The kids don't wanna come home

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    Quando Émile Carrow spalancò la porta della segreteria studentesca, si voltarono tutti a guardarlo. La veemenza di quel gesto, mista al fiatone che lo accompagnava, lo qualificarono da subito agli occhi di Millicent Grey, la vecchia segretaria sepolta dietro a una torre di scartoffie, come il visitatore più strambo della giornata. Lo vide sedersi in un angolo, ma stette fermo due minuti appena, per poi cominciare a misurare lo spazio piccolo della segreteria a passi veloci. Tra lo sbrigare di una pratica e l'altra, Millicent riservava al giovane Carrow occhiate di stizza, e ogni volta che posava lo sguardo sulla sua figura lo coglieva impegnato in un'attività diversa: ora giocava con il cellulare, ora disordinava una pila di moduli che lei personalmente aveva sistemato quella mattina, ora infilava le dita nell'orologio a pendolo appeso alla parete. I giovani d'oggi hanno proprio perso ogni forma di civiltà, pensò la donna, alzando gli occhi al cielo, mentre la studentessa dall'altra parte del vetro rimarcava il bisogno impellente di sostituire l'esame di Babbanologia II con quello di Storia Babbana. La stanza era piena zeppa di studenti, come d'altronde ogni primo di settembre: c'erano i nuovi iscritti che si presentavano per richiedere le informazioni più banali, laureandi incattiviti alle prese con la burocrazia, studenti che richiedevano aiuto per cambiare il piano di studi, trovare gli alloggi, e via dicendo. La giostra ricominciava. Millicent si era ripromessa, però, che quello sarebbe stato l'ultimo anno: a partire da giugno, non avrebbe più sentito ragioni, si sarebbe ritirata nella propria casetta in periferia di Hogsmeade e non avrebbe più voluto sentir parlare di college, iscrizioni, sessioni d'esami, alloggi universitari e così via. Dopo quarantacinque lunghi anni di carriera, era arrivato il momento di appendere al chiodo il cappello da segretaria e dedicarsi finalmente ad espandere la sua collezione di calzette da neonati.
    « Carrow vieni, forza » Quando arrivò il turno del giovane, perfino Millicent ne fu contenta, stanca di vederlo agitarsi nel suo campo visivo, giacché ne percepiva l'agitazione; e a lei le cattive energie non facevano proprio bene, come confermato da una recente lettura dei tarocchi fatta da Madame Troney.
    « C'è un problema con la mia stanza. » Buongiorno signora Millicent, che piacere rivederla, come sta? La trovo bene. Come ha passato le vacanze?
    « E che problema, sentiamo? »
    « Devo cambiarla. »
    Millicent aggrottò la fronte. « Cambiarla? » Sbuffò. « Senti, Carrow, non puoi venire qui a fare il principino a nemmeno mezz'ora dall'apertura del campus. Gli alloggi sono tutti uguali, non troverai di meglio. E anzi dovreste ringraziarmi, tu e il tuo amichetto, ché se non fosse stato per me sareste finiti in stanza con degli sconosciuti! » E così dicendo puntò il dito sul foglio di carta che il ragazzo teneva in mano, dove, insieme alle informazioni sul suo alloggio universitario per quell'anno, vi era anche il nome del suo compagno di stanza: Otis Branwell.
    « Come, prego? » Il giovane parve interdetto.
