Seeds of Kindness

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    Era stata una delle prime a presentarsi ad Iron Garden. In molti lo chiamavano già con il suo vero nome: il quartiere "ghetto" delle creature. Alla giovane Yagami, però, poco importava come si chiamasse o dove si trovasse. Ovunque fosse, era lontano da Raiden. Ogni giorno, ogni ora, ogni momento, non faceva altro che chiedersi dove fosse diretto suo marito e cosa stesse facendo. E ora dov'è? L'istinto di tirare fuori quel cellulare scaccio da sotto le assi del pavimento per mandargli un messaggio era fortissimo, ma ogni volta si tratteneva. Chissà come ci spiano qui dentro. Eppure le mancava. Le mancava sempre di più man mano che le giornate passavano. Nonostante avesse trovato la forza di alzarsi dal pavimento del suo bagno per compilare i moduli di ammissione e traslocare in quel luogo altro, la sua mente era spenta. Come spento era il suo desiderio di vivere. L'arrivo di Ronnie l'aveva leggermente rimessa in piedi. Erano riuscite ad ottenere la residenza congiunta nello stesso appartamento - uno scantinato tanto spazioso quanto ammuffito e rimangiato dalle sterpaglie. Poco male. Dopo aver ripulito la stanza in cui Haru avrebbe dormito insieme a Mia, si erano dedicate a tutto il resto. La stanza di Ronnie e piano piano il salottino con cucinotto a vista e il bagno. Alla fine le giornate erano semplicemente iniziate a scorre. Il tempo aveva cominciato a peggiorare. A Londra faceva decisamente meno freddo che nelle Highlands, ma l'umidità era nettamente peggiore, tant'è che Ronnie e Mia avevano già fatto i conti con la probabilità di combattere con la muffa per tutto l'inverno. C'era di peggio nella vita, purché non mettesse in pericolo Haru. E di questo, Mia se ne sarebbe accertata. Poi erano arrivate le sfide del lavoro. La paga contenuta; le giornate infinite a raccogliere immondizia nei capannoni abbandonati che sarebbero diventati, forse, un giorno, qualcosa per la comunità. E poi gli interrogatori. Una, due, tre volte. Le chiedevano sempre la stessa cosa. Se avesse contatti con i ricercati, se suo marito avesse tentato di contattarla, se stesse partecipando a una qualche forma di associazione clandestina. La sua risposta erano sempre no. E non mentiva. Forse nessuno ci credeva fino in fondo, ma Mia non aveva assolutamente nessuna informazione da dare loro. « Ti chiami Mia, giusto? Mia - la tua vita sarebbe mooolto più facile se potessi darci una mano. Hai un bambino piccolo vero? » L'uomo prese il fascicolo ricercando velocemente le informazioni che lo interessavano. « Haru. La vita di Haru sarebbe molto più semplice. Ogni informazione utile potrebbe migliorare molto la tua posizione e quella di Haru. » Mia lo osservò con grandi occhi disorientati. « Mi sta chiedendo se ho informazioni utili alle indagini sul conto di mio marito, oppure se sono disposta a venderlo per vivere una vita migliore? » Tratteneva le lacrime a stento. Voleva piangere. Urlare. Certo, anche altre volte erano stati aggressivi. Ma mai così tanto. Evidentemente più il tempo passava, più le probabilità che i ricercati facessero perdere le proprie tracce erano alte. L'uomo la osservò con un'espressione eloquente senza dire assolutamente niente. « Lo ripeterò ancora una volta. » Come un mantra. Una lezione che avrebbe continuato a ripetere finché fosse necessario. « Non ho alcuna informazione utile per queste indagini. » Ripetere tutto ciò che aveva già detto sarebbe stato inutile. Entrava in quelle stanze con il timore di dire sempre qualcosa di sbagliato. Di mettere in difficoltà gli warlock o i suoi stessi compagni. Così, preferiva la via più facile, seppur sapesse non fosse il modo migliore per eliminare i sospetti sul suo conto. Che cosa avrebbe potuto fare d'altronde?
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    L'avevano quindi lasciata andare; una camminata della vergogna lungo un corridoio sul quale diversi sguardi sospettosi si erano affacciati, quasi sperassero potesse fare qualunque cosa che tradisse la sua posizione. Tutti volevano quella taglia. Dieci mila galeoni non erano certo uno scherzo. Ho visto gente vendere la propria madre per molto meno. Prima di lasciare il vecchio palazzo in cui gli Auror assegnati ad Iron Garden si erano stabiliti, incontrò lo sguardo di Kai che l'aspettava all'uscita. Non la fermò; piuttosto, si portò la sigaretta alle labbra guardando altrove, asserendo sotto voce. « Domani sera. Alle undici in punto. » La mora dal canto suo non aveva detto niente, remando avanti con un macigno nello stomaco. Era già la terza volta che partecipava al Pulse. Dire che fosse stata propriamente una scelta era errato. Ma a quel punto, lasciato il quartiere una volta di notte, si era ritrovata in un meccanismo malavitoso dal quale non sapeva esattamente come uscire senza mettere in pericolo se stessa o Haru. Aveva bisogno di contati, e subito. Voleva comprare un lettino per il suo cucciolo. Poi, era andato tutto a rotoli. Mia aveva avuto talmente tanto successo che la seconda volta, gli incontri erano diventati un imperativo. Se non ci vieni, potresti avere problemi, Wallace. Ricordati che uscire dopo il coprifuoco è una diretta violazione delle regole. E poi sono bei soldi. Soldi facili. Sporchi, sì. Facili, mai. « Che hanno detto? » Mia aveva accolto il suo piccolo con un grosso sorriso riempiendolo di baci, osservando Eriko con un'espressione seccata. « Le solite cose. Non hanno la più pallida idea di dove si trovino, quindi stanno cercando di fare leva su di noi. » « Maledette sanguisughe. » Non aveva tutti i torti, la giovane Yagami. Semmai, Mia condivideva pienamente la sua rabbia e frustrazione. « Comunque, vado al lavoro. Hanno approvato il progetto delle serre quindi mi sono offerta volontaria. Almeno nei giorni liberi alzo un po' di più. » E poi hai sentito. Il lavoro nobilita ad Iron Garden. Era questa la strategia di Mia. Spaccarsi le ossa di giorno e di notte a testa bassa. Finché sarebbe stato necessario. Finché non fosse stato il momento di andare. Perché lei, da quel posto, se ne sarebbe andata. « Io sono giù vicino al porto. Lavoro nell'officina di Harlow. Stanno cercando di sistemare delle macchine più potenti per purificare l'acqua. Buona fortuna. » « Anche a te. » Faceva strano vedere così Mia ed Eriko così. Stranamente rassegnate, ma non davvero, non fino in fondo. « Mia.. se avete bisogno di qualcosa.. » L'ex Serpeverde sorrise, ma a quel punto nessuna delle due disse più niente. Era evidente che Eriko non stesse lavorando a macchine per la purificazione dell'acqua, tanto quanto era chiaro che Mia non stesse mantenendo un figlio solo con le pulizie delle strade. Immagino che facciamo un po' tutti quello che possiamo per sopravvivere. E per non impazzire. [...] Era quindi corsa alle serre nella parte Nord del quartiere, non senza attirarsi qualche sguardo torvo. Chi, tra quelle persone, era stata costretta da quelle parti senza mai aver avuto contatti con Inverness, non sentiva alcun tipo di lealtà nei confronti di persone come Mia. E così, la giovane Yagami doveva guardarsi le spalle anche da tante delle persone presenti nel quartiere. Le voci da quelle parti si spargevano abbastanza in fretta, e per quanto gli Auror continuassero a chiamarla col suo cognome da nubile, ci era voluto davvero poco prima che la voce sulla sua vera identità si spargesse. La moglie di un ricercato nel ghetto rappresentava una possibilità; di arricchirsi, di uscire da lì dentro, di ottenere favori. Un passo falso sarebbe stato sufficiente affinché quelle persone decidessero che Mia nascondeva qualcosa. Mi darebbero in pasto ai cani se potessero. Per dieci mila galeoni e una vita fuori da qui dentro, forse lo farebbe chiunque. Non a caso, Mia non perdeva mai di vista Haru. Se a tenerlo non erano le persone di cui si fidava - Ronnie o