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    Théa doveva essere al suo terzo o quarto drink della serata. Qualcosa dell'esibirsi di fronte ad un gruppo ristretto di persone sembrava innervosirla di più rispetto ai concerti a cui era più abituata, o alle più frequenti performance indisturbate, senza nessuno che potesse ascoltarla o accompagnarla se non l'ininterrotto canto notturno delle cicale. Dall'esterno, tuttavia, la fortuna era che apparisse perfettamente a proprio agio, le dita sottili avvolgevano il calice di champagne come la corolla di un fiore, le labbra piene e tinte sottilmente non tradivano alcun tremolio. Sapeva che avrebbe fatto un buon lavoro. Poggiò un gomito sul bancone in legno massiccio, la carne delle labbra distrattamente mordicchiata, e rivolse un sorriso accennato ad un signore poco distante, che sembrava averla riconosciuta. Non la stancava, tutta quella cortesia forzata, per quanto fosse difficile da credere. L'unico momento in cui risultasse noioso era quando le persone sembravano non vederla davvero, non le facevano neanche una domanda sensata, le urlavano di posare o di farsi una foto con loro e poi lei non contava più niente – la sua immagine ritratta valeva di più. Era un rapporto complicato, quello che Théa aveva dovuto imparare ad avere con la propria crescente fama, ma non era né la prima né l'ultima, se ne rendeva conto. Si asteneva dal lamentarsene con chi non l'avrebbe capita, la necessità di spiegarsi, chiarire, rettificare, dosare la estenuava come poche altre cose. Era rimasta incredibilmente sorpresa, però, da quanto piatta potesse essere la vita di una celebrità, a parte gli impegni di lavoro come quello. Aveva sempre saputo che niente della vita da starlet fosse altrettanto abbagliante quanto sembrava nell'immaginario collettivo, né tantomeno le sarebbe interessato essere sotto i riflettori ventiquattr'ore su ventiquattro, ma la maggior parte del tempo che aveva libero lo trascorreva a riposare e a dedicarsi alle cose che aveva sempre fatto anche prima di apparire sulle copertine patinate. Non c'erano state particolari avventure, né scandali succosi, e questo perché in fondo la fama non fa che amplificare ciò che c'è al di sotto della lente, e diventa esattamente ciò che tu vuoi che diventi per te; si aspettava di sentirsi avvolta da un turbine, ma come nell'occhio di un ciclone tutto appariva immobile e uguale a se stesso. Riceveva qualche attenzione in più, sicuramente più di quante non ne avesse mai ricevute vivendo nella congrega a Biarritz, dove aveva trascorso la maggior parte della vita, ma la cosa segretamente la gratificava la maggior parte del tempo, sebbene la natura degli sguardi che le venivano rivolti potesse variare ampiamente.
    Il Castello Fraser le faceva salire la nostalgia delle fortezze scozzesi disseminate sulle montagne tra le quali si annidava casa sua. Esibirsi in un castello la trovava una pratica vagamente demodé, un po' pretenziosa, ma per nessun motivo nello specifico: non avrebbe saputo proporre un'altra location che l'avrebbe fatta sentire più a suo agio. L'iniziativa di beneficenza, d'altronde, era stata una motivazione sufficientemente valida per partecipare, e il fatto che il concerto privato che avrebbe offerto ai partecipanti fosse un incentivo per gli invitati l'aveva trovato lusinghiero quanto intimidatorio. Théa aveva soltanto ventitré anni. La maggior parte delle persone che sarebbero state presenti aveva immaginato fossero oltre i quaranta, e infatti così era stato. La sua giovinezza sembrava beneficiare di quel vantaggio per brillare ancora più forte, il suo ego avrebbe potuto nutrirsene, era giovane, bella e di successo, eppure Théa si sentiva come una bambina, complice l'eleganza e la pomposità di una serata che aveva un intento anche diplomatico oltre che filantropico. Era circondata da pezzi grossi e mogli, stretti nei loro vestiti migliori, radunati in un castello antico – che però le dava l'impressione di essere falso nella propria ostentata secolarità – per un gala di beneficenza per raccogliere fondi tramite un'asta, rivolti ad associazioni di cui non era sicura di aver capito la causa. Sentiva la propria corporeità con pericolosa consapevolezza, si sentiva un pesce fuor d'acqua, in un modo che era per lei molto familiare sin da quando aveva lasciato la congrega, buttandosi in un mondo ignoto in cui tutto era estraneo – lei compresa. Adesso la volevano, la includevano, nonostante la sua natura, che anzi sembrava la rendesse più speciale, accumulando ancora più curiosità. Non si preoccupava di cosa pensasse la gente di lei,
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    non le era mai venuto naturale farlo, ma era un dato oggettivo quanto evidente fosse, quella sera, la propria diversità. Sembrava portarla con una punta di orgoglio, forse difensivo, forse protettivo. Alla fine, poteva persino essere divertente: a quel punto della sua vita, cominciava a sentirsi inebriata da quella sua onnipresente unicità. Vuotò il bicchiere senza approfondire lo scambio di sguardi che lo stregone che continuava a guardarla avrebbe auspicato di stabilire, elegantemente sottraendosene, e si diresse verso la parte della sala dove le era stato indicato si sarebbe esibita. Neanche l'allestimento dell'ampio salone rientrava nei suoi gusti. Aveva notato i centrotavola: fiori di loto sospesi su specchi d'acqua che riempivano quelle che sembravano a tutti gli effetti delle enormi tazze da tè trasparenti. Strani, pensò, mentre prendeva posto e accarezzava distrattamente i tasti del pianoforte a coda. Grosse candele incantate fluttuavano a più di tre metri nello spazio sovrastante, e il soffitto era magicamente reso somigliante ad un cielo notturno, con stelle cadenti che di tanto in tanto comparivano come lampi senza che i presenti sembrassero accorgersene. «Come procede, cara? Sei pronta per l'esibizione?» Galathéa annuì, distogliendo lo sguardo assorto dalla volta celeste che non faceva che aumentare in lei la sensazione di trovarsi in un posto in cui la parola d'ordine fosse artificioso. «Tutto stupendo» mentì, sbattendo le palpebre un paio di volte. Cara, quella tendenza che avevano le streghe aristocratiche a usare epiteti falsamente calorosi la divertiva. Avrebbe dovuto rispondere anche lei con un cara? «Mi raccomando, se qualcuno ti importuna dimmelo immediatamente. Lo facciamo scortare fuori.» La vigilanza messa a disposizione dal corpo di sicurezza, quella sera, l'aveva fatta preoccupare più di qualunque effettiva o reale minaccia riuscisse a immaginare. Non era stata presente durante gli scontri tra il popolo dei lycan e quello dei maghi, per cui non poteva capire l'entità della tensione tra i due gruppi, sebbene