    Millicent sbuffò, visibilmente esasperata. « Tu e Branwell, zucche vuote che siete, avete dimenticato di inserire la preferenza del nome del compagno di stanza! Siete stati solo fortunati che abbia gestito io la pratica, e mi sono ricordata subito che siete sempre stati pappa e ciccia dal primo anno! Così ci ho pensato io a mettervi insieme. E nemmeno un grazie da parte tua sto sentendo! »
    « Allora è stata lei!!! »
    « Certo che sono stata io, ma sappi che è veramente l'ultima volta che vi vengo incontro. Ormai siete grandi, siete al college e dovete sbrigarvela da soli! »
    « Signora Millicent... Io non avevo inserito preferenze proprio perché preferivo stare in camera con uno sconosciuto. »
    « Ah, ma non dire scemenze Carrow! E lasciavi il tuo amichetto da solo? E poi non ha importanza, gli alloggi sono tutti assegnati ormai e non si possono più cambiare. »
    « Sì ma io non posso stare in camera con Otis! Abbiamo litigato! Capisce che è una cosa insostenibile? »
    Millicent si strinse nelle spalle. « Suvvia Carrow, queste sono cose da ragazzi. Vedrai che con l'occasione farete pace. E io veramente non posso farci proprio niente perché le stanze sono assegnate, non sei nemmeno la prima persona che me lo chiede oggi. Ho le mani legate. »
    « Sì ma signora Millicent lei deve capire la situazione particolare ch- »
    « HO DETTO NO! ENNE-O! GLI ALLOGGI NON SI CAMBIANO! » E mentre pronunciava queste parole, la vena gonfia sul collo rugoso e gli occhi strabuzzati, si voltò verso il resto dei presenti nella stanza. « E QUESTO VALE PER TUTTI! NON VENITE QUA CON RICHIESTE DI CAMBIO STANZA PERCHÉ VI BUTTO FUORI A CALCI NEL SEDERE! E ORA FILA ANCHE TU, CARROW! »

    Camminava verso la stanza n. 23 con lo stesso entusiasmo di un condannato al patibolo, trascinando i piedi sulle scale e fino al corridoio indicato sulla mappa del campus. Con una mano trascinava il proprio baule, mentre con l'altra reggeva la gabbietta di Marv, che si dimenava senza sosta già da un po'. Appollaiato sulla spalla del ragazzo, a godersi la passeggiata, c'era invece Gert, il suo ultimo acquisto: un Clabbert proveniente dalle foreste scozzesi, che il rifugio di Hogsmeade aveva recuperato e curato dopo l'attacco di un Augurey. Accudirlo, nelle ore di volontariato, era stata l'unica fonte di gioia di quell'estate per Emi, e così aveva scelto di tenerlo con sé in via definitiva. Era emozionato all'idea di poter finalmente abitare con i propri animali, viste le regole meno restrittive del college; al contempo, però, l'idea che questi ultimi dovessero condividere il proprio spazio con Otis non lo allettava particolarmente. L'idea di dover avere intorno il suo ex migliore amico lo innervosiva: aveva trascorso l'intera estate a cercare di dimenticare i fatti della sera del ballo di fine anno, e ritrovarsi la faccia di Otis ogni mattina dall'altra parte della stanza sapeva che non lo avrebbe fatto stare bene.
    Aveva tentato di affrontare razionalmente quella delusione, e nella sua autoanalisi aveva raggiunto diverse conclusioni, tra cui la più importante: non era ancora pronto a rivederlo. Sapeva che averlo vicino avrebbe riportato a galla quei ricordi, e quel buco nel petto che le parole di Otis gli avevano provocato. Fammi sapere quando decidi di crescere e di guardarti allo specchio per quello che sei. Un bambino egoista e capriccioso, che non sa scegliere, e non sa ammettere i propri errori. Le aveva sentite tutta l'estate nella propria testa, come una cantilena. A tratti gli aveva perfino dato ragione.
    Il fatto era che era complicato dire addio a qualcosa di così certo e stabile come l'amicizia con Otis. Sentiva di starlo facendo solo adesso per la prima volta, perché era successo qualcosa di definitivo e irrevocabile, quella sera del ballo, e per quanto Emi non ci avesse ancora del tutto fatto pace, sentiva di star pian piano accettando la natura delle cose. Aveva capito di essere rimasto aggrappato a quell'astio nei confronti di Otis così a lungo perché, in fondo, fino a quando c’era stato dell’astio, tra loro due, esisteva un legame. Erano uniti da un sentimento, pur negativo che fosse, ma che tracciava una corda invisibile che li univa anche quando stavano da due parti opposte di una stanza. Quell’astio li faceva trovare, in occhiate in cagnesco e sbuffi infastiditi, in messaggi glaciali. In quell’estenuante tiro alla fune, a un certo punto, Otis aveva di colpo e senza preavviso mollato la presa, e il contraccolpo aveva fatto cadere rovinosamente per terra il suo avversario. Ora non c’era più davvero niente. Otis l’aveva perso davvero quella notte.
