The kids don't wanna come home

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  1. the educator
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    Non rimanere a casa, con l'inizio dell'Università, era stata una questione di sopravvivenza. Il solo pensiero di dover in effetti tornare a vivere a casa, dopo anni di difficoltosa ma contemporaneamente beata indipendenza nel dormitorio del Castello l'aveva messo in uno stato di agitazione e preoccupazione angosciosa, difficile da spiegare. Aveva trascorso la maggior parte della sua estate in quella cameretta che da qualche parte, per qualche motivazione che in fondo riusciva a capire ma di cui avrebbe voluto sbarazzarsi il pima possibile, sentiva di aver abbandonato. Quando ne aveva varcato la soglia, il primo giorno d'estate, di vera estate, (senza esami, senza libri da studiare durante le vacanze, senza papiri da scrivere o gufi da inviare per assicurarsi che gli elfi domestici fossero informati che neanche al successivo Settembre avrebbe lasciato la stanza n.69 e quindi no, non potete ancora buttare le cose che ci ho lasciato), aveva esalato un respiro di piena malinconia. Quella fine, esattamente come tutte le altri fini con cui Otis aveva dovuto fare i conti nel corso della propria vita – una percentuale delle quali sembrava si fosse concentrata soltanto in quegli ultimi mesi, in cui tutto sembrava star cambiando – l'aveva vissuta riuscendo a soffermarsi soltanto in minuscola parte sull'eccitazione del nuovo inizio che avrebbe implicato. Scegliere il corso in Comunicazione e NewWiz Media e lasciar andare la strada di giornalismo che aveva preannunciato e raccontato a tutti da quando aveva imparato a scrivere era stata una deviazione piuttosto sottile, per alcuni suoi parenti persino insignificante, in fondo che differenza c'era? La differenza stava nell'aver cambiato idea su qualcosa di così radicato e identitario come il percorso di studi. Sapeva che le sue aspirazioni non sarebbero cambiate, che voleva ancora imparare a raccontare, e provare a fare giustizia semplicemente riportando la realtà delle cose, dare a tutti la possibilità di esprimere la propria opinione, e di farlo con la propria voce, senza censure e con completa libertà; aveva capito che il modo migliore per farlo era rimanendo al passo con le ultime tecnologie, che conosceva fin troppo bene, ma se aveva commesso un errore? Se aveva scelto un corso che era troppo settorializzante, troppo specifico, troppo diverso da come se lo aspettava? Se aveva sbagliato? Come aveva fatto a trovare il coraggio di prendere una tale decisione, una che poteva cambiargli la vita per sempre, senza pensare alle conseguenze? Eppure lo aveva fatto, aveva stilato una lista infinita di pro e contro, con in cima a caratteri cubitali “GIORNALISMO” versus “COMUNICAZIONE”, iterazioni di settori alla fine talmente tanto vicini da far risultare quella sua minuziosa puntigliosità ridicola ai suoi stessi occhi, se ne rendeva conto. Alla fine la scelta era arrivata come arriva sempre, in questi casi: smettendo di pensare, provandosi a buttare, rimanendo in piedi sul ciglio del burrone per meno tempo possibile, come faceva quando da piccolo aveva paura di lanciarsi dagli scogli più alti. Aveva chiuso gli occhi e aveva deciso di provare, ma sentiva di aver rinunciato ad una parte di sé, quella più purista, quella più ortodossa, la vocina che ancora gli sussurrava all'orecchio: studiare giornalismo è un'altra cosa, non andrai da nessuna parte con una stupida laurea in comunicazione. Quella preoccupazione sarebbe rimasta con lui, ci aveva fatto i conti, e l'avrebbe seguito insieme a quella crescente malinconia, che l'aveva acchiappato da quando aveva messo piede in casa sua a Inverness, e non l'aveva lasciato andare. La sua estate dopo la fine del liceo l'aveva trascorsa nel modo più deprimente esistente sulla faccia del pianeta: da solo, sul suo letto sempre disfatto, ad aspettare che il tempo passasse, e fosse ora di ricominciare; a intellettualizzare tutti i suoi sentimenti più cupi, a razionalizzarli e a smantellarli per difendersene invece di parlarne con qualcuno (la sua cosa preferita al mondo, apparentemente). Aveva festeggiato il suo compleanno soltanto con sua madre e i suoi fratelli, Stan gli aveva regalato un album di fotografie pieno di memorabilia di quando aveva frequentato Hogwarts, quando era stato eletto caposcuola, quando era appena uscito dall'infermeria dopo la presa del Castello, quando era appena tornato dal Giappone, con lo zaino enorme strabordante di souvenirs e la maggior parte dello spazio occupato dal Koto che si era portato dietro. Era finito tutto da così poco e già non si riconosceva più in quelle foto, si sentiva più spento, tutti i colori della sua vita sembravano più sbiaditi di quanto apparissero in quelle foto, e si chiese se anche allora, quando erano state scattate, li vedesse come ora, e la brillantezza fosse data soltanto dal ricordo. Sembrava che l'unico tempo in cui lui fosse stato davvero felice e in cui potesse esserlo davvero fosse il passato.
