The winter of survival mode

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    dauntless

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    « Non dovresti fumare. » Non dovresti fare un sacco di cose che fai, ma almeno di salvarti i polmoni puoi sceglierlo. Non aveva mai capito quanti anni avesse - Honey non glielo aveva mai detto, così come non gli aveva nemmeno mai detto il suo vero nome, facendogli sospettare che nemmeno lei fosse certa di nessuna delle due cose. Bastava guardarla, tuttavia, per capire che la maggiore età doveva essere ancora ben lontana. I clienti del locale la adoravano: era giovane e fresca, con due occhioni innocenti che non sembravano rendersi pienamente conto di quanto la sua vita fosse stata deragliata. Era triste, vedere una bambina cresciuta così in fretta e al tempo stesso ancora così infantile; talmente spezzata da credere che ogni interazione umana dovesse necessariamente basarsi sullo scambio, e che la gentilezza non fosse mai gratuita. « Me le ha date David. Sono al mentolo, quindi non sono vere e proprie sigarette. Queste qui non fanno male perché hanno il mentolo, sono come delle gomme da masticare. » Le rivolse un'occhiata scettica, inarcando un sopracciglio. « C'è ancora più merda rispetto a quelle normali quindi sì, fanno male lo stesso se non di più. » La ragazzina sbuffò, alzando gli occhi al cielo mentre si stringeva le braccia al petto in seguito ad un brivido di freddo. Di quel passo si sarebbe presa una polmonite. E forse sarebbe stato il minore dei suoi mali. « Li hai fatti i compiti? » Quella domanda sembrò accendere una lampadina nella testa della moretta, portandola a illuminarsi in un sorriso e annuire velocemente mentre armeggiava con il toppino per estrarre da una coppa decisamente imbottita un foglio di carta piegato talmente tante volte da farlo diventare minuscolo. « Eccoli qua. Ci ho passato tutta la mattina. Non è facile trovare venti parole che iniziano con la i, sai? » Le stirò un piccolo sorriso, aprendo il foglio su cui Honey aveva scritto la propria lista, corredata da tante i nei quattro diversi stili (stampatello maiuscolo, stampatello minuscolo, corsivo maiuscolo e corsivo minuscolo) e da un disegno rappresentante dei cubetti di ghiaccio. Facevano così ogni giorno, per ogni lettera dell'alfabeto, e la parte del disegno era quella di cui Honey andava più fiera. « Immagino. » commentò, mentre scorreva velocemente con gli occhi la lista di parole, tirando poi fuori una penna dalla tasca posteriore per correggere alcuni errori. Non appena Honey lo vide fare ciò, si sporse subito col nasino sopra il foglio, controllando dove avesse sbagliato. « Perché hai segnato ist? » Con l'unghia smaltata di rosa mangiucchiato picchiettò sulla parola incriminata. « Cosa intendevi? » « Intendevo ist. Come ist-side, il sole che sorge a ist eccetera. » « Beh, si scrive e-a-s-t. » Honey sembrò pensarci un attimo, non del tutto convinta. « Ma non ha senso! » Un lamento così genuino che riuscì a strappare una piccola risata al giovane Yagami, il quale riconsegnò il foglio corretto alla ragazza. « Prenditela con la dizione inglese. Ma tranquilla, è un errore normale - ai dittonghi non ci siamo ancora arrivati. » La sola menzione di quel termine così oscuro provocò in Honey un sospiro frustato, portandola ad affondare drammaticamente il viso tra le mani. « Ah mi scoppia la testa! E adesso cos'è questa roba? Io non so davvero come hai fatto ad imparare tutto. Sei tipo un genio a conoscere queste parole e saperle distinguere tutte come si scrivono. » Raiden aveva imparato presto che per essere un genio agli occhi di Honey bastasse davvero poco. Quando le aveva mostrato la tecnica per fare le addizioni in colonna sembrava essere stata colpita dalla realizzazione di un segreto di stato, cominciando a blaterare riguardo quanto Raiden dovesse essere intelligente per aver scoperto quel trucco capace di semplificare anche le somme tra i numeri più grossi. Era stato in quello stesso frangente che il giovane Yagami si era reso conto di quanto in profondità arrivasse il trauma di Honey, dato che la sua immediata reazione allo svelarsi di quel life hack era stata chiedergli se per caso volesse un pompino in cambio di tale favore. Ovviamente il giapponese aveva rifiutato, osservandola con uno sguardo a metà tra la confusione e l'orrore, al quale Honey - dopo essersi accertata almeno un paio di volte che nessun favore sessuale le fosse richiesto - era scoppiata a piangere come una bambina, abbracciandolo abbastanza forte da togliergli l'aria dai polmoni. Questa era la vita al Kitten Garden, questa era l'agghiacciante quotidianità a cui Raiden si era dovuto abituare, e Honey ne era solo l'esempio più evidente.

    Non sapeva di preciso quanto tempo avesse passato ad attendere in quello studio. Forse una mezz'ora. Sceso dall'aereo che dal Giappone lo aveva riportato in Inghilterra, Raiden era stato velocemente cacciati dentro una macchina dai vetri oscurati e scaricato di fronte ad uno strip club di periferia. Lo avevano fatti entrare dal retro, conducendolo su per un paio di piani di scale e spingendolo poi all'interno di una stanza dall'arredamento decisamente più lussuoso rispetto al tenore di tutto ciò che aveva visto fino a quel momento. Gli avevano ordinato di rimanere in piedi a qualche metro dalla scrivania, e così aveva fatto, senza muovere un muscolo. Ogni qualvolta avesse percepito la tentazione di muoversi o andare a sedersi si era frenato, animato dall'infondata ma forse giusta convinzione di essere osservato da altrove. Aveva avuto tempo di osservare ogni dettagli di quella stanza: il legno costoso dei mobili, la raffinatezza degli oggetti disposti sulla scrivania, il sottile odore muschiato di quella che sembrava acqua di colonia e le note affumicate di sigari cubani. Quella stanza doveva appartenere ad un uomo potente, forse non tanto quanto quelli che lo avevano fatto arrivare lì, ma sufficientemente da garantirgli la protezione che cercava. Tutto stava nel capire quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Ma ormai, dopo Iwo Jima, poteva dirsi pronto a tutto - o almeno così credeva. Quando la porta si aprì, rivelando un uomo di mezz'età ben vestito, fu naturale per Raiden piegarsi in un inchino profondo senza dire una parola, in attesa che l'altro gli permettesse di risollevarsi. « Sei il ragazzo di Tanaka? » « Sìssignore. » « Nome? » « Raiden, signore. » « Puoi alzarti, Raiden. » Sollevò il capo, puntando lo sguardo nell'uomo di fronte a sé. Aveva una faccia pulita, di certo non il tipo che ti saresti aspettato di vedere a gestire un posto del genere. Sembrava più uno di quei ricconi dell'alta finanza. Non che una cosa esclusa l'altra. Specialmente quando si trattava della Yakuza. « Allora, Raiden.. Tanaka mi ha detto che sei uno sveglio che sa fare un po' tutto. Ti ha scelto per la sicurezza, mi pare di ricordare. » Annuì, e l'uomo si sciolse in un sorriso che, lì sul momento, Raiden trovò strano. Non era il classico sorriso di circostanza. « Spogliati. » Per chi era passato per Iwo Jima, quella era tutto tranne che una richiesta strana. C'erano mille e una motivazioni per chiedere qualcosa del genere, in primis come misura di sicurezza per accertarsi che non avesse con sé microfoni o altro. Così, senza battere ciglio, il giapponese si tolse i vestiti che aveva addosso, rimanendo in biancheria di fronte all'interlocutore. Non sembrava imbarazzato, d'altronde era routine. O almeno così pensò fin quando l'uomo non rincarò, con un sorriso più sornione. « Completamente. » Confuso dalla richiesta, ma non intenzionato a contraddirlo, Raiden si liberò dell'ultimo indumento rimasto a proteggerlo dalla completa esposizione allo sguardo di quell'uomo. E già da lì, da quel silenzio, dal modo in cui gli occhi dell'altro scrutavano ogni centimetro del suo corpo, capì che di routinario c'era poco o nulla in quella richiesta. Quello sguardo gli pesava addosso come un macigno, facendolo sentire osservato nella più invasiva e indesiderata delle maniere. Mentre l'uomo si scostava dalla scrivania per avvicinarsi a lui, muovendosi in cerchio come uno squalo intorno alla sua figura, la stanza di cui aveva imparato a memoria ogni centimetro iniziò come a mutare. Il legno raffinato rendeva ora l'ambiente più scuro e soffocante, gli oggetti sul tavolo freddi e taglienti, l'odore di acqua di colonia e sigaro nauseante. Un brivido corse lungo la sua schiena nel sentire il sospiro dell'uomo sulla sua nuca, sufficientemente vicino da infrangersi sul suo collo. « Che spreco. » Non riusciva a muoversi, come paralizzato. Quando sentì la mano fredda dell'uomo poggiarsi sulla base del suo collo, scendendo piano lungo le spalle e la schiena, l'istinto gli urlava di fare qualcosa. Con una mossa sufficientemente veloce avrebbe potuto metterlo KO in men che non si dica. Ma era la sua unica chance. Con il mondo magico al suo seguito, non poteva certo permettersi di diventare ricercato anche dalla Yakuza: non avrebbe conosciuto pace fino alla fine dei suoi giorni. E quindi rimase immobile, sperando con tutte le proprie forze di uscire da quella stanza il prima possibile. « Perdonami, devo accertarmi che tu sia pulito. » Sentì il palmo dell'uomo premere sulla sua schiena, deciso - un movimento che lo obbligò a chinarsi in avanti, spiaccicandogli la tempia contro la superficie di legno della scrivania. Chiuse gli occhi, pregando ogni divinità mentre lo scorrere di quelle mani su di sé alimentavano in lui un senso di panico, disperazione e disgusto. Non si era mai sentito tanto impotente quanto in quel momento. Non aveva mai provato tanta nausea quanto nel sentire le mani di quell'uomo divaricargli le gambe, osservando i suoi punti più intimi con quello sguardo che non poteva vedere ma riusciva a percepire con dolorosa precisione. « Non ti piaccio proprio, mh? » Rideva, come se fosse divertente, come se il terrore di chi non poteva opporsi non fosse un freno, ma semmai un incentivo. Should I get one of my girls to suck you off while I fuck you? So you can feel like less of a faggot. Quelle parole soffiate contro la sua pelle scatenarono in Raiden un sentimento di puro panico. Un terrore così totalizzante da bloccargli persino l'aria sufficiente a parlare. Avrebbe dovuto dire qualcosa, provare ad opporsi, quantomeno per poter dire di averci provato, ma non ci riusciva: era completamente paralizzato. E poi, al culmine della disperazione, arrivò un rumore di nocche alla porta che per le orecchie di Raiden fu come il suono delle campane. Aprì di scatto gli occhi. « Signore, non voglio disturbarla ma di sotto ci stanno gli albanesi. » L'uomo inspirò l'aria tra i denti, seccato, assestandogli uno schiaffo sulla natica prima di sollevarsi in piedi. « Stasera ti è andata bene, dolcezza. Prendi le tue cose. Dylan ti farà vedere cosa fare. » Il sollievo che provò fu un'esperienza completamente nuova, qualcosa che non credeva di aver mai provato. Eppure era gravata anch'essa dalla consapevolezza che sì, gli fosse andata bene, solo ma per il momento.

    « Sì e per essere un genio il primo trucco è non prendersi una polmonite. » Ridacchiò, poggiando una mano sulla spalla di Honey e guidandola verso l'interno del locale, dove il suo abbigliamento non l'avrebbe esposta al freddo e alle intemperie di un autunno inglese che si spingeva già verso la stagione invernale. « Ah ma allora oggi sei proprio di buon umore. » Sì, lo era. Quanto meno per i suoi standard. Che Raiden tendesse sempre ad essere piuttosto ermetico e pensieroso anche con lei, questa era cosa nota. D'altronde, come poteva essere altrimenti? La sua vita era stata completamente disintegrata dal giorno alla notte, era un ricercato, viveva in mezzo ai babbani e lavorava per uno strip club gestito dalle persone più disgustose sulla faccia del pianeta. Tuttavia quel giorno era diverso, e lo era per buona ragione: avrebbe rivisto Mia, dopo un mese passato tra messaggi centellinati e aperture del contatto decisamente sporadiche. Quelle restrizioni erano state necessarie per ragioni di sicurezza: non poteva darle troppe informazioni circa la sua vita, dove si trovasse o cosa facesse. Soprattutto nei primi tempi, gli Auror l'avevano interrogata diverse volte, ed era meglio per tutti che lei in primis non sapesse quasi nulla di lui. Adesso, tuttavia, voleva rivederla. Un po' perché era passato sufficiente tempo da permetterglielo e un po' perché aveva racimolato anche qualche soldo da darle; trovare il modo di convertirli in galeoni non era stato semplice, ma alla fine ce l'aveva fatta, pur andandoci a perdere una piccola percentuale. « Certo, è il mio giorno libero. » « Bugiardo. Non abbiamo mai un giorno libero. Anche adesso stai lavorando. » « Ho la sera libera, contenta? » La giovane annuì, trotterellando divertita al suo fianco. A volte era così: le piaceva puntualizzare cose per il semplice gusto di farlo, oppure parlare di qualcosa che non aveva alcun senso. Raiden supponeva che fosse perché nessuno spendeva mai più di due minuti a parlare per davvero con lei, e dunque con lui si sentiva a proprio agio anche a dire la cosa più stupida e insensata che le passasse per la testa. « Beh allora se esci portami qualcosa. Qualcosa di buono o qualcosa di carino. Oppure entrambi. Scegli tu. » Le sorrise, annuendo. « Va bene, vedrò di trovare qualcosa di buono o di carino. » « O ENTRAMBI! » « O entrambi. »
    Ci aveva messo tanto tempo a prepararsi quanto ce ne aveva messo a pulire la macchina che gli avevano prestato. Si era curato bene, cercando di ripulirsi al meglio per non sembrare eccessivamente trasando. La macchina, poi, era stata un altro paio di maniche. Se la scientifica ci passasse col luminol non voglio sapere cosa ci troverebbe. A giudicare dalla scatola vuota di preservativi e dal reggiseno mezzo strappato che aveva trovato, probabilmente nulla di rassicurante. Aveva fatto del proprio meglio col tempo che aveva, deciso a non perdersi nemmeno un attimo di quanto ne aveva a disposizione con Mia. E infatti era arrivato puntualissimo al motel dove si erano dati appuntamento. Si trovava un po' fuori Londra e aveva un'aria decisamente sciatta. Fuori c'erano poche macchine parcheggiate, e nel lotto poco illuminato poteva tranquillamente intravedere un paio di prostitute che non ci provano nemmeno a nascondersi. Sospirò, togliendosi la pistola dai pantaloni per riporla nello scomparto di fronte al sedile del passeggero, nascosta tra qualche cartaccia e robe su cui non voleva indagare. Un anno fa ti portavo a cena in un castello, e guardami adesso. Dire che si sentisse frustrato era riduttivo. Non sapeva come Mia avrebbe reagito nel rivederlo, né tanto meno poteva prevedere come il loro rapporto avrebbe resistito a quelle intemperie. Aveva paura, prima di tutto di deluderla - arrivando lì con un sacchetto di qualche galeone, l'aria da vagabondo e nessuna soluzione in tasca. Forse Mia se lo aspettava diverso, forse credeva che come al suo solito sarebbe caduto in piedi, trovando il modo di vivere in maniera dignitosa. E quando capirai che non è così? Domande che non poteva fare a meno di porsi e che continuarono a frullare nella sua testa mentre percorreva la strada verso la porticina con indicato il numero 64. Prese un lungo sospiro, sistemandosi velocemente prima di avvicinare le nocche alla porta, bussando secondo la sequenza in codice che avevano stabilito. Non sapeva se lei fosse già lì davanti ad attendere o se fosse solo stata particolarmente veloce, ma riuscì a malapena a finire di bussare che subito la porta si aprì, rivelando la figura di lei. La sola vista dei suoi lineamenti fu sufficiente a farlo crollare, mutando la sua espressione in un misto inspiegabile di gioia e dolore mentre si faceva avanti in uno slancio per stringere le braccia intorno al suo busto, sollevandola da terra e stampandole una serie infinita di baci - tra i capelli, sul collo, sulle labbra, sulle guance. « Mi sei mancata tantissimo, amore. Tantissimo. » Ripeté quelle parole più e più volte, soffocandole in uno filo di voce contro il suo collo, nel quale affondò il viso per riempirsi le narici del suo odore così familiare e confortante. Si prese tutto il tempo per cullarsi in quelle effusioni, carezzandole viso e capelli e osservandone ogni tratto del viso in muta adorazione, come a voler immagazzinare ogni fotogramma per i giorni in cui non avrebbe potuto goderne. Era così bella. Ancora più bella di quanto ricordasse. « Come stai? Come sta Haru? Ti ho portato qualcosa - per aiutarvi. Non è molto, ma adesso che mi sono fermato riuscirò a mettere da parte un pochino di più. Sai, non mi pagano così male. » Neanche bene, in realtà, ma non voleva darle troppo a vedere quanto stesse stentando: aveva già perso sufficiente dignità. « Hai mangiato? »