    Era stato un po' come perdere un amore, ed Émile sapeva bene di avere ancora bisogno di un po' di tempo per guarire il proprio cuore spezzato. Aveva riconosciuto di essere rimasto a lungo indietro rispetto ai suoi coetanei, come i fatti gli avevano dimostrato la sera del ballo, e aveva bisogno di crescere. Anche quella constatazione era stata dolorosa, eppure necessaria.
    Motivo per cui questa non ci voleva. Contento com'era all'idea di voltare pagina finalmente, con l'inizio del college, il sorriso di Émile si era spento immediatamente non appena aveva letto il nome del proprio compagno di stanza. Ma non aveva intenzione di farsi abbattere da quel piccolo ostacolo: avrebbe presto trovato un modo di cambiare stanza, checché ne dicesse la signora Millicent. Nel frattempo, doveva solo stringere i denti.
    « Ciao. » Una volta fatto il proprio ingresso nella stanza, salutò Otis con cortesia: nessuna occhiataccia, nessuna smorfia o altro che potesse tradire emozioni; si sforzò di utilizzare il tono più neutro che gli riusciva, come se avesse di fronte uno sconosciuto - cosa non del tutto falsa, in fin dei conti. Senza dire altro, sistemò il proprio baule ai piedi del letto e si dedicò immediatamente ai bisogni dei suoi animali: tirò fuori dallo zaino un trespolo estensibile che posizionò accanto al proprio letto, in cui Gert corse ad appollaiarsi per un pisolino; passò poi a sistemare la gabbietta di Marv, dentro alla quale versò una manciata di gamberetti. Non si sa mai gli venga la voglia di mangiare un alluce a Otis. Non sarebbe un buon inizio.






     
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    Non rimanere a casa, con l'inizio dell'Università, era stata una questione di sopravvivenza. Il solo pensiero di dover in effetti tornare a vivere a casa, dopo anni di difficoltosa ma contemporaneamente beata indipendenza nel dormitorio del Castello l'aveva messo in uno stato di agitazione e preoccupazione angosciosa, difficile da spiegare. Aveva trascorso la maggior parte della sua estate in quella cameretta che da qualche parte, per qualche motivazione che in fondo riusciva a capire ma di cui avrebbe voluto sbarazzarsi il pima possibile, sentiva di aver abbandonato. Quando ne aveva varcato la soglia, il primo giorno d'estate, di vera estate, (senza esami, senza libri da studiare durante le vacanze, senza papiri da scrivere o gufi da inviare per assicurarsi che gli elfi domestici fossero informati che neanche al successivo Settembre avrebbe lasciato la stanza n.69 e quindi no, non potete ancora buttare le cose che ci ho lasciato), aveva esalato un respiro di piena malinconia. Quella fine, esattamente come tutte le altri fini con cui Otis aveva dovuto fare i conti nel corso della propria vita – una percentuale delle quali sembrava si fosse concentrata soltanto in quegli ultimi mesi, in cui tutto sembrava star cambiando – l'aveva vissuta riuscendo a soffermarsi soltanto in minuscola parte sull'eccitazione del nuovo inizio che avrebbe implicato. Scegliere il corso in Comunicazione e NewWiz Media e lasciar andare la strada di giornalismo che aveva preannunciato e raccontato a tutti da quando aveva imparato a scrivere era stata una deviazione piuttosto sottile, per alcuni suoi parenti persino insignificante, in fondo che differenza c'era? La differenza stava nell'aver cambiato idea su qualcosa di così radicato e identitario come il percorso di studi. Sapeva che le sue aspirazioni non sarebbero cambiate, che voleva ancora imparare a raccontare, e provare a fare giustizia semplicemente riportando la realtà delle cose, dare a tutti la possibilità di esprimere la propria opinione, e di farlo con la propria voce, senza censure e con completa libertà; aveva capito che il modo migliore per farlo era rimanendo al passo con le ultime tecnologie, che conosceva fin troppo bene, ma se aveva commesso un errore? Se aveva scelto un corso che era troppo settorializzante, troppo specifico, troppo diverso da come se lo aspettava? Se aveva sbagliato? Come aveva fatto a trovare il coraggio di prendere una tale decisione, una che poteva cambiargli la vita per