ne conoscesse la ragione. «Non credo sarà assolutamente necessario, Cynthia. Ti ringrazio.» Sul perché poi avrebbero dovuto infastidire proprio lei quelle persone che sembravano a tanto così dal cominciare a specchiarsi nei cucchiai era un altro dei tanti interrogativi. Si mise nuovamente a sedere, accavallando le gambe coperte dal tessuto morbido del vestito. «Molto bene, allora direi che tra cinque minuti it's showtime. Siamo così emozionati.» Sorrise, stavolta sinceramente, la voglia di esibirsi impunemente crescente. «Vado ad annunciarti! Bonne chance, cherie! Si dice così, no?» E svolazzò via, mentre Théa ridacchiava mordicchiandosi le labbra e annuendo. Cynthia Metcalfe, la direttrice di una qualche sorta di comitato di beneficenza responsabile per la serata, fece una corsetta verso il palco, più in fondo rispetto a dov'era lei, impedita dal lungo vestito verde smeraldo. Indossava un cappello molto buffo, con una piuma di pavone screziata di arancione. Quando fu salita, con l'aiuto di alcuni signori prontamente in piedi ad assisterla, tamburellò con le dita sulla propria bacchetta. «Prova, prova... Mi sentite?» Un applauso debole, accompagnato da Théa, le suggerì di procedere. «Molto bene. Allora! Buonasera, vi disturberò con la mia voce starnazzante solo per alcuni istanti... Voglio ringraziare ancora una volta a nome della Greengrass Foundation tutti i presenti per le generose offerte e la calorosa partecipazione. L'asta riprenderà a breve, ma siamo già quasi a metà. Colgo l'occasione per congratularmi con i vincitori degli artefatti finora assegnati: un sentito ringraziamento al signor Louis Montgomery, ad un donatore anonimo, alla signorina Pippa Lovegood e al signorino Nathan Douglas.» Un altro applauso scrosciante, lo sguardo di Théa che vagava per la stanza cercando di individuare gli acquirenti per pura curiosità. Un ragazzo stava in piedi poco distante da lei, e accoglieva li sguardi di conoscenti che si voltavano nella sua direzione per rivolgergli i propri applausi. Lui incontrò gli occhi di Théa per qualche istante, prima di scambiare una stretta di mano con un signore particolarmente ammirante. Poco dopo tornò a guardarla, e lei piegò appena il capo in un cenno di congratulazioni, accompagnato da un sorriso gentile. Il galateo degli aristocratici, che spendono soldi e vengono applauditi per averlo fatto. È per una giusta causa, suppongo, qualunque essa sia. «Accomodatevi, prego. Mentre gustate la cena, è un onore e un piacere per me introdurre un'ospite speciale, che sicuramente molti di voi conosceranno. Signore e signori: Galathéa Durand.» La schiena dritta, le mani sui tasti, chinò il capo prima verso destra e poi verso sinistra, ricordando la postura di una ballerina. Cominciò a suonare, senza bisogno degli spartiti, per quel primo brano.
     
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    Quando Nate aveva iniziato a lavorare all'Ufficio per la Cooperazione Internazionale Magica, era ben consapevole dei pomeriggi tediosi che lo attendevano, tra le scartoffie da cui sarebbe stato sommerso e i mille passaggi burocratici a cui fare attenzione. Era il lavoro dell'ultimo arrivato e - suo malgrado - gli stava bene: le cose ormai andavano così e, per quanto intraprendere il cursus honorum da zero gli richiedesse tempo e pazienza, era quella una sfida che lo stuzzicava al contempo. Seduto alla propria scrivania dell'ufficio del terzo piano, a sbrigare pratiche di poco conto e smistare carpette, gli piaceva fantasticare sugli anni a venire, sul futuro che si sarebbe costruito per conto proprio e senza l'aiuto di nessuno.
    Gli doleva ammetterlo, però si ritrovava a pensare che ci fosse qualcosa di elettrizzante nella promessa di valore del Progetto Minerva: quell'idea di costruirsi da sé, andare avanti con le proprie forze e secondo le proprie abilità. Certo, tutte queste belle idee reggevano solo se sorrette dall'impalcatura di un sistema meritocratico, e per quanto Nathan provasse a immaginarsi ottimista, non era un illuso. Era profondamente convinto che mai la meritocrazia avrebbe potuto funzionare nel sistema pubblico, e le promesse di un sistema più equo non erano che una farsa - con plurime dimostrazioni di ciò anche in seno al Progetto Minerva. Però, appunto, fantasticava.
    Probabilmente l'aspetto realmente rivoluzionario di quel suo nuovo lavoro - e che alla lunga l'aveva portato a immaginarsi chissà quali trionfanti risvolti - era l'anonimato. Non si trattava di un anonimato vero, certo, dopo tutto il nome Douglas non poteva di certo essere cancellato dalle stanze del Ministero; era piuttosto un anonimato sostanziale, per così dire: le persone intorno a lui sapevano chi fosse, ma il suo nome non era più importante. Aveva percepito un che di liberatorio in questa piccola scoperta. Se da una parte aveva perso molti privilegi, dall'altra avrebbe potuto argomentare di averne acquisiti altrettanti. Il peso del proprio nome non gravava più sulle sue spalle come un tempo, e con il passare del tempo aveva imparato perfino a concedersi qualche momento di pausa dal proprio rigore. Scoprì di potere sbagliare, perché un suo errore, in quel piccolo ufficio con le scrivanie di legno di faggio, non avrebbe portato a conseguenze di alcun tipo, se non ad una moderata inconvenienza. L'essere insignificante aveva portato con sé una ventata di freschezza, avrebbe osato dire di libertà.
    C'erano occasioni, tuttavia, in cui il suo nome tornava a risuonare, come quella piccola serata di beneficienza a Flindrinkin. Un classico evento di rappresentanza, organizzato dalla delegazione magica inglese, in collaborazione con la Fondazione Metcalfe, con l'obiettivo principale di ingraziarsi qualche ambasciatore dei Ribelli, donando denaro alle famiglie meno abbienti di Flindrinkin. Cambiano le persone, ma i metodi restano gli stessi. « Colgo l'occasione per congratularmi con i vincitori degli artefatti finora assegnati: un sentito ringraziamento al signor Louis Montgomery, ad un donatore anonimo, alla signorina Pippa Lovegood e al signorino Nathan Douglas. » Sentendo il proprio nome, si voltò verso il palco, dove Cynthia Metcalfe stava dando inizio alla serata, e le rivolse un sorriso cordiale a labbra strette. I Metcalfe erano una di quelle famiglie che non aveva esitato a salire sul carro del vincitore, quando il Progetto Minerva aveva trionfato; fino a qualche anno prima Cynthia e suo marito avrebbero fatto carte false pur di infilarsi in una delle partite di golf magico di Basil Greengrass, per assicurare a quel demente di loro figlio Ryder un posto agli uffici del Wizengamot. Ora, per chissà quale strano incanto, davano tutti l'idea di aver sempre sostenuto il Progetto Minerva dall'inizio. Vipere.