Eriko - non lo lasciava mai. E infatti, quel giorno, quando si presentò in quella che sarebbe, forse, diventata un giorno una grande serra, Mia non lo fece da sola. Si guardò attorno tra le sterpaglie alla ricerca di Galathéa Durand, con Haru ben stretto per la manina, finché, in fondo al secondo padiglione che attraversò, non individuò una figura femminile dai capelli scuri. Il bimbo emise alcuni suoni di gaudio, prima di alzare le manine in direzione di Mia col chiaro intento di farsi prendere in braccio. Non era molto a suo agio tra gli estranei, specialmente da quando aveva cambiato completamente le sue abitudini. « Galathéa? » Allungò una mano in direzione della mora sorridendo, prima di rimettere Haru a terra e togliersi lo zaino dalle spalle. « Sono Mia. Ho visto l'annuncio sull'apertura delle serre in bacheca e mi sono fatta fare il permesso per prestare qualche ora di lavoro qui. » Le allungò il foglio firmato dalle autorità responsabili del lavoro nel quartiere per poi stringersi nelle spalle. « Spero non ti dispiaccia.. uhm.. lui è Haru. Mio figlio. » Pausa. « Purtroppo un asilo ancora non esiste e lui non ama molto stare senza di me. » Sarebbe più adatto dire che è traumatizzato da quando non vive più a casa sua, con i suoi genitori e tutta la sua famiglia. Rimase per qualche istante in silenzio, tempo in cui tentò di misurare le proprie parole, nel caso avesse cominciato col piede sbagliato. « Mi dispiace per il ritardo. Non succederà più. Mi hanno trattenuto per un interrogatorio. » Storse il naso, rivolgendo un piccolo sorriso in direzione del piccolo, i cui occhioni grandi osservavano ogni dettaglio di quel luogo ancora spoglio con grande curiosità. « L'ennesimo. » E chissà quante altre volte succederà. « Però lavoro sodo e ho un po' di esperienza con le piante. Mio padre - mio padre aveva un grande orto, quindi conosco un po' queste cose. Tipo. Quindi ecco.. - non buttarmi fuori, per favore. Il lavoro mi serve davvero tanto. » Forse un giorno avrebbe anche potuto smettere di farsi riempire di botte, di implorare per qualche ora di lavoro in più, avrebbe potuto portare Haru da qualche parte per il suo compleanno, e la sua vita sarebbe stata diversa. Ma questo non era uno di quei giorni. Ad Iron Garden il lavoro nobilita. E corrode. Corrode l'anima soprattutto. « Sono disposta a fare tutto. » Rimase ancora una volta in silenzio, sperando di non aver bombardato la giovane con troppe informazioni. Prese a guardarsi a propria volta attorno ispirando profondamente. C'era tanto lavoro da fare. Quel posto sembrava più un cumulo di rottami ed erbacce, più che una serra. Però, ha del potenziale. « Mi piace comunque.. è un bel posto. Silenzioso soprattutto. Un lusso praticamente con tutto il casino che c'è nella parte abitata. » Gente che si lamenta e litiga tutti i giorni. Un grande, complesso alveare fatto di personalità che forse non avrebbero mai dovuto vivere a contatto in maniera permanente.


     
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    Il mattino ad Iron Garden era avvolto da una spessa coltre di nebbia, specialmente in quel periodo dell'anno, come presto avrebbe appreso Galathéa. Uscire di casa prima dell'alba significava affrontare il freddo pungente dei primi giorni di autunno, un autunno che in realtà era arrivato piuttosto in ritardo rispetto al solito, o quantomeno rispetto alle temperature a cui gli ex abitanti di Inverness e delle Highlands scozzesi erano abituati, a quel punto. Avvolta nel proprio cappotto verde foresta, Galathéa percorreva a piedi la strada dal complesso di appartamenti fatiscente in cui abitava fino alla fabbrica dismessa, una grossa sciarpa sui toni del cremisi a coprirle la bocca; gliel'aveva regalata la madre, anni prima, che gliel'aveva intessuta a maglia, un pattern facile da seguire a sua detta, non aveva avuto bisogno di ricorrere alla magia. Camille avrebbe voluto che sua figlia ereditasse la sua pazienza e quella propensione materna alla creazione di cose calde, che prendevano la forma di dolci sfornati e profumati o indumenti per proteggere dall'inverno; era chiaro, adesso, che Théa non sarebbe mai diventata quel tipo di donna, e di questo si sarebbe sempre un po' rammaricata, non tanto perché desiderasse diventarlo quanto perché sapeva che per la madre sarebbe stato più bello avere una figlia con cui condividere la propria natura accudente, invece di doversi sforzare per accettare e comprendere la sua natura fredda, scostante, introversa e spinosa. Comunque, non era vero che Théa ne fosse sprovvista, di una certa quantità di tenerezza, ma come spesso accade intraprendeva canali diversi da quelli materni, più celati, forse, sentieri più intricati.
    Tutta quella nebbia era causata dall'umidità. I capelli scuri di Théa si arricciavano puntualmente a contatto con la rugiada mattutina, e quando arrivava a lavoro, il naso e le guance arrossate dall'aria fredda, aveva l'aspetto molto più trasandato di quando era uscita di casa, sebbene non avesse mai prestato particolare attenzione alla necessità di apparire sistemata. Tanto più da quando le avevano dato in gestione la serra, poi, in cui aveva passato ore a estirpare erbacce e alzare mattonelle. Aveva fatto richiesta per quella particolare struttura neanche due giorni dopo essersi sistemata ad Iron Garden, perché l'idea di lasciare che le assegnassero un incarico casuale, magari pure a contatto con dei bambini, l'aveva terrorizzata a tal punto da presentarsi lei stessa all'ufficio di collocamento – o meglio, lo stanzino adiacente alle celle e agli uffici dove svolgevano gli interrogatori – con un progetto di rinnovamento dell'ex polverificio, poi divenuto fabbrica di tabacco, per realizzarvi una serra funzionante al 100%, capace di produrre beni di prima necessità per l'intera comunità di Iron Garden. Che a Londra permettessero un simile auto-sostentamento l'aveva sinceramente sorpresa, in un primo momento, prima di rendersi conto che con una serra, per quanto grande e ben tenuta, si può provvedere ad un approvvigionamento piuttosto limitato e che comunque gli abitanti del ghetto avrebbero mantenuto un certo grado di dipendenza dal governo per i rifornimenti di carne, pesce, uova e derivati animali. «E per quanto vorremmo che i film diventassero realtà, sappiamo tutti che i vampiri non hanno esattamente la possibilità di scegliere una dieta vegetariana, per cui rimarrà una fetta della popolazione il cui fabbisogno nutrizionale rimarrà nelle mani di Londra – insieme a tutti gli altri.» Aveva commentato scherzando fino ad un certo punto, durante il colloquio, senza particolare sottigliezza nello svelare di aver intuito quali potessero essere le uniche, eventuali, perplessità nel concederle l'apertura di una struttura simile. «Ci sarà comunque bisogno di una supervisione del tipo di coltivazioni che potrete intraprendere. Per il controllo qualità – è chiaro.» «Non utilizzeremo pesticidi, se è questo che vi preoccupa.» Si era presa troppe libertà, in quella sede, se ne rendeva conto, ma rispondere era un istinto difficile da tenere a bada, specie quando l'interlocutore era una figura autoritaria che non meritava il suo rispetto. Ma cercò di tenere a freno la lingua, e di fingersi cretina, cosicché dovette garantire alle autorità che si sarebbe resa disponibile per dei controlli mensili una volta che l'attività fosse partita, augurandosi che questo non significasse portarle via il raccolto in eccesso, che sperava di poter rivendere al mercato o distribuire a chi non riusciva a lavorare quanto richiesto per poter sopravvivere, ad Iron Garden. Non escludeva questa possibilità, però, e da subito aveva cominciato a pensare a luoghi dove poter nascondere il surplus di coltivazioni illecite che avrebbe altrimenti dovuto dichiarare. Non le era ancora venuto in mente un modo intelligente, ma ci stava lavorando.

