l’aveva sconcertata e – al contempo – irritata, suscitando in lei un senso di ingiustizia e frustrazione: dall’alto della sua esistenza privilegiata, Thomas sembrava quasi godere di quella vita spregiudicata e fuorilegge mentre lei, dacché ne aveva memoria, non aveva fatto altro che tentare di rifuggirla, prigioniera di in un mondo a cui non apparteneva. Per qualche giorno lo aveva persino evitato, quasi risentita dalla sua sola presenza, ma – in breve – le piccole dimensioni dell’accampamento e la compagnia assai poco raccomandabile di cui erano circondati, lo avevano reso l’unica persona da cui Freya non si era mai sentita minacciata. Tutt’ora, non avrebbe saputo dire se lui se ne fosse accorto – ma, se ne era consapevole, era stato abbastanza galante da non rinfacciarglielo. «Non ci sarebbe niente di male, in questo» Un lieve sorriso si aprì sulle labbra di Freya, impercettibilmente divertita. No, non ci sarebbe nulla di male. Glielo concesse, mentalmente, con un lieve cenno del capo. Quella risposta era stata tanto semplice quanto prevedibile. Una scelta sensata, logica. Facile da comprendere per qualcuno come te, forse persino accettabile – più accettabile di trovarti disperatamente bisognoso dell’aiuto altrui, per lo meno. Soprattutto se disinteressato. Se qualcun’altro avrebbe considerato quelle parole come l’ennesima mera provocazione, Freya era più interessata a ciò che non era stato detto: il negare l’esistenza di ogni coscienza o senso del dovere che fosse, qualunque pilastro morale o emotivo che potesse, anche solo lontanamente, palesarsi come il fantasma quasi dimenticato di un’affinità effimera ma genuina. Sollevò gli occhi su di lui, in parte sorpresa e in parte divertita nell’accorgersi che, nonostante il tempo e le vicessitudini trascorse, riusciva ancora a intravedere in Thomas la medesima diffidenza in cui si era specchiata cinque anni prima. Non avevano trascorso più di qualche mese assieme, eppure quel breve periodo li aveva avvicinati bruscamente: complice la vita spartana in cui erano costretti, la noia nelle gelide serate all’accampamento e la differenza di età – e fedina penale - con la maggior parte dei loro compagni, avevano ben presto iniziato a chiacchierare del più o del meno, accovacciati accanto al fuoco o durante i rispettivi incarichi. Da quel momento, non era stato difficile per Freya iniziare a notare piccoli dettagli che, ai tempi di Hogwarts, erano passati totalmente in secondo piano. Il modo in cui Thomas arricciava leggermente il naso prima di uno sbadiglio, la piccola fossetta che compariva a lato delle labbra quanto tentatava di nascondere uno sprazzo di inadeguata ilarità, il modo in cui raramente la interrompeva nel bel mezzo di un discorso e – in quelle rare occasioni – si limitava a invitarla a continuare, talvolta con tono innocentemente canzonatorio. E, man a mano che si rivelavano a vicenda pezzi delle loro vite, aveva intuito, per la prima volta, che a dispetto delle apparenza vi era qualcosa in Thomas che riconosceva come proprio: un’affinata maestria nel non esporsi mai troppo e l’abilità, quando necessario, di distaccarsi da qualunque posizione scomoda, nascosti dietro commenti pregni di impersonalità e generalizzazioni. Lo stesso modo in cui, in quel momento, annaspava alla ricerca di una spiegazione logica e concreta – un do ut des da cui temeva di essere tratto in inganno. «L'hanno fatto tutti gli altri, Freya.» La ragazza inarcò appena un sopracciglio, tamburellando silenziosamente con le dita sul tavolo. «Perché tu non avresti dovuto? Non ti avrei biasimato né giudicato.» Si limitò a fissarlo senza rispondere, seguendo il filo dei suoi pensieri. Al suo posto, qualcun altro sarebbe stato ferito da una constatazione tanto diretta, ma, suo malgrado, Freya riusciva a comprendere il meccanismo alla base di tale conclusione. Dopotutto, nessuno fa niente per niente. Decise di tenere per sé quel pensiero, ben lontana dal biasimarlo; a parti inverse, lei stessa si sarebbe rifiutata di abbassare la guardia ed aveva la netta sensazione che approcciare l’argomento avrebbe sortito tutto fuorché l’effetto desiderato – qualunque esso fosse. Si limitò a scuotere appena il capo, tradendo un