to build a home

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    La prima cosa che Nessie percepì, ancor prima di aprire gli occhi, fu il silenzio. Non ricordava di essersi mai svegliata senza udire un rumore di sottofondo, il canticchiare di Ronnie in cucina, il rumore del bollitore, le stoviglie che venivano spostate o, nelle giornate più placide, un tenue rumore di passi. In qualche modo, il silenzio assoluto era qualcosa di innaturale nel grazioso appartemento che condivideva con Veronica Rigby. Impiegò qualche istante ad accorgersi di esser ormai lontana dalle braccia di Morfeo, osservando il soffitto ad occhi socchiusi, seguendo linee e contorni immaginari che, attraverso le ciglia socchiuse, si dipingevano sulla superficie immaccolata. Tentennò prima di uscire dalle coperte, stiracchiandosi pigramente e rotolando sul fianco. Immediatamente, un gemito sconsolato le sfuggì dalle labbra, non appena una fitta lancinante le trapassò la testa da una tempia all’altra. Acqua. Ho bisogno di acqua. Si sentiva uno schifo, fisicamente e mentalmente. Il ricordo della sera precedente era ancora ben impresso nella sua mente: il modo in cui un evento dietro l’altro si erano incastrati con precisione impeccabile per dare vita ad un vero e proprio big bang; non poteva essere altro che uno scherzo del destino. Con un gemito svogliato, arrancò maldestramente sino alla cucina, i piedi nudi che producevano un rumore quasi inudibile sul pavimento. Ad occhi semi-chiusi, infastidita dalla luce che trapelava attraverso le tende del salotto, si riempì un bicchiere d’acqua. Lo sorseggio lentamente, appoggiata contro il piano da lavoro, osservando l’ambiente circostante senza davvero vederlo. Tutto, nell’appartamento, era esattamente come lo aveva lasciato la sera prima. Vi erano un paio di bicchieri nel lavello, una giacca di pelle di Veronica dimenticata sul bracciolo del divano, un libro di musica sul tavolino da caffè e – souvenir della nottata precedente – un paio di tacchi vicino alla porta principale. Nulla era stato mosso o spostato. Istintivamente, spostò lo sguardo sulla porta della camera da letto di Veronica, insolitamente chiusa. Erano più delle undici e mezzo e, seppur reduce da una nottata alcolica, il fatto che Ronnie non avesse dato alcun segno di vita era una novità piuttosto bizzarra. Forse sta ancora dormendo. Ipotizzò, lanciando un’occhiata dubbiosa in direzione della macchinetta del caffè, pulita e inutilizzata. In genere era Veronica ad occuparsi di riempirla, ben più esperta di Nessie in tutto ciò che riguardava l’ambito casalingo. Come minimo anche lei si sveglierà con il mal di testa. Ripose il bicchiere sul tavolo e, con una certa goffaggine rallentata dalla stanchezza, si apprestò a preparare la colazione – il poco necessario per sopravvivere con ciò che avevano in casa: caffè, latte, una bottiglia di succo di arancia e qualche fetta di torta che sua nonna le aveva spedito il giorno prima. Quando ebbe finito, versò il caffè bollente in due tazze e, facendole aleggiare attorno a sè con un colpo di bacchetta, si avviò in direzione della camera da letto della coinquilina. Bussò delicatamente e attese. Nessuna risposta. « Ronnie? » Silenzio assoluto. Aprì la porta, quel poco che bastava per distinguere la schiena di Veronica, ancora avvolta nelle coperte. Le tende erano chiuse, ma qualche raggio di sole vi filtrava attraverso, permettendole di vedere all’interno. « Ronnie. Sei sveglia? » La chiamò di nuovo, schiarendosi leggermente la voce. Non voleva infastidirla ma iniziava a preoccuparsi. Aveva la netta sensazione che nessuno fosse rimasto indifferente a quanto accaduto solo poche ore prima e, per quanto la riguardava, sentiva il bisogno di