    Si era sfilata i guanti, aveva salutato col suo solito sorriso stretto alcuni dei collaboratori che il collocamento le aveva assegnato, ed era subito andata ad infilarsi gli scarponi da lavoro, i capelli indomabili alla fine rabboniti soltanto da una treccia. «Joe, Miles.» Si era chinata sulla sacca, che aveva appoggiato a terra, accanto al grosso tavolo che avevano posizionato al centro della struttura, con i progetti disegnati alla bell'e meglio su come avrebbero voluto ridare vita all'ex fabbrica e qualche attrezzo sparpagliato; aveva estratto un thermos tre volte la dimensione della sua faccia, e aveva versato silenziosamente due tazze di caffè fumante ai ragazzi, consegnandole loro con un «attenti, scotta». Poi aveva riempito una tazza anche per sé, e vi aveva soffiato dolcemente, tenendola tra le due mani. «Allora, com'è la situazione?» «Non ottima. L'umidità della notte, vista la prossimità all'acqua, è ottima per le future piantagioni, ma pessima per la vegetazione infestante che abbiamo cercato di rimuovere fino ad ora.»
    Aveva annuito piano. «Possiamo pensare di lasciarla dov'è.» «Stavo pensando la stessa cosa. Forse ci stiamo accanendo un po' troppo – alla fine rimuoveremmo delle piante selvatiche per mettercene altre in vaso. Non so quanto abbia senso.» disse pensierosa, prendendo un sorso di caffè deliziosamente rovente. «Galathéa?» Lei si voltò, una giovane ragazza che sarà stata di qualche anno più piccola di lei che teneva un bambino in braccio e che le porgeva la mano. Gliela strinse, poggiando momentaneamente la tazza fumante sul tavolo, la fronte corrugata sufficientemente eloquente. Poi seguì il bambino, spostando lo sguardo ora da lei e lui, ora da lui a lei. Che ci fa qui un bambino. «Sono Mia. Ho visto l'annuncio sull'apertura delle serre in bacheca e mi sono fatta fare il permesso per prestare qualche ora di lavoro qui.» «Ah! Devi essere la ragazza nuova.» Prese il foglio che Mia le porgeva senza badarci troppo, piuttosto continuando ad apparire perplessa per quello che doveva essere suo figlio. «Spero non ti dispiaccia... uhm... lui è Haru. Mio figlio.» «Già, immaginavo» commentò annuendo, grattandosi una guancia. Non era tanto il problema personale che Théa aveva con i bambini, essendo intrinsecamente incapace di interagirci, quanto piuttosto il fatto che lì non ci fosse proprio niente da far fare ad un bambino. «No, no, non mi dispiace» aggiunse con qualche secondo di ritardo, evidentemente ancora un po' pensierosa. «Purtroppo un asilo ancora non esiste e lui non ama molto stare senza di me.» Théa annui, tornando a guardarla, un sorriso tiepido che faceva capolino sul suo volto di porcellana, rosato dal freddo. «No, ma lo capisco...» Non siamo esattamente in un posto in cui esistono baby sitter, mi rendo conto. «Però io non so se può essere un po' pericoloso qui, con gli attrezzi e il terreno un po' dissestato... Ora vediamo cosa inventarci» fece, pensando ad alta voce, tentando un sorriso ad Haru, che per essere un bambino era una creatura davvero molto molto carina. «È un tipo tranquillo?» Fece, sinceramente tentando di non dare a vedere la propria inettitudine e camuffando la preoccupazione che iniziasse a frignare o sbattere i piedi o fare le cose che fanno i bambini. «Forse potrebbe aiutarci a piantare dei ravanelli, se non gli dispiace sporcarsi un po' le mani...» Si voltò, quindi, recuperando la tazza – fonte di calore – e tenendola stretta tra le mani. «Mi dispiace per il ritardo. Non succederà più. Mi hanno trattenuto per un interrogatorio. L'ennesimo.» Théa annuì, facendo roteare gli occhi al cielo. Era toccata anche a lei, per via di Eliphas; era un peccato, per loro, che poche cose al mondo fossero resistenti e tenaci quando la lealtà che la legava al warlock, che comunque non era neppure stata testata, dato che non aveva sue notizie. Chissà tu chi hai dall'altra parte. Ognuno di noi è indissolubilmente legato a qualcun altro che non tradirebbe mai e poi mai. Per il ritardo, Galathéa non ci aveva neppure fatto caso, il tempo un parametro molto poco rigido quando ne hai a bizzeffe, non avendo nient'altro da fare in un posto come il ghetto. «Però lavoro sodo e ho un po' di esperienza con le piante. Mio padre - mio padre aveva un grande orto, quindi conosco un po' queste cose. Tipo. Quindi ecco.. - non buttarmi fuori, per favore. Il lavoro mi serve davvero tanto. Sono disposta a fare tutto.» Non riuscì a trattenere uno sbuffo di risata, cogliendo che Mia stesse andando nel panico, seppure non avesse veramente compreso perché; sapeva di non avere modi particolarmente calorosi, ma si domandò se non le avesse dato l'impressione sbagliata, forse per quella faccenda del bambino, lasciandole intendere che il lavoro fosse a rischio. Inclinò la testa, poggiando una mano sull'avambraccio della ragazza, in un moto di riservata empatia di cui si era raramente testimoni. «Il posto è tutto tuo.» Fece, il tono di voce pacato e sottile. «Ti troviamo senz'altro qualcosa da fare, perché di lavoro ce n'è senz'altro.» Non doveva essere facile dover badare a sé e a un bambino così piccolo viste le condizioni di vita che venivano loro imposte in quel posto. Un po' passivamente, Théa si domandò quanti lavori dovesse aver accettato Mia per poter badare ad entrambi – quello nella serra sicuramente non le sarebbe bastato. «Ti presento agli altri, intanto. Loro sono Joe e Miles. Gli lascio fare il grosso del lavoro mentre a me spetta la parte divertente, perché sono uomini e così impone la galanteria – a cui il femminismo non si oppone, per quanto mi riguarda» scherzò, con la sua solita espressione stranamente seria anche quando faceva una battuta, rendendo difficile decodificarne l'ironia. «Ah! Ora che ci penso dovrei avere qualcosa qui in borsa...» Rovistò ancora una volta nella sacca, finché non esclamò soddisfatta, in mano un kit di acquerelli – un regalo relativamente recente di una persona più che speciale, che stava dando nelle mani di un infante che probabilmente ci avrebbe pasticciato. Esitò per una frazione di secondo, rigirandoselo tra le mani, prima di rivolgersi ad Haru, in quella posizione alla sua stessa altezza. «Ecco. Ti piace disegnare?» Provò, consegnandogli i colori e i fogli, che lui strinse nelle manine fredde. «Se ci fai qualche bel disegno poi possiamo anche appenderlo nella serra.» Ai bambini piaceva essere messi in mostra, no? Doveva aver letto qualcosa al riguardo, una volta. «Facci attenzione, però, okay? Ci tengo molto a questi acquerelli.» Lo ammonì, solitamente austera, prima di sciogliersi in un sorrisetto accennato. Joe, accanto a loro, lo guidò verso il capannone dove tenevano stipati sacchi di terra, vasi e terrarium, proprio accanto all'ingresso.