rassegnato dissenso, spostando per un istante gli occhi sul resto della stanza. Non era sicura di quanto tempo avessero a disposizione, ma invischiarsi in discorsi filosofici sulla complessità della natura umana non li avrebbe portati da nessuna parte. Non le sfuggì come, d’un tratto, Thomas le parve inquieto nel rispondere alla sua domanda. Lo osservò tentennare prima di rispondere, le iridi chiare che si soffermarono su quei sottili indizi di nervosismo. Da quando sono in grado di metterti a disagio? Non ricordava fosse mai capitato, in precedenza; nemmeno quando gli aveva rivolto richieste decisamente più scomode. «Ho supposto che i casi potessero essere due. Che avevi accettato i soldi e che volevi viverti la tua vita in pace, lontana da tutto questo casino, come chiunque con un po' di sale in zucca avrebbe fatto oppure che non li avevi accettati, e in tal caso coinvolgerti nel processo sarebbe stato controproducente per entrambi, perché tu non hai idea dello schifo e del marcio che c'è dietro questo caso, Freya.» Inclinò appena il capo di lato, incrociando le braccia sopra al tavolo e scivolando leggermente in avanti. Lo fissò di sottecchi, quasi volesse confessargli un segreto. « Nel caso in cui non l’avessi notato, non sono mai stata particolarmente prudente. » Replicò, con un accenno di ironia. Quella spiegazione era troppo logica, riduttiva per avere senso; non riusciva a credere che si fosse arreso di fronte al verdetto, accettando il suo silenzio come un tacito segno del destino. Non quando l’enjeu era la libertà. « Quindi hai semplicemente deciso di non tentare? » Domandò, non senza un barlume di sfida. Vuoi dirmi che hai consapevolmente accettato tutto questo senza nemmeno provare a ribaltare la partita quando sapevi di avere un asso nella manica? « Non è certo una mossa da Thomas Montgomery. » Non me la dai a bere. Inarcò appena un sopracciglio, scrutandolo in attesa di una spiegazione – una vera spiegazione - che non era certa le avrebbe concesso. D’altronde, lei non si trovava nella posizione di pretenderla. «Se ti avessi menzionata come testimone la tua intera vita sarebbe stata scandagliata alla ricerca di informazioni che potessero metterti fuori gioco. […] Tutt'ora ti dico, non credo cambierebbe qualcosa. Non sono sicuro che esista un modo per te di renderti utile, mi dispiace per te.» Freya si reclinò all’indietro, tornando ad appoggiare la schiena contro la parete gelida, sbuffando una risata. « Non dispiacerti per me, Thomas. Non ne hai motivo. » Non sono io quella col culo al fresco. Esitò per un istante, prima di stringere appena le labbra. « Vuoi sapere cosa penso? » Non attese la sua risposta. « Penso che tu abbia avuto paura. Magari sarebbe davvero stato del tutto inutile ed entrambi saremmo andati a fondo ma, dal mio punto di vista, non è una scusante abbastanza concreta. » Si inumidì le labbra. « Paura di rischiare, di incontrare un esito ancora peggiore o, forse, di non avere più alcun appiglio futuro a cui aggrapparti se il tuo appello fosse stato rigettato. » Ti serviva un’ultima carta vincente, qualcosa che preservasse una possibilità di ipotetico trionfo. « Ma hai anche avuto paura di chiedere aiuto. » Accennò ad un flebile sorriso, avvicinandosi nuovamente al tavolo e spezzando quell’improvvisa distanza tra loro. « Non è un’accusa. Lo capisco. » Al tuo posto, avrei avuto altrettante riserve. Il suo tono di voce si ammorbidì e Freya allungò istintivamente le mani nella sua direzione, sul legno scuro del tavolo. Si soffermò a pochissima distanza dalle sue, sfiorandole appena. « Ma il fine giustifica i mezzi e questa non è una battaglia che puoi vincere da solo. Non c’è nulla di male nel chiedere aiuto. » Sospirò. « O nell’accettarlo. » Non sono venuta qui per sentirtelo chiedere, ma nemmeno per supplicare il tuo permesso o la tua benedizione. «Forse qualcosa sta cambiando, in effetti. Tu da sola, come testimone, potresti essere facilmente messa a tacere. Ma con Nate stiamo pensando di agire su più fronti.» Gli fece cenno di continuare, leggermente confusa da quell’improvviso cambio d’argomento. Ai tempi di Hogwarts, lei e Douglas erano stati unicamente conoscenti – studenti che si incrociavano per i