     
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    Psssst! Psssssst!!! PSSSSSSSST!!! Una mano alzata in direzione di un uomo che, dall'alto della sua postazione, su una torretta di guardia, sembra non accorgersene neanche di quella chioma di capelli blu elettrico. Dal giorno in cui Raiden è andato via, non erano più cambiati, e per quanto tornare a un colore più naturale non fosse impossibile, lo sforzo era talmente tanto che alla fine, Mia, aveva semplicemente deciso di abbracciare quella nuova se stessa. Alla fine la vede; quello sulla torre è Kai; avrà si e no venticinque anni - non gliel'ha mai chiesto, Mia, ma dentro è già morto. Non ha più un'anima. Le ha raccontato che si era offerto volontario per quel compito perché suo padre, uno non proprio pulito, voleva avere Iron Garden sotto controllo. Faceva bene agli affari. Prima, Kai lavorava in una squadra di bassa lega al QGA; nessun merito se non quella di essere sufficientemente ricco da potersi comprare il distintivo. Ce ne erano anche di Auror così; nessuna passione, nessun brociolo di altruismo. Solo la fortuna di esserci entrato durante l'Inquisizione e la sufficiente furbizia da salire sul carro del vincitore indipendentemente da quale esso fosse. Le fa cenno di attendere. E così fa. All'ombra di un vecchio capannone abbandonato, attende che il giovane si accerti di non essere osservato prima di raggiungerla battendo le mani. « Sei stata bravissima ieri sera. Complimenti. » Non era stata una serata come le altre. Nel sotterraneo della Mano Monca, Mia era già un'abitudine presenza da diverse settimane. Ci erano andati piano. Inizialmente scontri con altre creature, persino uomini e donne che conosceva. Altri ancora non li aveva mai visti. Lottava con le unghie e coi denti cercando di non andarci giù troppo pesante, ma nemmeno troppo leggera. Era tutto per lo show, e per lo più, quasi tutti lo avevano capito. Solo alcuni non molliamo mai; il gruppo di mannari che uno dei fratelli di Kai aveva raccattato a Sud del paese, sembravano fossero lì solo per sfogarsi. Con quelli bisognava andarci con cautela; una veela ci era rimasta secca. E loro l'avevano scaricata sul ciglio di una strada come se niente fosse. Se ne sentiva di ogni a Nocturn Alley. Un luogo, che aveva tutta la parvenza di esularsi da ogni regola, legge o comune senso di umanità. Lì, nelle viscere de La Mano Monca, tutto ciò che contava era il denaro. « Uhm.. » Grazie? È questo ciò che dovrei dire. Decise di stirare solo un piccolo sorriso. Kai le faceva schifo, lo odiava, gli avrebbe staccato la testa dalle spalle se solo avesse avuto un'alternativa. Ma non l'aveva, e dipendeva dalla sua benevolenza tanto quanto della sua complicità. Da quando aveva accettato di entrare nei loro affari, era quasi fuori dai radar - non completamente, certo, ma sicuramente più di altri. Lui si comportava quasi come se fosse una sua proprietà. La Wallace non la guardi, non la disturbi, non la riproveri. La Wallace è mia. In quell'atto di appropriazione indebita, l'aveva prima di tutto spogliata del suo cognome. Non poteva andare in giro dicendo di essere una Yagami. La gente avrebbe fatto carte false per mettere le mani sulla taglia disposta sulla testa del marito. A nessuno importava davvero come si chiamasse - Mia Wallace o Mia Yagami - ma nel caso in cui qualcuno chiedesse, nei bassifondi bisognava sempre saper cosa rispondere. « Allora li hai portati? Mi servono! » Tenta di concludere quell'incontro il prima possibile. Non ha voglia di chiacchierare. Con Kai non è mai certo se sarà solo una conversazione, o l'ennesimo incontro sconveniente. Non le aveva mai mancato apertamente di rispetto. Forse perché, sapeva potesse fargli davvero molto male, o forse perché attendeva il momento più opportuno. Di certo quegli incontri Mia li viveva sempre con l'ansia, ma sopportando i suoi sguardi insistenti e il suo tono malizioso. « Vai di fretta? » « No. Devo tornare al lavoro però. Oggi sono nelle serre. Quella che se ne occupa giù a Nord ha una scopa su per il culo. » Thea mi perdonerà. Meno sembriamo amiche, meno ci romperanno. « Lavori troppo. Dovrò trovarti qualcos'altro, altrimenti farai fatica a stare sveglia la notte. » « No! » Il panico. Stare con le sue amiche era una delle poche cose che manteneva intatta la sua sanità mentale. « Cioè.. se mi trovi un altro lavoro darà nell'occhio. Se si scopre qualcosa.. a me serve questa cosa. Non voglio mandare tutto a rotoli. » C'erano tanti vantaggi. Troppi affinché rovinare tutto. « Come ti pare. L'importante è arrivare sempre carica. Se ne hai bisogno posso aiutarti a rintracciare qualche pozione che ti tiri su. » Droga, certo. « In ogni caso, ecco a te. Mio padre è molto contento; ha detto che ti meriti il doppio. Meno il mio venti percento, ovviamente. » Ovvio. Ladro di merda. Ma nonostante tutto, Mia non disse niente. Stirò un largo sorriso forzato, accettando il sacchetto la busta di galeoni. « Grazie. Ringrazia anche tuo padre da parte mia. » Kai assottigliò lo sguardo; un espressione luciferina. Non disse niente, per qualche istante. « Prossimo incontro mercoledì sera. Stessi accordi di ieri. » « Certo. » Aveva scoperto la sera prima che quel sacchetto di galeoni, decisamente più pesante rispetto al solito, aveva un costo elevato. Elevatissimo. La totale perdita della propria dignità. « Ah Wallace, mio padre ti vuole a cena. » Il sangue le si gelò nelle vene.

    Doveva essere un bel giorno. Il giorno in cui lo avrebbe finalmente rivisto. Fantasticava su quel momento sin da quando si erano lasciati, bramando come un viaggiatore nel deserto, la possibilità di ritrovare un po' di sollievo. Aveva scoperto che ciò che le mancava di più erano dettagli. Quei gesti piccoli e insignificanti. Una carezza sulla schiena. Un bacio leggero sulla tempia. Una risata. Quando si svegliava non trovava più il caffè pronto, nessuno le dava il buongiorno con un bacio sulla fronte, né la confortata quando aveva un momento di sconforto. Certo, la vicinanza delle ragazze aiutava molto, ma per Mia, tutto ciò non era minimamente paragonabile con l'intesa e la simbiosi che aveva sviluppato con Raiden. Ad Haru, se possibile, mancava ancora di più. Ogni qual volta lo vedesse col contatto, consolarlo era impossibile. Piangeva per ore, e Mia, piangeva assieme a lui, finché entrambi non si addormentavano uno stretto all'altra sul letto a una piazza e mezza nello scantinato in cui vivevano assieme a Ronnie. La migliore amica non aveva vita più facile. Con la famiglia rinchiusa e il fratellino costretto a vivere nelle celle sotterranee, la sua vita cadeva a pezzi al pari di quella di chiunque altri. Tentava di darle sollievo portando di tanto in tanto a casa una bottiglia di vino scadente che si scollavano sedute sul divano consunto di quella zona comune che chiamavano salotto e che serviva loro un po' da cucina, un po' da cantina e un po' da luogo di ritrovo per disperarsi nei momenti di sconforto. Adesso, stretta nel piccolo bagno ammuffito di cui il piccolo appartamento disponeva, se ne stava lì raggomitolata nella doccia con le ginocchia strette al petto, cercando con tutta se stessa di fermare i fiumi di lacrime che si mischiavano all'acqua tiepida. Si sentiva sporca. Violata. Indegna. Spaventata. La notizia di quella cena la terrorizzava. Un conto era presentarsi su quel ring polveroso e lasciarsi maltrattare da un uomo di mezz'età palesemente ubriaco. Un'altra era trovarsene con uno in un ambiente isolato. Quanto era successo la sera prima, sperava non dovesse mai più ripetersi. Evidentemente però, gli organizzatori del Pulse ci avevano visto una grande opportunità. Quando l'avevano intercettata prima della lotta, le avevano solo detto esplicitamente di andarci molto piano. Questa sera devi perdere, Wallace. E mi raccomando, vacci molto moooolto piano. Di certo non si sarebbe aspettata di doversi misurare con un mago, per giunta palesemente tutto fuorché capace di combattere. Ad un certo punto aveva semplicemente dovuto alienarsi, spegnere il cervello, pensare ad altro. [...] 'Cause I-I-I'm in the stars tonight so watch me bring the fire and set the night alight. Il corpo di lui a schiacciarla, mentre le assestava colpi maldestri sulle costole. Talmente ubriaco da non riuscire neanche a mantenere la mira sullo stesso punto. Shining through the city with a little funk and soul. Uno schiaffo, talmente pesante da destabilizzarla. Le urla impazzite dei maghi attorno alla gabbia. Di più. Faglielo vedere a questa bestiolina. Aveva parato i prossimi colpi solo per cercare di mantenere un po' di dignità. Ma a quel punto lui si era arrabbiato. So I'ma light it up like dynamite, whoa oh oh. La mano stretta attorno al collo di lei. La schiena premuta contro le sbarre. E poi il viso di lui sempre più vicino. Finché la punta della lingua non saggiò il sudore sulla tempia di lui. E poi era finita. Non sa esattamente come o quando ma era finita. Lei era semplicemente collassata a terra. Non svenuta. Erano solo le gambe a essere molli. Con occhi spalancati, aveva fissato un punto specifico sul soffitto, finché una delle prossime ragazze non era entrata nel ring per aiutarla a uscire. Era morta dentro. Semplicemente morta. E solo così avrebbe potuto affrontare ancora quella stessa umiliazione. [...] « Ok. Che ne dici? » Aveva mostrato il fianco alla migliore amica così come il volto e le gambe cercando un suo feedback. Aveva sin troppi lividi. Non era in grado di nasconderli tutti, e per quanto Ronnie l'aiutasse a medicare le ferite tempestivamente, né le pozioni o le erbe, né le sue capacità, potevano rimediare a tutto quanto. Così aveva tentato di nascondere le cose più serie, scollarsi una bella pozione antidolorifica per sopprimere gran parte del dolore, e sperare che Raiden non avrebbe fatto troppe domande. Ronnie si strinse nelle spalle. Non approvava. Da quando le aveva confessato cosa andava a fare a volte la sera, la giovane Rigby era palemente in difficoltà. Ci avevano discusso sopra. Ma in fondo, Mia non aveva altra scelta. Doveva fare qualcosa per rendere la vita di Haru il più confortevole possibile, e aveva bisogno della complicità di Ronnie affinché badasse ad Haru, qualora ce ne fosse stato il bisogno. Fortunatamente, quando Mia andava via, dormiva già come un sasso, ma era successo più volte che il piccolo si svegliasse nel cuore della notte, sprovvisto del contatto con la madre, piangendo disperato per paura che l'avesse lasciato abbandonato. « Può andare. Ma per quello sulla faccia ci vuole del fondotinta. Vieni. Lo chiediamo a Gloria. »

    Uscire da Iron Garden non era così difficile come si pensasse. Certo, se venivano a cercarti a casa e non c'eri, erano guai grossi, ma per il resto, meno davi nell'occhio, più potevi muoverti serenamente nelle tenebre. Scivolata sotto la recinzione, dietro uno dei capannoni abbandonati, tutto ciò che dovette fare fu recuperare uno dei pugnali e la revolver che aveva nascosto dietro un vecchio cassetto dell'immondizia fuori dal quartiere, dirigendosi a piedi per diversi chilometri fino alla prima stazione degli autobus. Doveva attraversare tutta la città e dirigersi verso la periferia est della città, praticamente il lato opposto di Londra rispetto ad Iron Garden. Era la cosa più sicura. In quelle settimane di pianificazioni, Mia si era studiata la mappa di Londra in maniera estremamente diligente, imparando le linee della metro, i percorsi alternativi che avrebbe potuto seguire e anche le eventuali deviazioni che avrebbe potuto dover compiere per non destare sospetti, nel caso in cui qualcuno la stesse seguendo. Stava molto attenta. Nessuna bacchetta, niente magia, e soprattutto un documento falso. Finché avrebbe tenuto la testa bassa e non avrebbe dato troppo nell'occhio, nessuno avrebbe fatto caso a lei. E così fece. Giunta quindi di fronte al fatiscente motel, chiese la stanza e pagò immediatamente facendo check in a nome di Evey Greyson, la sua allegra prestanome americana - le cui origini erano state conservate affinché il suo accento non desse troppo nell'occhio. E così, lasciate le cose che si era portata dietro sul tavolo ovale al centro della stanza, si sedette sul letto e attese. Un attesa che riuscì a metterla in un completo stato di agitazione. Cosa gli avrebbe detto? Come si sarebbe comportata? In cuor suo, Mia si sentiva colpevole, come se avesse tradito Raiden, come se avesse così tante cose che lo avrebbero ferito. Che ci sarebbe rimasto male lo sapeva, come avrebbe fatto a nascondergli ancora tutto ciò che era accaduto in quel mese e se sarebbe stata in grado di farlo, era tutta un'altra cosa. L'avrebbe odiata? L'avrebbe biasimata? E se gli faccio schifo? Di certo, lei, di se stessa era disgustata. Aveva lasciato correre così tante cose; ingoiare così tanti rospi. Eppure, una parte di sì sentiva non riuscire più ad aspettare. Voleva che arrivasse subito - immediatamente. Non a caso, quando bussarono alla porta, quasi non gli diede tempo di completare la sequenza, tanto fu veloce. Per un istante rimase paralizzata. I grandi occhi increduli nel rivederlo veramente di fronte a sé, illuminato da quella lucina fiacca al di sopra della porta. Non gli diede il tempo neanche di parlare, perché di colpo gli gettò le braccia al collo affondando il viso nell'incavo del collo di lui. La sua pelle, il suo odore, la sua vicinanza. Il colore di quel contatto. « Mi sei mancata tantissimo, amore. Tantissimo. » In quel groviglio di disperate emozioni, Mia non poté fare altro se non abbandonarsi. « Sei davvero qui.. » Continuava a ripeterlo colta da una forma di sollievo quasi irrazionale. Si era chiesta spesso che ne sarebbe stato di loro, se sarebbero effettivamente stati in grado di rivedersi. Seppur tentasse di mantenere un atteggiamento positivo, Mia non era sufficientemente illusa da pensare che tutto sarebbe andato necessariamente bene. Raiden non era da solo, ma questo non lo avrebbe protetto da qualunque pericolo, specialmente mentre era lontano da casa - qualunque cosa casa significasse, a quel punto. « Come stai? Come sta Haru? Ti ho portato qualcosa - per aiutarvi. Non è molto, ma adesso che mi sono fermato riuscirò a mettere da parte un pochino di più. Sai, non mi pagano così male. » Nel sentire il suo tono apprensivo, gli occhi di lei si velarono di un leggera pattina lucida. « Non ti preoccupare amore.. va bene così. » Unica risposta che non lo avrebbe mortificato. Era così bello trovarsi tra le sue braccia, sentire di nuovo quello spirito di appartenenza. Appartenere a qualcosa e qualcuno che a lei ci tenesse. « Hai mangiato? » Soffiò pesantemente contro il suo collo passandosi il palmo sugli occhi, tirando su col naso per ricomporsi. « Sto - stiamo - » Bene? No. Non stavano bene; e seppur non potesse dirglielo apertamente, poteva almeno concedergli la gentilezza di non fargli credere che stessero bene senza di lui. Stiamo di merda. È tutto uno schifo. « Resistiamo. » Come tutti. Era una lotta di resilienza e una corsa a chi riusciva a rimanere in piedi più a lungo. Mia tentava di reggere botta, seppur non fosse abituata, né a stare da sola, né tanto meno ad essere sottoposta a certe intemperie. Le piaceva pensare che poteva resistere a tutto, che era progettata a potercela fare di fronte a qualunque difficoltà. La verità però è che per tre quarti del tempo non ho la minima idea di cosa sto facendo. Nell'altro quarto stacco la testa per sopravvivere. Gli circondò il viso con entrambe le mani osservandolo con un'espressione dolce e tenera, stirandogli un largo sorriso prima di stampargli un altro bacio. « Ti sono cresciuti i capelli. » Disse di colpo, quasi volesse cambiare argomento. « Ti stanno bene. » Un piccolo ritorno al passato; complimenti, attenzioni. Forse ne avevano bisogno più di ogni altra cosa. « Vieni. » Disse quindi guidandolo verso il piccolo divanetto all'interno della stanza. Posò sul tavolino da caffè una delle buste e tirò fuori alcune scatoline che aveva portato.
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    « Ti ho fatto i Gyoza. La forma non è il massimo ma a Haru e Ronnie sono piaciuti. O hanno fatto finta. Ho parlato con tuo nonno e ha fatto da tramite tra me e tua nonna. Volevo portarti qualcosa di buono e alla fine abbiamo convenuto che era la cosa più semplice da fare. » Non sapeva quanto fosse stata brava, ma aveva passato tutta la giornata precedente a tentare di fare del suo meglio per confezionare quei maledetti ravioli. « Qui c'è del riso. E.. la salsa di soia, spezie. Ah sì - dimenticavo! » Tirò fuori dallo zaino una bottiglia dello stesso vino che lei e Ronnie bevevano fino a stare male. Sapore di male e solfiti. Ma meglio di niente. « Me l'ha procurata Ronnie tramite i suoi amici. Non è il massimo però.. sì. » Un istante e poi riprese a parlare, quasi avesse paura di scordarsi qualcosa. « Ah e poi ho chiesto a Delilah di fare una crostata. Mi ha fatto un casino perché costano un botto le marmellate al mercato. Però va beh, ho fatto un piccolo magheggio e ne ho rimediato una di ciliegie buonissima. Ne ho portato solo metà con me per non dare nell'occhio. Magari porti un pezzo anche agli altri.. a Jeff. » Un piccolo gesto per il loro amico. Seppur Delilah non sapesse a chi sarebbe arrivata quella crostata, le piaceva pensare che era il suo modo per portare un piccolo pezzo di sua moglie a Jeff. Meglio di niente. A quel punto sospirò e lo osservò. Le era mancato così tanto parlare. Parlare con lui. Parlare anche senza dire niente. Semplicemente dirgli qualunque cosa le passasse per la mente senza mettere alcun freno alla propria bocca. Non succedeva quasi mai, ormai. Ad Iron Garden bisognava stare zitti e remare a testa bassa. Solo così, la vita era serena. « Dai, mangia. Se poi fa schifo, prendiamo qualcosa dall'altra parte della strada. Ho visto che ci sta un 7 Eleven non-stop. » Incollò la guancia al braccio di lui facendosi più vicina, mentre apriva la busta di patatine che aveva comprato strada facendo portandosi le ginocchia al petto. Non sapeva esattamente cosa fare a quel punto. Era strano - vedersi dopo così tanto tempo. Da una parte voleva solo riempirlo di baci e abbracci, dall'altra voleva parlare, stare insieme, come un tempo. Come quando avevamo tutto il tempo del mondo. « Haru è rimasto con Ronnie. » Silenzio. « La prossima volta proverò a portarlo. Non so ancora come però - sto facendo la brava ad Iron Garden.. » Deglutì appena stirando un piccolo sorriso. « Praticamente nessuno bada a te se stai zitto e non fai problemi. » Forse stava eludendo alcuni dettagli, ma quello era un altro paio di maniche. Un discorso che non aveva voglia di affrontare. « E il tuo lavoro? Com'è? » Fare il buttafuori doveva essere davvero stancante. « Hai.. trovato casa? » Faceva male parlare così con lui; aveva l'impressione di essersi persa così tanto. Di non sapere assolutamente nulla né di essere stata onesta a propria volta. Di scatto volse lo sguardo nella sua direzione, osservandolo con più attenzione, quasi come se tentasse di carpire cosa pensasse, cosa avesse passato e soprattutto come se la passava in quel momento. Mi manchi così tanto. Una frase che avrebbe voluto dire a voce alta, ma aveva paura che avrebbe solo finito per rovinare tutto. Non ho la più pallida idea di cosa sto facendo. Senza di te mi sento così persa. E sola. Si sentiva sola. Era quella la cruda realtà. Tirò sul col naso facendosi più vicina. « Resterai in città? Voglio dire - potrò vederti? Posso - venire a trovarti? Oppure - » Oppure non cambierà proprio nulla? La verità è che aveva paura. Aveva paura che quella fosse solo una volta ogni tanto. Aveva paura di dover tornare ad Iron Garden e fare i conti con quello schifo di vita. Con quelle persone. Una parte di sé avrebbe solo voluto pregarlo di non rimandarla lì dentro.