non lasciare le cose in sospeso. Con nessuno. Sgusciò all’interno senza attendere di essere invitata, fedelmente seguita dallo scalpiticcio delle unghiette di Hamlet. « Ho preparato la colazione. » S’interruppe, accennando ad una risata. « Beh, “preparato” è una parola grossa, ma ho fatto il caffé e c’è ancora della torta. Giuro che non ho dato fuoco alla cucina, non ti toccherà mangiare nessun toast carbonizzato. » Scherzò, facendo riferimento ad una delle poche volte in cui aveva deciso di cimentarsi in un esperimento culinario. Non era stata una buona idea: per poco non aveva carbonizzato una padella e l’intero appartamento aveva puzzato di bruciato per una settimana. Si sedette sul bordo del letto, afferrando la sua tazza e facendo sì che quella di Veronica si appoggiasse delicatamente sul comodino, dal lato della Grifondoro. « L’ho fatto abbastanza forte, ma non credo basterà contro la sbornia. Ti è rimasta ancora qualche pozione? » Attese qualche istante e infine sospirò, silenziosamente. Puoi fare il gioco del silenzio quanto ti pare, non ci crede nessuno che stai ancora dormendo. Appoggiò la tazza per terra e si sdraiò accanto a Veronica, lo sguardo fisso sulla nuca della coinquilina. Ai piedi del letto, Hamlet la scavalcò, zompettando in direzione di Ronnie, alla ricerca di attenzioni. Allungò una mano pallida e prese ad accarezzarle i capelli, le dita sottili che si intrecciavano gentilmente alla folta chioma scura in un movimento lento e ripetitivo, lo stesso con cui Eurus la consolava dagli incubi, da bambina. « Ti va di parlare? » Domandò, prima di scuotere leggermente il capo, tra sè e sè. « In realtà non devi parlare per forza. Se vuoi puoi anche solo ascoltare o fingere di dormire, anche se io preferirei che parlassimo. Entrambe. » Conosceva Ronnie abbastanza bene da sapere che l’arrivo del mattino non aveva alleggerito la gravità di ciò che era stato detto in preda alla rabbia e all’impulsività dettata dall’alcol. Veronica, Otis, Èmile… ciascuno di loro aveva detto o fatto qualcosa di cui – nel profondo - si rammaricavano: pensieri scatenati dall’orgoglio, parole dette appositamente per ferire - consci che avrebbero scatenato una reazione perchè, di fatto, conoscevano i punti deboli gli uni degli altri. « Lo so che è difficile e… fa schifo. Ma continuare a tenerti tutto dentro non ti farà sentire meglio. Al contrario, ti sembrerà di soffocare. » Arriverà il momento in cui ti sentirai scoppiare. Io lo so bene. « Comincio io, ok? » Più facile a dirsi che a farsi. Prese un respiro profondo. tentando di mettere ordine nei propri pensieri. Vi erano almeno un centinaio di argomenti da cui avrebbe potuto cominciare, gli uni strettamente intrecciati con gli altri in una matassa indistricabile di pensieri. Si inumidì le labbra, leggermente nervosa. « Mi dispiace di essere stata via così a lungo. » Esitò, sorpresa da sè stessa. Tra tutti, il suo soggiorno a Parigi non aveva nulla a che fare con la litigata della sera prima – eppure, in cuor suo, Nessie era certa che quello fosse stato il momento in cui tutto aveva iniziato inevitabilmente a sgretolarsi. « Dopo l’assedio e la ricostruzione… avevo bisogno di andarmene. Non riuscivo a fare finta di nulla, ogni volta che camminavo per Hogsmeade o per il Campus mi sentivo intrappolata in un labirinto irreale. Tutto era come prima, ma… non lo era affatto. Non vedevo altro che violenza e distruzione e… morte. Anche se non erano più lì, io li… li respiravo. » Si mordicchiò il labbro inferiore, con voce leggermente tremante. « Gli incubi stavano peggiorando. Non volevo che ve ne accorgesse, eravamo tutti spaventati e l’ultima cosa che desideravo era farvi preoccupare per me. » Non volevo essere un peso, ma non potevo continuare a fingere che andasse tutto bene. Non quando vedevo ancora il sangue nei corridoi di Hogwarts. Le ci erano voluti mesi di terapia per sentirsi meglio e, a dispetto di quanto le mancassero gli amici, la lontananza da Hogwarts