    L'arrivo del primo giorno di settembre, quantomeno, annunciava la possibilità di alzarsi dal letto, lavarsi, radere quei sei o sette peli che impavidi continuavano a sfidare la lama del suo rasoio, vestirsi e uscire di casa, una scena talmente insolita che sua madre, alla prospettiva che finalmente avrebbe preso un po' di luce solare, non aveva smesso di sorridere e gongolare per tutta la mattina, raccomandandosi con lui, prima di varcare la soglia, di indossare crema solare sul viso per evitare di scottarsi. In Scozia. L'umore, quando Otis camminava con lo zaino in spalla per i corridoi del campus universitario, era leggermente migliore di quando si trovava sul treno per arrivarci, perché in fondo respirare aria pulita poteva essere davvero piacevole, e la sensazione di avere persone attorno che si scostavano per evitare di andargli addosso mentre camminava gli ricordavano che aveva un corpo anche lui. Hope's Place l'aveva visitata soltanto una volta per una visita guidata al campus universitario, e quella mattina sembrava brillare sotto il sole settembrino, e l'aria frizzante dava una scarica di energia al suo cervello assopito che gli fece venire voglia persino di rallentare il passo e godersi un po' la passeggiata. La stanza che gli era toccata era la numero 23 – una cifra meno divertente di quella che era toccata a lui e a Émile durante gli anni di scuola – ed era collocata nell'edificio dei Tassorosso. Registrò le conversazioni insignificanti dei passanti che gli sfrecciavano accanto, la maggior parte matricole alla ricerca del proprio alloggio, intrise di un'eccitazione che invidiava ma che forse, in fondo, si sarebbe concesso di provare prima o poi.