    «Invece con te – » fece tirandosi su, rivolta a Mia. «Ci vorrebbe una mano a sistemare la pavimentazione per la parte che abbiamo già ripulito dalle erbacce, lì in fondo. Possiamo farlo insieme, se ti va.» La guardò, il volto usualmente poco espressivo, e fece un cenno verso la parte posteriore dell'edificio. «Non me la cavo benissimo con gli incantesimi, per cui se sei più capace di me potremmo togliercela più velocemente e passare ad altro.» Quello era stato un limite importante, fino a quel momento; una warlock come lei aveva appreso i principali incantesimi, paradossalmente riuscendo meglio in quelli di attacco o difesa che non in semplici oggetti automoventi. Schivando più possibile detriti creati dalle mattonelle sollevate, sacchi di erbacce da gettar via e vari attrezzi da giardinaggio, Théa condusse Mia verso la porzione più ripulita della futura serra. A terra, mattonelle varie erano state disposte a formare mosaici vivaci, dalle decorazioni vagamente arabeggianti. Come se le fossero procurate era una questione su cui sperava di non ricevere troppe domande, ma è ciò che si è obbligati a fare quando i fondi per la ristrutturazione non passano direttamente dalle mani di chi finanzia alle tue, vedendoti consegnare, invece, attrezzi e materiali di base che non necessariamente erano quelli di cui avevi bisogno. Una sorta di tieni, fatteli bastare. Non era stata soltanto una faccenda estetica, per quanto quello sicuramente fosse un fattore importante di cui avrebbe voluto potersi prendere cura: voleva creare un luogo comune che fosse, per quanto possibile, una ventata d'aria fresca, desse la parvenza di poter essere un rifugio per qualcuno – ma sapeva che difficilmente chiunque si sarebbe sentito al sicuro ad Iron Garden, non importava quanto fossero gradevoli le mattonelle o il colore delle pareti. «Mi piace comunque.. è un bel posto. Silenzioso soprattutto. Un lusso praticamente con tutto il casino che c'è nella parte abitata.» «Vero? Sono assolutamente d'accordo» Fece, guardandosi attorno, le mani sui fianchi. «C'era bisogno di un posto così, ma pochi riescono a vederci del potenziale. Forse è che non riescono più di tanto a sperare.» L'aveva detto abbassando un po' la voce, e chinando la testa. Lo capiva, in fondo, ma capiva anche che era così che gliela davi vinta. «Non chiedermi come abbiamo fatto a procurarci delle mattonelle e a concederci il lusso di rifare la pavimentazione. Non avevamo molta scelta, nessuno di noi si fidava che non fosse interamente costituita da amianto.» Non si poteva mai essere troppo prudenti, anche senza necessariamente dover cadere nella paranoia che ci fosse qualche sorta di premeditazione: bastava un mancato controllo, un eccesso di noncuranza da parte di chi quei locali li aveva riempiti dei reietti della società, per finire intossicati senza che nessuno dovesse sporcarsi le mani. «Dunque! Il modello è quello lì» fece poi, indicando uno dei riquadri esagonali già composti. «Però puoi sbizzarrirti come ti pare, in realtà.» Si strinse nelle spalle, mettendosi quindi a sedere a terra, il secchio con il collante e la cazzuola in mezzo a loro due. «È per il padre? L'interrogatorio, dico» fece infine, dopo qualche secondo di silenzio, più per fare conversazione che non per ficcanasare.


    Edited by galéne - 18/10/2023, 11:43
     
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    Dopo i primi convenevoli, Mia non poté fare a meno di prestare più attenzione alla sua nuova collega - capo. Si, credo proprio che sia il capo, sempre che qualcuno sia capo di qualcosa qui dentro. Era quasi rincuorante sapere di avere qualcuno a cui rispondere; qualcuno che non fosse uno degli Auror, una persona che poteva definire una di loro. La osservò con estrema attenzione, cercando di leggere negli occhi della mora la pasta di cui era fatta. Pareva una tipa piuttosto per le sue e, avrebbe scoperto molto presto, con ben poca di dimestichezza in materia di bambini. « Però io non so se può essere un po' pericoloso qui, con gli attrezzi e il terreno un po' dissestato... Ora vediamo cosa inventarci. È un tipo tranquillo? » Ci pensò un po' su osservando il moretto con un piccolo sorriso orgoglioso. Poi, i grandi occhi curiosi della giovane Yagami tornarono sulla sua interlocutrice. Non sapeva se fosse una domanda a trabocchetto o una semplice curiosità, ma Mia non ebbe alcun tentennamento nell'annuire con convinzione. « È buonissimo, davvero. È già abituato a venire al lavoro con me, quindi non darà problemi. » Era sincera. Durante i mesi estivi appena passati, con la presenza di Misa - la fintissima quanto malintenzionata migliore amica di Raiden - in giro per casa, Mia aveva preso l'abitudine di portarsi il bimbo appresso, pur di non rischiare di trovarlo in compagnia della vipera. Forse era stata un'iniziativa un po' esagerata, e alla luce degli ultimi avvenimenti, tutti quegli scontri, le liti e le gelosie avevano ben poco senso, ma di certo avevano abituato Haru a stare al passo con giovane madre anche in situazioni abbastanza peculiari. « Forse potrebbe aiutarci a piantare dei ravanelli, se non gli dispiace sporcarsi un po' le mani.. » Haru? Rimase un po' perplessa, ma non lo diede troppo a vedere, lasciandosi piuttosto distrarre dall'ostinazione del bambino ad attaccarsi alla sua gamba. Ormai non la perdeva di vista. Lei e i pochi altri punti fermi che aveva. Era evidente che gli mancasse la sua vecchia vita, ma non c'era molto da fare se non tentare di trovare il buono in quel caotico groviglio di sventure. In ogni caso, era evidente che Galathéa sapesse poco e niente dei bambini, specialmente di quelli di un anno. Sta ancora cercando di trovare gli incastri giusti delle formine. Dubito sia in grado di piantare qualcosa. Ma sarebbe stato sicuramente divertente coinvolgerlo, seppur non fosse certa di quanto Galathéa sarebbe stata entusiasta. « Il posto è tutto tuo. Ti troviamo senz'altro qualcosa da fare, perché di lavoro ce n'è senz'altro. Ti presento agli altri, intanto. Loro sono Joe e Miles. Gli lascio fare il grosso del lavoro mentre a me spetta la parte divertente, perché sono uomini e così impone la galanteria – a cui il femminismo non si oppone, per quanto mi riguarda » Ridacchiò appena, portandosi i capelli su una spalla prima sollevare una mano salutando i due con un'espressione divertita. « Mia! Piacere. » Miles fece un leggero inchino