    aveva aiutato. « Ma credo che Otis se ne sia accorto lo stesso. Non ti ha detto nulla, vero? » Certo che no. Non sarebbe Otis, altrimenti. Già da qualche tempo prima dell’assedio di Hogwarts aveva avuto la sensazione che il Tassorrosso riuscisse a leggerla più di quanto avrebbe voluto; l’attacco di panico al Parco della Liberazione doveva essere stato solamente la conferma, per lui. Da quel momento, le aveva fatto spesso domande, invitandola a parlare, ricercando nei suoi gesti o nelle sue parola qualche indizio che tradisse ciò che si nascondeva dietro la maschera. Lo aveva fatto con delicatezza, però, senza mai farla sentire in difetto: uno strano gioco, quello, in cui entrambi si destreggiavano con eleganza. « Quello che voglio dire è che avevo bisogno di andare via. Ma avevo anche bisogno di tornare, di esserci – per me e per voi. » Fece una pausa, inumidendosi le labbra. Sentiva la gola secca, stretta in un groppo fastidioso. « E ora che sono qui voglio esserci davvero. Per qualunque cosa tu abbia bisogno e, a maggior ragione, quando non vuoi nessuno accanto. » Anche a costo di obbligarti a parlare per puro sfinimento. Smise di accarezzarle i capelli e si sollevò appena sul gomito, quasi in attesa. « Perciò… come ti senti? » Mal di testa spaccatimpani a parte.
     
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    « Ronnie? Ronnie. Sei sveglia? » Sì, lo era. Come lo era stata per buona parte della nonne. Erano stati pochi e di breve durata i momenti in cui le sue palpebre si erano chiuse, velate da un sonno irrequieto in cui gli avvenimenti della serata si reiteravano in scenari da incubo che ne alteravano continuamente le fattezze. Era sempre così: la minima discussione riusciva a far scivolare la giovane Rigby in un vortice ossessivo, portandola a rimuginare su tutto e alimentare ancor di più tutti i sentimenti negativi che provava. A volte la sua stessa lucidità la sorprendeva a divagare troppo verso lidi eccessivamente drammatici, ma per quanto si costringesse a tornare con i piedi terra, questo non riusciva comunque a frenarla dal macinare ad oltranza su ciò che provava. Più ci pensava e più sentiva di aver così tante cose da dire - talmente tante da perderne il filo dopo poco, dannandosi per non aver avuto la prontezza sufficiente a dirle nel momento giusto, anche se realisticamente nessuno sarebbe stato zitto ad ascoltare quello che a tutti gli effetti si sarebbe rivelato un monologo. « Ho preparato la colazione. Beh, “preparato” è una parola grossa, ma ho fatto il caffé e c’è ancora della torta. Giuro che non ho dato fuoco alla cucina, non ti toccherà mangiare nessun toast carbonizzato. » Stirò un piccolo sorriso tra sé e sé, pur non rispondendo. « Ti va di parlare? In realtà non devi parlare per forza. Se vuoi puoi anche solo ascoltare o fingere di dormire, anche se io preferirei che parlassimo. Entrambe. » Non aveva un motivo vero e proprio per non parlare se non quello di sentirsi prosciugata, priva di tutte le parole che si erano rincorse nella sua testa per tutta la notte. Forse avrebbe dovuto chiederle come stesse, o scusarsi per averla messa in mezzo ad una situazione spiacevole, ma allo stesso tempo non riusciva a sentirsi responsabile fino in fondo per la piega che quella storia aveva preso. Nonostante tutto, Ronnie non riusciva a perdonare Emile, né a sentirsi in colpa per aver portato alla luce un segreto che il ragazzo avrebbe preferito custodire in sé un po' più a