sempre, senza pensare alle conseguenze? Eppure lo aveva fatto, aveva stilato una lista infinita di pro e contro, con in cima a caratteri cubitali “GIORNALISMO” versus “COMUNICAZIONE”, iterazioni di settori alla fine talmente tanto vicini da far risultare quella sua minuziosa puntigliosità ridicola ai suoi stessi occhi, se ne rendeva conto. Alla fine la scelta era arrivata come arriva sempre, in questi casi: smettendo di pensare, provandosi a buttare, rimanendo in piedi sul ciglio del burrone per meno tempo possibile, come faceva quando da piccolo aveva paura di lanciarsi dagli scogli più alti. Aveva chiuso gli occhi e aveva deciso di provare, ma sentiva di aver rinunciato ad una parte di sé, quella più purista, quella più ortodossa, la vocina che ancora gli sussurrava all'orecchio: studiare giornalismo è un'altra cosa, non andrai da nessuna parte con una stupida laurea in comunicazione. Quella preoccupazione sarebbe rimasta con lui, ci aveva fatto i conti, e l'avrebbe seguito insieme a quella crescente malinconia, che l'aveva acchiappato da quando aveva messo piede in casa sua a Inverness, e non l'aveva lasciato andare. La sua estate dopo la fine del liceo l'aveva trascorsa nel modo più deprimente esistente sulla faccia del pianeta: da solo, sul suo letto sempre disfatto, ad aspettare che il tempo passasse, e fosse ora di ricominciare; a intellettualizzare tutti i suoi sentimenti più cupi, a razionalizzarli e a smantellarli per difendersene invece di parlarne con qualcuno (la sua cosa preferita al mondo, apparentemente). Aveva festeggiato il suo compleanno soltanto con sua madre e i suoi fratelli, Stan gli aveva regalato un album di fotografie pieno di memorabilia di quando aveva frequentato Hogwarts, quando era stato eletto caposcuola, quando era appena uscito dall'infermeria dopo la presa del Castello, quando era appena tornato dal Giappone, con lo zaino enorme strabordante di souvenirs e la maggior parte dello spazio occupato dal Koto che si era portato dietro. Era finito tutto da così poco e già non si riconosceva più in quelle foto, si sentiva più spento, tutti i colori della sua vita sembravano più sbiaditi di quanto apparissero in quelle foto, e si chiese se anche allora, quando erano state scattate, li vedesse come ora, e la brillantezza fosse data soltanto dal ricordo. Sembrava che l'unico tempo in cui lui fosse stato davvero felice e in cui potesse esserlo davvero fosse il passato.
    L'arrivo del primo giorno di settembre, quantomeno, annunciava la possibilità di alzarsi dal letto, lavarsi, radere quei sei o sette peli che impavidi continuavano a sfidare la lama del suo rasoio, vestirsi e uscire di casa, una scena talmente insolita che sua madre, alla prospettiva che finalmente avrebbe preso un po' di luce solare, non aveva smesso di sorridere e gongolare per tutta la mattina, raccomandandosi con lui, prima di varcare la soglia, di indossare crema solare sul viso per evitare di scottarsi. In Scozia. L'umore, quando Otis camminava con lo zaino in spalla per i corridoi del campus universitario, era leggermente migliore di quando si trovava sul treno per arrivarci, perché in fondo respirare aria pulita poteva essere davvero piacevole, e la sensazione di avere persone attorno che si scostavano per evitare di andargli addosso mentre camminava gli ricordavano che aveva un corpo anche lui. Hope's Place l'aveva visitata soltanto una volta per una visita guidata al campus universitario, e quella mattina sembrava brillare sotto il sole settembrino, e l'aria frizzante dava una scarica di energia al suo cervello assopito che gli fece venire voglia persino di rallentare il passo e godersi un po' la passeggiata. La stanza che gli era toccata era la numero 23 – una cifra meno divertente di quella che era toccata a lui e a Émile durante gli anni di scuola – ed era collocata nell'edificio dei Tassorosso. Registrò le conversazioni insignificanti dei passanti che gli sfrecciavano accanto, la maggior parte matricole alla ricerca del proprio alloggio, intrise di un'eccitazione che invidiava ma che forse, in fondo, si sarebbe concesso di provare prima o poi.
