Thoroughfare

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    Uno dei portali che da Inverness conducevano al quartiere warlock era stato aperto all'interno dello scantinato di una vecchia locanda in tipico stile londinese. Accanto alle botti erano disposti alcuni sgabelli, e un fuoco crepitava nel camino, per permettere alle persone che transitavano di essere accolte in un ambiente che fosse il più possibile rassicurante, un modo per dire loro: siete al sicuro. Una bugia, certamente, perché quella era una sicurezza relativa: certo, siete più protetti rispetto a quando vi trovavate sotto l'attacco diretto degli Auror e dei fuochi fatui, ma dopo gli eventi di quella mattina Théa era sicura che nessuno sarebbe più stato capace di sentirsi sereno e riparato per un bel po' di tempo. Il seminterrato era finalmente svuotato, dopo un pomeriggio intenso trascorso a smistare, medicare, rassicurare, e aspettare persone, la speranza inesorabilmente viva che prima o poi i propri cari si sarebbero fatti vivi. Era il minimo che potesse fare. Due sole persona rimanevano accanto al varco, insieme a Théa e agli altri addetti all'identificazione. Nessuno di loro se l'era sentita di dire loro di andarsene. «I Rigby? Arlo Rigby? Vanessa Diaz? Jonas Rigby?» La ragazza dai lunghi capelli castani continuava a porre la stessa domanda, a ripetizione, ancora e ancora, a chiunque superasse il varco e che avesse l'aria di avere anche solo una parvenza di consapevolezza di cosa stesse succedendo. Quello che Théa immaginava dovesse essere il fratello se ne stava in silenzio, accanto a lei. Era stata lei a suggerirle di aspettare lì, ore prima, ma non avrebbe mai immaginato che questo avrebbe significato sottoporla ad una simile tortura. Le lanciava occhiate preoccupate, di tanto in tanto, consapevole che alla fine avrebbe capito che se non erano già stati uccisi, la migliore delle ipotesi era che fossero stati arrestati. Il traffico di persone che arrivavano da quello specifico portale a quell'ora cominciava a scemare sempre di più, il sole che ormai cominciava la propria discesa, come se niente fosse successo, regolare, imperterrite, indisturbato. «Ehi, da questa parte» fece ad alta voce, diretta ad un gruppo di ragazzi che avevano appena attraversato il varco, che si apriva lungo il dorso della porta che conduceva sul retro del locale. Strano che arrivino soltanto adesso. Erano tre o quattro, ricoperti di polvere e detriti dalla testa ai piedi, e ciascuno di loro teneva in braccio due o tre gattini randagi. «Vi identifichiamo, così i vostri cari possono sapere che siete arrivati, e vi indirizziamo verso il vostro alloggio, okay? Avete qualche ferita?» La voce si sforzava di essere rassicurante, ma suonava troppo pragmatica, atona, come succede quando ripeti delle parole più e più volte, e perdono di significato, e le persone a cui sono rivolte si assomigliano tutte. Se ne rendeva conto, di star eseguendo azioni ripetute in modo standardizzato, quasi meccanico. Era esausta, ma prendersi una pausa non era neanche un'opzione, nella sua mente. Si passò il dorso della mano sulla fronte, il suo viso – come quello di tutti gli altri – sporco di terra incrostata e polvere. Sospirò, quindi cercò di sorridere, ma il tentativo fu completamente fallimentare, risultando in una smorfia stretta e forzata che non avrebbe potuto tranquillizzare nessuno. Pazienza, l'importante è portare a termine il lavoro. I ragazzi la