divertito, mentre Joe la salutò portandosi le dita all'altezza della fronte per poi tornare al lavoro. Sembravano simpatici. Almeno in questo modo quel lavoro sarebbe stato tutto fuorché l'ennesima rogna. E di rogne, Mia ne aveva sin troppe. « Ah! Ora che ci penso dovrei avere qualcosa qui in borsa... Ecco. Ti piace disegnare? Se ci fai qualche bel disegno poi possiamo anche appenderlo nella serra. Facci attenzione, però, okay? Ci tengo molto a questi acquerelli. » Nel vedere comparire gli acquerelli, la giovane Yagami sgranò appena gli occhi frenando delicatamente le mani della giovane prima che potesse mettere quel prezioso pezzo tra le mani di un bambino. La intercettò prima che il bambino potesse toccarli, rendendo la situazione ingestibile, e li appoggiò sul piccolo tavolino accanto alla tazza da cui aveva sorseggiato il te fino a quel momento. « Forse è meglio evitare. Non credo che farebbero una bella fine. » Osservò il piccolo con un'espressione affettuosa, prima di lasciarlo nelle mani di uno dei compagni di lavoro. « Stai tranquilla. A casa ho ben due nani poco più grandi di lui. » Doveva effettivamente apparire un po' apprensiva quando Joe si avvicinò per condurlo verso la zona perimetrata del capannone all'entrata. « Farà il bravo anche senza. Di solito si appisola nel suo seggiolino. » Tentò così di salvare in corner la situazione; non voleva certo offendere Théa, mostrandosi poco grata nei confronti della sua gentilezza e comprensione. Doveva però ammettere che aveva trovato alquanto bizzarro vederla consegnare a un bambino così piccolo un set di acquerelli. Come minimo di quegli acquerelli non resta niente, non tanto perché li rovina. Minimo se li mangia e finisco anche con un pargolo con lo stomaco sottosopra. Nella migliore delle ipotesi. Seppur il piccolo Yagami fosse di costituzione robusta, in grado di divorarsi qualunque cosa al pari del padre, senza poi avere alcun problema, nelle condizioni in cui si trovavano, Mia tendeva a starci più attenta. Più riusciva a evitare eventuali pericoli, più la vita del piccolo sarebbe trascorsa per quanto possibile in modo sereno.
    Si lasciò quindi condurre verso il fondo del capannone, là dove le sterpaglie si diradavano, e al terriccio si univa una zona ben più ordinata dotata di una pavimentazione. « Ci vorrebbe una mano a sistemare la pavimentazione per la parte che abbiamo già ripulito dalle erbacce, lì in fondo. Possiamo farlo insieme, se ti va. Non me la cavo benissimo con gli incantesimi, per cui se sei più capace di me potremmo togliercela più velocemente e passare ad altro. » Accolse quella proposta con sorriso pensoso, annuendo. Ironico. A scuola, la giovane Yagami era poco più che mediocre. Non era mai stata in grado di brillare, né si era impegnata granché a vantare un posto tra le cime della classe. Ne aveva parecchio sofferto, perché non era mai stata in grado di trovare dentro di sé sufficienti motivazioni per ergersi al di sopra dei suoi compagni. Forse perché in fondo trovava quella competizione futile, o forse perché non aveva mai avuto il desiderio di entrare nel radar di tutti quei lecchini come una possibile competitor. Così era rimasta nella sua dimensione. Sufficientemente brava da non fallire completamente, ma non abbastanza da poter aspirare alle lodi e alla stima dei suoi professori. « Credo di potermela cavare. » Ma lì, in quella situazione, la prospettiva cambiava. Ed era, in un certo qual modo divertente rendersi conto che proprio lei, una cacciatrice, non propriamente esperta nell'uso degli incantesimi, poteva fare la differenza seppur con un piccolo gesto. « Non chiedermi come abbiamo fatto a procurarci delle mattonelle e a concederci il lusso di rifare la pavimentazione. Non avevamo molta scelta, nessuno di noi si fidava che non fosse interamente costituita da amianto. Dunque! Il modello è quello lì. Però puoi sbizzarrirti come ti pare, in realtà. » Il fatto che considerassero un lusso una precauzione così banale la diceva lunga sul posto in cui si trovavano. Era curiosa di sapere come Théa era riuscita a ottenere l'approvazione per quel posto. Ne sapeva poco su come funzionasse l'iniziativa ad Iron Garden seppur fosse tra i primi ad essere arrivata. Una volta messo piede lì dentro, si era immediatamente sentita sciupata di tutte le energie. Si sentiva sola, sempre in bilico, senza alcun obiettivo preciso se non quello di tenere al sicuro il suo piccolo e i pochi cari che l'avevano seguita in quel posto. Così aveva semplicemente messo per iscritto il suo nome, lasciando che fosse il caso a scegliere il posto in cui sarebbe finita e il lavoro che avrebbe svolto. Per Mia quel quartiere non era casa, non riusciva a sentircisi responsabile, né provava alcun desiderio nel farlo crescere. Forse perché odiava il modo in cui le persone la guardavano, forse perché doveva trovarsi in due posti contemporaneamente per riuscire anche solo a pensare di svolgere i suoi compiti e tenere fede alla sua responsabilità di madre. C'erano giorni in cui voleva semplicemente non essere, spegnersi, non esistere, affogare tra le coperte odoranti di muffa e non svegliarsi affatto. Pensare però a un orto sarebbe stato bello. Anche pensare a qualunque cosa che non avesse a che fare con le sue sventure lo sarebbe stato. Avrebbe potuto evitare gli scontri al Pulse se fosse stata più lungimirante? Evitare quegli sguardi, lo schifo di quelle urla, le mani affamate che si avventavano sulla sua figura. Non lo sapeva, ma a quel punto era anche troppo tardi per guardarsi indietro. Così, si mise al lavoro. Impugnò la bacchetta incantando uno dei secchielli piedi di collante, per poi far fluttuare una consistente pirla di mattonelle accanto all'area già pavimentata. Cominciò così a scegliere le mattonelle da disporre in fila a quelle già sistemate, mentre il secchiello e la cazzuola la seguivano compiendo movimenti meccanici simili a una catena di montaggio dopo la scelta di ogni nuova mattonella. « È per il padre? L'interrogatorio, dico » La giovane si portò le ciocche bluastre su una spalla, arricciando appena il naso dopo aver lasciato fluttuare una nuova mattonella dalle proprie mani accanto alle altre. Annuì, stringendosi nelle spalle. « Mio marito.. » Disse quindi dandole conferma. « ..è un ragazzo d'oro. » Per qualche istante non disse niente, posse scosse la testa, osservando la mora con un'espressione incredula.