     
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    « Resistiamo. » Che nel vocabolario di Mia significava che le cose non andavano per nulla bene. Ma d'altronde, come altro potevano andare? Le loro vite erano state letteralmente capovolte dal giorno alla notte, e mentre pian piano il resto del mondo magico tornava alla normalità, dimenticandosi di chi una normalità non poteva più averla, a loro rimanevano solo le briciole. « Ti sono cresciuti i capelli. Ti stanno bene. » Stirò un sorriso tenue, indicandola con un cenno del mento mentre le scansava dal viso alcune ciocche di capelli. « Anche a te. Non ti avevo mai visto questo colore. » E considerato il legame strettamente emotivo che Mia aveva con la sua abilità, non avrebbe saputo dire se fosse un bene o un male. Di certo, per quanto quel blu elettrico le donasse, non doveva essere specchio di un umore sereno. Nel prendere posto sul divano slavato della stanza, Raiden non poté fare a meno di notare quanto quell'incontro fosse diverso da tutto ciò che aveva immaginato. Nella sua testa gli scenari sembravano sempre pendere verso traiettorie estreme, da un opposto o dall'altro. La realtà, invece, era solo strana. Si muovevano l'uno intorno all'altra cercando di ostentare un senso di normalità che era chiaro non gli appartenesse più. Forse volevano solo sfruttare quel momento per ritagliarsene un po' - per illudersi che la loro vita insieme non fosse stata completamente distrutta e che tra loro non fosse cambiato assolutamente nulla. Ma come poteva non cambiare? Come potevano comportarsi davvero in maniera naturale quando di naturale non c'era nulla in quella situazione? Nascosti in un motel di periferia come due delinquenti, senza una casa o una lira a loro nome, con vite che più separate di così non potevano essere - nulla di tutto ciò era normale. E infatti Raiden annuiva ad ogni parola di lei, in silenzio, con un piccolo sorriso sulle labbra che tentava di nascondere quel suo modo di sentirsi e l'angoscia che già provava all'idea di doversi separare da lei. Gli aveva portato così tante leccornie, ci aveva messo così tanto impegno nel preparare qualcosa per lui. E io che ho fatto? Nulla, nemmeno un mazzolino di fiori scadenti preso dal benzinaio. Aveva pensato che quei soldi fossero più utili nelle mani di lei, ma adesso si sentiva solo sciocco e manchevole. « Grazie. Davvero, non dovevi. » Non avrebbe saputo cos'altro dirle. Le era sinceramente grato di quel pensiero, in primis perché era una piccola prova del fatto che lei lo tenesse ancora a mente. Tuttavia il fatto che lui fosse arrivato praticamente a mani vuote e che non potesse permettersi di ricambiare quelle premure lo faceva comunque stare male. « Dai, mangia. Se poi fa schifo, prendiamo qualcosa dall'altra parte della strada. Ho visto che ci sta un 7 Eleven non-stop. » Sospirò, stampandole un bacio tra i capelli mentre scoperchiava il contenitore dei gyoza. « Mangia qualcosa anche tu, dai. » la intimò, un po' per fargli compagnia e farlo sentire meno in colpa, un po' perché era sinceramente preoccupato che nel ghetto non mangiasse abbastanza. Prese dunque un boccone di raviolo, chiudendo gli occhi e aggrottando la fronte in pura soddisfazione. Era da un po' che non mangiava qualcosa di buono e fatto in casa, qualcosa che non avesse un sapore estremamente chimico. Persino un cuoco di prima categoria come Hiroshi riusciva a fare poco con le materie che potevano permettersi, e la maggior parte delle volte finivano per mangiare pasti pronti in scatola o qualunque cosa avesse un alto contenuto proteico e un prezzo accessibile. Il fatto che nel tempo libero venissero chiusi in palestra non aiutava di certo con la fame, e tra i loro colleghi non erano in pochi a fare uso di sostanze più strade per mantenere il ritmo. Lui, dalla sua, quella merda non la voleva, ma riusciva a comprendere la tentazione di chi cedeva. Nessuno di loro era davvero ben nutrito: l'importante era che mettessero su massa muscolare e avessero sufficienti energie per fare il loro lavoro. « Haru è rimasto con Ronnie. La prossima volta proverò a portarlo. Non so ancora come però - sto facendo la brava ad Iron Garden.. Praticamente nessuno bada a te se stai zitto e non fai problemi. » Annuì, portandosi un altro raviolo alle labbra. Questa era una notizia che un po' lo rincuorava. D'altronde erano state quelle le premesse su cui aveva escogitato la propria fuga; fin quando Mia e Haru fossero stati al sicuro e avessero avuto la possibilità di vivere una vita relativamente tranquilla, ogni sacrificio ne sarebbe valsa la pena. « Se non riesci a portarlo non importa, davvero. Non voglio che fai i salti mortali. Preferisco saperlo al sicuro. » Per quanto gli facesse male, era vero. Privarsi del figlio era straziante, e lo era ancora di più quando doveva salutarlo dopo quelle poche volte che poteva permettersi di aprire il contatto con loro. Ma che altro potevano fare? Già così se la stavano rischiando grossa; coinvolgere anche Haru non solo non sarebbe stato saggio, ma anche ingiusto. Recentemente gli era arrivata notizia che alcuni maghi civili si fossero organizzati in piccole bande autonome per mettersi sulle tracce dei ricercati con metodi decisamente poco ortodossi. Una veela censita che si era data alla fuga all'indomani delle nuove disposizioni era stata consegnata agli auror mutilata in maniere indecenti. Ma era viva. Quindi tutto a posto.
    « E il tuo lavoro? Com'è? Hai.. trovato casa? Resterai in città? Voglio dire - potrò vederti? Posso - venire a trovarti? Oppure - » Nel silenzio calato in seguito a quelle domande, Raiden allungò la mano verso la bottiglia di vino, versandolo in generosa quantità all'interno di due bicchieri di plastica, uno dei quali porse a Mia. L'altro finì scolato giù per la sua gola in un colpo solo, anche a dispetto del sapore un po' chimico e della consistenza pastosa che rimaneva attaccata ai denti. Non voleva deluderla, andando lì a mani vuote sia di regali tangibili che di buone notizie, ma cosa poteva dirle? Di certo non l'intera verità. Se pure avesse avuto intenzione di dirle cosa faceva e come stavano le cose per lui, sarebbe comunque stato pericoloso darle tutte quelle informazioni. Rincuorarla sul fatto che ora qualcosa sarebbe cambiato nella loro comunicazione, anche questo non poteva farlo. Così sospirò, fissando il fondo vuoto del bicchiere per diversi istanti prima di spostare lo sguardo su di lei, stirando le labbra in una linea tanto amara quanto stanca. « Non è sicuro, Mia. Non posso dirti dove lavoro né dove vivo. Posso solo rassicurarti sul fatto che sto bene e me la sto cavando. » Nessuna delle due cose era completamente vera, ma la minaccia di potersi ritrovare a marcire ad Azkaban gli faceva apprezzare quelle piccole libertà che pagava a caro prezzo. « Ho le spalle coperte. Sia a livello economico, sia di.. protezione, diciamo. Ma non voglio fare lo stupido. Dobbiamo stare attenti. Incontri come questo qui.. » Prese un lungo respiro, cercando le parole migliori per non infrangerle del tutto le speranze ma essere comunque sufficientemente chiaro. « ..sono un rischio. E sono una carta che dobbiamo giocarci una volta ogni tanto, senza abusarne. Se diventasse un'abitudine ci renderebbe prevedibili, e non è qualcosa che possiamo permetterci. Anche se tieni la testa bassa e hai l'impressione di passare inosservata, qualcuno che ti osserva c'è - ci sarà sempre. » Aspettano solo che facciamo un passo falso. Che ci freghiamo da soli. A conti fatti non abbiamo nemmeno la certezza di uscire incolumi da questo motel. Per quanto avesse tentato di indorare la pillola e non usare termini troppo categorici, Mia non era una stupida, avrebbe capito benissimo ciò che Raiden le stava dicendo. E questo lo faceva sentire in colpa. Forse non avrei dovuto contattarti. Forse non avrebbe dovuto darle quella falsa speranza, lasciandole intendere che da ora in avanti le cose sarebbero andate diversamente. Forse era stato solo crudele da parte sua fissare quell'incontro, solo per poi presentarsi a mani vuote, con un nulla di fatto, nessuna soluzione e nessun reale cambiamento. Tutte quelle frustrazioni si impilavano una sull'altra, creando una montagna insormontabile, talmente tanto alta da farlo sentire incredibilmente piccolo e altrettanto inutile. In cuor suo sentiva di aver sbagliato, di aver perso un treno che non sarebbe più passato. Si malediceva tutti i giorni per non averci pensato prima, per non aver avuto la forza di mettere da parte il proprio orgoglio e tutte le cazzate sull'onore per proteggere la propria famiglia. Io dovevo smettere di fare questa vita il giorno in cui ti ho sposata. Ma non l'aveva fatto. Ci era sempre ritornato, come un tossicodipendente che si spara sempre l'ultima dose. Poggiò il bicchiere sul tavolo, muovendosi più vicino a lei sul divano per incorniciarle il viso con le mani, poggiando la fronte contro la sua. « Mi dispiace così tanto. » le confessò in un filo di volte, carezzandole i capelli in piccoli movimenti quasi ossessivi. « Non avrei dovuto partecipare alla presa di Hogwarts. Eri incinta e io.. » Pronunciò quelle parole contro il groppo che aveva in gola, dando voce a tutti quei pensieri che lo avevano assillato dal momento in cui aveva varcato le soglie del quartiere warlock insieme a Jeff e Hiroshi. « ..ho messo al secondo posto l'unico dovere che contava. » E non riesco a perdonarmelo. Ma era troppo tardi. Ora che pagava le conseguenze delle proprie azioni era troppo tardi per pentirsene. Avrebbe dovuto farlo prima, dettando con quella scelta l'uomo che voleva essere. Forse non sarebbe cambiato nulla e tutta questa situazione si sarebbe verificata lo stesso, ma almeno saremmo stati uniti. « Mi sono illuso come un idiota che avremmo avuto una vita migliore ma non dovevo rischiare così tanto. » E adesso mi trovo nella situazione in cui non ho più nulla e sono obbligato a rischiare tutto. Non posso permettermi di tirarmene fuori e non posso tornare indietro. Posso solo giocarmela fino alla fine. « Vorrei solo essere lì con voi. » disse in un filo di voce appena udibile, piegato da un'angoscia che aveva radici ben più profonde di quanto si potesse vedere dalla superficie. Non era solo il desiderio di essere riunito alla propria famiglia e di vivere alla luce del sole, c'era molto di più. Raiden si sentiva messo all'angolo e spaventato in quel locale, tra quelle persone. Viveva con la costante angoscia di cosa sarebbe potuto accadere, di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Viveva anche circondato da violenze e abusi, da scene che avrebbe preferito non vedere e storie che non avrebbe mai voluto sentire. Non gli piaceva quel posto, non gli piacevano quelle persone, e meno di tutto gli piaceva il fatto che lentamente si stesse abituando e che quell'ambiente diventasse ai suoi sensi ogni giorno più normale - se di normalità si poteva parlare. Non sapeva se fosse solo una propria impressione, ma di colpo sembrò rendersi conto di aver intensificato troppo la stretta su Mia. Allentò dunque velocemente quel contatto, lasciando scivolare le mani lungo le sue braccia e allontanando un poco il viso dal suo mentre si schiariva la gola, cercando di dissimulare quel disagio. « Ma ci vedremo, ok? Te lo prometto. E la prossima volta mi impegnerò di più. Ti portò anche i fiori. »