corridoi o scambiavano qualche parola alle feste, senza realmente avere nulla in comune. Almeno apparentemente. Lo lasciò finire di parlare, mantenendo lo sguardo fisso in quello di lui. Infine, abbassò lo sguardo sul tavolo, forse nel tentativo di nascondere una risata leggera. « Non mi aspettavo che me lo chiedessi, né mi interessa che tu lo faccia. E ti prego di non considerarlo una ricerca di riconoscenza o un debito nei miei confronti. » Si strinse nelle spalle, sollevando nuovamente lo sguardo su di lui. « Si tratta di una mia scelta e, a prescindere da tutto, ti posso assicurare che non è dettata da pietà o compassione. » Vi era più di una ragione per cui voleva farlo ma le veniva difficile spiegarlo a parole. Si trovava divisa tra la volontà di testimoniare a suo favore e una profonda confusione riguardo al motivo che la spingeva a farlo. Non era una questione di pena, anche se il significato di quella scelta le sfuggiva. Razionalmente, riconosceva che la sua sola presenza l’aveva fatta sentire al sicuro durante il periodo trascorso negli Stati Uniti e, inevitabilmente, quel legame confortevole si era trasformato nel primordiale abbozzo di un affetto sincero. Ma vi era qualcosa di più – di diverso – che non riusciva a spiegare nemmeno a sé stessa. Forse era dovuto alle esperienze condivise, alle cicatrici che avevano portato con sé, a volte combattuti da una continua ricerca di qualcosa o qualcuno che potesse riempire quel vuoto che li accomunava entrambi. « Ma di certo preferirei vederti in qualcosa di diverso da… questo. Quel colore non ti dona. » Accennò all’uniforme, in un goffo tentativo di spezzare la tensione.
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    « Per quanto riguarda Douglas, può trovarmi alla Testa di Porco. » Trattenne a stento una risatina. « Sarà un vero spettacolo vederlo entrare lì dentro. » Probabilmente l’ultimo posto al mondo che vorrebbe visitare, dopo Azkaban. « Immagino che non sappia che fossi negli Stati Uniti, all’epoca. » Dubito che ti avrebbe lasciato mantenere il segreto, in caso contrario. « E se dovessimo considerare concretamente l’opzione di usare la mia testimonianza, suppongo di dovergli fornire un minimo di contesto. » A partire da Hogwarts, ad esempio. « Di quanto è al corrente, esattamente? » Non era entusiasta all’idea di dover rivelare buona parte della sua vita privata a Nate Douglas, ma vagliare possibili dettagli scomodi avrebbe aiutato ad evitare inconvenienti futuri in vista di un nuovo processo. Se avremo un’occasione, non possiamo permetterci il lusso di sprecarla.
     
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    Freya gli era piaciuta da subito per quella fame che gli era sembrato di leggerle nello sguardo. Era ciò che più gli piaceva nelle ragazze con cui si accompagnava, e in lei in particolar modo. Non inseguiva necessariamente il brivido della trasgressione, quello poteva farlo da solo: aveva un senso di invincibilità, crescendo, abbastanza pronunciato da bastare per lui e per chi fosse insieme a lui; sicuramente non gli serviva qualcuno che lo assecondasse nelle proprie bravate – un termine con cui comunque aveva sempre bisticciato perché difficilmente per lui si trattava di agire per provocare qualcuno o per dare fastidio. A Tom interessava molto poco violare le regole per il gusto di farlo o per il piacere sadico che gli adolescenti più ribelli traggono dal prendersi gioco degli adulti, delle autorità. Thomas voleva soltanto prendersi tutto. Non aveva una natura protestante, per lui, quell'irrequietezza: era semplicemente la sua natura, la sua fame, la possibilità di chiedersi “perché no?” sapendo che non esistesse una risposta sufficientemente valida o convincente, la tendenza a cogliere, prendere, provare. Era ciò che nessuno nel mondo adulto era riuscito a capire di lui e di quelli come lui, abituati ad una visione del mondo binaria, moralista, fatta di buoni e cattivi, di persone decenti e teppisti buoni a nulla; era un mondo ipocrita, perché le persone che avevano più successo nella vita e che arrivavano più lontano non erano quelle che i professori, i genitori, gli educatori e i parenti avrebbero voluto che lui fosse, e cioè gli onesti, i