    « Ma secondo loro, dopo aver lasciato un bambino di un anno e mezzo senza un padre e dopo averci buttati in uno scantinato pieno di muffa e chissà cos'altro, la mia vita potrebbe essere - e cito - mooooolto più facile se fossi più collaborativa, malleabile, gentile. » Stirò un sorriso sarcastico inclinando la testa di lato con un sorriso. Non sapeva come la pensasse Théa; per quanto ne sapeva poteva essere una di quelli che avrebbe venduto persino sua madre per avere una posizione migliore all'interno del quartiere. Ad essere onesta però, allo stato attuale, non m'interessa. Cosa potrebbero mai farmi? Arrestarmi per insolenza? « Eppure lo hanno praticamente condannato a morte stampandogli in fronte una taglia di diecimila galeoni. » Scosse la testa leggermente incredula. « Li hai visti i manifesti a Diagon Alley? Praticamente quella somma viene destinata solo a individui altamente pericolosi. Dovrebbero immaginare che non manderebbe mai sua moglie nella gabbia del leone con informazioni utili alla sua cattura. » Scoccò la lingua contro il palato piuttosto infastidita. Da tutta la situazione. « In ogni caso, se anche avessi delle informazioni, un sacco di persone mi taglierebbero la gola per averle, ma lo farebbero anche se io dovessi consegnarle al posto loro. » Diecimila galeoni fanno tanta gola.. ma davvero un botto. « Quindi mi chiedo, come potrebbero mai migliorare la mia vita? Cazzo - non posso neanche entrare in un negozio a Diagon Alley. Se mio figlio si sente male devo sperare che quella sottospecie di ospedale da campo abbia le pozioni adatte per la sua età, o devo comprarle al mercato nero dalle persone che ci hanno messo qui dentro - gli stessi, poi, che non ci fanno entrare nei loro negozi. » Quanto è assurda la nostra vita? Era frustrate. Deleterio. Ingiusto. Si sentiva sfruttata e presa in giro su ogni piano possibile. E a tutto questo loro rispondono con promesse del genere? Accidenti, a quelle cose non ci crederebbe nemmeno un bambino di cinque anni. E se anche fosse, Mia non avrebbe mai tradito Raiden. « Ci sono giorni in cui mi dispiace di non avere una taglia sopra la testa. » Lasciò fluttuare sul terriccio un'altra mattonella prima di guardare la mora con un sorriso amaro sulle labbra. Una confessione che fece con una certa leggerezza, seppur si sentisse in colpa. Sapeva quanto difficile fosse la vita dei ricercati. Sapeva di essere fortunata ad avere un tetto sopra la testa, una quotidianità, di non dover dormire sempre con un'occhio aperta. Ma poteva dirsi davvero in una condizione poi tanto diversa? Si sentiva un'ingrata; Raiden aveva permesso a lei e Haru di avere una vita pressoché normale, sicura, eppure eccola lì, a sciorinare cose insenante e desideri rimproverabili. « Almeno saprei da chi guardarmi le spalle. » Praticamente tutti al di fuori della mia famiglia. Qui è diverso; non sai di chi fidarti. Non capisci se la gentilezza è sincera oppure se si tratta dell'ennesima fregatura. « Tu - hai qualcuno.. dall'altra parte.. intendo sui manifesti o - clandestino.. va beh hai capito.. » Conosciamo tutti qualcuno così, ormai.Stava superando il limite? Non lo sapeva. Ma a dirla tutta, immaginava di essersi sbilanciata sufficientemente da non fare la figura della spia. « Cioè - non è che voglio farmi i cazzi tuoi.. se non vuoi rispondere, non devi. » Si stringe nelle spalle, tornando al proprio lavoro. « Però ecco.. di questi tempi gli amici e i nemici si riconoscono anche da questo. » Una frase apparentemente buttata lì, vagamente. Stava tentando di comprendere di che pasta fosse fatta. « Voglio dire.. si sa - che coloro che conoscono le persone sbagliate, potrebbero essere a loro volta potenzialmente pericolosi. » Sgranò gli occhi con fare ironico stringendosi nelle spalle. « Tu - sei pericolosa? » A me piacciono le persone pericolose. Facciamo fact-checking. Diventiamo amiche.


     
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    «Forse è meglio evitare. Non credo che farebbero una bella fine.» Oddio, che fa, se li mangia? Théa assecondò l'intercettazione, sicuramente salvifica, osservando Mia poggiare gli acquerelli a cui teneva tanto sul tavolo, prima che il bambino potesse afferrarli. Joe, accanto a loro, le lanciò un'occhiata quasi scioccata alla visione di quel gesto, una versione amplificata di quella che era comparsa sul viso della neo-collaboratrice. Che ho fatto? Ho fatto una cosa che proprio non si fa con i bambini? Non erano gli oggetti piccoli quelli che possono mettersi in bocca e affogarli? Si annotò mentalmente: niente acquerelli per bambini di un anno, annuendo ubbidiente alle indicazioni della ragazza. «Okay... Meglio così, mi fido... Joe, mi aiuti un secondo?» Evidentemente soffocando una risatina – più che giustificata – Joe si avvicinò con un sorriso di scuse. Comunque non mi pare il caso di esagerare, non è che volessi avvelenare il bambino. «Stai tranquilla. A casa ho ben due nani poco più grandi di lui.» Cioè, lui può dargli del nano e va bene e io che gli do degli acquarelli sono la cattiva? «Va be', Haru è un bambino, mica un nano... Mia, scusalo...»
    Leggermente imbarazzata per quella completa gaffe, seppur perfettamente consapevole della propria inettitudine in materia di bambini, cercò di spostare la conversazione su tutt'altro, osservando Haru sgambettare traballante, condotto da Joe in un'area più riparata da calcinacci semoventi e attrezzi pesanti. Nella parte posteriore della serra, i pugni poggiati contro i fianchi, Théa mostrava soddisfatta il proprio operato fino a quel momento, seppure, se ne rendeva conto, ci fosse ancora tanto lavoro da fare. «Credo di potermela cavare.» Le rivolse un sorriso complice, a labbra strette, le guance perlacee che si coloravano di rosso. Sulla parte di effettiva coltivazione Galathéa era decisamente sicura delle proprie abilità, la predisposizione alla manipolazione dell'acqua e la connessione con la natura un talento innato che le aveva garantito un infallibile pollice verde. Ma quando si trattava di carpenteria era decisamente un'altra storia. «Mio marito... è un ragazzo d'oro.» Così giovane? Non potè trattenersi dal pensare, voltando la testa per guardarla al sentire quelle parole, e discretamente cercando di esaminarle il volto, per decifrarne la suggestione di un'età che fosse superiore ai vent'anni; una predisposizione all'inquisizione con una punta di giudizio, un riflesso spontaneo, una parte della sua natura che difficilmente l'aveva allineata con la comunità warlock, per quanto cercasse di lavorarci, e correggersi, imparando a non esprimere certi pensieri ad alta voce. Non erano affari suoi, se ne rendeva conto, e ognuno prende scelte diverse per la propria vita ad età differenti – ma sposata e con figli prima dei 30 è un atto di coraggio. Ancor di più lo era adesso, poi. Non poteva immaginare che cosa dovesse vivere la ragazza – Théa riusciva a cavarsela, ma aveva solo una bocca da sfamare, e talvolta la cena non era neanche assicurata. «Ma secondo