     
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    Nel silenzio che seguì le proprie domande, Mia si rese conto di quanto diverso da quanto prospettato fosse quell'incontro. Sin da quando Raiden le aveva confessato che sarebbe tornato in Inghilterra, Mia non aveva fatto altro che fantasticare su quel momento, sull'istante esatto in cui lo avrebbe abbracciato, stringendosi al suo petto come se fosse l'unica cosa che per lei aveva un senso. Non poterne parlare con nessuno l'aveva dilaniata, anche e solo perché, avrebbe voluto poter condividere la sua gioia con le sue amiche, con quelle persone che giorno dopo giorno, seppur in minima parte, riempivano le sue giornate ad Iron Garden. Non era un brutto posto, se si chiudeva un occhio sulle ingiustizie e la profonda disparità che il quartiere creava tra i suoi abitanti. È persino sopportabile se trovi il tuo spazio. Magari non è ciò che ti aspettavi, magari non sei la persona che vorresti, ma resisti. Con quei compromessi, Mia aveva imparato a convivere ed accettarli, forse anche alla luce della libertà che le permetteva chiudere gli occhi, accettare che non sarebbe mai stata considerava come in passato. Poco le importava, in fondo, della sua posizione, finché Haru stava bene, finché i suoi cari erano a modo loro al sicuro, finché poteva vedere Raiden. Si era impegnata a remare dritto e a testa a bassa proprio per quella ragione, per la possibilità di poter prendere quella scorciatoia e muoversi almeno col favore delle tenebre a proprio piacimento. Pagava un prezzo alto, ma era comunque disposta a farlo purché potesse avere anche solo qualche attimo di libertà, lontana da quegli sguardi insistenti, dal sospetto della gente che sapeva di chi fosse moglie, dalle domande degli Auror e dal controllo dei loro sguardi indagatori. Nell'osservarlo scollarsi però quel bicchiere, realizzò che nulla di ciò che aveva fatto faceva poi tanta differenza. Poteva avere la possibilità di sgattaiolare di tanto in tanto fuori dal quartiere, ma a che pro se dall'altra parte delle mura non c'era nessuno ad aspettarla? « Non è sicuro, Mia. Non posso dirti dove lavoro né dove vivo. Posso solo rassicurarti sul fatto che sto bene e me la sto cavando. Ho le spalle coperte. Sia a livello economico, sia di.. protezione, diciamo. » Diciamo? Che vuol dire diciamo? Per quanto quelle parole dovessero rassicurarla, riuscivano solo a metterle ulteriore confusione. Non era semplice accettare semplicemente la realtà dei fatti, senza alcuna certezza e senza sapere fondamentalmente nulla sul destino che toccava a Raiden. « Ma non voglio fare lo stupido. Dobbiamo stare attenti. Incontri come questo qui.. sono un rischio. E sono una carta che dobbiamo giocarci una volta ogni tanto, senza abusarne. Se diventasse un'abitudine ci renderebbe prevedibili, e non è qualcosa che possiamo permetterci. Anche se tieni la testa bassa e hai l'impressione di passare inosservata, qualcuno che ti osserva c'è - ci sarà sempre. » Abbassò lo sguardo annuendo, ma tutto ciò non la lasciò meno sconfitta. Certo, non si aspettava che da un giorno all'altro avessero la possibilità di vedersi tutti i giorni, o a cadenza regolare, ma non pensava neanche che quel vivere nella stessa città li avrebbe comunque tenuti così lontani. Mia non era stata trattenuta né dalle ferree regole di Hogwarts, né tanto meno dalla stupida guerra giapponese a cui Raiden aveva dedicato tutta la sua esistenza. Aveva sempre trovato un modo per restargli accanto. Lo avrebbe fatto anche se ciò sarebbe significato seguirlo dall'altra parte del mondo - lo avrebbe fatto anche contro la sua volontà. E allora perché adesso era diverso? Perché non riusciva a convincersi di passare sopra alla volontà del moro, piantando i piedi e rifiutandosi di lasciarlo andare senza di lei? Haru. Haru non si meritava quella vita; ma al contempo non si meritava neanche di vivere senza entrambi i genitori, con quella costante angoscia di non vedere quasi mai uno dei genitori. E poi, la vita ad Iron Garden non è davvero bella per nessuno. Solo due settimane prima, il piccolo si era preso un terribile raffreddore. Per potergli prendere dello sciroppo per la tosse, Mia aveva dovuto pagare fior fior di quattrini. Seppur nel ghetto le pozioni adeguate per curare il piccolo c'erano, erano pressoché tarate sugli adulti, che potevano tranquillamente sopportare il saporaccio di quelle erbe amarognole. E così aveva dovuto rintracciarne uno sotto banco, specialmente perché ogni pozionista di Diagon Alley aveva chiuso le porte alle creature, e farne preparare una a Ronnie sarebbe costato forse anche di più. No, vivere ad Iron Garden non era affatto come si pensava; da un giorno all'altro ti ritrovi in giri strani e non sai nemmeno come ci sei entrato, né come fare per uscirne. Ci sei già e quella diventa la tua realtà. Triste e sconcertante. Monotona, vuota, priva di alcun tipo di considerazione. Si portò il bicchiere alle labbra bevendo qualche sorso senza particolare entusiasmo. Persino il vino aveva un sapore metallico. Le dispiaceva non aver potuto rintracciare una bevanda migliore - forse avrebbe dovuto fare di più, tentare di rendere il più normale possibile almeno quegli incontri, per quanto sporadici, per quanto - ancora una volta - incerti. Posò il bicchiere sul tavolino, per poi farsi a sua volta più vicina, rispondendo alla vicinanza di lui. Posò un bacio leggero sulla punta del suo naso, ispirando la sua aria, beandosi del suo respiro caldo, di quel calore umano che le era stato tolto. « Mi dispiace così tanto. Non avrei dovuto partecipare alla presa di Hogwarts. Eri incinta e io.. ho messo al secondo posto l'unico dovere che contava. Mi sono illuso come un idiota che avremmo avuto una vita migliore ma non dovevo rischiare così tanto. » Mia scuoteva la testa di fronte a ognuna delle sue parole. La sofferenza che traspariva la dilaniava, al punto da cercare il contatto con le sue guance per accarezzarle dolcemente. « Non è colpa tua. Lo sai.. lo sai che non è così. » Forse erano stati sciocchi a non andarsene quando ancora potevano, a non distanziarsene sufficientemente quando ne avevano ancora l'occasione. Ma perché avrebbero dovuto? Inverness era la loro culla, un posto geneticamente costruito per accoglierli. Lì, all'ombra della secolare Città Santa, Mia e Raiden si erano sentiti al sicuro, accolti dai loro simili. Seppur quelle terre non fossero casa loro, avevano trovato la loro serenità, un senso di appartenenza. « Avrei fatto la stessa cosa. Perché è quello che facciamo. Era giusto.. Non potevamo prevedere cosa sarebbe successo. Non è colpa nostra - non è colpa tua. Guarda cos'è successo in Giappone e a Hogwarts.. non puoi essere ovunque. Prevedere le cose anni prima. Abbiamo deciso così perché pensavamo che sarebbe andata bene. Era la cosa giusta da fare. » Ed era la loro missione. Forse Inverness aveva preso una dimensione sin troppo terrena, lottando contro forze che non erano chiamati a fronteggiare in primo luogo; ma com'era possibile sottrarsi da quella lotta quando era evidente che qualunque cosa ci fosse dall'altra parte, agevolava esattamente ciò che erano programmati a fronteggiare? Forse avremmo dovuto tirarcene fuori? Ma avremmo potuto farlo davvero? Siamo davvero in grado di farlo? Anche il sogno di una casa in campagna lontano da tutto questo - sarebbe mai accaduto? Forse. Ma per quanto? Quanto ci sarebbe voluto prima che un loro caro o loro stessi si fossero imbattuti nelle stesse trappole che li avevano in primo luogo portati lungo quel cammino? « Vorrei solo essere lì con voi. » Lo stomaco ingabbiato da una morsa di pura angoscia. C'era solitudine e paura in quell'abbraccio. Nel modo in cui si strinse a lui, nonostante le leggere fitte all'altezza delle costole. Senza Raiden si sentiva vuota, arida. Non sapeva a chi dedicare tutte quelle piccole attenzioni quotidiane. I baci, gli abbracci, le parole gentile, i gesti sciocchi, le risate. Tutte quelle cose le mancavano terribilmente, perché facevano parte di una dinamica che li teneva sempre così vigili e consapevoli l'uno della presenza dell'altro. Non si spostò, semmai gli gettò le braccia al collo, abbracciandolo talmente tanto da volerlo quasi inglobare. Se avesse potuto nasconderlo sotto la sua felpa e riportarselo a casa, lo avrebbe fatto. « Tornerai.. tornerai da noi. » Sussurri leggeri, spezzati da un leggero tremolio nella voce, mentre gli lasciava gentili baci sulla tempia, tra i capelli, accarezzandogli dolcemente la nuca, lasciando passare le dita tra le ciocche di lui. Era sempre il suo Raiden. Aveva un buon odore, così famigliare, così suo. E poi si sciolse. Di colpo. Riportandola alla realtà di quella stanza, di quel vuoto, della profonda alienazione in cui gettava la sua vita. A una realtà in cui non desiderava altro se non sentire di appartenergli e appartenersi. « Ma ci vedremo, ok? Te lo prometto. E la prossima volta mi impegnerò di più. Ti portò anche i fiori. » Lei gli accarezzava il viso, annuendo. « Prometti solo che mi porterai te.. sano e salvo, ok? » Deglutì, tentando di buttare giù quel groppo in gola che sentiva nel rendersi conto che quelle ore, quei momenti, quella vicinanza, quello stare insieme, sarebbe terminato. « Io voglio solo te. » Un leggero singhiozzo la interruppe in mezzo al discorso. Arricciò appena il naso stirando un leggero sorriso colmo di amarezza. « Avevo così tanta voglia di vederti. Di sapere che stai bene. » Soffiò pesantemente sul volto di lui, incorniciandogli le guance con affetto.
    « È così bello rivederti. Io non so - non so come ringraziarti di essere tornato da me. Di essere qui. » Sapeva che non era stata una decisione facile. Tornare. E nonostante non sapesse come facesse a essere così vicino a loro, gli era grata. Perché nonostante tutto, io so che sei da qualche parte qui, in città. Posso sempre aprire il contatto e pregarti, implorarti di farti vedere. Magari non subito, o il giorno dopo. Ma posso toccarti, posso abbracciarti, baciarti. « Io - ho bisogno - ho bisogno di sapere che stai bene. Che sei al sicuro. Che.. ne vale la pena. Tutto.. » Tutto questo. Non stare insieme. Vivere lontani. Trovarci sempre a come due ladri nella notte. Come se avessimo fatto qualcosa di male. Non è così. Non abbiamo fatto nulla di male. Abbiamo fatto solo ciò che dovevamo. Ciò che per noi era giusto. Forse qualcun atro non la pensa alla stessa maniera - e forse noi abbiamo perso. Ma abbiamo fatto comunque ciò che potevamo. Ci abbiamo provato. « ..perché.. » Si era detta che sarebbe stata forte, Mia. Che lo avrebbe visto e gli avrebbe detto che non ha nulla di cui preoccuparsi. Che doveva solo pensare a stare al sicuro e in salute. Era partita caricandosi di un ottimismo che non provava, e una positività che le si era spenta dentro tempo addietro. « ..perché la vita lì dentro non è così bella. » Aggrottò le sopracciglia, cercando di mantenere la calma, seppur fosse un passo dal piangere. Si sentiva un po' una bambina viziata; forse non era lecito provare quel tipo di emozioni. Avrebbe dovuto stringere i senti, fare finta che tutto andasse bene. Ma era davvero la cosa migliore? Fare finta che stessero bene l'uno senza l'altra? Raccontarsi a vicenda quella orribile favola in cui le loro vite andavano avanti anche senza l'altro? Mia non voleva che Raiden pensasse questo. Non voleva lasciarlo con l'impressione che riusciva a convivere con l'idea di non vederlo, di non svegliarsi al suo fianco. Non voleva che pensasse che quella stanza, quel motel, quegli incontri sporadici fossero una pausa dalla sua vita. I feel like I don't have any control over me, over my life. This world doesn't want us anymore. It doesn't matter if you run or you stay still. We're trapped anyway. Si stringe nelle spalle, sospirando profondamente. I've always felt like I was on the wrong side of the tracks. But this? This madness - the hate. They look at us with hate-filled eyes. Si stringe nelle spalle, chiudendo gli occhi, mentre cerca quasi spasmodicamente la sua vicinanza. Like - Per un istante chiuse gli occhi rabbrividendo. Le urla, i pugni, le risate, gli insulti. - like we're not even people. Li consideravano poco più che bestie. Il Ministero aveva dato il lasciapassare ai maghi per sfogare le loro frustrazioni su qualcuno e così facevano. So please, don't leave me behind, because this - is the only reason I'm trying to be good. Ad ogni parola gli lasciava una carezza ancora più pesante sul suo volto. Every move I make I think about you, like you're under my skin. I ask myself if you would be proud of me, if I'm doing the right thing. Il più delle volte sapeva che non fosse così - che non solo Raiden non sarebbe stato orgoglioso, ma che probabilmente ne sarebbe rimasto anche estremamente deluso. Sapeva che certe cose non le avrebbe mai approvate. Ma si convinceva, Mia, che quello era il suo modo di fare la propria parte. I miss you so much, Raiden. I don't even feel like myself anymore. Prese la sua mano tra le proprie portandosela alle labbra baciandone le nocche, mentre una sola lacrima scivolava via inavvertitamente. I want to be me, again. Your little girl.


     
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    Si era sentito dire tante volte le parole "non è colpa tua". Mia glielo ripeteva stesso, quando lui mostrava quella sua solita tendenza a prendersi la responsabilità anche di ciò che non poteva controllare. Prima ancora di Mia, erano state sua madre e sua sorella, così come anche Misa, a dirglielo - quando le squadre di ricerca che si inoltravano nell'upside down tornavano decimate. Uno avrebbe potuto credere che a forza di sentirselo dire, prima o poi ci avrebbe creduto. Eppure non era così. Raiden ingoiava il rospo, a volte annuiva, liquidando quei discorsi che in primis non voleva affrontare, ma dentro di sé continuava a macinare quel senso di colpa che si faceva mano a mano più pesante e insopportabile. Lo sentiva nei confronti dei vecchi colleghi, dei lycan giapponesi che non c'erano più, verso la gente di Inverness e in maniera più dolorosa lo percepiva verso Mia e Haru. Viveva di un ideale irrealizzabile che non avrebbe mai potuto ottenere: il soldato più onorevole, il marito più devoto, il padre più presente, l'uomo più pulito. Essere tutte quelle cose contemporaneamente era assurdo anche solo da immaginare; non esisteva una singola persona di cui Raiden potesse fare il nome che rispecchiasse tutte quelle qualità. Eppure lui non solo voleva essere quella persona, ma per giunta riteneva che qualunque cosa da meno fosse irrimediabilmente un fallimento. Quantomeno, questo era il giudizio a cui sottoponeva se stesso, tagliato e cucito a propria misura e riservato solo ed esclusivamente per sé. Aveva paura che Mia potesse vedere in lui quello stesso fallimento e quelle stesse colpe che lui vedeva in se stesso, che potesse guardarlo con il disgusto che sentiva di meritare. « Prometti solo che mi porterai te.. sano e salvo, ok? Io voglio solo te. » Era lì, accanto a lui, poteva percepire il suo affetto e il bisogno di riaverlo accanto, ma una parte di lui non poteva fare a meno di credere che prima o poi tutto ciò sarebbe venuto meno - che si sarebbe resa conto di quanto quello che aveva di fronte non era l'uomo dipinto dalle innumerevoli promesse, ma solo una deludente copia carbone. « Avevo così tanta voglia di vederti. Di sapere che stai bene. È così bello rivederti. Io non so - non so come ringraziarti di essere tornato da me. Di essere qui. Io - ho bisogno - ho bisogno di sapere che stai bene. Che sei al sicuro. Che.. ne vale la pena. Tutto.. » Sospirò pesantemente. Era così? Ne valeva la pena? Se ciò che stava passando gli garantiva che Mia e Haru fossero al sicuro, allora sì, avrebbe rifatto tutto d'accapo alla stessa maniera. Voleva credere che fosse così: che quanto stesse passando non avesse alcun valore in confronto alla sicurezza dei suoi cari, e che nulla di tutto ciò li avrebbe toccati. D'altronde lui sapeva sopportare, lo aveva fatto tutta la vita. « ..perché.. perché la vita lì dentro non è così bella. » Istintivamente si fece ancor più vicino, avvolgendo le braccia intorno alle spalle di lei come a volerla proteggere con quell'abbraccio. « Lo so, amore. Lo so. » In un certo senso era vero. Si teneva saltuariamente in contatto con Eriko per accertarsi delle sue condizioni e di quelle di Hanna - oltre che per avere una cartina tornasole di ciò che Mia gli riferiva. Sapeva che il ghetto non fosse un luogo semplice, che le discriminazioni fossero all'ordine del giorno e che venir trattati come feccia fosse qualcosa a cui ormai tutti stavano facendo l'abitudine. Ma quantomeno era pacifico, per quanto una simile situazione potesse permettere. I feel like I don't have any control over me, over my life. This world doesn't want us anymore. It doesn't matter if you run or you stay still. We're trapped anyway. I've always felt like I was on the wrong side of the tracks. But this? This madness - the hate. They look at us with hate-filled eyes. Like - like we're not even people. Avrebbe voluto fare qualcosa, tirare fuori dal taschino una soluzione immediata che potesse mettere fine a tutto. Ma non poteva. Anzi, nella posizione in cui si ritrovava, era più impotente che mai. Ancor più impotente di chi si ritrovava a vivere quella merda nel ghetto. Ma che alternativa aveva? Portarla con sé? Esporla al mondo in cui si era cacciato per sopravvivere? Darle una vita che non poteva garantirle nemmeno il minimo sindacale? Almeno nel ghetto avevano un tetto sicuro, un pasto caldo, una comunità di facce amiche e una quotidianità umile ma pseudo-normale. Raiden tutte queste cose non poteva offrirgliele.