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    Quando la trovò, varcò la soglia senza badare al nome del suo compagno di stanza, indicato sulla porta, calciandola leggermente con il piede, avendola trovata socchiusa: chiunque fosse il suo coinquilino doveva essere già arrivato. Lanciò in aria le chiavi che gli erano state consegnate un paio di volte, poggiò a terra lo zaino, e fece un respiro profondo. La camera era molto più nuova di aspetto in confronto a quelle del Castello, com'era prevedibile visto la recente costruzione, ma mantenevano lo stile di arredamento tipicamente scozzese, sebbene i pavimenti fossero moquettati – forse per prevenire disturbi agli altri studenti. Bello, così potrò dormire in pace. Ricordava ancora gli scricchiolii dei pavimenti legnosi provenire da sopra, sotto, destra, sinistra. Si lasciò ricadere sull'unico materasso spoglio, l'altro già occupato da alcuni effetti personali e alcuni scatoloni. Dopo qualche secondo, incuriosito, decise di provare a sbirciare tra le cose del coinquilino, prima che tornasse, per provare a capire qualcosa della sua personalità; si tirò a sedere, e in punta di piedi si avvicinò all'altro lato della stanza. Sul comodino era stata lasciata quella che sembrava una lettiera, il che lo preoccupò non poco; in una scatola individuò un paio di libri, un panino incartato, una mela, una foto incorniciata e un mazzo di carte di Black Market. Non potendo resistere alla tentazione affondò la mano all'interno, estraendo la scatola familiare: era l'edizione vietata ai minori di 16 anni. Sollevò le sopracciglia. «Bleah» commentò ad alta voce, ma sussurrando. Conosceva solo un'altra persona, oltre al suo nuovo coinquilino, che possedeva un mazzo del genere, e con lui non era finita proprio benissimo, per cui non è che cominciassimo proprio alla grande. Notò anche un paio di magliette, niente di troppo eccentrico, e una piccola spilletta blu, viola e fucsia con scritto not a phase: forse non era uno di quei ragazzi che avrebbero portato ragazze in camera loro ogni sera e ascoltato musica techno a tutto volume. Sentì dei passi avvicinarsi, quindi si ritrasse di scatto, improvvisando di star guardando fuori dalla finestra per dissimulare, le mani dietro la schiena. La visione di quella spilletta gli aveva lasciato una strana sensazione. «Ciao.» La rotazione fu lenta quanto quella di un film horror. Conosceva quella voce. Si limitò a guardarlo, con gli occhi impercettibilmente sbarrati, mentre Émile Carrow con aria perfettamente nonchalant si metteva a frugare tra le proprie cose. Il primo shock fu concettualizzare che il suo compagno di stanza sarebbe stato lui. Il secondo fu assistere alla scena di questo gigantesco trespolo piegevole che veniva allestito accanto al suo letto, su cui si era arrampicata una creatura che Otis non aveva mai visto in vita sua e che avrebbe felicemente evitato di incontrare. Aggrottò la fronte, ancora incapace a esprimere una parola, l'incredulità che faceva strada alla rabbia per quella sua assenza di reazione. «Siamo compagni di stanza?» Fu la domanda cretina che gli venne in mente: magari Émile era lì perché era amico del suo coinquilino e gli stava facendo il favore di cominciare a sistemargli gli effetti personali. Rimase immobile lì dov'era, davanti alla finestra. «Uhm... E a te sta bene? Cioè, non...» Come dirsi: “entrambi sappiamo di non voler stare in stanza insieme” senza dirselo? «Non c'è niente che si possa fare, immagino» sospirò, mordicchiandosi le labbra, consapevole che non si sarebbe mai messo a bisticciare con l'ufficio di segreteria, conoscendolo fin troppo bene. Lo fissò per qualche secondo, riflettendo. Alla fine forse quella sarebbe stata la soluzione migliore, quell'approccio di petto: aveva immaginato l'evitarsi tra i corridoi, il cambiare posto in aula se avessero