loro, dopo aver lasciato un bambino di un anno e mezzo senza un padre e dopo averci buttati in uno scantinato pieno di muffa e chissà cos'altro, la mia vita potrebbe essere - e cito - mooooolto più facile se fossi più collaborativa, malleabile, gentile.» Continuò il lavoro manuale, mentre invece la ragazza si faceva aiutare dalla bacchetta, allungando le gambe davanti a sé, seduta a terra, il freddo penetrante del pavimento che attraversava gli strati di abbigliamento. Schioccò la lingua, sprezzante, nel sentire quelle parole, scuotendo leggermente la testa. La ragazza fece eco al suo sorriso sarcastico e in quel momento pensò che ci avrebbe lavorato bene. Faceva del suo meglio in circostanze ingiuste e cattive, forse riuscendo più di quanto Galathéa non avrebbe fatto se le parti fossero state invertite. La apprezzò, per questo. «Eppure lo hanno praticamente condannato a morte stampandogli in fronte una taglia di diecimila galeoni.» «Quanti?!» Non riuscì a controllarsi, sgranando gli occhi. «Ma chi è tuo marito?» Taglie del genere venivano emesse soltanto per personaggi particolarmente scomodi e turbolenti – membri del Branco che si erano distinti per
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    essere spine nel fianco del Ministero, che finalmente aveva trovato un metodo sufficientemente buono per dare loro la caccia e avere la maggioranza dalla loro. Sciacalli. «Li hai visti i manifesti a Diagon Alley? Praticamente quella somma viene destinata solo a individui altamente pericolosi. Dovrebbero immaginare che non manderebbe mai sua moglie nella gabbia del leone con informazioni utili alla sua cattura.» «Sì, infatti. Ma figurati se ci arrivano – stiamo parlando di imbecilli. Potenti ma imbecilli. Io conosco una persona...» Abbassò la voce, tirando sul col naso. «... che attualmente è ricercata. Ma si parla di somme pari a poco più di 6.000 galeoni, e nonostante ciò...» non finì la frase, scuotendo la testa. Le pressioni che doveva vivere Mia con una taglia del genere legata al suo nome dovevano essere più grandi di quanto non dava a vedere. «Non c'è una taglia da 15.000 sulla Morgenstern?» Fece, riflettendo ad alta voce, inclinando la testa. «In ogni caso, se anche avessi delle informazioni, un sacco di persone mi taglierebbero la gola per averle, ma lo farebbero anche se io dovessi consegnarle al posto loro.» Non sapeva cosa dire: era vero. Il pericolo era dentro e fuori – Mia si stava fidando di lei, in quel momento, rivelandole un'informazione del genere, e la conosceva appena. Si domandò se doveva averle trasmesso fiducia o se invece fosse solo un po' sprovveduta. Ascoltò le sue parole a testa china, continuando a lavorare, maturando progressivamente l'idea che forse la ragazza dovesse sentirsi profondamente sola. Le emozioni, proprie e altrui, erano difficili da decifrare, ma le parve chiaro che avesse bisogno di un posto dove evadere, una persona con cui sfogarsi. Non avrebbe saputo confortarla a dovere, probabilmente, ma non si sarebbe sottratta dall'offrirle uno spazio in cui parlare. E poi Théa era sempre stata più brava ad ascoltare, comunque. «Tu - hai qualcuno..dall'altra parte.. intendo sui manifesti o - clandestino... va beh hai capito..» Esitò, schiarendosi la voce, la testa ancora china sulle mattonelle, incastrate con l'indice in modo che fossero allineate. Voleva parlarne? Cercava di non farlo, di tenere alto il morale, di non arrendersi alla rabbia. «Cioè - non è che voglio farmi i cazzi tuoi.. se non vuoi rispondere, non devi.» «No, no–» «Però, ecco.. di questi tempi gli amici e i nemici si riconoscono anche da questo.» Interrotta, Théa non riprese a parlare a quel punto, corrugando la fronte e inclinando la testa. Non era sicura di seguirla. «Voglio dire.. si sa - che coloro che conoscono le persone sbagliate, potrebbero essere a loro volta potenzialmente pericolosi.. Tu - sei pericolosa?» Scoppiò in una risatina leggera, passandosi il dorso di una mano guantata sulla fronte. «Mia – non credi che questo avresti dovuto chiedermelo prima di rivelarmi che consegnando tuo marito al Ministero potrei ottenere diecimila galeoni?» Scosse la testa, in fondo intenerita dalla duplicità di una persona che le sembrava così ingenua e così adulta al contempo. Come fa a funzionare? «No, no, non sono pericolosa – non più di chiunque altro che si trovi in questo posto, suppongo» Si passò la lingua sulle labbra screpolate, deglutendo. «Per quanto sia giusto guardarsi le spalle e individuare chi non ci penserebbe due volte prima di venderti al primo funzionario ministeriale che passeggi per Iron Garden, i nemici veri, quelli che fanno paura, sono fuori di qui.» Lo pensava davvero? «A volte penso che ci abbiano fatto un favore, a metterci tutti qui, insieme. Immagina cosa saremmo capaci di fare, tutti insieme – tutte creature che il Ministero teme, perché altrimenti non ci avrebbero ostracizzato. Allontanano ciò di cui hanno paura, questo mi dico.» E non sapere da dove attaccherà il nemico fa ancora più spavento, per cui avete bisogno di taglie esorbitanti affinché possiate sentire il proiettile arrivare. «Conosco Eliphas, Luhng. Eravamo nella stessa congrega warlock. Siamo cresciuti insieme per qualche anno.» Corrugò la fronte, incerta della giustizia di una definizione così restringente, ma questo erano stati, sulla carta. «Mi convocheranno a giorni per un interrogatorio, credo, non avendo legami di sangue ci vuole qualche giorno in più. Cosa devo aspettarmi?» Fece, leggermente preoccupata. «Ti danno qualcosa per evitare che li attacchi?» Era certamente diverso rispetto al semplice sequestro di bacchetta o ditale, trattandosi di creature fantastiche. «Giusto a scopo informativo» aggiunse, rivolta a nessuno in particolare, la paranoia che qualcuno fosse lì ad ascoltare ogni loro conversazione che riusciva a tenere a bada la maggior parte del tempo – ma era un dubbio ragionevole. «Non so niente di lui, comunque. Mi è giunta voce qualche giorno fa. Non...» Strinse le labbra, grattandosi un angolo della bocca. «Non me l'ha detto lui. Ma l'hanno esiliato – la congrega, dico.» Sospirò dalla bocca, d'istinto tirandosi a sedere più dritta, alzando il mento. Cambiamo argomento. «Comunque, Mia, se hai bisogno di cibo...» ne cercò lo sguardo, in silenzio, e quando lo incontrò riprese a parlare «...per te e per Haru, sappi che c'è.» Con una mossa della testa Théa indicò un punto apparentemente invisibile, un'area indistinta in cui l'occhio coglieva solo una scala e il muro di cemento a cui era poggiata. «È uno spazio molto più ampio di quanto non dia a vedere, quello della serra». Decise di rimanere vaga, per il momento – avrebbe aspettato ancora un attimo prima di mostrare alla nuova arrivata l'effrazione che avrebbe potuto costare loro molto più di quanto potessero permettersi di perdere, ma in quanto parte del gruppo era giusto che prendesse una decisione informata rispetto a ciò che stavano facendo lì, e di cui si sarebbe resa complice, rimanendo con loro.