    Si mise a sedere al tavolo a cui era stato assegnato, ben intenzionato a dissociarsi per buona parte della serata. Dopo tutto c'era ben poco di interessante tra i commensali con cui avrebbe condiviso la cena: le discussioni degne di nota quella sera ci sarebbero state, certo, ma sarebbero avvenute qualche da un'altra parte, non di certo al tavolo degli assistenti d'ufficio al quale era stato assegnato, in fondo alla stanza. Era ancora un po' difficile accettare di essere emarginato da certe conversazioni. « Mentre gustate la cena, è un onore e un piacere per me introdurre un'ospite speciale, che sicuramente molti di voi conosceranno. Signore e signori: Galathéa Durand. »
    « Oddio ma c'è Galathea Durand!!! Non ci credo! Sai che io sono stata ad un suo concerto a maggio?! » Lucy, meglio nota come Lucinda, era la tirocinante del suo ufficio, che il suo superiore si era portato dietro in quella trasferta a Flindrinkin per motivi imprecisati. Nate una sua idea in merito se l'era fatta, e aveva ovviamente a che fare con la meritocrazia. Lucinda aveva la classica parlantina fastidiosa che Nate recludeva in un angolo del proprio cervello, mentre fingeva di ascoltarla. In quel momento, però, si ritrovò a seguire l'attenzione della ragazza, e posare gli occhi sulla figura esile che si era appena accomodata al pianoforte, sul palco in fondo alla sala. « Lei è pazzesca ti giuro, conosco le sue canzoni a memoria. Devi ascoltare l'ultima raccolta che ha pubblicato... » Lucinda, galvanizzata da quell'insolito sguardo curioso, era già partita in quarta.
    « Mi sembra d'averla già vista da qualche parte. È una specie di Veela? »
    « No, Veela non credo. Forse è ondina. Anche se è bellissima proprio come una Veela, hai ragione! Quest'estate ho chiesto al parrucchiere di farmi i capelli proprio come i suoi però secondo me non li ha saputi fare, infatti mi ha fatto questa frangetta terribile che... »
    « Lucinda, perdonami, vorrei ascoltare un po' di musica. » Ultimamente si sforzava di riservare cordialità anche alle persone che non riteneva degne di grande rispetto. Se un tempo avrebbe fatto star zitta una come Lucinda con un banale quanto scorbutico "Non mi interessa", ora la maturità degli anni gli imponeva trovare scuse gentili anche con chi non lo meritava.
    « Oh sì, che stupida. Godiamoci questa musica, che quando ci ricapita! Dopo le vado a chiedere l'autografo. » Che gran fortuna.

    « Nathan, mio caro, quanto tempo! Come stai? » Conclusa la cena, le note delicate del pianoforte della Durand si erano dissolte gradualmente, in maniera quasi naturale, fino a quando non si erano fuse con il chiacchiericcio della sala, per poi lasciare il posto a quest'ultimo. Gli occhi chiari di Nate seguirono i movimenti delicati della ragazza, mentre raccoglieva qualche spartito e si alzava dallo sgabello, raccogliendo di buon grado l'applauso della sala. La vide sparire dietro ad una quinta, nello stesso modo in cui anche lui avrebbe voluto dileguarsi in quegli istanti, pur di evitare una tediosa conversazione con Cynthia Metcalfe. E invece stette lì, a parlare del più e del meno, perché la cordialità e, in ultima analisi, lo status della donna glielo imponevano. « E dimmi, hai gradito l'opera che hai acquistato? Di certo un pezzo imperdibile. » Come no. « Certamente, un'opera unica nel suo genere. » Letteralmente un brutto acquarello di un roseto con una casa dietro gli era costato diecimila galeoni. Uno spreco immane, ma avrebbe fatto una figuraccia a donare una somma inferiore a quella cifra. « E dimmi caro, tuo padre come sta? Gli affari? So che è un periodo difficile... E Basil, l'hai più visto? Come mi mancano le sue feste da ballo... Quelli erano davvero altri tempi... » ammise Cynthia, sospirando con aria nostalgica. « Porterò i suoi saluti a mio padre e a Basil. L'ultima festa da ballo dai Greengrass se non erro è stata venerdì scorso. » Peccato che non siate più i benvenuti. Si strinse nelle spalle, rivolgendo alla donna un sorriso serafico. « È stato un piacere. Con permesso. » E così dicendo si dileguò, diretto verso qualcuno dei tavoli dedicati ai drink.
    Mentre si faceva porgere da uno dei camerieri un bicchiere di prosecco, la sua attenzione fu catturata da due figure in fondo alla sala, appena sotto al palco. Una era Galathea Durand, la pianista della serata, che sorrideva cordiale alla seconda figura; quest'ultima gesticolava con veemenza e, seppur di spalle, non fu difficile da identificare: Lucinda. Nate soffocò una risata, provando una sorta di compassione per quella povera ragazza, sommersa dalle attenzioni di una piovra come Lucinda. Istintivamente, si allungò verso il cameriere, indicando il prosecco. « Me ne darebbe un secondo? Grazie mille. » Si avvicinò alle due ragazze a passo lento, di tanto in tanto gettando lo sguardo agli altri presenti. Nel frattempo, un quartetto d'archi aveva cominciato a suonare una nuova melodia. « Lucinda. » Quando fu vicino alla coppia, Nate si accorse di star interrompendo una conversazione alquanto intensa. O meglio, più che conversazione si trattava di un monologo, dove Lucinda sembrava star riassumendo la storia della sua vita. Nate si schiarì la gola, fino a cogliere l'attenzione delle due ragazze. « Ti sta cercando Terence. Ha detto che è urgente. » Lucinda impallidì.
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    « Oddio, no, davvero? Ma io... Stavo... Sei sicuro? Ha proprio detto che è urgente? » Nate si strinse le spalle. « Lui ha detto così. » Lucinda guardò Galathea con la stessa espressione di un bambino che è costretto dal proprio genitore a cambiare canale dai cartoni animati al telegiornale. Gli occhi pieni di vita si spensero, mentre emetteva un profondo sospiro. « Uff... Va bene... Galathea, è stato un gran piacere. Magari torno più tardi a raccontarti il resto? Grazie per la foto! » E così dicendo scappò via dall'altra parte della stanza, correndo in maniera un po' goffa sui propri tacchetti bassi.