avuto corsi comuni, e avevano già vissuto i pranzi a tavoli separati o distanti minimo sei posti. Forse l'indifferenza sarebbe stata facilitata dalla convivenza? Neanche lui era capace di intellettualizzare la situazione a sufficienza. «Come vogliamo organizzarci? Vuoi che rinunci all'alloggio? Io posso lasciare il posto a qualcun altro e torno a casa mia, non è troppo distante per me.» In fondo, forse, era il destino che cercava di indirizzarlo sulla strada più giusta, visto che prendere decisioni era diventato così complicato per lui. Forse era un segno. Si mise a sedere sul proprio letto, speculare a quello di Emi, gli occhi che slittavano lenti verso l'essere rigurgitante che gracchiava sul proprio trespolo, la lunga coda arricciata, le zampe palmate e i piccoli dentini aguzzi che spuntavano dalla bocca. Non riuscì a trattenere un'espressione leggermente disgustata, per cui dovette distogliere lo sguardo, che però finì su Marv. «Come hai potuto ottenere i permessi per portare due creature non domestiche all'interno degli alloggi per studenti quando non sono concessi neanche i gatti a meno che non siano famigli?»
     
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    « Siamo compagni di stanza? » A Émile bastò un secondo per capire che quella convivenza sarebbe stata impossibile. Gli fu sufficiente notare come il suo corpo s'irrigidì a quelle parole, ed il senso di fastidio che sembrava percorrere ogni fibra del suo corpo al solo udire la voce del compagno. Si morse il labbro inferiore, mettendo a tacere l'istinto di fare qualche stupida battuta sarcastica sull'attenzione ai dettagli di Otis. Non era ancora pronto a fare la persona matura, andare avanti. Aveva bisogno di più tempo, e distanza. Fece spallucce, e si voltò di spalle, con l'intento di iniziare a disfare i propri bagagli. « Così pare » disse, ermetico, senza guardarlo, mentre apriva l'anta del proprio armadio e iniziava a riempirlo con i propri vestiti piegati alla bell'e meglio.
    « Uhm... E a te sta bene? Cioè, non... » Le mani di Emi, intente a piegare un paio di pantaloni, si fermarono un secondo appena. Un breve attimo di esitazione, nel quale il giovane aggrottò la fronte e ruotò il capo di poco in direzione del compagno, prima che, come se fosse niente, riprendesse i propri movimenti. Che domanda stupida, pensò, mentre sollevava da terra il proprio borsone e lo posizionava sul letto con un tonfo. Come poteva stargli bene una cosa del genere? Non vedeva Otis che era quella una situazione di merda? « Non c'è niente che si possa fare, immagino. »
    « Boh, per me è uguale » disse, lanciando un mucchio di calzini arrotolati dentro al cassetto del comodino. Mai ammettere di trovarsi in difficoltà con il nemico. Se la legge della giungla imponeva di mostrarsi più forte, Émile in quel momento avrebbe desiderato poter sfoggiare la protezione di un carro armato. « Se ti crea problemi puoi sempre andare a vedere cosa dice la segreteria. » Di certo non aveva intenzione di fargli sapere che il suo primo pensiero, non appena aveva saputo della cosa, era stato di correre proprio dalla segretaria per provare a pregarla di cambiargli la stanza. Aveva deciso, nell'istante in cui Otis era entrato lì dentro, che, se proprio doveva toccargli quella malaugurata sorte, allora l'avrebbe trasformata in un'occasione per comportarsi finalmente da persona matura, e lasciarsi finalmente quel bambino egoista e capriccioso alle spalle. E una persona matura non si arrabbia, non mostra disagio, sgradimento o inconvenienza. Una persona matura è compiacente, pacata, indifferente di fronte a questioni di poca importanza. Tutto ciò che Emi doveva fare era dimostrare che Otis era per lui ormai una questione di poca importanza - ed eventualmente, poi, col tempo, arrivare anche a maturare questa convinzione nella propria testa.