    « Lo sai che dopo avermi pedinato ti dovrai fare tutta la strada a ritroso da sola, vero? » Che Honey lo stesse seguendo gli era stato chiaro già da quando aveva varcato la soglia d'uscita del locale. La giovane non poteva di certo essere definita scaltra, e il rumore di quei tacchi alti su cui traballava costantemente era inconfondibile. Per un po' aveva deciso di ignorarla, proseguendo per la propria strada nella certezza che prima o poi sarebbe stata lei stessa a palesare il motivo di quell'interesse. Ma ormai mancavano solo un paio di svolte per arrivare a casa, e da lei ancora nulla. Così aveva proferito quelle parole, fermandosi poi di colpo e voltandosi per rivolgerle un'occhiata guardinga. No, non era molto saggia: nessuna ragazza sana di mente sarebbe andata in giro da sola per quei quartieri, in piena notte, vestita come una baby prostituta. In tutta risposta Honey batté il tacco per terra, sbuffando pesantemente. « Che palle!! Come hai fatto? » « Non so, sarà stato il rumore di quei trampoli che hai ai piedi o i costanti "ahia ahia ahia". » La mora sospirò imbronciata. « Fanno molto male se ci cammini. » Non avevo dubbi. « Perché mi stavi seguendo? » La domanda sembrò riportare per qualche ragione il sorriso sulle labbra di Honey, che lo raggiunse un po' traballante. « Perché voglio vedere dove vivi. » La semplicità con cui lo confessò lo lasciò spiazzato, portandolo ad aggrottare la fronte con aria confusa. Non la conosceva ancora così bene da poter indovinare il motivo di quell'interesse: le aveva solo fatto un paio di lezioni sull'alfabeto, ma non si erano mai scambiati su questioni più personali. « Scusa ma cosa importa a te di dove vivo? » « Beh, sei mio amico. Se un giorno volessi passare a trovarti dovrò pur sapere dove vivi. » Aprì la bocca, intento ad elencare tutti i motivi per cui ciò che aveva appena detto era assurdo, ma la richiuse presto, consapevole del fatto che con Honey sarebbero serviti a poco. « Allora.. mi fai strada o no? Fa freddo e mi fanno male i piedi. » Con uno sbuffo pesante, il giovane Yagami si tolse la giacca, lanciandola nella sua direzione. « Copriti, va'. » [...] Alla fine aveva ceduto e le aveva mostrato il minuscolo bilocale in cui abitava. Essendo di proprietà dei suoi datori di lavoro, lo aveva ottenuto ad un prezzo agevolato senza bisogno di passare per vie burocratiche - e questo era più che sufficiente per le sue esigenze. L'ambiente era completamente spoglio, con le pareti ingiallite dal fumo e la moquette che, per quanto potesse pulirla, continuava ad avere chiazze decisamente sospette. Tutti gli utensili erano vecchi e malridotti, gli infissi poco stabili e in generale tutto quanto aveva un aspetto mediocre nella migliore delle ipotesi. Ad Honey, tuttavia, sembrava piacere. « Ecco qua. Non c'è molto da vedere. Quindi adesso ti accompagno a casa tua - ovunque si trovi - e me ne vado a dormire che è già tardi. » Cercò di tagliar subito corto, visto la velocità con cui Honey si era messa comoda, togliendosi scarpe e giacca e piazzandosi subito a sedere sul divano. « Non mi offri nulla? » « Non ho nulla. » Sarebbe bastato guardarsi intorno per capirlo. « Neanche un bicchiere d'acqua? » Sbuffò, visibilmente infastidito dall'insistenza della ragazzina. « Senti mi spieghi cosa vuoi di preciso? Sono stanco, voglio andare a dormire e non ho voglia di giocare a indovinare cosa ti passa per la testa. » E di certo non ho intenzione di intrattenermi in casa con una minorenne. A quelle parole seguì un silenzio più lungo del normale per gli standard di Honey, che iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore titubante. « Posso rimanere a dormire? » « Non se ne parla. » La risposta arrivò immediata, prima ancora che lei riuscisse a completare la frase. « Ti prego! Non so dove andare. » « Non hai una casa? » « No! Dormo dove capita: di solito al locale, o da qualche collega quando mi va bene. Ma stasera non mi andava di rimanere lì perché ho visto che è tornato il capo e non mi va, voglio dormire. » Memore del suo primo incontro con quell'uomo che chiamavano capo, il cuore di Raiden si spezzò un po' nel sentire quella supplica. Era così normale? Era così naturale che ogni persona all'interno del locale fosse disposta a cacciarsi anche nelle situazioni più pericolose pur di evitare di trovarsi sotto le grinfie di quell'uomo? Di certo non poteva biasimarla; anche lui avrebbe seguito come un cane il primo sconosciuto pur di risparmiarsi quella sorte. « Posso dormire per terra. E se hai le uova ti farò trovare la colazione. Farò tutto quello che vuoi, ti prego. » Sospirò, voltandole le spalle per dirigersi verso la minuscola camera da letto, spalancando l'anta dell'armadio per prendere una felpa, un paio di pantaloni e dei calzini caldi. Tornato nell'abitacolo principale, le gettò sul divano. « Dalla doccia non viene acqua calda. Trovi degli asciugamani puliti sul secondo ripiano. Ti preparo il letto, io starò sul divano. Ma è solo per stasera. Domani ti troviamo una sistemazione. » Fece una pausa, fissandola con sguardo serio. « Non puoi continuare a seguire degli sconosciuti nella speranza che ti vada bene e non se ne approfittino. Ti rendi conto di quanto sia rischioso? » In risposta, Honey si strinse nelle spalle con un sorriso di serena rassegnazione. « Non ho molte alternative. » Sospirò. « Beh, posso darti una mano per stasera, ma qui non puoi restare. Quindi non farci l'abitudine. Io non ho nulla da offrire a nessuno. »

    Era così che si sentiva: come qualcuno che non aveva assolutamente nulla da offrire. Non poteva dare alla propria famiglia una vita dignitosa, non poteva aiutare una povera ragazza spezzata dalla vita, e non poteva nemmeno salvare se stesso. Inutile e impotente. So please, don't leave me behind, because this - is the only reason I'm trying to be good. Every move I make I think about you, like you're under my skin. I ask myself if you would be proud of me, if I'm doing the right thing. Mia nemmeno poteva immaginare quanto Raiden si rispecchiasse in quelle parole - quanto lo colpissero nel profondo. Ogni mattina quando si alzava si guardava allo specchio chiedendosi se quella versione di sé lo definisse in qualche maniera, se Mia ne rimarrebbe delusa, se lo amerebbe ancora. Non era solo una questione di sicurezza, ciò che lo tratteneva dal darle informazioni, ma anche la paura di cosa lei avrebbe potuto pensare. Se avesse saputo per chi lavorava, cosa faceva, cosa accettava e cosa implicitamente appoggiava - lo avrebbe guardato con gli stessi occhi? Di certo non avrebbe ricercato la sua approvazione. A quel punto, d'altronde, chi era lui per approvare o meno le scelte di vita altrui? I miss you so much, Raiden. I don't even feel like myself anymore. I want to be me, again. Your little girl. Un tempo il giovane Yagami avrebbe interpretato quelle parole in una sola maniera. In fin dei conti avevano passato dei momenti così sereni che nessun altra chiave di lettura sarebbe stata possibile. Adesso però gli facevano male. Raiden aveva fatto di tutto per rendersi un porto sicuro per Mia: per diventare quello spazio isolato in cui lei potesse permettersi di essere vulnerabile, di lasciare il controllo a qualcun altro e farsi semplicemente accudire. Ne andava fiero. Non era una fiducia che Mia gli aveva concesso con così tanta facilità, ma ci era voluto tempo e impegno per costruirla - per dimostrarle che in sua compagnia, lei poteva concedersi di abbassare le difese e tornare un po' bambina. Non si trattava nemmeno di un fattore sessuale, ma di qualcosa che aveva radici molto più profonde. Raiden voleva farla sentire così: leggera, spensierata, priva di alcuna preoccupazione o responsabilità. L'idea di poter dare a qualcun altro ciò che a lui era stato così violentemente strappato lo faceva stare bene, regalandogli un appagamento che andava ben al di là del semplice soddisfacimento di un bisogno fisico. Te ne sto privando, non è così? Ti ho detto che questo spazio poteva essere tuo in qualunque momento, che potevi farci l'abitudine, e poi te l'ho tolto. Anche adesso lo sto facendo. Con gentilezza passò un braccio sotto le sue ginocchia, sollevandole quanto bastava a spostarle sulle proprie gambe e aiutarla a sedervisi. Le avvolse le braccia intorno al busto, dandole modo di appoggiare la testa contro il proprio petto mentre le carezzava dolcemente i capelli, cullandola in quell'abbraccio. You are my little girl. You will always be. sussurrò a voce bassa contro i suoi capelli, stampandovi piccoli baci. I think about you all the time. All day, everyday. I miss my girl. And I miss being your man, cause that's the version of myself I like the most. Non questa, non questo scarto della società che si ritrovava ad essere ora. Mia riusciva sempre a tirare fuori il meglio di lui. Senza di lei si sentiva solo perso. Sospirò, appoggiando il mento sulla nuca di lei. « Non posso dirti che sto bene. Non posso stare bene senza te e Haru, senza la nostra famiglia, la nostra casa, la nostra vita. » Ma di certo anche il contesto che aveva intorno non lo aiutava a buttare giù più facilmente quel doloroso rospo. « Ma non voglio nemmeno sprecare questo tempo a piangerci addosso. » Per quello direi che di tempo ne abbiamo a sufficienza, purtroppo. « Non importa quanto brutto o pericoloso sia lì fuori, quando ci vediamo.. voglio che siamo semplicemente noi. Che quella roba rimanga fuori dalla porta. » Le carezzò i capelli, sollevandole il mento per incontrare il suo sguardo, in cui riversò il proprio con tutta la sincerità che aveva in corpo. « Non voglio dargli il potere di rovinarci. » Potevano fargli del male, umiliarli, metterli all'angolo e condurli a scelte di vita forse indignitose, ma ciò che li legava doveva rimanere intatto anche all'interno di quella bufera. Senza dire una parola, dunque, Raiden allungò una mano a sfilarsi il laccio dai capelli, lasciandoli ricadere liberi dal codino in cui li teneva abitualmente per comodità. Fece lo stesso anche con l'elastico che teneva la coda di lei, passandole gentilmente le dita tra i capelli per districarli un po' prima di dividerli in due parti, che portò ciascuna oltre una spalla. Lentamente e con delicatezza iniziò a intrecciarne prima un lato e poi l'altro, curandosi di tenere la trama sufficientemente stretta da non farla sciogliere ma abbastanza morbida da poterle ricadere deliziosamente sulle spalle. Gli era sempre piaciuto prendersi cura di lei in quel modo, con quella tenerezza e quella devozione che impregnavano anche i gesti più semplici. Chiusa l'estremità della seconda treccia, allontanò il viso quanto bastava a poterle osservare il viso nel complesso con occhio analitici. Allungò una mano verso la sua frangia, liberando alcune ciocche laterali e scompigliandola appena nel rivolgerle un sorriso dolce. Here you go, little one. I missed that pretty smile. Inclinò il capo di lato, stendendo quel sorriso mentre si portava la mano di lei alle labbra, baciandone il dorso pur tenendo gli occhi ben puntati in quelli di lei - anche mentre le conduceva la mano sul proprio collo e tra i capelli, avvolgendole contemporaneamente il braccio libero intorno alla vita per portarsela più vicina. Did you miss mine?

     
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    Era successo poco dopo esser arrivata. Forse Kai l'aveva adocchiata durante uno degli interrogatori, oppure era già a caccia dal giorno in cui era stato assegnato ad Iron Garden. Avrebbe adescato chiunque pur di portare carne fresca al Pulse. Mia avrebbe imparato ben presto che tutto quel atteggiarsi a capo del mondo era solo un atteggiamento di facciata. Kai era solo un tirapiedi, talmente sottomesso ai desideri del padre da fare qualunque cosa pur di rimanere nelle sue grazie. Mia doveva essere stata un colpaccio, perché il giorno dopo il suo primo incontro, Kai era arrivato al ghetto a bordo di una nuova moto volante. A quei tempi non capiva perché ragazze come lei potessero essere così preziose, ma non ci avrebbe messo nemmeno molto prima di scoprirlo. Aveva accettato perché voleva di più, o forse perché cercava una scusa per uscire da quel posto col benestare di qualcuno che le avrebbe guardato le spalle. Lo avrebbe fatto, Kai? Non lo sapeva. Ma a dirla tutta la promessa di quel gruzzolo aveva vinto tutte le sue reticenze. Solo pochi giorni prima aveva speso più di metà dei soldi guadagnati in una settimana per alleviare la tosse del suo piccolo. Faceva fatica a comprargli cose buone da mangiare e per non fargli mancare nulla doveva mettere da parte le cose che venivano destinate a lei in mensa. D'altronde, quella pappetta che distribuivano per i bambini era talmente scadente che nemmeno i cani se la mangiavano. E infatti, con Ronnie scherzavano dicendo che fosse arrivata la pappa cagata dai bambini-maghi. Non li trattavano propriamente male, ad Iron Garden, ma si impegnavano sufficientemente a far desiderare loro qualunque cosa che non avessero. Mia, ad esempio, non era mai stata una persona materiale, né pensava che a lei e Haru servissero poi troppe cose. Ma ora voleva il lettino buono, e la pappa giusta, e lo sciroppo costoso. Voleva un paio di anfibi e non quelle scarpe da ginnastica di seconda mano che avevano distribuito a chi aveva ricevuto lo stato di sfollato. Voleva poter fare i gyoza per Raiden e perché no comprarsi un dannato gelato gigante da Fortebraccio. Era triste quanto quelle cose così banali fossero diventate un obiettivo da raggiungere. Qualcosa per cui lavorare, qualcosa per cui lottare. La prima sera l'avevano fatta combattere contro una veela. Unica regola per guadagnarsi la somma promessa - all'incirca un centinaio di galeoni - avvalersi in combattimento solo della propria forma umana e portare l'incontro avanti il più a lungo possibile. Non aveva trovato poi molto strane quelle richieste; in fondo non sarebbe stato il massimo veder combattere un'arpia contro un lupo sul ring. Quelle persone venivano per vedere calci e pugni; non certo per veder combattere delle bestie. Con Raven, la veela che avrebbe affrontato, Mia aveva pensato di andarci piano. Non voleva certo farle troppo male. Certo, un conto era l'intrattenimento, e un altro era perderci qualche costola. Curarsi ad Iron Garden è pure costoso. E se anche uno sa farlo in casa, significa comunque rallentare il rendimento nei lavori ufficiali, dando dimostrazione di pigrizia. Sì. Ci daremo qualche calcio e pugno e poi tutti a casa. Tuttavia, una volta arrivati sul ring, Mia scoprì ben presto che Raven non aveva affatto intenzione di andarci leggera. Aveva passato i primi minuti ad assestarle qualche pugno non troppo pesante, schivando le mosse della bionda, mettendoci un impegno più scenografico che altro. Ma poi la prima ginocchiata all'altezza dello stomaco era arrivata pesante come una palla di cannone. Il dolore la destabilizzò al punto da indietreggiare piegandosi su se stessa. Mia osservò la veela con uno sguardo tacito, sentendosi tradita, come se l'altra fosse venuta meno a un accordo tacito. « Nulla di personale, ma non mi piacciono i lycan. » Un sussurro al suo orecchio prima di afferrarla per la coda e scaraventarla contro la recinzione metallica assentandogli un secondo colpo sul fianco. « Su, principessa. Abbiamo appena cominciato. » Se non avesse reagito, Raven l'avrebbe pestata a sangue. Per la prima volta la consapevolezza di come andavano le cose la colpì più della ginocchiata appena ricevuta. Non c'era solidarietà e umanità che reggesse nel mondo del Messia. Non per le creature, né tra le creature. E non c'era specialmente per i lycan. Ciò che Mia provò fu puro odio. Un sentimento talmente viscerale da risultare incontrollabile. « Vaffanculo. » Non le prese più sottogamba, e da quel momento non le diede neanche modo per prendere il fiato. Quella sera Mia lottò con le unghie e coi denti riempiendo di botte una ragazza che in ogni caso non sembrava avere la minima intenzione di risparmiarsi, né di risparmiarla, rialzandosi in piedi ogni volta per ripartire all'attacco finché non era più stata in grado di farlo. Le era piaciuto. Per quanto potesse sentirsi in colpa, la verità è colpire qualcuno, sputare sangue, darsele di buona ragione fino a rimanere senza fiato le era piaciuto più del dovuto. Le era piaciuto dare sfogo a ogni pensiero negativo, ogni briciolo di violenza che la permeava. La frustrazione, l'odio, l'impotenza. Ma le vere ingiustizie, Mia, doveva ancora conoscerle. Avrebbe cominciato quella stessa sera, quando Kai posò di fronte a loro due sacchetti dal peso differente. « Perché solo ottanta? Non erano questi i patti. » « I patti erano anche che l'incontro dovesse durare il più a lungo possibile. Hai concluso troppo in fretta. Raven prende la tua parte. » Kai scoprì la fila di denti giallognoli squadrandola dalla testa ai piedi. « Imparerai. Succede a tutti la prima volta. Ti ho già spiegato: devi dare il tempo agli ospiti di decidere su chi puntare, rialzare la posta, cambiare idea. La grana di questo incontro è sotto le stime. Lei si è comportata bene, tu no. » Mia sbatté appena il proprio sacchetto sul tavolo stringendo i denti. « Ho fatto quello che mi hai chiesto. » L'Auror scoccò la lingua contro il palato. « No, tu hai fatto quello che pensi ti abbia chiesto. Se parlassi meno e aprissi le orecchie di più forse impareresti qualcosa, uhm? A meno che non vuoi che mi riprenda anche gli ottanta galeoni su cui sputi sopra. » Pausa. « Sparite. Vi contatterò io. » Difficilmente si sarebbe sentita così umiliata. In un mondo normale, ottanta galeoni per una serata era tutto fuorché qualcosa su cui sputarci sopra, ma quando la maggior parte dei beni erano reperibili solo sul mercato nero, si faceva presto a capire che quelle fossero solo briciole. Molto più di quanto una giornata di lavoro al ghetto le avrebbe offerto, ma pur sempre troppo poco per valere ogni livido che le avrebbe ricordato quello scontro. Eppure ci sono tornata. Ci sono tornata anche quando mi sono hanno chiesto di perdere. Ci sono tornata nonostante l'umiliazione, nonostante le mancanze di rispetto, nonostante gli sguardi che non riesci a lavarti di dosso neanche com tutta l'acqua gelata che passa per gli scarichi di Iron Garden. Un po' perché avevo voglia di sfogarmi. Un po' perché avevo paura. Un po' perché questa libertà mi piace. Ma a quale prezzo? Uno troppo alto per qualunque gratificazione.