    Gli occhi chiari di Nate la seguirono per qualche metro, prima che si voltasse nuovamente verso Galathea Durand. « Prego » disse, mettendole in mano il secondo bicchiere di prosecco. Evitò di specificare se si riferisse al bicchiere offerto o all'aver mandato via quella piovra di Lucy. In questi casi, era sempre più elegante sottintendere. « Volevo complimentarmi per l'ottimo concerto. Grande controllo, precisione nell'articolazione e nella gamma dinamica. Belle anche le transizioni. Complimenti davvero. » Come pianista Nate non si reputava amatoriale, ma nemmeno eccelso; questo anche perché non aveva mai sviluppato una passione particolare per lo strumento, pur essendo stato posto davanti ai tasti bianchi e neri sin dall'età di due anni. Era però l'unico strumento il cui studio aveva portato avanti più seriamente negli anni, abbandonando gli altri strumenti qua e là. « Sono Nate, comunque. » Allungò poi la mano per prendere la sua; la guidò fino alle sue labbra, con le quali ne sfiorò appena le dita, in un bacio delicato. « È un piacere. »

    [spoiler_tag][/spoiler_tag]bleahhhh Nate che schifoooo stiamo nel 2023 e tu ancora ci provi col baciamano SEI VISCIDO

     
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    Sicuramente la difficoltà maggiore, cresciuta in una realtà come quella warlock, doveva essere la formalità di eventi magici come quello. Se pure non si potesse esattamente definire lo stile degli warlock sobrio, prediligendo una certa dose di eccentricità e stramberie nelle proprie celebrazioni e serate importanti, c'era una pomposità tutta appartenente alla comunità inglese a cui Théa non riusciva a non fare caso. A quel punto per lei ambientarsi non era un compito nuovo e per questo per nulla difficile: non aveva fatto altro, nella sua vita, da che aveva memoria. Abitudine. Ma lo notava: tratteneva sorrisetti divertiti sbirciando i maghi e le streghe elegantissimi, alcuni addirittura indossavano lunghi guanti di un tessuto che doveva essere seta, e sembravano davvero compiaciuti da tutto quel parlare senza muovere veramente le labbra, lasciando dietro di sé infinite scie di profumo e discutendo di faccende politiche senza veramente dire niente di particolarmente chiaro. «Mi scusi, signorina Durand, posso disturbarla un secondo?» Galathéa spostò lo sguardo sulla ragazza che le si era avvicinata accanto con estrema discrezione senza veramente aver udito cosa le avesse chiesto, rapita dai propri pensieri. «Lei è Galathéa Durand, giusto?» «Oh! Sì, sì, lei in persona». Difficile tenere a mente che la gente a volte la riconoscesse, per quanto poco lasciava la casa o frequentava luoghi pubblici. «Però dammi del tu! Tu sei...?» Inclinò la testa, tirandosi su a sedere dallo sgabello accostato al pianoforte. «Lucinda. Per gli amici Lucy.» Le porse la mano, un'espressione di un entusiasmo che non comprendeva appieno e che vagamente la metteva a disagio – ma almeno non era costretta in stupide formalità. Gliela strinse, un sorriso incerto, mentre la domanda e quindi io devo chiamarti Lucinda, giusto? prendeva evidentemente forma nella sua testa. «Come... Come mai sei qui?» Tentò di fare conversazione, una cosa che era abituata a fare molto poco a meno che non fosse strettamente necessario. Per fortuna Lucinda faceva il grosso da sé. «Oh, sono una praticante in uno studio di
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    Magisprudenza molto noto. Non sto ad annoiarti, comunque il mio capo è un pezzo abbastanza grosso e seguiamo alcuni clienti che presenziano all'Asta – è sempre bene coltivare questo tipo di relazioni, sai.»
    Un sopracciglio pericolosamente arricciato tradiva un: non sono sicura di saperlo. «Comunque, io sono venuta a presentarmi perché sono una tua fan sfegatata.» Il viso di Théa si distese in un sorrisetto tra il compiaciuto e l'imbarazzato. Chinò il capo, pensando che non fosse mai semplice riuscire a decidere cosa fosse più opportuno rispondere in quei casi. «Grazie! Grazie davvero, uhm–» «Sono stata al tuo concerto, quello a Berlino, lo scorso maggio. Sei stata divina Tenne il capo chinato, continuando ad annuire. I complimenti facevano sempre piacere, ma c'era un momento in cui ti chiedevi che cosa l'altra persona volesse esattamente da te, nel comunicarteli. Non voleva essere cervellotica o cinica, solo... Non era la sua fama nel mondo della musica ciò che la rendeva più fiera. «Sai, temo che mi prenderò una pausa per un po' dalla musica» le confessò, cercando di spostare la conversazione dall'adulazione alla delusione – molto, molto più confortevole. Il viso di Lucinda crollò in una smorfia scioccata. Théa scoppiò in una risatina leggera quando vide quella reazione plateale. «Non amo molto le luci della ribalta, devo dirti. Non mi fraintendere, sono molto fortunata a fare la vita che faccio, ma non è la mia vita – capisci?» Lucinda, evidentemente, non capiva. «Ma scusa, sei soltanto all'inizio! Non puoi arrenderti ora soltanto perché non sei riuscita a sfondare fuori dall'Europa – arriverai anche al mercato americano, ne sono sicura». Una mano che intendeva essere confortante sulla spalla, che Théa puntò con gli occhi, il viso immobile, le labbra strette. Accondiscendente e pure invadente in un solo colpo. Notevole. «No ma non è affatto questo il punt–» «Io ero come te, Théa» Ma chi ti conosce? «Avevo paura di lasciarmi avere cose belle per paura di romperle, di rovinarle, o peggio ancora di non riuscire a raggiungerle davvero qualora mi fossi fatta abbastanza coraggio da provarci. Avevo paura del fallimento, proprio come te, e dubitavo della strada giusta per me. Ma cosa ti blocca? È perché temi che il tuo genere musicale sia un po' fuori moda? Beh, potrebbe esserlo in effetti, ma non è mai troppo tardi per cambiare direzione. Vedi come ha fatto Taylor Swift, con 1989...» «Lucinda.» Grazie. Galathéa, paralizzata, stringeva le labbra tra i denti e sembrava trattenere il respiro – non si capiva se perché altrimenti sarebbe scoppiata a ridere o si sarebbe messa a urlare. «Ti sta cercando Terence. Ha detto che è urgente.» Théa annuì, delicatamente sfilandosi la mano di Lucinda ancora arpionata attorno alla spalla di dosso, spostandosi di mezzo centimetro verso destra. «Oddio, no, davvero? Ma io... Stavo... Sei sicuro? Ha proprio detto che è urgente?» «Ehi, quando è urgente è urgente!» «Lui ha detto così» «Eh, se ha detto così... Ciao Lucinda!» «Uff... Va bene... Galathéa, è stato un gran piacere. Magari torno più tardi a raccontarti il resto?» Ti prego, perditi tra la folla. Théa si limitò a continuare ad annuire, e tentò addirittura un sorrisetto, mentre la ragazza correva via, accompagnandola con un cenno della mano poco convinto. Espirò piano, chiudendo gli occhi. Si passo la lingua sulle labbra, torturate dalla morsa dei denti. «Prego». Quando li riaprì, focalizzò lo sguardo su chi le si parava di fronte – il ragazzo che aveva intravisto poco prima, mentre suonava. «Doveva essere proprio urgente» commentò sarcastica, accettando il bicchiere che le stava porgendo con due mani, una a cingere il calice e un'altra alla base, per maggiore supporto – delicata come fosse un oggetto prezioso. «Volevo complimentarmi per l'ottimo concerto» Anche tu? «Grande controllo, precisione nell'articolazione e nella gamma dinamica. Belle anche le transizioni. Complimenti davvero.» La risata di Galathéa stavolta fu più consistente, sinceramente divertita, prima di rendersi conto che il ragazzo fosse invece assolutamente serio. Nascose il viso nella flûte, a quel punto, guardandolo da sopra l'orlo del bicchiere. «A dire la verità non sono familiare con questi tecnicismi. Sei più esperto di me» fece cortese, più composta, inclinando la testa di lato e piegando un angolo della bocca in un sorriso. Non voleva sembrare irrispettosa verso il mondo della musica classica e concertistica, né far sentire il ragazzo a disagio in un chiaro tentativo di evidenziare le proprie conoscenze tecniche. Per lei suonare e cantare non era mai stato nient'altro che naturale – agli antipodi di qualunque tipo di tecnicismo o rigore. Era cresciuta cantando – si poteva quasi dire che alla nascita invece di piangere vocalizzasse, senza davvero sapere che quello fosse un talento, perché era tutto ciò che conosceva, e tutto ciò che gli altri si aspettavano da lei, analogamente. Sei un'ondina, quindi canti. «Sono Nate, comunque» Il baciamano che seguì quell'introduzione le fece sgranare impercettibilmente gli occhi. «È un piacere». Il mondo dei maghi convenzionali era pieno di misteri, regole incomprensibili, convenzioni sociali al limite dell'assurdo e decisamente connotata da ridicoli livelli di repressione, in tutte le sue forme: il fatto che ancora esistessero ragazzi sui vent'anni che elargissero baciamano in seguito alle presentazioni era uno di quelli. Théa recuperò la mano e riprese a stringere le labbra – un gesto che avrebbe ripetuto spesso, quella sera, a quanto pareva. «Siete sempre così... formali Fece, lambendosi il labbro inferiore con le dita, di nuovo quel sorrisetto divertito. «È una comunità affascinante quella dei maghi convenzionali... Oddio, spero non sia offensivo come termine – noi warlock vi chiamiamo così per praticità» fece, arricciando il naso, temendo una gaffe. «Però sì, siete... tradizionali. Quasi conservatori – nel senso migliore del termine, non mi fraintendere. Solo... protocollari, mi pare.» Disse, puntando gli occhi chiarissimi in quelli di lui. «Ho visto che hai fatto una donazione, prima» continuò, gesticolando con il calice in direzione del punto imprecisato della sala in cui si trovava quando aveva ricevuto il pubblico ringraziamento. «Hai a cuore la causa?» Chiese poi, lo sguardo che vagava leggermente distratto sui volti alle spalle del ragazzo.
