Se qualcuno glielo avesse chiesto agli esordi della sua carriera universitaria, Ava Davis avrebbe dipinto per sé un futuro parecchio diverso da quello che si era alla fine trovata a fronteggiare. Quando aveva intrapreso il suo percorso tra le file dei futuri Auror, aveva immaginato che, a quel punto della propria storia personale, avrebbe quantomeno iniziato a fare carriera. In linea prettamente teorica, quello sarebbe dovuto essere il punto dove aveva appena smesso col periodo di gavetta (o dove, perlomeno, fosse sul punto di farlo) e veniva avviata a svolgere compiti più esaltanti, per quanto ancora di routine. La Davis aveva sempre voluto fare quello - l'Auror. Da piccolina era stato molto semplice: aveva associato le forze dell'ordine, in un paradigma molto lineare, alle persone che facevano rispettare le leggi e si occupavano di riacciuffare coloro i quali mancavano di farlo. Andando avanti, per quanto la definizione del suo compito futuro avesse acquisito livelli di complessità - ed il lavoro in sé avesse perduto quella visione idealizzata tipicamente bambinesca - la convinzione si era soltanto consolidata. La Davis era prestante a livello fisico, aveva un background di arti marziali ed era versata nei duelli; si sentiva anche - forse con una punta di presunzione - abbastanza giusta da non rischiare di abusare del proprio potere. E se la sua intelligenza cinestetica avrebbe potuto garantirle un futuro nello sport, era anche conscia che non l'appassionasse a sufficienza da volerne fare un lavoro. Poi, convinta com'era che il secondo fosse solo il primo dei perdenti, dubitava di essere fatta per lo sport agonistico. Non solo quello: difficilmente avrebbe vissuto bene, se nello sport non si fosse fatta un nome. Quindi quella del Corso Auror, le era infine sembrata la strada più ovvia. Mai avrebbe immaginato che, fresca di laurea - ed in realtà prima ancora di laurearsi - sarebbe arrivata a provare una repulsione viscerale per i propri colleghi. Ma il mondo non era tutto rosa e fiori; soprattutto, forse, non tutti avevano approcciato la scelta della propria futura carriera col medesimo criterio, per cui era stato inevitabile. Così come lo era stato anche assumersi la responsabilità delle proprie scelte. Scelte che l'avevano portata ad Iron Garden. E se c'era un luogo che urlava "un nome, un programma" era proprio quello. La Davis - che era nata e cresciuta negli States, e nemmeno in una città imborghesita - aveva raramente visto un simile livello di degrado. A New York esistevano, chiaramente, zone meno curate di altre, ma un tale stato di incuria poteva significare soltanto una cosa: la volontà di lasciare quel luogo esattamente com'era perché, evidentemente, era destinato a quella fetta di comunità di cui non importava a nessuno. Sarebbe stato impossibile scollarla dalla convinzione che la condizione in cui versava quel quartiere non fosse altro che una presa di posizione da parte del Ministero della Magia britannico.
Ci stanno implicitamente punendo; abbiamo un tetto sopra la testa, ma questo tetto rischia metaforicamente di crollare ogni tre per due. Sì, Iron Garden faceva davvero schifo. Era grigio e fatiscente e metteva una discreta tristezza. Eppure la Davis era andata a viverci comunque. Probabilmente, se avesse deciso di passare dall'altra parte in un momento di psicosi, l'avrebbero anche accettata - i voltagabbana erano sempre esistiti - ma non se l'era sentita.
Preferisco lo squallore alla coscienza sporca. E così, agli ex colleghi del Corso Auror dall'altra parte della barricata, che aveva talvolta incrociato per le strade e che l'avevano guardata con una certa pena, la mora non aveva mai dato corda.
Spero dormiate bene la notte, aveva soltanto pensato.
Era in pausa pranzo, quel giorno. Incominciava già a fare freddo - era autunno inoltrato d'altra parte - ma la giornata stranamente soleggiata, l'aveva spinta a non consumare il proprio pasto al chiuso. Anche perché, nonostante tutti gli sforzi di chi ci lavorava, quegli ambienti erano non soltanto tristi, ma avevano anche un odore che più che conciliare la fame, la facevano passare in men che non si dica. Certo, anche il parco non era il massimo, ma sempre meglio che stare al chiuso. Si era seduta cautamente su di una vecchia giostrina per bambini, palesemente malandata e pericolante, quando sentì un rumore alle proprie spalle. Le venne naturale voltarsi per individuarne la fonte. Non si sorprese di veder apparire la figura familiare di Malia. Non si era nemmeno sorpresa, in effetti, di scoprire che anche lei avesse deciso di trasferirsi ad Iron Garden. Sollevò il braccio per attirare la sua attenzione:
« Hey, Stone! » Le rivolse un mezzo sorriso.
« Stai lavorando o puoi fermarti un attimo? » Una breve pausa in cui esaminò l'area circostante - a parte qualche abitante del ghetto poco lontano, nessuno della sorveglianza sembrava essere in vista.
« Se vuoi ho dei panini. La mensa non era granché, per cui ti consiglierei di accettare la mia offerta finché è valida. »