    Ne valeva la pena. Questo si diceva. Anche ora, abbracciata a Raiden, voleva pensare che tutto quel dolore aveva senso. Finché non avesse sospettato nulla, né lui, né gli altri, poteva farlo, di tanto in tanto. Poteva spegnere il cervello e alienarsi per permettersi di dare ad Haru qualcosa che altrimenti gli sarebbe mancato, magari per prendersi cura di Raiden. Glielo avrebbe permesso? Non le era passato neanche per l'anticamera del cervello di provarci in quella fase. Temeva che avrebbe rifiutato, o peggio ancora che l'avrebbe offeso. Sapeva bene come la pensasse su certe cose, ma erano davvero nella condizione di pensare alle consuetudini? A un codice d'onore? Raiden era un ricercato, e Mia era diventata meno dell'ultima ruota del carro, un essere la cui volontà veniva annullata e la cui personalità veniva smembrata ogni qual volta pensasse che potesse ancora avere dei diritti. Che cosa restava loro se non loro stessi? Il loro amore, la loro famiglia. Eppure spesso si chiedeva se Raiden l'avrebbe ancora amato. Se avrebbe approvato e se avrebbe capito. Certe volte ho paura che potresti odiarmi, che di colpo tutto quel amore che provavi potrebbe trasformarsi in disgusto. In odio. Non aveva tutti i torti. Quelli sguardi, il completo annullamento di se stessa, prestarsi come un pezzo di carne per quelli scontri, appariva i suoi occhi come qualcosa di cui non andava affatto fiera. Si sentiva sporca, violata, spogliata di se stessa. Quelli sguardi abusavano di lei ogni qual volta ci tornasse, e Mia lo sapeva, poteva capirlo. Cominciava a comprendere per quale ragione l'avessero portata lì, perché continuavano a chiamarla. Mia non era una bestia; era una bestiola carina, giovane. Un pezzo di carne a cui non ci si poteva avvicinare troppo, per paura che potesse diventare pericolosa, ma poteva comunque fungere da territorio dei desideri nella sua dimensione da scimmia ammaestrata. Non la toccavano, ma le stavano comunque risucchiando l'anima. E così quel bisogno di tornare a essere se stessa sembrava se possibile ancor più impellente. Non appena la invitò a sedersi sulle sue gambe, Mia non esitò, e anzi, accolse senza remore l'invito, ricercando il calore del suo abbraccio morbosamente, strofinando la guancia contro il petto di lui posando le mani sopra a quelle del moro come se volesse comunicargli di stringerla ancora di più, quasi avesse paura che l'avrebbe lasciata andare. Aveva paura di quel momento, seppur sapesse che sarebbe arrivato. You are my little girl. You will always be. I think about you all the time. All day, everyday. I miss my girl. And I miss being your man, cause that's the version of myself I like the most. C'era una cosa che in quel discorso avrebbe voluto correggere, soccorrerlo prima che potesse elaborare ancora quel pensiero. Tu sarai sempre il mio uomo. Indipendentemente da quello che ci separa, lo sarai sempre. Mia non riusciva a vedersi senza di lui, senza sapere di appartenersi. A volte sembrava una necessità del tutto irrazionale, stargli accanto, appartenersi. Chiuse gli occhi, tuttavia, tacendo per il momento. Beandosi piuttosto del fiato caldo di lui contro la propria nuca. « Non posso dirti che sto bene. Non posso stare bene senza te e Haru, senza la nostra famiglia, la nostra casa, la nostra vita. Ma non voglio nemmeno sprecare questo tempo a piangerci addosso. Non importa quanto brutto o pericoloso sia lì fuori, quando ci vediamo.. voglio che siamo semplicemente noi. Che quella roba rimanga fuori dalla porta. Non voglio dargli il potere di rovinarci. » Lo guardò con estrema serietà annuendo, mentre raggiungeva la guancia di lui per lasciarne una piccola carezza con estrema dolcezza. Poi chiuse gli occhi lasciandosi trasportare dalla miriade di sensazioni che i gesti di lui, semplici, pazienti, le riportavano in mente. Le piaceva così tanto quando le pettinava i capelli, quando si curava di lei come se fosse la cosa più preziosa che avesse nella propria vita. Era bello, sentirsi così importante, così dannatamente al di sopra di qualunque altra priorità di qualcuno. Sapere che in ogni caso, le attenzioni di quelle persona, di Raiden, sarebbero state sempre più dirette che a lei a chiunque altro al mondo. Here you go, little one. I missed that pretty smile. Did you miss mine? Soffiò pesante Mia, talmente pesante che quel respiro sembrò fuoco. Si sentiva come se un'antica fiamma stesse scardinando le sue interiora. Una sensazione che ben conosceva, e con la quale, seppur non le desse a vedere, non aveva imparato a vivere, né era certa fosse possibile farlo. Perché avrebbe dovuto d'altronde? Mia non avrebbe mai rinunciato a Raiden, non a meno che fosse stato lui a lasciarla, e anche allora, era difficile anticipare cosa Mia avrebbe fatto o come avrebbe reagito a ciò.
    KvuOdW6
    Of course I miss it. When you smile you're the prettiest man alive. You always are. Di colpo passò le ginocchia da un lato e dall'altro dei fianchi di lui, guidando le sue mani a stringersi ancora di più contro il proprio busto, guardandolo in viso con un tenue sorriso, beandosi al contempo dei suoi con grandi occhi da capriola. A quel punto annuì di nuovo. Certo che le era mancato il suo sorriso. You will always be. The prettiest I mean. And you will always be my man. I will always, always miss - everything - fucking everything about you. Incollò la fronte contro la sua mentre stringeva le mani sui suoi polsi oltre la propria schiena, quasi volesse spingerlo a stringerla fino al punto in cui Mia sarebbe stata davvero inglobata dalle braccia di lui. Le mancava così tanto stare così, in silenzio, a guardarsi senza dire nulla. Lasciò la presa su uno dei suoi polsi tornando a emulare i gesti che lui stesso le aveva suggerito, accarezzandogli con tocchi leggeri il collo, fino raggiungere la nuca. Intrecciò le dita tra i suoi capelli, accarezzandogli a districandoli appena dai nodi provocati da quel codino. Ora riusciva a vederli meglio. Quella lunghezza gli stava davvero bene; aveva un che di maledettamente selvaggio. I won't ask you to tell me how you feel anymore. I know -I know how it feels. I feel the same. Asserì di scatto gettando lo sguardo nel suo, mentre stringeva appena le ciocche di lui, riportando anche l'altra mano ad accarezzargli il collo, la pelle sotto la camicia scura. Non dovevano per forza parlare di come stessero. D'altronde, come potevano mai stare se non male? Forse dirlo a voce alta serviva per ricordarsi a vicenda che solo insieme potevano essere davvero sereni, felici, spensierati. Ma non era già sufficientemente evidente? Mia non sapeva cosa c'era nell'animo di Raiden, cosa stesse passando, quali difficoltà stesse affrontando - ma in un certo qual modo, sotto tutto quel groviglio di emozioni tumultuose, riusciva a capire almeno in parte che le loro esperienze non era molto diverse. Forse non vivevano le stesse cose, né nello stesso posto, ma le emozioni che quel vissuto scaturiva non era dissimile. Just show me. Allow me to be your strength. Si morse il labbro inferiore, il soffio caldo di lei misto a quello altrettanto bollente di lui. Un calore che le era mancano come l'ossigeno in apnea. We can't see eachother whenever we want. We can't stay together for too long and we can't talk about everything. But we can carry this together. Nel dire quelle cose la frustrazione sembrò rimontarle nel petto riesumando una forma di rabbia primordiale che la portò a stringere ulteriormente i capelli di lui. Non era mai sufficientemente stanca di ripetergli quanto le mancasse, quanto quella vicinanza era in grado di risollevarla dall'abisso in cui era crollata. Posò un bacio leggero sulle sue labbra, quasi avesse paura di fare qualcosa di sbagliato, di essere fraintesa, ma al contempo senza riuscire a frenarsi, quasi come se quell'istinto dominasse ogni sua volontà. Allow me to be your little one, in any way you need me to. Un altro bacio all'angolo della sua bocca. E poi un terzo e un quarto. You can trust me. Pausa. I trust you. E così ancora una scia di baci fino a giungere al suo orecchio. Privata di quel contatto visivo che l'avrebbe paralizzata al punto da frenare la sua completa trasparenza, posò un bacio sul lobo di lui. Show me where it hurts - how much it hurts. Stringeva i suoi capelli incastrando appena tra le labbra il lobo di lui soffiando pesante contro il suo orecchio, con una foga smaniosa, scellerata. La mano libera vagava sopra il tessuto della sua camicia con dita pesanti. I'd like to make it stop. Show me how to heal it. Il dolore, la sofferenza. Se avesse potuto farlo anche solo per un istante ne sarebbe stata felice. Quei sussurri colmi di abnegazione si unirono ancora una volta e sospiri pesanti mentre aderiva completamente al suo busto. Il fruscio dei vestiti corrodeva, tanto quanto corredeva il desiderio di svelare strato dopo strato ogni ferita aperta. Non tanto per rievocare la portata di quel dolore, quanto piuttosto per curare quelle ferite, alleviarne l'effetto devastante anche solo per un po'. Per qualche ora, per qualche istante. Please. It hurts so much, feeling so useless. Nel dire quelle ultime parole tornò a osservarlo disperata, facendo di quella dichiarazione qualcosa di più profondo. Più viscerale. Nel chiedergli di mostrarle di cosa avesse bisogno, Mia gli chiedeva di accedere alla propria guarigione, o quanto meno a una forma temporanea di anestetico da quel dolore. Per un istante, tuttavia, ebbe un tonfo al cuore. Un rumore di vetri infranti oltre le finestre della loro stanza la portò a sussultare. Lo sguardo saettò istintivamente oltre le finestre alle spalle del divano su cui erano seduti. Si sollevò appena sulle ginocchia con il cuore in gola, osservando con attenzione il parcheggio, per poi individuare la fonte del suono. Era solo un gruppo di ragazzi che tiravano sassi contro una fila di bottiglie di vetro ridendo fragorosamente. Probabilmente solo un gruppo di drogatelli di periferia. Nulla di cui preoccuparsene. D'altronde, Mia aveva fatto del suo meglio per accertarsi che quel incontro sarebbe stato sicuro. Non aveva portato la bacchetta, aveva utilizzato solo mezzi babbani, ed era certa che Raiden avesse fatto altrettanto. Tuttavia, non si era mai sufficientemente attenti, e a quel punto, Mia aveva paura di qualunque cosa. Non a caso, accertata che la situazione fosse tranquilla e gettato un veloce sguardo al catenaccio fissato sulla porta, la giovane tornò a osservarlo. Il cuore le batteva all'impazzata. Alla frustrazione, al dolore e all'impotenza si era aggiunta la paura. Un misto di emozioni che scoppiava nel suo cuore che premeva con battiti veloci contro la sua cassa toracica. Per qualche istante lo osservò solo senza dire niente. Assolutamente niente. Poi, di colpo, si avventò sulle sue labbra come non faceva da tanto tempo, con foga, sconsolata, disperata di lasciarsi schiacciare da quel desiderio, e di lasciarsi trascinare da ogni brandello di emozione. L'amore e la devozione nei confronti di Raiden, e il completo rifiuto verso tutto il resto. Con mani tremanti, abbassò la propria zip della felpa, andandogli incontro con labbra ardenti, mentre si liberava di quell'indumento, per poi mettere mano ai bottoni della sua camicia, di cui sbottò solo quanto necessario per stabilire un contatto diretta con la sua pelle. Voleva sentirlo, il suo calore, il suo odore. Voleva semplicemente essere sua e di nessun altro. Sentire di appartenergli più di quanto appartenesse alla paura e alla frustrazione, più di quanto appartenesse alle mancanze e alle umiliazioni di qualunque cosa fosse là dentro. Take me back. Asserì di colpo incastrandogli il mento tra pollice e indice. Promise me you'll take me back. Deglutì mordendogli appena il labbro inferiore, mentre manteneva dita salde al di sotto della camicia spostandosi verso il basso. Just take me.

    If you hold on
    I might just stay forever
    If you get hurt
    I'll try to make it better
    If you go down
    Then we go down together