lungo. Semplicemente, Veronica aveva esaurito tutte le energie di abnegazione che le erano rimaste. E se possibile, l'atteggiamento vittimista del giovane Carrow non aveva fatto altro che farla incazzare ancora di più. Era stanca di essere sempre quella comprensiva, quella che metteva gli altri prima di se stessa e che finiva puntualmente per essere delusa dalle stesse persone a cui dava tutto. « Lo so che è difficile e… fa schifo. Ma continuare a tenerti tutto dentro non ti farà sentire meglio. Al contrario, ti sembrerà di soffocare. » Nessie aveva centrato il punto: si sentiva soffocare, come se quella vita - e soprattutto il proprio ruolo nelle vite altrui - gli stessero improvvisamente troppo stretti per essere sopportabili anche solo un secondo di più. Eppure l'orgoglio le aveva sempre impedito di dar voce a quel disagio, portandola al rifiuto totale del dialogo, che sentiva come un'umiliante elemosina di considerazione e rispetto. « Mi dispiace di essere stata via così a lungo. Dopo l’assedio e la ricostruzione… avevo bisogno di andarmene. Non riuscivo a fare finta di nulla, ogni volta che camminavo per Hogsmeade o per il Campus mi sentivo intrappolata in un labirinto irreale. Tutto era come prima, ma… non lo era affatto. Non vedevo altro che violenza e distruzione e… morte. Anche se non erano più lì, io li… li respiravo. Gli incubi stavano peggiorando. Non volevo che ve ne accorgesse, eravamo tutti spaventati e l’ultima cosa che desideravo era farvi preoccupare per me. » Si sentiva fisicamente all'idea che l'amica avesse passato qualcosa del genere, sebbene lei stessa potesse comprendere fin troppo bene quei sentimenti. Avrebbe voluto esserle più vicina in quei momenti, aiutarla, ma la realtà era che, troppo accecata dai propri di problemi, Veronica non si era nemmeno resa conto di quanto Agnes fosse in difficoltà fin quando non se ne era andata. E a quel punto la distanza aveva fatto il proprio lavoro, rendendo le loro comunicazioni superficiali pur se assidue. « Ma credo che Otis se ne sia accorto lo stesso. Non ti ha detto nulla, vero? » No, Otis non mi dice mai nulla. Ma in questo caso non gliene faccio nemmeno una colpa. Non spettava a lui. E non spettava nemmeno a Nessie, che aveva tutto il diritto di affrontare i propri problemi come meglio credeva. Se questo significava allontanarsi da Hogsmeade e non parlare di quanto era successo, allora doveva essere quella la scelta migliore. Lo sapeva perché, su quello stesso punto, era finita per sbatterci i denti in una discussione con lo stesso Otis. « Quello che voglio dire è che avevo bisogno di andare via. Ma avevo anche bisogno di tornare, di esserci – per me e per voi. E ora che sono qui voglio esserci davvero. Per qualunque cosa tu abbia bisogno e, a maggior ragione, quando non vuoi nessuno accanto. » Annuì, forse il primo cenno di vita da quando Nessie era entrata in stanza. « Lo capisco. » disse dunque, trovando strano il suono roco della propria voce che evadeva dalla bocca secca. « Non te ne ho mai fatto una colpa. Sono solo stata felice.. quando hai deciso di tornare. » Si strinse appena nelle spalle. Era la semplice verità. Non poteva dirle di aver vissuto totalmente bene quella sua scelta di andarsene, ma non aveva nemmeno potuto biasimarla del tutto perché la conosceva sufficientemente bene da sapere che non li avrebbe mai lasciati se non per un'ottima ragione. Una comprensione, quella, che invece non aveva riservato ad Emile. La differenza è sottile, ma decisiva. Entrambi ve ne siete andati, ma tu non ci hai abbandonati, mentre lui sì. « Perciò… come ti
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    senti? »