    « Come vogliamo organizzarci? Vuoi che rinunci all'alloggio? Io posso lasciare il posto a qualcun altro e torno a casa mia, non è troppo distante per me. » Quella sì che sarebbe stata la soluzione perfetta per lui: stanza libera (e vuota per almeno qualche settimana, prima che la segreteria trovasse qualche altro studente da piazzarci) e nessun impiccio. In fondo, poi, era proprio vero che Otis non abitava tanto distante da lì, dunque per quale motivo aveva bisogno di alloggiare al campus? Era praticamente un capriccio, il suo. Si strinse nelle spalle con nonchalance. « Per me va bene. » Insomma, problema risolto. E se mi lasci anche un'anta del tuo armadio mi fai un gran piacere.
    Quando riprese a frugare nel proprio borsone, avendo chiuso la questione nella propria testa, un oggetto in particolare catturò l'attenzione di Emi. Era una spilletta colorata a strisce, fucsia, blu e viola al centro, che riportava una ridicola scritta glitterata. La tirò fuori, e la esaminò con aria corrucciata per qualche secondo, prima di scuotere leggermente il capo e sbuffare. Ricordava perfettamente quando quella sanguisuga di Harriett Whitehall l'aveva fermato per i corridoi, qualche giorno prima, e l'aveva ammorbato per l'ennesima volta sulla necessità impellente che lui entrasse a far parte dell'associazione LGBTQ+ di Hogsmeade. A lui quelle cose non importavano, e più cercava di evitarle, più gli pareva di ritrovarsi Harriett in ogni angolo del paese - in piazza, da Mielandia, per i corridoi a scuola, nei DM su Wiztagram. Quel giorno era stata così insistente da volergli infilare quella stupida spilletta direttamente nel borsone, tra i libri che aveva appena ritirato per il nuovo anno. Senza pensarci più di tanto, Émile fece il giro del proprio letto e gettò la spilletta nel piccolo cestino della spazzatura sotto la propria scrivania, dove tintinnò per qualche secondo contro il metallo del contenitore. Sistemò dunque gli ultimi oggetti in giro per la stanza: posizionò tutti i nuovi libri sulla mensola sopra la scrivania, il binocolo magico nuovo di zecca, il kit di Cura delle Creatura Magiche, i guanti di Quidditch che gli aveva regalato Nessie e una ricordella un po' vecchiotta, che di tanto in tanto si colorava di rosso senza un vero motivo. Tirò fuori i due mazzi di Black Market - versione vietata ai minori e la pregiata Artist Deluxe Edition - e li gettò senza pensarci in un angolo in fondo al secondo cassetto del comodino, dietro ai calzini, lì dove non sarebbero state d'intralcio.