     
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    « A dire la verità non sono familiare con questi tecnicismi. Sei più esperto di me. » Nate aggrottò la fronte, le labbra incurvate leggermente in un sorriso, la cui innaturalezza ne tradiva la confusione. Per chi aveva iniziato a giocare con i tasti del pianoforte a soli due anni, e che vi aveva dedicato gran parte della sua educazione musicale, un'affermazione come quella di Galathéa Durand era inconcepibile. Si concesse un sorso di prosecco, prima di risponderle. « Ho sempre invidiato il talento naturale » ammise, picchiettando con l'indice sul bordo del proprio flûte, un gesto casuale che accompagnava la sua riflessione. « Chi ha talento può permettersi l'ignoranza; che, a conti fatti, è un lusso considerevole. » Rise, con leggerezza. Non era una critica, la sua, né un giudizio di alcun tipo: pronunciò quelle parole con naturalezza, e con la rassegnazione di chi sapeva di aver ricevuto altre qualità dalla vita. La musica non era mai stata un suo forte, ma gli piaceva, e si impegnava davvero, e provava una sorta di strana ammirazione verso coloro che - come la ragazza davanti a lui - dimostravano di partire con una marcia in più, e di non aver bisogno di "quei tecnicismi", appunto.
    La presentazione di Nate parve prendere in contropiede la ragazza. « Siete sempre così... formali? » Inclinò leggermente il capo, interdetto. « È una comunità affascinante quella dei maghi convenzionali... Oddio, spero non sia offensivo come termine – noi warlock vi chiamiamo così per praticità. Però sì, siete... tradizionali.
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    Quasi conservatori – nel senso migliore del termine, non mi fraintendere. Solo... protocollari, mi pare. »
    L'ascoltò parlare, incuriosito. E così era una warlock. Nate sapeva pochissimo di quelle comunità di maghi, al di fuori di quello che aveva letto su qualche libro di saggistica o manuale scolastico. Il ragazzo fece per ribattere, ma lei lo anticipò con una nuova domanda. « Ho visto che hai fatto una donazione, prima. Hai a cuore la causa? » In quell'istante Nate si accorse dei suoi occhi chiari, puntati come due fanali brillanti nei suoi, con una certa insistenza.
    « Non particolarmente, se devo essere onesto. » Si ritrovò ad ammettere la verità, contro ogni propria regola personale. In un ambiente del genere di norma era abituato a mantenere una certa facciata, ma in quel momento gli venne da pensare che a nessuno, lì dentro, sarebbe davvero importato cosa diceva. Nessuno avrebbe riportato le sue affermazioni, e nessuno le avrebbe ascoltate. Le sue parole erano diventate volatili, e tutto ciò portava con sé un che di rassicurante. « Nemmeno il quadro, se devo essere sincero, era granché. Anzi, se ti interessa un acquerello di un roseto in una casa sperduta nel nulla, te lo cedo volentieri. » Rise, stringendosi nelle spalle. « Ma ci si aspettava che donassi, per motivi d'immagine; cose che in ogni caso hanno a che fare con quella storia di noi... come hai detto? Ah sì, maghi convenzionali... e con il nostro essere tradizionali, conservatori, protocollari... » Alzò gli occhi al cielo, elencando quegli attributi che pochi attimi prima Galathéa gli aveva assegnato, quasi fossero dei complimenti per cui ringraziare. In parte le dava ragione; d'altro canto, non aveva mai visto di buon occhio le persone che esprimevano pregiudizi alla cieca senza conoscere ciò di cui stavano parlando - che non fossero lui, sia chiaro. « Da come ne parli, sembrava quasi che volessi elogiare le nostre qualità » scherzò, prima di completare con un sorso il proprio flûte. Un cenno al cameriere perché si avvicinasse, così da poggiare il bicchiere vuoto sul suo vassoio. Tornò poi a guardare Galathéa, una scintilla di curiosità mista a provocazione negli occhi verdi del ragazzo. « Sono curioso di sapere in che modo la comunità warlock si distingue dalla nostra tradizionalità. So che utilizzate dei metodi non comuni, ma vi ritenete davvero così rivoluzionari? »

     
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    L'introversione di Théa, un tratto particolare ma nient'affatto imprevedibile nella personalità di un individuo che sia cresciuto viaggiando, costantemente costretto a conoscere persone nuove e di tutti i tipi, spesso finiva col farla apparire fredda, distante, disinteressata, nella peggiore delle ipotesi altezzosa. In realtà, Galathéa non si reputava migliore di nessun altro aprioristicamente, ma c'era in lei una leggera tendenza alla sfida, come a testare fin dove l'altra persona poteva davvero destare il suo interesse, non tanto perché le piacesse più di tanto interagire con gli altri, quanto piuttosto perché se proprio doveva spendere le proprie energie conoscendo una persona allora tanto valeva assicurarsi che ne valesse la pena, che fosse qualcuno con qualcosa da dire, da insegnare, da mostrarle – altrimenti avrebbe potuto tranquillamente farne a meno. Era una cosa che spesso le era stata rimproverata, non tanto dai suoi genitori, siccome i ruoli parentali della comunità warlock erano decisamente poco convenzionali nel modo di impartire l'educazione, quanto invece dai propri compagni di congrega, quelli più grandi specialmente, i mentori e gli insegnanti. Del resto Galathéa era stata adottata, come la maggior parte dei bambini warlock, e in quell'adozione non guadagnava soltanto una mamma e un papà, o due mamme, o due papà, ma diventava la creatura dell'intera congrega, cosicché sin da piccola si era dovuta abituare a sentire i giudizi e i rimproveri di persone che non erano neanche nella sua immediata famiglia, concetto che dapprima l'aveva immensamente irritata, ma con cui crescendo aveva imparato a fare i conti. Vivere in comunità significava passare gli anni dell'adolescenza ad odiare tutti – tutti meno che Eliphas, questo era chiaro, l'unico che sapeva come prenderla e la cui opinione regnava sovrana su tutte le altre – e contemporaneamente non riuscire a