    Rimase per qualche istante in silenzio, con gli occhi fissi sulle persiane da cui trapelavano raggi di luce sufficientemente intensi da illuminare a tiepido giorno l'intera stanza. « Mi sento.. stanca. » Calcò quel semplice aggettivo come a conferirgli più significato di quanto la parola in sé ne avesse, ripiombando nel silenzio subito dopo. Sospirò, voltandosi dopo qualche secondo per mettersi a sedere sul letto, col cuscino dietro la schiena. Allungò dunque una mano verso la tazza ancora fumante di caffè che Nessie aveva lasciato per lei sul comodino, scoccandole un piccolo sorriso di ringraziamento prima di soffiarvi sopra e prenderne un primo sorso. Mentre riordinava i pensieri, lasciò passare altri istanti di silenzio, gettando lo sguardo alla finestra per constatare dalle fessure delle persiane che doveva già essere tarda mattinata. « Credo di essere stanca di sentirmi come il personaggio di supporto nelle storie altrui. » Sempre in secondo piano. Presente quando c'è bisogno di me, ma dimenticabile quando si tratta di dare spazio ai protagonisti. Sì.. è stancante esistere solo in condizione del ruolo e dello spazio che gli altri sono disposti a concederti. « È da un po' che mi sento così: arrabbiata e frustrata. E ieri.. non lo so, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. » Perché ciò che era accaduto con Emi era piccolo se preso singolarmente, ma il contesto all'interno del quale si era inserito e il tempismo avevano creato un risultato esplosivo. Le persone sono come le pozioni: gli stessi ingredienti possono dare risultati diversi, un secondo in più o uno in meno possono essere determinanti nel risultato finale, e la minima variazione nell'ambiente circostante può portare ad una catastrofe annunciata. La pozionistica, però, è prevedibile. La puoi controllare. Le persone invece no. Sospirò, volgendo lo sguardo a Nessie. « La verità, per quanto possa suonarti ridicolo, è che tu sei la prima persona che mi chiede come mi sento da.. » Sbuffò una risata amara, scuotendo il capo tra sé e sé con gli occhi al soffitto. « ..cazzo, nemmeno mi ricordo da quanto. » Suona triste, vero? Perché lo è. « E lo so che in parte è colpa mia perché parlo troppo senza mai dire nulla di reale, ma mi sento così prosciugata. Mi sento.. mi sento come un cazzo di bancomat emotivo: la gente passa, ritira quello che gli serve, e poi se ne va. » Prese un sospiro più pesante. Non aveva mai dato voce al modo in cui si sentiva, e sentire quelle parole uscire dalle proprie stesse labbra la colpì più forte di quanto avesse preventivato, portando i suoi occhi a lucidarsi di lacrime che cercò inutilmente di scacciar via tirando su col naso. « E mi sento così patetica a dirlo, così tanto patetica, perché non voglio elemosinare né l'affetto né il rispetto di nessuno. Non voglio che i miei amici dicano "poverina Ronnie, bisogna considerarla di più altrimenti ci rimane male", perché la pietà confermerebbe solo la mia secondarietà. » Si portò la tazza alle labbra, ma scosse il capo, incapace di buttar giù un altro sorso nello stomaco chiuso da quel senso di pesantezza mentre le lacrime cominciavano a scorrere più copiose lungo le sue guance. Con mani tremanti poggiò la tazza lì dove l'aveva presa, strofinandosi gli occhi col dorso delle mani. « Ho vissuto tutta la mia vita sentendomi compatita per la condizione economica della mia famiglia. Non voglio esserlo anche nelle amicizie. Perché fa veramente schifo. » Fece una pausa. « Ed è così che mi sento. Da schifo. Non per Emile. Non per la sua fottutissima sessualità di cui non me ne frega un cazzo. Ma perché mi sento costantemente usata e puntualmente messa da parte. » E ti fa sentire un'idiota, perché mentre tu rimani a farti il sangue amaro, gli altri vanno serenamente avanti con le loro vite.