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    guardavano senza dire niente, i gattini tra le loro braccia miagolanti e terrorizzati. «Perché ci avete messo tanto, a trovare il portale?» Cercò di chiedere loro nel modo meno brusco possibile, senza particolare successo. «Volevamo salvare i gatti randagi...» Théa aggrottò la fronte, serrando le labbra tra i denti. Inspira, espira. «In che senso volevate salvare i gatti Uno degli altri maghi e lycan addetti all'identificazione delle persone, accanto a lei, si voltò nella sua direzione, e le poggiò una mano sulla spalla, come ad invitarla a moderarsi. Théa lo guardò, sgranando gli occhi in modo eloquente, e poi deglutì, la lingua che premeva contro la guancia. «Okay, uhm... Spiegatemi meglio» «I gatti del rifugio per animali che ha aperto da poco ad Inverness.» Fece uno di loro, che non avrà avuto più di 12 anni, esitante. «Ce ne sono tantissimi che sono stati sfollati... Siamo rimasti per portarli in salvo, ma non basta, serve qualcuno che vada a recuperarli.» «Va bene, facciamo così.» I ragazzini tenevano i gattini talmente stretti che quelli continuavano ad agitarsi e miagolare. «Facciamo che questi li lasciate a noi, daremo loro coperte e qualcosa da mangiare, okay?» Li guardò negli occhi, cercando di essere quanto più persuasiva possibile. In fondo quello doveva essere stato il loro modo di mantenersi ancorati alla realtà, o forse di ignorarla, dando priorità a qualcosa che esuli da se stessi e dalla propria sopravvivenza, per non dover affrontare l'idea che tu o qualcuno di a te molto caro potrebbe non esistere più da un momento all'altro... Per quanto fosse un modo stupido e suicida di comportarsi e com'è possibile che nessuno li abbia intercettati prima e obbligati ad attraversare il portale? «Io e il mio collega, qui, ci assicureremo che stiano bene, e cercheremo di raccogliere tutti i gattini che arriveranno in modo che stiano insieme.» Annuì, voltandosi verso il ragazzo alla sua destra, che nel frattempo era stato catturato, come gli altri, da quella visione. «Perché intanto non mi dite i vostri nomi e cognomi, e quelli dei vostri cari?»
    Una volta identificati, Théa li seguì con lo sguardo mentre venivano accompagnati da uno di loro verso le proprie abitazioni temporanee. «Ci mancavano solo i gatti» bisbigliò tra sé e sé, i mici che dovevano avere meno di un anno che continuavano a miagolare indomiti, girovagando nello spazio nuovo e sconosciuto. «Che facciamo?» Fece, accovacciandosi, suo malgrado non riuscendo a resistere dall'accarezzare il dorso di uno di loro: un gattino rosso, il più silenzioso, che tremava come una fogliolina. Volse nuovamente il capo verso il collega, rendendolo partecipe di quel nuovo incarico di cui non aveva potuto non prendersi responsabilità. «Potremmo andare di sopra a cercare delle coperte, del latte, magari...» Alla fine scivolò a terra, le gambe distese di fronte a sé, e un altro gattino che si avvicinava nella sua direzione, per farsi coccolare. «Chissà quanti altri come loro sono rimasti indietro...» Fece, venendo meno al rigore che aveva mostrato fino a cinque minuti prima nel disdegnarsi per la mancanza di giudizio dei ragazzi che avevano rischiato la vita pur di salvarli. Si passò una mano sul volto, stanca. «Non lo so, tornare indietro è fuori questione. Possiamo prendere qualcosa da mangiare per loro, e magari provare a mettere qualcosa sotto i denti anche noi?» Propose infine, cedendo inerme al brontolare del proprio stomaco, vuoto dalla sera precedente. «Una persona dovrà pur mangiare, ad un certo punto.» Fece, rivolgendogli uno sguardo incerto, quasi chiedendo al collega il permesso di venir meno al proprio rigido rigore morale e concedersi almeno un momento di pausa. Uno solo, anche se non me lo merito. «Potremmo riportare qualcosa da mangiare anche per loro» fece infine, a voce più bassa, con un cenno della testa verso i due ragazzi che aspettavano ancora accanto al portale.
     
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