quieti, gli assennati. Il mondo era sempre stato dei voraci, di chi cercava di prenderselo, afferrarlo, per ingordigia, avidità, o per capriccio. Non sapeva cosa spingesse Freya ad essere chi era, a scegliere la vita che aveva scelto – se di scelta si poteva parlare – ma sapeva che con lei non ci fosse moralismo, dicotomia buoni e cattivi, giusto e sbagliato: si fa ciò che si deve fare per soddisfare i propri bisogni, si asseconda la fame. Spesso nella vita di Thomas queste necessità erano appagabili a discapito di altri, ma non era forse sempre stato quello l'ordine naturale delle cose? Bisognava soltanto scegliere da che parte stare, o provare con tutte le proprie forze a trovare la propria posizione, tollerando le oscillazioni: adesso, le manette incantate che gli illuminavano i polsi di una luce verdognola, non era altro che un'oscillazione, e presto sarebbe tornato a occupare il proprio posto. Questa profonda convinzione che lui in carcere non ci sarebbe rimasto ancora per molto e che presto le cose sarebbero cambiate aveva mantenuto accesa la fiamma dell'orgoglio, che seppur tremolante non si era mai spenta; gli aveva permesso di tollerare la perdita dell'identità, del senso di sé, ma mai della dignità, perché in fondo capiva come quella fosse l'unica valuta che aveva e che nessuno potesse portargli via. E tuttavia, mentre adesso Freya gli stava di fronte, quella fiamma sembrava vacillare pericolosamente. «Nel caso in cui non l'avessi notato, non sono mai stata particolarmente prudente». Si tirò giù le maniche della divisa, a coprirgli le nocche delle mani ossute e pallide, stendendo le braccia sul tavolo. Inspirò, quindi, finalmente, ricambiò lo sguardo che lei gli stava rivolgendo, pronunciando quelle parole. Oh, l'aveva notato. Se lo ricordava bene. Normalmente avrebbe piegato un angolo della bocca in un sorriso complice, ma adesso rimase fermo dov'era, guardandola e annuendo, stringendo le labbra. Era proprio quello il problema: non c'era spazio per le imprudenze. Non poteva dire con precisione che cosa l'avesse fermato dal contattarla di preciso, ma quel fattore sicuramente aveva giocato un ruolo fondamentale, in quel momento così come ai tempi: due come loro non sarebbero andati molto lontano se uno dei due non avesse avuto, a rotazione, il ruolo di rallentare l'altro; si davano il cambio, frenandosi quando la curiosità e la tentazione di spingersi un po’ oltre si faceva troppo forte per la propria sicurezza, o un po’ dopo di questa soglia, a sfiorare il limite sempre con la punta delle dita, saggiarlo prima di venire tirati indietro dalla mano dell’altro, per non perdere l’equilibrio. Aveva deciso per lei. «Quindi hai semplicemente deciso di non tentare? Non è certo una mossa da Thomas Montgomery.» Non era un ruolo che spesso si era trovato a ricoprire: Tom pensava per sé, agiva per sé, in una filosofia che trascendeva l'egoismo e che aveva a che fare con l'autoconservazione, la consapevolezza di non poter fare affidamento su nessuno quanto se stesso; se gli altri volevano rovinarsi la vita, affondare, lui al massimo avrebbe teso una mano, ma sarebbe stata sempre una decisione altrui quella di afferrarla. Freya non era stata un'eccezione a quella regola: l'aveva protetta, in fondo per proteggere se stesso, decidendo al posto suo per salvare entrambi, per quanto poi lui fosse caduto a picco. «Non era il momento giusto» liquidò la faccenda con una stretta di spalle, preferendo non continuare a soffermarcisi: che importava perché non l'aveva contattata? Non era forse libera, mentre lui no? Ma lei non sembrò voler mollare la presa, e Thomas