     
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    « Lo capisco. »
    Quando la voce di Veronica spezzò il silenzio, bassa e roca, Agnés si concesse un silenzioso sospiro di sollievo. Sebbene si trattasse di poche parole, era un passo avanti rispetto alla totale passività di poco prima. « Non te ne ho mai fatto una colpa. Sono solo stata felice.. quando hai deciso di tornare. » Fu il suo turno di annuire, sebbene la coinquilina non potesse vederla. « Lo so. Mi dispiace solo di averci messo così tanto. » Perché, nonostante tutti i buoni propositi, non sono stata presente. La verità era che, agli occhi di Nessie, Ronnie era sempre apparsa forte e indipendente. L’aveva sempre ammirata per quello, talvolta persino invidiata, sebbene il tipo di gelosia di cui Agnés era capace era più che altro rivolta verso sé stessa: la terribile paura di non essere mai abbastanza e la malsana abitudine di paragonarsi a ogni altra ragazza, trovando ancor più insopportabile qualunque suo piccolo difetto. « Mi sento.. stanca. » La voce della sua coinquilina risuonò spenta, ben lontana dal tono vivace ed allegro a cui Nessie era abituata. Approfittò di quegli istanti di silenzio per scostarsi, appoggiando la schiena contro la testata del letto, le braccia magre strette attorno alle gambe nude. Non voleva interrompere il silenzio prima che Veronica si sentisse pronta a farlo; desiderava darle il tempo di cui aveva bisogno per pensare o, anche solo ponderare se desiderasse proseguire in quella conversazione. « Credo di essere stanca di sentirmi come il personaggio di supporto nelle storie altrui. È da un po' che mi sento così: arrabbiata e frustrata. E ieri.. non lo so, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. » Gli occhi chiari di Agnés incontrarono quelli color nocciola di Ronnie e la Serpverde accennò da un piccolo sorriso, un misto di tristezza e comprensione. Ripensando alla sera prima, quando Veronica aveva confrontato Èmi, era palese che la sua decisione fosse stata del tutto impulsiva e guidata dall’emotività del momento; e, per quanto ciò che aveva fatto il giovane Carrow fosse sbagliato, la frustrazione di Ronnie doveva avere un’origine più profonda. « La verità, per quanto possa suonarti ridicolo, è che tu sei la prima persona che mi chiede come mi sento da… cazzo, nemmeno mi ricordo da quanto. E lo so che in parte è colpa mia perché parlo troppo senza mai dire nulla di reale, ma mi sento così prosciugata. Mi sento.. mi sento come un cazzo di bancomat emotivo: la gente passa, ritira quello che gli serve, e poi se ne va. » Quando le prime lacrime di Ronnie iniziarono a bagnarle le guance, Agnés avvertì un profondo senso di colpa farsi largo dentro di lei. Lo stomaco si contorse in un nodo fastidioso e, d’un tratto, gli occhi iniziarono a bruciarle, altrettanto lucidi. Si sentì stupida – stupida ed ottusa, per non aver notato prima tutta quella sofferenza come se, d’un tratto, si fosse accorta che forse Ronnie aveva bisogno di sostegno e comprensione più di quanto avesse mai immaginato. « E mi sento così patetica a dirlo, così tanto patetica, perché non voglio elemosinare né l'affetto né il rispetto di nessuno. [...] Ho vissuto tutta la mia vita sentendomi compatita per la condizione economica della mia famiglia. Non voglio esserlo anche nelle amicizie. Perché fa veramente schifo. Ed è così che mi sento. Da schifo. Non per Emile. Non per la sua fottutissima sessualità di cui non me ne frega un cazzo. Ma perché mi sento costantemente usata e puntualmente messa