farne a meno, a non dipendere dal loro parere, a non sapere cosa fare senza qualcuno che le spiegasse che fare i dispetti era sbagliato, e che la cultura warlock si basa sulla sintesi, sull'incontro tra le differenze, la loro stessa magia è forgiata dall'incontro, dall'equilibrio, e altre prediche del genere. Si era convinta che ci fosse qualcosa di cattivo e sbagliato, dentro di lei, per quel suo desiderio di primeggiare, nascosto e taciuto, non tanto da intendersi con accezione relazionale: non le interessava avere la meglio sugli altri, non era necessariamente prepotenza, era al contrario autosufficienza esasperata, una preferenza a giocare da sola, fare le cose da sé, non condividere con nessuno a meno che non fosse necessario, e qualora lo fosse le cose andavano fatte secondo il metodo giusto, che era il suo. Crescendo questo lato di lei si era smussato, come per tantissime altre cose plasmato per imitazione dall'osservazione attenta e ravvicinata della grazia con cui i pochi che Théa aveva ammirato riuscivano a relazionarsi con gli altri. Adesso si apriva maggiormente al mondo, sebbene mantenesse quell'indagine sfidante dell'altro, a caccia di qualcosa che destasse il suo interesse a sufficienza, ma che almeno ricercava. Così intratteneva conversazioni come quelle, o sottili dibattiti di poco conto che avrebbe potuto portare avanti per più tempo di quanto socialmente auspicabile prima di sfociare in una discussione, per il puro gusto di dialogare, difficile da trovare ma che una volta raggiunto la accendeva in modo particolare. «Ho sempre invidiato il talento naturale», e Théa sospirò leggermente, prendendo un altro sorso di champagne, e lanciando uno sguardo veloce a Cynthia, domandandosi quando l'asta sarebbe ricominciata. Non riusciva a trovarla. «Chi ha talento può permettersi l'ignoranza; che, a conti fatti, è un lusso considerevole». Le sopracciglia sottili di Théa si sollevarono leggermente, il bagliore istantaneo della sfida che le illuminò lo sguardo, che tornò a posarsi sullo sconosciuto che le stava davanti. Le aveva appena dato dell'ignorante – e in fondo era vero, sotto quel punto di vista – ma non aveva lasciato cadere un commento che lei aveva fatto senza neanche pensarci troppo. Lei avrebbe fatto lo stesso. Si era forse comportata di nuovo in modo saccente senza rendersene conto? Non lo escludeva, viste le proprie brutte abitudini. Eppure si compiacque per quella piccola uscita scortese – una, forse, piccante tanto quanto doveva essere stata la propria, e questo l'aveva fatta sorridere.
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    «Non particolarmente, se devo essere onesto» «Sì, per piacere, sii onesto» lo rimbeccò, non lasciandosi scappare quell'opportunità per approfondire quella sottile schiettezza. Era come annusare un simile, per certi versi: lui aveva fatto lo stesso con lei, poco prima. La gentilezza, la cortesia a tutti i costi, l'ossequiosità... Erano tutte cose così noiose. «Nemmeno il quadro, se devo essere sincero, era granché. Anzi, se ti interessa un acquerello di un roseto in una casa sperduta nel nulla, te lo cedo volentieri. Ma ci si aspettava che donassi, per motivi d'immagine; cose che in ogni caso hanno a che fare con quella storia di noi... come hai detto? Ah sì, maghi convenzionali... e con il nostro essere tradizionali, conservatori, protocollari... Da come ne parli, sembrava quasi che volessi elogiare le nostre qualità». Théa aggrottò la fronte, guardando il ragazzo fare del sarcasmo che non completamente riuscì a decifrare. Se l'era presa sul personale? Si considerava un membro ordinario della comunità dei maghi fino a quel punto? Nuovamente, in quel modo che le veniva spontaneo, lei inclinò di nuovo la testa, incuriosita. «Non c'è niente di male nell'essere comuni» rincarò, prima di schiudere le labbra in un sorriso più marcato, complementare a quello di lui. «Sono curioso di sapere in che modo la comunità warlock si distingue dalla nostra tradizionalità. So che utilizzate dei metodi non comuni, ma vi ritenete davvero così rivoluzionari?» Non conoscere gli usi e costumi degli warlock, di quei tempi, lasciava intendere senza troppe sottigliezze da che parte stesse il ragazzo che le stava davanti. La propria piacevole curiosità venne interrotta da quella domanda, la schiena appena più rigida. Non aveva paura di che cosa lui e quelli come lui, sicuramente non affiliati con Inverness, credessero sul conto suo e del suo popolo; le seccava, piuttosto, doverglielo spiegare, con il rischio che lui non avrebbe capito, e così rovinato una conversazione altrimenti abbastanza gradevole. «Cosa intendi per metodi non comuni, e cosa esattamente sai degli warlock?» Rispose alla domanda con una domanda, poco prima che Cynthia riprendesse posto sul palco, proprio sopra di loro, schiarendosi la gola, il suono amplificato dalla bacchetta. Gli posò una mano sul gomito, indirizzando la sua attenzione alla donna poco distante da loro, e direzionandolo verso un punto più distante della sala, lasciando intendere di voler sentire la sua risposta in un posto più appartato. Non sarebbe stata chiamata a suonare fino alla successiva interruzione della cerimonia, e supponeva che a Nate non sarebbe interessato parteciparvi, visto lo scarso interesse che aveva dichiarato per la causa e la donazione già effettuata. Quando furono più distanti di qualche metro, più vicini ai tavoli disposti in fondo alla sala, l'occhio le cadde su una bottiglia di champagne, ancora abbastanza piena a primo sguardo, abbandonata su un tavolo vuoto poco distante. La recuperò senza pensarci più di tanto, riempiendo il proprio calice, ormai praticamente vuoto. «Tu dimmi, io ascolto. Ne gradisci un altro po', ricambio il favore?» Fece poi, ricordandosi le buone maniere, o qualcosa che ci andava molto vicino. Sedette al tavolo libero, quindi, invitandolo a fare lo stesso e accavallando le gambe, il tessuto liscio del vestito che ricadeva talmente morbido da sfidarne la consistenza solida.