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    prese a cambiare posizione sulla sedia, esagitato. «Vuoi sapere cosa penso?» «Illuminami.» «Penso che tu abbia avuto paura. Magari sarebbe davvero stato del tutto inutile ed entrambi saremmo andati a fondo ma, dal mio punto di vista, non è una scusante abbastanza concreta. Paura di rischiare, di incontrare un esito ancora peggiore o, forse, di non avere più alcun appiglio futuro a cui aggrapparti se il tuo appello fosse stato rigettato. Ma hai anche avuto paura di chiedere aiuto. Non è un'accusa. Lo capisco.» Gli si avvicinò, Freya, e Thomas colse i suoi occhi azzurri illuminarsi con un guizzo nell'oscurità della stanza ombrosa. Ma lui si allontanò, poggiando la schiena contro la sedia, irritato da quell'approssimarsi, da quel tentativo di decifrarlo. E ci mancherebbe che fosse pure un'accusa. Contrasse la mascella, il pomo d'adamo che rimbalzò lievemente mentre deglutiva. «Perdonami la schiettezza, ma che te ne frega? Perché questo processo alle intenzioni? Cristo, ti ho parato il culo e ora devo sentirmi lo spiegone su come ho avuto paura Sillabò duro, ma piano, aggrottando la fronte. Cosa voleva che le dicesse? Perché quello scavare nelle sue motivazioni? Perché quell'ulteriore umiliazione? Come se chiedere aiuto adesso non fosse abbastanza difficile, per lui, doveva star lì e sentirsi psicoanalizzare da una persona che aveva pure cercato di proteggere? «Non mi aspettavo che me lo chiedessi, né mi interessa che tu lo faccia. E ti prego di non considerarlo una ricerca di conoscenza o un debito nei miei confronti. Si tratta di una mia scelta, e, a prescindere da tutto, ti posso assicurare che non è dettata da pietà o compassione» Roteò gli occhi al cielo, soffocando una risata sommessa. «Ah, grazie tanto per non compatirmi, allora! Cristo Santo, Freya, ma davvero? Devi parlarmi per forza in modo così accondiscendente?» Si passò una mano sul viso scarno, espirando a fondo, cercando di dosare la propria reazione. Accartocciandosi la faccia, tacque per qualche istante, mordicchiandosi le labbra. Non si era mai sentito così tanto in difficoltà in vita sua, probabilmente, e reagendo così, se ne rendeva conto, non faceva che corroborare la versione delle cose di Freya – neolaureata in psicologia, a quanto pareva – dando l'impressione di non riuscire a sopportare l'idea di mostrarsi bisognoso. Ma era così difficile capire che semplicemente non fosse quello il momento? Avrebbe preferito parlare molto di meno del perché e del per come, farsi meno domande possibili e guardare avanti, non indietro. «Okay, senti.» Si grattò la testa bionda, passandosi la lingua sulle gengive. «Io non lo so perché non ti ho chiesto una mano prima. Va bene? Non lo so, è la verità.» Visto che qua sembra di essere sotto processo, l'ennesimo. «Cazzo, probabilmente hai pure ragione tu ed è perché solo il pensiero della telefonata che avrei dovuto farti, alzare la cornetta e chiederti di rinunciare a tutta la tua vita per correre in mio soccorso mi causava l'orticaria. Il fatto stesso che tu fossi lì quando è successo e abbia dovuto vedermi crollare subito dopo l'accaduto...» Un'espressione disgustata comparve sul viso di Thomas, al ricordo delle immagini di lui che tratteneva le lacrime con Freya al suo fianco, dopo aver occultato il cadavere. Scosse la testa di scatto, non volendosi soffermare sulla scena ulteriormente. «Forse sarebbe più facile per me se per te in questo ci fosse un qualunque tipo di guadagno. Forse lo capirei di più se fossi in debito con te, dopo. Per qualche motivo sento che in questo ci sarebbe più dignità, Freya. Capisci?» Provò a spiegarsi, l'espressione dura di poco prima in una più pensierosa, come se maturasse quelle consapevolezze mentre le pronunciava, la rabbia che aveva lasciato il posto ad una calma rassegnazione. «Nate non sa niente. Se gli avessi detto qualcosa lo sapresti perché non ti lascerebbe in pace, avrebbe tampinato me e te finché non mi fossi deciso a lasciarti testimoniare. Non posso farti avere il suo numero perché chiaramente non ho più il cellulare, ma posso dire ai miei avvocati di chiamarti e farti parlare con lui.» Tirò sul col naso, evitando di guardarla. «Qualunque cosa ti serva e tu voglia in cambio, qualunque, comunicala al mio avvocato e troverò il modo di venirti incontro, a tempo debito.» È tanto più facile lo scambio, tanto più paritario, tanto più impersonale. «Puoi cambiare idea in qualunque momento, Freya, e io ti prego di considerare di farlo. Ma hai ragione: la scelta è tua, e non sceglierò più al tuo posto, per cui se decidi che vuoi darmi una mano io non potrò fare molto se le cose andranno per il verso sbagliato.» Alzò gli occhi cerulei, a incontrare i suoi. «Pensaci.»

     
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