da parte. » Mentre Veronica parlava, Agnés si morse l’interno della guancia, le mani strette attorno alle cosce fino a far sbiancare la pelle. Poteva percepire il dolore e la frustrazione di Ronnie attraverso le sue parole, e lo sentiva riempire la stanza, scivolarle sotto la pelle fino a mozzarle il fiato. In un certo senso, le emozioni descritte da Ronnie le sembravano dolorosamente familiari, come se stesse rivivendo le proprie lotte interiori. Conosceva il sapore amore di quella frustrazione, l’infelice sensazione di essere messa da parte con una tale facilità da risultare disarmante. « Ronnie. » La chiamò, con voce morbida e incerta. Non sapeva bene cosa dire, da che punto incominciare. Vi erano almeno un miliardo di cose che avrebbe voluto dirle, eppure ciascuna le sembrava inadeguata, insulsa, incapace di alleviare in alcun modo il dolore della giovane Rigby. In quel momento si rese conto che avrebbe voluto abbracciarla, stringerla a sé per confortarla fino a quando Ronnie avesse voluto, liberarla da quella tristezza fino a cancellarne anche il solo ricordo. Si inumidì le labbra, allentando leggermente la presa sulle proprie gambe. « Ti ringrazio per esserti confidata con me. » Ti sei fidata di me, anche se forse non me lo merito. Allungò una mano nella sua direzione, intrecciando le dita con quelle dell’amica. « Tu non sei patetica. Non lo sei mai stata. Sei la persona più tenace che conosco e nulla e nessuno dovrebbe farti sentire in altro modo. » Scosse il capo, cercando di riordinare i propri pensieri. « E non è solo questo. Sei gentile, coraggiosa e un’amica incredibile. Ti prendi cura degli altri persino più di te stessa e chiunque faccia parte della tua vita non potrebbe essere più fortunato. » Lo pensava davvero. Io sono fortunata. E dovrei dirtelo più spesso. « Nessun vero amico potrebbe provare pena per te – indipentemente dalla tua situazione economica o meno. E so che sei abituata a gestire le emozioni a modo tuo, non c’è nulla di sbagliato in questo, ma… » Esitò, abbassando lo sguardo sulle lenzuola. « Io ti capisco, in un certo senso. Lo so che condividere le emozioni può essere spaventoso; per quanto riguarda me, mi sento come se parlarne ad alta voce le renda più forti, più reali. » Accennò ad un sorriso, scotandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio con un gesto nervoso. « Ma se c’è una cosa che ho imparato in terapia è che permettere a chi ti vuole bene di condividere il peso delle tue emozioni è un grande regalo. Non è debolezza chiedere aiuto o mostrare i tuoi sentimenti. È umanità. » Non era stato semplice venire a patti con quella realizzazione e, tutt’ora, per Nessie risultava assai più semplice nella teoria che nella pratica. Ma si stava sforzando di migliorare, giorno dopo giorno. « Quello che voglio dire è che… sei una persona preziosa, Ronnie. » Ben più di quanto tu creda. « Tu sei importante, e lo sono sono anche le tue emozioni. Non dovresti sopprimerle o nasconderle, e non dovresti fare finta di nulla se c’è qualcosa che ti infastidisce. Di qualunque cosa si tratti. » Strinse gentilmente la mano di Ronnie, cercando di trasmetterle il suo sostegno. « Non posso arrogarmi il diritto di parlare per altri, ma io ci sono per te. E puoi dirmi tutto quello che vuoi, in qualsiasi momento. E se non ti senti pronta a parlare, possiamo anche non parlare insieme. » Le sorrise, allungando una mano ad asciugarle gentilmente la guancia. Sappi che non ti lascerò mai da parte.


     
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