     
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    « Non c'è niente di male nell'essere comuni. » Inarcò le sopracciglia, come stupito. « Questo, detto da un prodigio della musica con migliaia di sostenitori al seguito, è senza dubbio molto credibile » commentò, beffardo, scuotendo leggermente il capo e guardando un punto imprecisato oltre la spalla di lei. Aveva in realtà già dimenticato perfino l'origine di quello scambio di battute, e perché stessero a disquisire di cosa significasse essere una persona comune o meno. Ma Nate amava dibattere per il semplice piacere di farlo, e in un contesto monotono come quella serata, capì presto che aveva trovato nella Durand un intrattenimento valido del suo tempo.
    « Cosa intendi per metodi non comuni, e cosa esattamente sai degli warlock? » Inspirò. « Beh... » fece per parlare, ma fu presto interrotto da Cynthia, la quale aveva ripreso il proprio spazio sul palco per introdurre un nuovo intrattenitore per la serata. Avvertì la presa sul proprio gomito della ragazza e ne colse facilmente i segnali non verbali; la seguì quindi verso un angolo più appartato e silenzioso della grande sala, accompagnandola delicatamente con una mano alla base della schiena scoperta di lei. Con lo sguardo seguì i suoi movimenti, mentre recuperava una bottiglia di champagne e ne versava il contenuto nel proprio bicchiere vuoto. « Tu dimmi, io ascolto. Ne gradisci un altro po', ricambio il favore? » Nell'accomodarsi accanto a lei al tavolo, lanciò un'occhiata rapida all'etichetta della bottiglia, e poi al flûte vuoto che teneva tra le mani. Strinse le labbra in una smorfia impercettibile. Per bere questo ci vorrebbe una coppa, in realtà. Ma le buone maniere gli avevano insegnato anche a non risultare eccessivamente pignolo, dunque annuì e allungò il bicchiere perché lo riempisse, accettando l'offerta di buon grado.
    « Comunque » riprese, sbottonando il primo bottone della giacca, mentre si sistemava meglio sulla sedia. « non so molto sulla vostra comunità. Quando frequentavo Hogwarts, i programmi non erano di così ampie vedute come invece so essere di questi tempi. » Ora, a quanto pare, tra le mura del castello veniva insegnata perfino Demonologia. Non aveva nulla contro le Arti Oscure, e anzi le reputava alquanto affascinanti... ma insegnarle a degli undicenni? Quello non era certo fosse poi così ragionevole. « Quel poco che so sulla comunità warlock l'ho appreso dalle mie letture. So che vi dilettate con le Arti Oscure, e che non utilizzate le bacchette come noialtri. » Nel pronunciare quelle parole non poté fare a meno di emettere uno sbuffo divertito dal naso, quasi di scherno. Quello era
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    un concetto che gli sembrava quanto mai fuori dal mondo, un po' antico, e che nella sua testa riusciva a ricollegare soltanto al tipo di magia africana di Uagadou. « Utilizzate un... ditale magico, mi sbaglio? » Aggrottò la fronte, incrociando lo sguardo della ragazza, curioso. « Non ne ho mai compreso la differenza. »
    « Cinquanta galeoni! » « CENTO! » « Trecento galeoni! » « MILLE! » L'asta nel frattempo era ricominciata, e a giudicare dall'interesse pubblico, scoppiato, il pezzo in offerta doveva essere qualcosa di grosso. Distratto per un momento dalle urla dei presenti - alcune veramente poco eleganti - Nate sbirciò sul palco, per scoprire con disappunto l'ennesimo quadro di una natura morta. Era a questo punto evidente come quella tra i presenti non fosse una gara volta ad accaparrarsi l'arte scadente protagonista di quell'asta, quanto più l'attenzione e la benevolenza dei presenti. Certe cose non cambiano mai. Si voltò di nuovo verso Galathea, evidentemente stremato da quella serata. « Hai voglia di fare un giro fuori? » chiese, senza troppi giri di parole, accennando alla porta d'uscita poco distante da loro. « Sono convinto che qui andranno ancora per le lunghe, di questo passo. Magari nel frattempo puoi raccontarmi qualcosa in più sulla vostra comunità. » Le sorrise, affabile. Le sue intenzioni, a quel punto, erano più che evidenti. « O su quello che desideri. »


     
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    «Non so molto sulla vostra comunità. Quando frequentavo Hogwarts, i programmi non erano di così ampie vedute come invece so essere di questi tempi.» Théa scrutava Nate cercando di decifrarne l'atteggiamento, che seppure sempre assolutamente cordiale e composto, lasciava intendere una certa patina di giudizio, che copriva le parole che pronunciava il giovane stregone con un doppio significato che Galathéa avrebbe potuto giurare di non starsi immaginando. La prese un po' in contropiede, il paradosso di quella schiettezza velata, uno sconosciuto che per formalità non avrebbe espresso la propria opinione apertamente, ma l'avrebbe sottilmente lasciata trasparire: perché? Non riusciva a trattenersi, era un suo naturale modo di fare, quello di non preoccuparsi particolarmente di celare le proprie perplessità? Era abbastanza certa, comunque, che non vi fosse alla base un'intenzione sfidante: probabilmente non ci vedeva nulla di male – e di fatto era così. Pensò che fosse rinfrescante trovarsi di fronte a qualcuno che non temi di dire ciò che pensa, e che abbia il buonsenso di farlo filtrando un minimo. Guardandone i lineamenti delicati e il viso poco espressivo, Théa si ritrovò a domandarsi se il ragazzo fosse benvoluto, per via di quel proprio carattere silenziosamente giudicante – così le pareva che fosse, a quel punto della loro conversazione – e se dunque fosse qualcosa che tipicamente alle persone che aveva conosciuto era piaciuto. «Ampie vedute mi sembra una definizione generosa» lo rimbeccò, rimanendo ad ogni modo in attesa di ascoltare quanto della comunità warlock lui effettivamente sapesse – una curiosità più legata al desiderio di capire quanto gli altri, esterni ad Inverness, sapessero o pensassero di loro, che non un tentativo di metterlo deliberatamente in difficoltà. Non doveva concordare particolarmente con l'istruzione di metodologie magiche warlock agli studenti di Hogwarts, pensò, senza motivo per risentirsene: Nate le dava l'idea di essere un mago perfettamente rispecchiante la comunità inglese, poco favorevole a quel tipo di cambiamenti, decisamente figlio di un popolo profondamente diverso rispetto a quello warlock, e probabilmente anche rispetto al proprio. Parlava come se non appartenesse propriamente al presente, come fosse di un passo leggermente indietro, una distanza che le parve essere legata a qualcosa di più profondo che dal tempo trascorso dal momento del proprio diploma. Essere così fuori dal giro, comunque, avendo quanto? Ventitré, ventiquattro anni?, non poteva che essere una scelta, a suo parere: la rivoluzione silente che era culminata nell'occupazione delle Highlands da parte del popolo lycan aveva reso impossibile preservare la propria ignoranza sulle altre comunità magiche esistenti, a meno che non si desiderasse farlo, per disinteresse personale verso certe questioni politiche – un lusso che alcuni potevano ancora permettersi, i propri interessi forse tutelati dal trovarsi in una certa privilegiata zona d'ombra – o per volontà a guardare altrove, forse al