    « Come hai potuto ottenere i permessi per portare due creature non domestiche all'interno degli alloggi per studenti quando non sono concessi neanche i gatti a meno che non siano famigli? » Spostò lo sguardo su Otis, guardandolo effettivamente per la prima volta da quando erano insieme in quella stanza. Trattenere una risata in quel momento fu un'impresa titanica, perché per quanto il Tassorosso si guardasse bene dall'esprimere verbalmente alcun giudizio, i suoi occhi erano tutt'altra storia: e ad Émile bastò un'occhiata per capire esattamente cosa stesse pensando. In quel momento, siccome si parlava di animali - e lui non riusciva mai a star zitto quando quello era l'argomento di conversazione - e siccome era pure un po' divertito dallo sguardo di puro disgusto di Otis, si trovò a tradire il proprio proposito di ridurre qualsiasi comunicazione all'osso. « Beh, Marv è fondamentalmente innocuo. A Hogwarts poteva essere problematico perché ci stavano in giro i bambini di undici anni, ma al college tutti sanno cos'è un Purvincolo e come fare attenzione. Cioè, a meno che non sei deficiente non ti attaccherà mai. » Si strinse nelle spalle, recuperando la mela che aveva rubato a casa di June prima di lasciarla. « Quindi ho fatto una richiesta speciale e dato il mio indirizzo di studi e considerato il mio impegno al rifugio mi hanno dato il permesso di tenerlo. Verranno però quelli del rifugio a controllare una volta al mese qui in camera che lo stia tenendo nelle giuste condizioni. Sai, l'alimentazione, lo spazio per andare un po' in giro, eccetera. »
    Diede un morso alla mela, per poi avvicinarsi a Gert e accarezzarne la testa con il dorso dell'indice, con delicatezza. L'animaletto parve gradire, tanto che chiuse gli occhi e piegò il capo di lato, domandando qualche carezza anche sulla cresta. « Gertaldo invece è un animale della foresta, vive sugli alberi, non dovrebbe proprio stare a casa. È solo che il mese scorso l'ha attaccato un Augurey e ci è quasi rimasto secco, fortuna che l'abbiamo trovato con quelli del rifugio. Dopo che l'abbiamo curato si è attaccato molto a me, non mi lasciava proprio andare. Ho provato a liberarlo un sacco di volte, perché è giusto che stia nel suo habitat, ma secondo me ha una specie di trauma. Ogni volta che lo mettevo sul ramo di un albero finiva per gracchiare e correre via, per poi saltare di nuovo sulla mia spalla. Non lo so, è strano. » Scostò il borsone per gettarsi sul letto a peso morto. Diede un altro morso alla mela, lo sguardo perso per qualche secondo tra gli alberi fuori dalla finestra. « Per quanto riguarda il permesso, per lui non l'ho chiesto. Ma semplicemente perché non sono io a tenerlo qui. È lui che non se ne va. Ma se anche venissero a vedere, cosa potrebbero dire mai? Potrebbe essere tranquillamente entrato dalla finestra per caso, come una lucertola o un piccione. Non l'ho messo mica in gabbia, può andarsene quando vuole. » Si strinse nelle spalle, dando un altro morso alla propria mela. Non nascondeva che l'affetto che Gert gli dimostrava lo lusingasse: era stato infatti una specie di legittimazione, per lui, quasi come se quella piccola creaturina, con il suo attaccamento morboso, volesse dirgli: hai scelto la strada giusta. E ora, vederlo saltellare e arrampicarsi tra gli oggetti domestici era una grande soddisfazione, specie se ripensava a come era ridotto dopo l'attacco dell'Augurey.
    Tutto ad un tratto, immerso in quel silenzio nuovo, si ricordò di essere nella stessa stanza di Otis; si accorse di aver parlato un po' troppo rispetto a quanto avrebbe preferito, di essersi mostrato forse troppo entusiasta, troppo vero, troppo normale. Come se davvero non fosse successo niente tra di loro. E per quanto ambisse a manifestare indifferenza, quella che ricercava lui era diversa. Sentiva come l'esigenza di proteggere anche quella parte di sé, fatta di passione ed entusiasmo, dagli occhi di Otis. Se non faceva più parte della sua vita, non era più giusto che potesse partecipare a quel suo amore.
    Sospirò, gli occhi castani fissi sulle travi di legno del soffitto. Non fare il bambino egoista e capriccioso. « Senti, se ti dà fastidio stare in stanza con me, posso anche andarmene io » disse, a voce bassa, portando entrambe le mani dietro alla nuca, e senza mai guardare Otis. « Posso andare da mia cugina June. A lei non cambia niente. »








     
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