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    Quando la trovò, varcò la soglia senza badare al nome del suo compagno di stanza, indicato sulla porta, calciandola leggermente con il piede, avendola trovata socchiusa: chiunque fosse il suo coinquilino doveva essere già arrivato. Lanciò in aria le chiavi che gli erano state consegnate un paio di volte, poggiò a terra lo zaino, e fece un respiro profondo. La camera era molto più nuova di aspetto in confronto a quelle del Castello, com'era prevedibile visto la recente costruzione, ma mantenevano lo stile di arredamento tipicamente scozzese, sebbene i pavimenti fossero moquettati – forse per prevenire disturbi agli altri studenti. Bello, così potrò dormire in pace. Ricordava ancora gli scricchiolii dei pavimenti legnosi provenire da sopra, sotto, destra, sinistra. Si lasciò ricadere sull'unico materasso spoglio, l'altro già occupato da alcuni effetti personali e alcuni scatoloni. Dopo qualche secondo, incuriosito, decise di provare a sbirciare tra le cose del coinquilino, prima che tornasse, per provare a capire qualcosa della sua personalità; si tirò a sedere, e in punta di piedi si avvicinò all'altro lato della stanza. Sul comodino era stata lasciata quella che sembrava una lettiera, il che lo preoccupò non poco; in una scatola individuò un paio di libri, un panino incartato, una mela, una foto incorniciata e un mazzo di carte di Black Market. Non potendo resistere alla tentazione affondò la mano all'interno, estraendo la scatola familiare: era l'edizione vietata ai minori di 16 anni. Sollevò le sopracciglia. «Bleah» commentò ad alta voce, ma sussurrando. Conosceva solo un'altra persona, oltre al suo nuovo coinquilino, che possedeva un mazzo del genere, e con lui non era finita proprio benissimo, per cui non è che cominciassimo proprio alla grande. Notò anche un paio di magliette, niente di troppo eccentrico, e una piccola spilletta blu, viola e fucsia con scritto not a phase: forse non era uno di quei ragazzi che avrebbero portato ragazze in camera loro ogni sera e ascoltato musica techno a tutto volume. Sentì dei passi avvicinarsi, quindi si ritrasse di scatto, improvvisando di star guardando fuori dalla finestra per dissimulare, le mani dietro la schiena. La visione di quella spilletta gli aveva lasciato una strana sensazione. «Ciao.» La rotazione fu lenta quanto quella di un film horror. Conosceva quella voce. Si limitò a guardarlo, con gli occhi impercettibilmente sbarrati, mentre Émile Carrow con aria perfettamente nonchalant si metteva a frugare tra le proprie cose. Il primo shock fu concettualizzare che il suo compagno di stanza sarebbe stato lui. Il secondo fu assistere alla scena di questo gigantesco trespolo piegevole che veniva allestito accanto al suo letto, su cui si era arrampicata una creatura che Otis non aveva mai visto in vita sua e che avrebbe felicemente evitato di incontrare. Aggrottò la fronte, ancora incapace a esprimere una parola, l'incredulità che faceva strada alla rabbia per quella sua assenza di reazione. «Siamo compagni di stanza?» Fu la domanda cretina che gli venne in mente: magari Émile era lì perché era amico del suo coinquilino e gli stava facendo il favore di cominciare a sistemargli gli effetti personali. Rimase immobile lì dov'era, davanti alla finestra. «Uhm... E a te sta bene? Cioè, non...» Come dirsi: “entrambi sappiamo di non voler stare in stanza insieme” senza dirselo? «Non c'è niente che si possa fare, immagino» sospirò, mordicchiandosi le labbra, consapevole che non si sarebbe mai messo a bisticciare con l'ufficio di segreteria, conoscendolo fin troppo bene. Lo fissò per qualche secondo, riflettendo. Alla fine forse quella sarebbe stata la soluzione migliore, quell'approccio di petto: aveva immaginato l'evitarsi tra i corridoi, il cambiare posto in aula se avessero avuto corsi comuni, e avevano già vissuto i pranzi a tavoli separati o distanti minimo sei posti. Forse l'indifferenza sarebbe stata facilitata dalla convivenza? Neanche lui era capace di intellettualizzare la situazione a sufficienza. «Come vogliamo organizzarci? Vuoi che rinunci all'alloggio? Io posso lasciare il posto a qualcun altro e torno a casa mia, non è troppo distante per me.» In fondo, forse, era il destino che cercava di indirizzarlo sulla strada più giusta, visto che prendere decisioni era diventato così complicato per lui. Forse era un segno. Si mise a sedere sul proprio letto, speculare a quello di Emi, gli occhi che slittavano lenti verso l'essere rigurgitante che gracchiava sul proprio trespolo, la lunga coda arricciata, le zampe palmate e i piccoli dentini aguzzi che spuntavano dalla bocca. Non riuscì a trattenere un'espressione leggermente disgustata, per cui dovette distogliere lo sguardo, che però finì su Marv. «Come hai potuto ottenere i permessi per portare due creature non domestiche all'interno degli alloggi per studenti quando non sono concessi neanche i gatti a meno che non siano famigli?»
     
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2 replies since 1/9/2023, 15:25   113 views
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