passato, per inclinazione ad un conservatorismo che poi rischiava di radicalizzarsi. Non sapeva quale delle due opzioni fosse peggiore, ma non si sentiva di giudicare nessuno sulla base di quel criterio: lei stessa si beava del lusso della propria tollerabile ignoranza su certe questioni che non la interessavano direttamente. «Quel poco che so sulla comunità warlock l'ho appreso dalle mie letture.» Quindi ha letto in merito, ma non abbastanza da sapere in che modo i nostri metodi sono non comuni. Devono essere state letture molto poco interessanti. «So che vi dilettate con le Arti Oscure, e che non utilizzate le bacchette come noialtri.» Galathéa sollevò le sopracciglia e dovette battere le palpebre un paio di volte, al sentire quelle parole, e lo sbuffo divertito che le aveva accompagnate. Forse era incredula che una persona così poco informata potesse esprimere un parere così sminuente, forse era come compiaciuta da quella evidente rivelazione di un certo livello di scherno che fino ad allora era rimasto più celato. «Utilizzate un...ditale magico, mi sbaglio? Non ne ho mai compreso la differenza.» «Per curiosità, che cos'hai letto? Non mi sembra sia stata una lettura particolarmente informativa. Dal sentirti parlare si direbbe che siamo una comunità quasi tribale.» rispose dopo qualche secondo, ridacchiando a propria volta, scuotendo la testa. Sciamani adoratori di Satana o selvaggi di qualche forma, forse. Capiva il tipo di persona che le stava davanti un po' meglio, grazie a quell'ultimo scambio: sebbene non fosse informato a sufficienza, non si esimeva dall'esprimere un parere, piuttosto evidente, e di farlo di fronte ad una persona toccata in prima persona. L'ignoranza di per sé non era un crimine, né un motivo per risentirsi; né tantomeno lo era un'opinione personale, più che legittima, specialmente quando era sincera. Tuttavia trovò quell'intera uscita di cattivo gusto, quelle espressioni perplesse e il tono scherzoso la lasciarono interdetta, come se ci fosse una battuta, da qualche parte in quel discorso, che si era persa, o di cui non aveva capito la punchline, perché forse era lei stessa. Si domandò se la curiosità che il ragazzo aveva mostrato non fosse soltanto una facciata che in realtà mascherava un completo disinteresse o una mancanza di apertura – che era okay, di nuovo, ma purché non sfociasse in un atteggiamento di superiorità. Se chiunque altro avrebbe reagito senza farci troppo caso, o al contrario forse avrebbe risposto a tono, Théa si era limitata ad aspettare qualche secondo prima di replicare, consapevole che qualora lei avesse agito in modo da sembrargli irritata, forse persino offesa dal modo in cui si era espresso più che dal mero contenuto delle proprie parole, il ragazzo avrebbe sicuramente risposto con immensa sorpresa, forse si sarebbe persino scusato, specificato che in nessun modo intendesse essere maleducato o offensivo; lei sarebbe sembrata permalosa, forse persino un po' infantile, violando una sorta di patto implicito per cui, in qualunque situazione, l'importante era far finta di non avere idea di che cosa stesse realmente venendo detto; violarlo non soltanto era lontano dall'essere il modo corretto per parlarsi schiettamente, era anche il modo migliore per apparire a propria volta scortesi e inappropriati. Eliphas le avrebbe detto che ci pensava troppo, che le relazioni tra le persone erano più semplici di così, e che non sempre bisognava reagire in modo calcolato, ma l'avrebbe fatto soltanto perché per lui era naturale reagire sempre, inevitabilmente, nel modo più maturo possibile, e questo non era valido per Théa, la cui compostezza era frutto di un lungo processo di apprendimento. Più di tutto, comunque, per Théa era adesso qualcosa di terribilmente tedioso avere a che fare con le persone, il proprio studiato disinteresse un metodo per preservarsi che comunque la affaticava parecchio; in quella circostanza, con Nate, avrebbe potuto semplicemente limitarsi a spiegargli quanto lui, (con un certo grado di ostinazione, andava detto), ignorasse rispetto agli warlock, ma in fondo aveva la sensazione che forse non gli sarebbe interessato davvero, appunto perché altrimenti si sarebbe informato, e che comunque a lei non andasse particolarmente di prestarsi a dover difendere la rispettabilità della propria gente – cosa che avrebbe inevitabilmente sentito di star facendo. Fondamentalmente indisposta, a quel punto, Galathéa si limitò a stringersi nelle spalle, il proprio viso tipicamente poco espressivo che manteneva ferrea la propria aria cordiale, ma lo sguardo oltre le spalle del ragazzo, perso su qualcosa nello sfondo. «Mh... Magari potrei consigliarti qualche libro un po' più esaustivo sull'argomento, qualora ti interessi davvero conoscere altre realtà oltre a quella dei maghi», disse. Che poi, in fondo, lei non era neanche un tipo particolarmente protettivo dei propri simili – proprio perché di simile tra i membri delle congreghe warlock c'era veramente ben poco. C'era solo stato qualcosa, in quel vago disinteresse passivo e beffardo, camuffato da una richiesta di colmare una lacuna che Théa non sentiva stesse a lei riempire, che le aveva ricordato di star parlando del più e del meno con uno sconosciuto, tirandola bruscamente fuori dalla piacevolezza del momento. Era chiaro che avevano poco in comune. Così aveva nuovamente inspirato, scavallato le gambe e disteso il tessuto morbido del proprio vestito, come a dire un cortese qui abbiamo finito. Stava per alzarsi quando Nate si era voltato verso di lei. «Hai voglia di fare un giro fuori?» A quel punto era direttamente confusa. Si divertiva a parlare con aria di superiorità alle persone e desiderava continuare a farlo? Non avrebbe ragionevolmente voluto cercare qualcuno di più affine? Non era chiaro ad entrambi che non avessero niente da dirsi, e niente in comune? «Sono convinto che qui andranno ancora per le lunghe, di questo passo. Magari nel frattempo puoi raccontarmi qualcosa in più sulla vostra comunità.» Théa aggrottò la fronte, non riuscendo a nascondere un sorrisetto sinceramente un po' incredulo, un sopracciglio sollevato. «O su quello che desideri.» Quindi era di quello, che si trattava? Stufato dalla conversazione sinceramente poco entusiasmante aveva deciso di ripiegare sullo svignarsela e... Fare cosa, esattamente? E in genere funziona? «Nate, perdonami. Temo davvero che io e te abbiamo viaggiato su due binari paralleli, stasera.» Scandì piano, consapevole che probabilmente lui non avrebbe avuto idea di che cosa fosse accaduto o andato storto, così evidentemente abituato a poter dire e fare qualunque cosa, purché mascherata da un sorriso seducente e un tono di voce innocente. «Non credo che avremmo molto altro da raccontarci, purtroppo.» Aggiunse poi, tirandosi su, il vestito che ricadeva sulle gambe morbido e sottile. «Magari un giorno ci ribeccheremo al quartiere warlock, chi può dirlo? Io purtroppo devo tornare al lavoro.» Gli tese la mano, candida e affusolata, non particolarmente risentita, soltanto vagamente amareggiata dalla conversazione un po' spiacevole, che non desiderava portare avanti ulteriormente. «Buona serata. Un saluto anche a Lucinda.»
     
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