     
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    Of course I miss it. When you smile you're the prettiest man alive. You always are. You will always be. The prettiest I mean. And you will always be my man. I will always, always miss - everything - fucking everything about you. Sorrise, un moto di genuina felicità che tuttavia non riusciva ad esprimersi pienamente, stemperato da una vena di malinconia che non sembrava intenzionata ad andarsene nemmeno con tutti gli sforzi. Avrebbe dovuto essere al settimo cielo, godersi quel momento esattamente come le aveva detto poco prima, senza pensare a ciò che c'era fuori da quella stanza o alla vita a cui sarebbero dovuti ritornare. E lo era, felice - a modo suo lo era - ma per quanto tentasse di liberarsi dal blocco che sentiva addosso, non ci riusciva. Far finta di nulla era sempre stata la sua specialità: chiudeva tutto il doloro e tutta la frustrazione in un cassetto, ignorandone la presenza. Ma forse quel cassetto era ormai diventato troppo pieno, troppo affollato di ricordi ed emozioni ignorati, e non si chiudeva più bene come una volta; doveva sforzarsi, doveva premersi contro lo scomparto per tenerlo chiuso, per non far schizzare fuori tutto ciò che aveva meticolosamente accatastato nel tempo con la speranza di non doversene curare. Ma ormai cosa poteva fare? Non aveva mai imparato a comportarsi diversamente, non aveva gli strumenti per farlo. Poteva solo continuare per quella strada, applicando lo stesso metodo con ancor più violenza di prima. I won't ask you to tell me how you feel anymore. I know -I know how it feels. I feel the same. Just show me. Allow me to be your strength. Annuì, sospirando profondamente alle carezze di lei. Nonostante non riuscisse ad abbandonarsi del tutto alla dolcezza di quel momento, le era comunque grato per quelle attenzioni, per l'affetto che gli dimostrava nonostante tutto e per il fatto che non volesse forzarlo a parlare di cose che non avrebbe nemmeno saputo esprimere a parole. Chiuse gli occhi, tentando di escludere qualunque altro stimolo al di fuori del tocco di lei, mentre percorreva la sua schiena con la punta delle dita. We can't see eachother whenever we want. We can't stay together for too long and we can't talk about everything. But we can carry this together. Allow me to be your little one, in any way you need me to. You can trust me. I trust you. Il tocco delle sue labbra era come un anestetico, capace di mettere a tacere quei dolori almeno per un po', di confonderlo a sufficienza da fargli dimenticare quanto schifo provasse verso se stesso e la vita che stava conducendo. Forse anche lei avrebbe provato lo stesso disgusto nel saperlo, ma non lo sapeva - ed egoisticamente, Raiden voleva che le cose rimanessero così. Show me where it hurts - how much it hurts. I'd like to make it stop. Show me how to heal it. Please. It hurts so much, feeling so useless. Soffiò pesantemente, andando incontro al benessere che tutte quelle sensazioni gli suscitavano. Le mani del giapponese si strinsero sui fianchi di Mia, portandola più vicina a sé mentre alzava istintivamente il bacino per aderire al corpo di lei. Voleva darle retta, voleva assecondare ogni sua parola e permetterle di mettere a tacere anche solo momentaneamente quella frustrazione che gli opprimeva il petto. Voleva anche fare lo stesso con lei, darle ciò di cui aveva bisogno, consolarla, farla sentire ancora amata e desiderata, regalarle ancora tutte quelle attenzioni che le dedicava prima. L'incantesimo venne tuttavia spezzato da un rumore improvviso di vetri infranti che lo portò a sussultare, pronto a scattare con la mano verso qualunque oggetto potesse utilizzare come arma. Istintivamente la mano di Raiden corse a tappare le labbra di Mia e di scatto si voltò verso la finestra, cercando di intravedere da una fessura tra le tende e le tapparelle cosa stesse avvenendo. Nulla. Solo dei ragazzini. Eppure il cuore gli batteva all'impazzata, incapace di razionalizzare il falso allarme alla stessa velocità dei suoi pensieri. Lentamente, tuttavia, lasciò cadere la mano dalle labbra di lei, sospirando mentre i suoi occhi tornavano a fissare quelli altrettanto tumultuosi di Mia. Ma prima che riuscisse a dire o fare qualunque cosa, le labbra dell'americana si avventarono con foga sulle sue. Gesti veloci e frettolosi che lo presero in contropiede, lasciandolo di sasso per una frazione di secondo prima che il suo corpo rispondesse d'istinto, assecondando i movimenti della ragazza. Con mani affamate scivolò sotto la maglietta di lei, imprimendo il proprio tocco pesante sulla sua pelle nel cercare spasmodicamente il contatto con ogni centimetro del suo corpo. La voleva. La sua testa la desiderava, e il suo corpo anche. Razionalmente sapeva che fosse così. Quanto ci aveva pensato da quando se ne era andato? Quante volte aveva proiettato nella propria mente quegli scenari, ripassando a memoria il corpo di Mia, il suo sapore, il suo odore, il suono dei suoi respiri? Non passava giorno senza che ci pensasse, senza che sentisse la mancanza di quell'intimità come un'amputazione senza anestesia. Forse la voleva anche troppo, in maniera eccessivamente tumultuosa, famelica, o addirittura violenta; come se tra le crepe di quel desiderio fosse riuscito a trapelare altro, qualche goccia di quel veleno che impregnava la sua vita. Take me back. Promise me you'll take me back. Just take me. Anche dietro a quella richiesta, alla foga di Mia, ai suoi morsi, Raiden riusciva a percepirlo distintamente quel veleno; riusciva a leggere nei propri stessi movimenti quanto a fondo quelle esperienze lo stessero segnando - come se fosse una bestia marchiata a fuoco per rendere visibile a tutti il nome del proprio padrone. Non diceva nulla, non pronunciava una singola parola - forse non voleva farlo - ma ogni tocco parlava chiaro. Le dita di Raiden affondavano nella pelle di lei, stringevano le ossa, si arpionavano ovunque potessero arrivare come un falco che affonda gli artigli nei punti teneri della propria preda. E più lo faceva, più assecondava quella foga, più sentiva il desiderio sbiadire, sostituito da una rabbia così fagocitante da non permettergli di vedere più quell'intimità per ciò che era ed era sempre stata: qualcosa di bello, di puro anche nei suoi momenti più depravati. Non voglio dargli il potere di rovinarci. Quelle parole, le parole che lui stesso aveva pronunciato solo pochi attimi prima, risuonavano in loop nei suoi pensieri. No, non voleva. Non voleva che oltre al danno ci si aggiungesse la beffa, che quella frustrazione arrivasse a toccarlo così nel profondo da rovinare l'unica cosa bella che aveva. Significava ammettere la sconfitta, provare implicitamente a se stesso che in fondo, sì, era proprio quel ragazzino debole che Hichiro aveva visto in lui, che non era sufficientemente uomo. Ma in quel groviglio di sentimenti non esisteva via d'uscita, le strade erano due soltanto: ammettere il fallimento oppure rifarsi su di lei, riversando sul suo corpo lo stesso odio che sentiva nei confronti di ciò che gli era stato fatto. Una contraddizione da cui non riusciva ad uscire. Non sapeva se Mia riuscisse a percepire quella rabbia, se sentisse quei tocchi sulla sua pelle per ciò che erano: uno strumento di appropriazione, un tentativo di rivalsa, la più schietta strumentalizzazione della sua persona ridotta a semplice oggetto per amplificare l'immagine di ciò che Raiden aveva disperato bisogno di vedere in sé. Glielo aveva detto più volte, in passato, che non si era mai voluto identificare come una vittima; ma fino a quel momento non aveva nemmeno mai sentito il bisogno di identificarsi come carnefice, per evitare quella definizione. Più intensi si facevano quei tocchi, quei morsi, quei baci famelici, più la rabbia aumentava; e più aumentava la rabbia, più saliva di pari passo anche il disgusto - per se stesso, per la situazione in cui si trovava, per le persone che lo avevano portato a quel punto, per qualunque atomo dell'aria che respirava. Sull'onda di quella frustrazione le dita di Raiden si strinsero con più forza del dovuto sulle braccia di lei, così tanta da suscitare naturalmente una reazione involontaria da lei - qualcosa che poteva solo essere scatenato da un dolore fisico. Non appena successe, il giovane Yagami fu svelto ad allontanarla quasi in automatico, come si allontanerebbe di riflesso la mano troppo vicina alla fiamma. La vergogna lo investì velocemente, mischiandosi alla rabbia e alla
    frustrazione per quel tempo necessario a diventare il sentimento predominante. « Non voglio che mi scopi per pietà, Mia. » Le parole uscirono dalla sua bocca prima ancora di pensarci sopra. Era andato in automatico, rivomitando la prima scusa che potesse togliergli di dosso - quanto meno agli occhi di lei - il profondo senso di vergogna che provava, spostando la responsabilità (o la colpa, per come la vedeva lui) lontano da sé. Imputare Mia era più facile, più immediato, e probabilmente anche più efficace. E infatti non ci pensò due volte a togliersi da quell'imbarazzo spostandola a sedere sui cuscini del divano piuttosto che sulle sue gambe, dove si era appollaiata fino a quel momento. « Non ti ho detto che non sto bene perché volevo impietosirti abbastanza da farmela dare. Sarò anche un fottuto scarto, ma un po' di dignità mi è rimasta. » Non sapeva nemmeno perché le si stesse rivolgendo con quel tono arrabbiato. Non ce l'aveva con lei, non ne aveva alcun motivo, e provava un profondo schifo per quel pizzico di benessere che sentiva nello sfogarsi immotivatamente su qualcuno che lo amava in maniera così incondizionata. Sospirò, passandosi nervosamente una mano tra le ciocche disordinate che gli cadevano sul viso, voltandosi poi velocemente nella sua direzione per scoccarle uno sguardo irritato. « Non sono un cazzo di giocattolo rotto. Ci avrei provato per primo, tranquilla. Ma l'hai messa come se.. bo, lo facessi per consolarmi. Fa proprio passare la voglia, porca puttana. » In un moto di nervosismo, il giapponese assestò un calcio al piede del tavolo, facendolo tremare senza tuttavia smuoverlo - era uno di quei tavoli fissati al pavimento, probabilmente come precauzione per ospiti poco propensi all'autocontrollo. Di quel gesto inconsulto, Raiden si pentì subito, ma in quel disperato tentativo di salvaguardare un po' di amor proprio cercò di non darlo a vedere, volgendo lo sguardo altrove in silenzio. Un silenzio che spezzò solo dopo qualche istante, con un sospiro. « Forse è meglio se lasciamo perdere stasera. » proferì a tono più basso, senza nemmeno guardarla in faccia, rimanendo fermo per diversi istanti prima di sporgersi di scatto verso la bottiglia di vino, versandone una generosa quantità nel bicchiere, che buttò giù quasi in un sol fiato.

     
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    Del modo in cui Raiden le mancava, Mia, se ne accorse nel momento esatto in cui le dita di lui toccarono la propria pelle. Il percorso dei suoi polstrelli erano fuoco, al punto tale da individuarne ogni spostamento, indipendentemente da quanto piccolo con una sconvolgente lucidità, come se volesse imprimere a fuoco la sua presenza sulla propria pelle, poterne ripercorrere le esatte sensazioni anche quando sarebbero stati di nuovo lontani. Sapeva le mancasse; coscientemente quella lontananza e assenza era diventata parte del suo essere. Viveva in condizione dell'assenza, provando un pesante senso di tritezza e abbandono ogni qualvolta be arrivasse. Non era propriamente l'assenza di questi momenti a rendere evidente la separazione - Mia realiazzava che Raiden non c'era la mattina quando nessuno le salutava con un bacio sulla fronte, durante quelle stupide pause in cui perdeva il tempo a scorrere wiztagram senza potergli mandare una stupida immagine di gattini che si abbracciano, mentre decideva cosa avrebbe mangiato per cena o quando cercava i propri vestiti nell'armadio. Non c'erano felpe da rubare, né qualcuno a cui proporre di cucinare insieme. Lei e Ronnie avevano orari diversi e il più delle volte passavano così tanto tempo a cercare di mettere le pezze nel loro appartamento che di certo pensare di fare cose normali come dedicarsi a un pasto salutare era alquanto impensabile. Mangiavano in mensa, e quelle poche volte che decidevano di rimanere a casa, preferivano qualche cibo preconfezionato come bottino ottenuto col sudore della fronte. Seppur scavasse nella propria pelle fino al punto da stuzzicare il dolore sopito di quelle ferite invisibili, Mia ne accettava il pesantezza con un disperata foga. Voglio solo ricordare. Esserci. Sentirmi ancora parte di qualcosa. Di noi. C'erano giorni in cui la giovane Yagami non aveva più idea di chi fosse. Spogliava della propria dignità, a tratti persino del suo nome, costretta a destreggiarsi tra lavori che evidentemente non le calzavano e obbligata a navigare tra sguardi torvi e suscettibili, si perdeva - sempre, un po' di più. Con Raiden, Mia aveva imparato a gestire una quotidianità fatta di responsabilità e tenerezza, in cui entrambi mettevano del proprio a favore di una famiglia nei confronti della cui salvaguardia entrambi avevano messo tutto il loro impegno. Io non voglio essere così. Non voglio essere questa. Non voglio guardarti negli occhi e rendermi conto che ti ho deluso. Che tutto ciò per cui abbiamo lottato - tutto l'impegno che ci abbiamo messo per costruire la nostra vita verrà perso. Io - io ho paura.. ho paura di farti schifo; ho paura che un giorno realizzerai che questo periodo, ciò che ho fatto, ti farà schifo. E più ci pensava più i suoi baci diventavano famelici; bruciava di un desiderio irrazionale che sembrava mischiarsi a una forma di possesso e rabbia che cresceva inspiegabilmente dentro di sé. Sentimenti quelli che non sapeva da dove arrivassero. Con chi ce l'aveva? Man mano che quel tumulto di emozioni cresceva dentro di lei, il dolore sembrava farsi più evidente, fino al punto in cui realizzò che le stesse facendo davvero male. Si ritirò appena cercando di sciogliere la presa di lui, mugugnando appena mentre storceva il naso. Non ricevette alcuna reazione da parte del ragazzo almeno finché, di colpo, non emise un suono acuto dovuto al forte dolore al braccio. Sotto le dita di Raiden uno dei tanti lividi che aveva tentato di nascondere prima di uscire di casa. A quel punto si allontanò, ma lei quasi automaticamente, sciolta la presa, tentò di riavvicinarsi. « Non è niente, tranquillo. » Negli occhi di Raiden, tuttavia, vide una sfumatura diversa. Lentamente, man mano che le sue emozioni riprendevano un proprio equilibrio, scostandosi dalla sovrapposizione creatasi con quelle di lui, iniziò a leggere qualcosa di cui non si era proprio accorta. Negli occhi scuri di lui non c'era nulla di ciò che Mia conoscesse. Di certo, non c'era alcun desiderio, come se fino a quel momento la sua fosse stata solo una dinamica meccanica, priva di alcuna emozioni - quanto meno quelle che Mia conosceva. Aveva fatto tutto da sola? Quel desiderio, la voglia di vicinanza, la necessità di ritrovarsi - era stata solo lei? Aveva forse mal interpretato le intenzioni ed emozioni di Raiden? Le aveva forse ignorate? « Non voglio che mi scopi per pietà, Mia. » La mora sgranò gli occhi abbassando lo sguardo spaesata, confusa. Era paralizzata. Non sapeva cosa dovesse fare, gelata sul posto dalla freddezza delle parole di lui. Pietà? Per te questa è pietà? Era incredula, talmente confusa che non sembrava nemmeno in grado di collegare il significato della parola al contesto in cui si trovavano. Provò un profondo senso di vergogna e imbarazzo, diventando rossa come un peperone, non appena venne spostata di peso sul divano. Scostò lo sguardo, mortificata, concentrandosi sulla bruttissima tappezzeria slavata del poggia schiena, mordendosi l'interno delle guance. « Non ti ho detto che non sto bene perché volevo impietosirti abbastanza da farmela dare. Sarò anche un fottuto scarto, ma un po' di dignità mi è rimasta. Non sono un cazzo di giocattolo rotto. Ci avrei provato per primo, tranquilla. Ma l'hai messa come se.. bo, lo facessi per consolarmi. Fa proprio passare la voglia, porca puttana. » Trasalì appena nell'udire il calcio di lui contro il tavolino. Non fu una reazione dettata dalla paura - non aveva certo paura di Raiden. Ma in quel groviglio di sconvolgimenti, apparve solo come l'ennesima stortura alla quale non sapeva reagire. Gli occhi caleidoscopici di lei si spostarono dalla tappezzeria, sulle mani di lui, poi sul resto della figura fino a percorrere le leggere rigature della moquette giallognola, e ancora il tavolino, scosso da quel leggero tremolio. Il vibrante liquido della bottiglia, il cibo e i bicchieri di plastica. Aveva immaginato diversamente quella serata, il loro primo incontro dopo tanto tempo. Ci avrei provato per primo, tranquilla? Sul serio? Ci avresti provato per primo, uhm? Quindi è questo quello che ho fatto io - ci ho provato con te.. come se non aspettassi altro. Il modo in cui le parlava - non sembrava nemmeno Raiden. E seppur fosse certa che qualunque cosa dovesse affrontare lì fuori non era semplice, non riusciva comunque ad accettare quel modo di fare, quelle parole. Ci è voluto davvero poco per scostarti. Pochissimo. Troppo poco. E proprio per questo, quel rifiuto scottava ancora di più. Era un discorso così innaturale alla luce del loro rapporto, di quello che erano, della dinamica che avevano. Mia non aveva mai messo in conto il rifiuto di Raiden, perché nessuno dei due si era mai sottratto all'intimità. Si sentiva sporca, disgustata da ciò che aveva sentito, dal modo in cui l'aveva messa, al punto che, in un raptus di frustrazione, si sciolse entrambe le trecce, simbolo di un'intimità che evidentemente non avrebbero avuto, dettandogli addosso uno dei lacci, per poi legarsi con veemenza le proprie ciocche di uno chignon disordinato. « Scusami. Mi è sfuggito il passaggio in cui si scopa.. - in cui noi due, io e te, scopiamo per pietà. » Lo osserva con occhi tristi, Mia, ma lui non la guarda neanche. Di quel trasporto che aveva avuto nei suoi confronti non c'è più niente. Non un briciolo di desiderio. Niente. Nell sfera emotiva di lui non riesce a leggere nulla di comprensibile. Nulla che possa aver senso ai suoi occhi. « Forse è meglio se lasciamo perdere stasera. » Annuì scostando lo sguardo. Dire che si sentisse rifiutata era poco. Avrebbe voluto nascondersi, scappare per venire meglio alla vergogna di sentirsi non desiderata. Era in imbarazzo, al punto da non sapere cosa fare di sé. Poteva accettare le umiliazioni, la derisione, il rifiuto della società, ma nulla di tutto questo arrivava al punto di competere con la consapevolezza di essere rifiutata da Raiden. In quel momento non riusciva nemmeno a chiedersi perché. Aveva detto qualcosa di sbagliato davvero, oppure il risultato era già preannunciato? Cosa non aveva visto? Cosa non aveva capito? Tante cose. Come al solito non capisco un cazzo. « Eppure io un po' di pietà la vorrei.. » Disse di colpo con un filo di voce. Che male ci sarebbe nel desiderare un po' di compassione? Desiderare di vedersi graziati, compatiti, in questa vita al limite? Mia, che vedeva la contraddizione e spietatezza di un sistema sregolato ogni giorno, non vedeva nulla di male nella compassione. Se la pietà potesse riportarmi da te, io l'accetterei. Accetterei di tutto. Forse stava già accettando di tutto, obliterando così ogni forma di fierezza e amor proprio di cui era capace. « Se anche fosse stata pietà - e non lo era.. che male c'è nell'accettare un po' di aiuto? » Graffiava la tappezzeria del divano seguendo i contorti di un fiorellino in maniera ossessiva, mordendo l'interno delle guance. Non hai mai voluto il mio aiuto. Mai. Ti ho dovuto cavare le cose di bocca, come se parlare con me potesse arrecarti chissà quale danno. « Secondo questa logica tu hai accettato di vedermi per portarmi l'elemosina no? » È questo ciò che siamo diventati? Al solo pensiero provò un senso di vertigine e nausea. La loro intimità era sempre stato un momento bello, qualcosa in cui entrambi si erano abbandonati e a cui si erano aggrappati con le unghie e i denti. Insieme avevano imparato a conoscersi, a capire l'altro. Aveva fatto piccoli passi, ma in quell'unione Mia e Raiden ci avevano lasciato tutto, si erano abbandonati lasciandosi cullare l'uno dalle braccia dell'altro. « Ti è passato per la testa che magari ne avevo solo bisogno - » Sbottò di colpo senza neanche darsi il tempo di commisurare le proprie parole. Si sentì mortificata nel dover esprimere quelle cose, specialmente alla luce del rifiuto. Ecco, ora sembra che sono cui solo perché volevo scopare. Ora faccio schifo. Mi faccio schifo. E tu ne sei disgustato. È evidente. Gli occhi le bruciavano; c'era un senso di umiliazione nel doversi esprimere in quei termini. Ammettere che avrebbe semplicemente voluto sentirsi di nuovo vicina a lui. « - come - come tu vuoi esserci. » Perché in fondo l'offerta di lui era semplicemente un bisogno spasmodico di sentirsi parte di quella famiglia. Sentire di poter ancora provvedere, di essere ancora in grado di offrire a suo figlio e alla moglie una rete di supporto. Non c'era niente di male in questo, e Mia, non avrebbe mai potuto negargli questo. Lo conosceva sufficientemente da sapere che per lui era importante. Ma anche per me è importante aiutarti. Farti stare bene. Darti almeno un po' di sollievo. Ricordarti che ti amo. Era l'unica cosa che potesse fare in quel momento storico, e il fatto che glielo stesse negando, era a dir poco doloroso. Dimmi cosa posso fare, a questo punto. Non vuoi parlare, non vuoi scopare.. non posso sapere dove sei, cosa fai, non posso sapere se sei davvero al sicuro, non posso aiutarti, non posso consolarti, non posso nemmeno vederti - io, cosa cazzo posso fare, Raiden? Niente. Era questo il messaggio di fondo.
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    « Non importa. » Disse solo, dopo una lunga pausa. Avrebbe voluto dirgli tante cose. In quel frangente però, ogni parola, ogni pensiero, sembrò morire sul nascere, non riuscendo a fronteggiare tanto l'impotenza di non riuscire a fare nulla per migliorare la situazione, quanto l'umiliazione che si sentiva addosso. Non riusciva ad ammettere quanto si vergognasse di quanto successo, né dei pensieri che ne scaturivano, e così, seppur volesse scappare, non aveva il coraggio di fare neanche questo. Era pur sempre Raiden, e non lo vedeva da troppo tempo. Quando lo avrebbe rivisto? Se ne sarebbe pentita di non aver approfittato di quel momento? Anche solo per non dirsi niente. Così, fece l'unica cosa che in quel momento le venne in mente. Prese uno dei piattini di plastica che aveva portato e prese un po' delle cose che aveva portato, raggiungendo il telecomando per far partire la TV. Nell'intervallo che seguì, le immagini si susseguirono senza che le guardasse veramente. Se ne stava semplicemente lì, in quella tristezza, seduta accanto a lui senza dire niente, sgranocchiando svogliatamente qualcosa senza avere veramente fame, giusto per tenere le mani impegnante in qualche maniera. Le immagini si susseguivano, ed erano un semplice via vai senza senso. Una pubblicità di un'agenzia immobiliare, la nuova catena di fast food, la nuova tecnologia di filo interdentale. E poi quella soap opera british senza senso, brutta da morire. Una replica che doveva risalire come minimo agli anni '80. Si spostò dalla sua posizione solo quando l'allarme sul cellulare suonò. « Tra poco passa il notturno. » Un modo come un altro per dire che era tempo di andare. E in effetti, poco dopo, ripulita la stanza per bene, in silenzio, tentando in tutti i modi di non intralciarsi, e riconsegnate le chiavi, si ritrovarono in strada. Mia si mise lo zaino su una spalla, stringendosi nella calda felpa - un ricordo di Raiden, a dirla tutta - un po' in difficoltà. Si accese una sigaretta e gli allungò la busta con il cibo rimasto. « Tieni. Portateli a casa. Io posso farne sempre altri. » A meno che non pensi che pure questa è pieta. In fondo aveva portato quel cibo per lui. Non sapendo cosa mangiasse, aveva pensato che qualcosa di casalingo gli avrebbe fatto piacere. A Raiden piaceva tanto mangiare, e insieme amavano trattarsi bene in merito. Per qualche istante rimase lì in mezzo al parcheggio, stringendosi nelle spalle. I casinari di prima avevano da tempo cambiato rotta, e ora il parcheggio era completamente deserto. Si accese una sigaretta e gli gettò un veloce sguardo, prima di tornare a guardare altrove. « Mi puoi dare un passaggio fino alla fermata? Sennò me la faccio a piedi. » Come era già accaduto all'andata. In cuor suo, nonostante tutto, tentava di allungare il più possibile il momento della separazione. Oppure cercava un pretesto per non andarsene affatto. Per chiarire. Per dirsi finalmente di voler rimanere insieme. « È quella che va al centro. Poi devo cambiare. È pochissimo da qui.. boh io a piedi ci avrò messo un quarto d'ora. » Pausa. « Però - non sentirti obbligato.. se non riesci. » Dimmi di scappare. Dimmi di andare a prendere Haru e i cuccioli e venire con te. Dimmi che non dicevi sul serio. Che possiamo essere ancora una famiglia. Da stasera. Non tra una settimana, o un mese, o un anno. Da stasera. « Cioè, lo capisco.. se non riesci. » Ma la verità è che Mia non capiva più niente, e all'idea che a breve doveva separarsene, sembrava se possibile ancora più incline a capire qualcosa.



     
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    « Eppure io un po' di pietà la vorrei.. » Dire che si sentisse in colpa sarebbe stato un eufemismo. Sapeva bene di essersi comportato come un perfetto stronzo, mortificandola semplicemente per proteggere il proprio orgoglio ai suoi occhi. Alla fine ci era arrivato, ad usare quegli stessi meccanismi che aveva sempre odiato vedere nei suoi colleghi in Giappone. Stupidamente si era sempre sentito un po' al di sopra di loro, come se la sua statura morale si ergesse superiore rispetto ai loro modi rozzi; in realtà non era diverso, ma forse gli ci era solo voluto più tempo per raggiugere il punto di rottura necessario a fare quella scelta. Tra ferire Mia e ferire il proprio orgoglio, Raiden aveva optato per la prima, e lo aveva fatto deliberatamente, venendo già meno alla prima promessa che le aveva fatto: prendersi sempre cura di lei. Ma se sapessi la verità non me lo lasceresti più fare. Non avrei più alcuna credibilità ai tuoi occhi. "Va tutto bene Raiden, ti amo lo stesso, sei comunque il mio uomo" - mi diresti questo, ne sono sicuro, ma non ci crederesti nemmeno tu. Raiden di questo ne era convinto: non aveva mai creduto nella narrativa che andava di moda, quella secondo la quale per un uomo non ci fosse nulla di male nel mostrarsi vulnerabile di fronte a una donna. Sapeva che Mia la pensasse così, ma era facile crederlo su base retorica, quando non ti trovi veramente nella situazione di stare accanto a qualcuno che credevi forte ma non lo è affatto. « Se anche fosse stata pietà - e non lo era.. che male c'è nell'accettare un po' di aiuto? » Scosse il capo, sbuffando un soffio amaro. « Aiuto. Wow, un termine più umiliante per descrivere la nostra vita sessuale non potevi proprio trovarlo. » E per quanto la strada che li aveva condotti a quel discorso fosse basata su una menzogna, quelle parole rispecchiavano comunque ciò che pensava. Non voleva che la loro intimità fosse basata su quello, che fosse una questione di aiutarsi a vicenda. « Ti fa suonare proprio.. entusiasta. » « Secondo questa logica tu hai accettato di vedermi per portarmi l'elemosina no? » « Non è la stessa cosa, Mia. Haru è anche mio figlio, ho delle responsabilità nei suoi confronti. » Le due cose, a parer suo, non potevano essere nemmeno lontanamente paragonabili. Sostenere la propria famiglia era un dovere, mentre andare a letto insieme non lo era né tantomeno doveva esserlo. Guarda tu se in realtà con questa cosa della pietà ci ho malauguratamente preso. Prendeva le parole di Mia come una conferma di ciò che già pensava: un allontanamento, una progressiva discesa dell'opinione che aveva di lui e un calo dell'effettiva attrazione che provava. Come poteva essere altrimenti, d'altronde? « Ti è passato per la testa che magari ne avevo solo bisogno - come - come tu vuoi esserci. » « Sì ma io non ti umilio per esserci. » sbottò di scatto, rivolgendole un'occhiata colma di livore. In cuor suo, quando aveva ingiustamente spostato la colpa su di lei, Raiden aveva sperato di aver torto. Aveva sperato che, almeno per il momento, Mia lo guardasse ancora con gli stessi occhi di prima - d'altronde era proprio ciò che tentava disperatamente di conservare. Ma forse non hai bisogno di alcuna conferma per sapere come stanno le cose. Riesci a percepirlo. Una parte di te, istintivamente, fiuta questa debolezza. E di conseguenza, almeno secondo la sua logica, ogni tipo di sex appeal che poteva aver avuto in precedenza si stava velocemente esaurendo, suscitando solo pietà in Mia - il primo passo verso il ribrezzo. « Non importa. » Già. Non importa. Distolse lo sguardo, rimanendo in silenzio mentre lei accendeva la televisione. I suoi occhi rimanevano puntati sulle schermo, seguendo distrattamente il movimento delle immagini senza tuttavia prestargli davvero attenzione. Tutti i suoi pensieri erano concentrati sulla frustrazione che provava, sull'amarezza, sull'ossessione di non essere abbastanza; non abbastanza forte, non abbastanza affidabile, non abbastanza solido né abbastanza attraente. Rimuginava morbosamente, scendendo a spirale in quelle insicurezze che mai prima di ora aveva sentito così predominanti. Certo, c'erano stati momenti in cui aveva percepito in sé quelle problematiche, ma aveva sempre avuto un modo piuttosto lucido di affrontarle: rimboccandosi le maniche per creare la propria stessa fortuna. Ma adesso questo non poteva farlo: poteva solo subire gli eventi e sperare di uscirne intero. Non c'era nulla che potesse fare per riprendere controllo sulla sua vita, né tanto meno per invertire la rotta del modo in cui credeva che Mia lo percepisse. E più ci pensava, più quelle cose diventavano reali e impossibili da risolvere, affondando le loro unghie nel suo animo. Di tanto in tanto osservava Mia con la coda dell'occhio, senza farsi notare, chiedendosi a cosa stesse pensando in quel momento. Si era pentita di andare fin lì per rivederlo? Provava rimorso all'idea di aver puntato così ciecamente su un uomo che non conosceva abbastanza bene, legando a lui la propria vita? Voleva andarsene? A tutti quei dubbi, Raiden non aveva il coraggio di dar voce. Non voleva chiederle cosa pensasse per paura di una risposta sincera, di sentirle scandire a chiare parole il suo fallimento come marito, come padre e soprattutto come uomo. Così rimase in silenzio, aspettando fin quando non fu semplicemente troppo tardi per mettere una pezza al disastro creato. « Tra poco passa il notturno. » Annuì, senza proferire parola, ma limitandosi solo a ingoiare il rospo della consapevolezza di aver rovinato una serata che aveva atteso e desiderato così tanto. Nel silenzio l'aveva aiutata a ripulire la stanza,
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    proponendosi poi di fare il check-out per impegnare quei minuti di solitudine in qualcosa che potesse distrarlo anche solo un po' dalla tristezza che si sentiva addosso. « Tieni. Portateli a casa. Io posso farne sempre altri. » « Grazie. » disse piatto, avvolgendosi il manico della busta intorno al pugno per tenerla più salda. La guardò in silenzio per un istante, fissando la punta illuminata della sigaretta accesa. Hai ripreso. Lo pensò, ma non disse nulla, consapevole di non averne alcun diritto, sebbene in cuor proprio gli dispiacesse. « Mi puoi dare un passaggio fino alla fermata? Sennò me la faccio a piedi. È quella che va al centro. Poi devo cambiare. È pochissimo da qui.. boh io a piedi ci avrò messo un quarto d'ora. Però - non sentirti obbligato.. se non riesci. Cioè, lo capisco.. se non riesci. » Annuì e scosse il capo nello stesso movimento. « No ma certo, non ti preoccupare. Posso portarti anche più vicino. » Fece una pausa. « Beh, non alle porte del ghetto. Però insomma, dove ti fa più comodo. Non è sicuro prendere i mezzi da sola a quest'ora.. anche se puoi difenderti. » Sempre meglio prevenire che curare, credo. Rimase in silenzio per qualche istante, fissandola titubante prima di farle cenno col capo in direzione della macchina. « Vieni, dai. » le rivolse quell'invito con un tono più dolce, avviandosi in direzione della vettura decisamente patetica. Non ne commentò lo stato, limitandosi ad aprirle la portiera e farla sedere prima di fare il giro, lasciare la busta del cibo nel portabagagli pieno di oggetti dubbi, e prendere in seguito posto dal lato del conducente. A giudicare dall'odore di sigarette e arbre magique doveva essere piuttosto lampante che quella macchina non fosse di sua proprietà, ma forse bastava anche solo una veloce occhiata nell'abitacolo per capirlo. Non appena inserì la chiave, la radio partì sull'unica stazione che sembrava riuscire a prendere - un canale che passava vecchi successi ad oltranza, reggendosi probabilmente sui pochi ascolti di qualche nostalgico e sul fatto che i numerosi utilizzatori di quella vettura non potessero cambiare stazione. « Qual è il punto sicuro più vicino al ghetto? » fu quella la sua ultima domanda prima di svoltare fuori dal parcheggio, immergendosi nelle strade poco trafficate della periferia londinese. Nel tragitto, lo sguardo di Raiden correva di tanto in tanto a Mia attraverso lo specchietto, lanciando a tratti qualche occhiata di sbieco al cassetto di fronte al sedile del passeggero per accertarsi che fosse ben chiuso. Giunti a destinazione, il giapponese accostò in un punto più isolato della strada, spegnendo il motore. Per qualche istante non disse nulla, tamburellando con le dita sul volante forse nella speranza di prendere più tempo e rimandare l'inevitabile. Non voleva che se ne andasse, ma allo stesso tempo sapeva di non poterla trattenere. Fu tuttavia solo quando la mora accennò ad uscire dalla macchina che quel panico salì in superficie, portandolo a scattare velocemente per fermarla, afferrandole il polso in una presa delicata ma comunque decisa. « Mia.. » si arrestò, rendendosi conto di non aver agito prima di pensare a cosa dirle. « ..aspetta. » Un altro modo per prendere tempo, per rimandare, forse per pensare a qualcosa di convincente che potesse riparare anche solo un po' al casino che aveva creato. Gli occhi del moro rimasero per qualche istante fissi sulla stretta delle loro mani, mentre il pollice disegnava piccoli cerchi sul dorso di lei. Sospirò, trovando infine il coraggio di sollevare lo sguardo in quello di Mia. « Mi dispiace. Sono stato brusco.. prima. » E ho rovinato tutto. Come faccio sempre. Immagino di essere bravo solo quando le cose vanno bene. E questo la dice lunga. Il suo tono era basso, ma sincero, per quel che valeva. « Non volevo ferirti. » Ma? Che scusa poteva darle? Non voleva dirle la verità, non voleva mostrarsi debole e non voleva nemmeno darle modo di vedere quanto poco controllo avesse in realtà sulla propria situazione. « Sono stato stupido e ho pensato che quando ci saremmo rivisti sarebbe stato tutto come prima. Ma non lo è. Non poteva esserlo. » O almeno io non ci riesco a fingere che lo sia, che si possa mettere in scena per qualche ora una normalità che chiaramente non esiste più. E le ragioni per cui non ci riusciva erano le stesse di cui non aveva intenzione di parlare. « Però ti amo. Ti amo tantissimo. Sempre. » I think about you everyday and it hurts so much knowing I'll get back to an empty house. It's so fucking lonely without you. I don't like the way it affects me. And now it's affecting you too. Sospirò, ingoiando quella tristezza nel tentativo di rimanere forte sufficientemente a lungo da non scoppiare a piangere. Prese un profondo respiro, avvicinandosi di più per prendere il viso di lei tra le proprie mani, appoggiando la fronte alla sua. I'll get out of this mess. I promise you. I don't care what it takes, I'll find a way out and be the man you deserve. « Non posso chiederti di non essere arrabbiata con me, ma per piacere.. credimi anche stavolta. » Perché quella era la stessa promessa che le aveva già fatto anni prima, quando alle costole aveva i sicari giapponesi. Certo, questa volta non aveva le stesse possibilità per rifugiarsi, ma se ne era uscito una volta poteva farlo di nuovo, anche a costo di spargere il triplo del sangue e accumulare altri cadaveri sulla sua strada. Sulla scia di quella promessa, le labbra di Raiden si sigillarono su quelle di Mia, gli occhi serrati nel disperato tentativo di chiudere fuori la realtà di quello che era a tutti gli effetti un ultimo bacio prima che le loro strade si separassero di nuovo. Le dita del giovane si insinuarono tra i capelli di lei, sorreggendole la nuca nell'attirarla più vicina a sé mentre la lingua si intrufolava tra le sue labbra, cercando la sua gemella per avvolgerla in un abbraccio caldo e morboso.

     
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