     
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    « Mia – non credi che questo avresti dovuto chiedermelo prima di rivelarmi che consegnando tuo marito al Ministero potrei ottenere diecimila galeoni? No, no, non sono pericolosa – non più di chiunque altro che si trovi in questo posto, suppongo » Un piccolo sorriso compare sul viso candido di lei annuendo tra se e se. « Ehi, non sono nessuno per impedirti di provarci, ma ti avviso che dovrai passare sopra il mio cadavere. Io diventerei sicuramente pericolosa. » Parole quelle, che le dice con uno spiccato spirito spaccone, prima di sciogliersi in una leggera risata. « Per quanto sia giusto guardarsi le spalle e individuare chi non ci penserebbe due volte prima di venderti al primo funzionario ministeriale che passeggi per Iron Garden, i nemici veri, quelli che fanno paura, sono fuori di qui. A volte penso che ci abbiano fatto un favore, a metterci tutti qui, insieme. Immagina cosa saremmo capaci di fare, tutti insieme – tutte creature che il Ministero teme, perché altrimenti non ci avrebbero ostracizzato. Allontanano ciò di cui hanno paura, questo mi dico. » Probabilmente sì. Ma il punto è che ci hanno messo in ginocchio proprio per impedire che ciò avvenga. Non abbiamo mezzi, né vere risorse per contrastare ciò che sta accadendo. Di base siamo al buio. Forse Mia la vedeva da un punto di vista troppo parziale. Per lei la rete era da sempre stata costituita dalle gerarchie del Credo. Ne conosceva bene i funzionamenti, seppur facesse tutto il possibile per sentirsi alternativa e non darne troppo peso. Quando avevano deciso di stanziarsi a Inverness, lei e Raiden pensavano davvero che quello potesse essere il luogo migliore per stanziarsi, anche solo perché potevano contare su tante persone, risorse ingenti, la possibilità di accedere a una città autosufficiente. Nel bene e nel male quella era la nostra rete. « I numeri però contano poco se non si ha un'organizzazione. » Scoppiò a ridere alzando gli occhi al cielo. « Rigore. » Ecco ho iniziato a parlare come Raiden. « Forse però hai ragione. Nel dubbio mandiamo avanti le teste calde. Se loro esplodono possiamo sempre fare finta che noi non c'entravamo niente. » Un ragionamento che le sarebbe piaciuto poter seguire. Essere egoista. « Conosco Eliphas, Luhng. Eravamo nella stessa congrega warlock. Siamo cresciuti insieme per qualche anno. Mi convocheranno a giorni per un interrogatorio, credo, non avendo legami di sangue ci vuole qualche giorno in più. Cosa devo aspettarmi? Ti danno qualcosa per evitare che li attacchi? Giusto a scopo informativo » Eliphas. Nel sentire il nome dello warlock gli occhi di Mia si illuminarono di colpo. Non poteva dire di conoscere approfonditamente il giovane Luhng, ma frequentare il recinto degli animali a Hogsmeade e Inverness le aveva permesso di conoscere un lato davvero tenero del moro. Era stato lui ad aiutare Mia e Raiden ad adottare il loro cane e per questo non poteva che essergliene enormemente grata. « Tante minacce velate e nulla di fatto. Se non sai niente, sii sincera e collaborativa. Smetteranno nel giro di qualche settimana. Anche perché, se continui a dire loro la stessa cosa, ad un certo punto si stancheranno di sentirla a ripetizione. » Mia ad esempio aveva osservato quella strategia religiosamente e notava già un palese forfait da parte degli Auror che la interrogavano. D'altronde, non sapeva davvero niente e se anche le avessero ficcato giù per la gola un Veritaserum non sarebbe servito assolutamente a nulla. « Sei sicura di non avere informazioni sensibili sul suo conto? » « Non so niente di lui, comunque. Mi è giunta voce qualche giorno fa. Non.. Non me l'ha detto lui. Ma l'hanno esiliato – la congrega, dico. » Quindi anche tu sei all'oscuro di tante cose. Poteva immaginare che Eliphas avesse lasciato il quartiere, ma non immaginava che gli warlock lo avessero esiliato. Conosceva troppo poco le loro usanze per immaginarsi cosa la condizione del giovane comportasse per la loro comunità. « Mi dispiace. » Che cosa stupida da dire. Ma cosa altro avrebbe potuto fare? « Eliphas era bibliotecario a Hogwarts quando ero ancora studentessa. In realtà io non frequentavo così tanto la biblioteca eh, sia chiaro. Però è sempre stato gentile. Ci ha dato una mano a trovare il nostro attuale cagnolino. Credo sia un'anima molto gentile. Non se lo merita. » Però nessuno di noi si merita ciò che ci sta succedendo; questo non ha impedito a queste persone di segregarci in un posto sperduto con un messaggio molto chiaro: "toh cavatevela, ma non troppo". Era frustrante; iperanalizzare tutto ciò che stava accadendo attorno a loro portava Mia ad abbandonarsi sempre più spesso alla complesso di rabbia che tentava di tenere a bada per non fare il passo più lungo della gamba. Di colpo sollevò lo sguardo verso l'alto interrompendo il lavoro per qualche istante solo per mostrarsi infastidita dalle sue stesse parole. Odiava l'idea di avere un atteggiamento così arrendevole. Sapeva bene che non era possibile fare nulla al momento. Doveva stringere i denti, aspettare, costringersi a trovare modi per superare le giornate in attesa che chi fosse fuori - il Credo, i Ribelli, qualcuno, chiunque.. tendesse loro una mano. D'altronde con le bacchette tracciate e nessuna rete di supporto potevano fare ben poco. « Comunque, Mia, se hai bisogno di cibo.. per te e per Haru, sappi che c'è. È uno spazio molto più ampio di quanto non dia a vedere, quello della serra » In quella circostanza Mia avrebbe scoperto un piccolo armadio di Narnia; la gratitudine che provò nei confronti di Théa fu a dir poco smisurata. Forse in fondo speranza c'è. Dobbiamo solo impegnarci un po' di più.

    25 dicembre
    La speranza però è un sentimento che tende a durare poco se non alimentato costante. E' un fuocherello che si spegne in fretta e quando restano solo le ceneri e la scintilla di quel barlume si spegne, il sentimento che ne resta corrode lo spirito e scardina ogni certezza. Da quel giorno Mia era tornata spesso nella serra. Faceva qualunque cosa potesse. Lavorava in mensa, spazzava le vie del quartiere, sgombrava i bidoni della spazzatura e zappava. Un po' alla volta si spegneva, perché nonostante avesse avuto modo di rivedere Raiden, le circostanze dei loro incontri erano tutto fuorché rassicuranti. Si era sentita sciocca per avergli confessato la verità sul Pulse; tuttavia, lentamente, tutti i nodi erano venuti al pettine, e aveva cominciato a realizzare che le parole del marito erano tutto fuorché un'insensata preoccupazione. Mantenere la promessa fatta - non tornare mai più alla Mano Monca - stava diventando giorno dopo giorno più difficile. Provava a trattenersi dal perdere il controllo, incanalando tutte le sue energie nel lavoro e nell'intento di evitare il più possibile Kai Parker e i suoi. E ci era riuscita. Anche quando era stata convocata ancora una volta per un fugace quanto sbilenco interrogatorio, Mia si era portata dietro Miles, che le aveva tenuto Haru in attesa che gli auror finissero con le solite domande. C'erano volte in cui si chiedeva se li stessero davvero cercando, oppure se, lasciarli su quei manifesti che tappezzavano ormai persino il ghetto, fosse un modo per tenere a bada la popolazione. Finché c'era qualcuno da temere e il Messia rimaneva l'ultima frontiera di contrasto di quei fuorilegge, tutte le speranze sarebbe state riposte in Minerva. Effettivamente il Mondo Magico pareva esser diventato un luogo ideale. Sui giornali, le notizie di una prospera società continuavano a scorrere in un fila di continue banalità. Storie di successo, crescita economica, eventi di beneficienza e nuove opportunità. All'estero le cose non andavano diversamente. Man mano che nuove roccaforti del Credo venivano scoperte e annientante, in un modo o nell'altro, i maghi festeggiavano, come se i lycan, il Credo, ogni sprazzo di realtà riottosa fosse l'origine di ogni male. Le persone avevano la memoria davvero corta, e quanto stava accadendo al ridosso del sante festività di Natale ne erano la riprova. A poco più di due mesi dalla fatidica disfatta di Inverness, ogni problema e ogni fardello erano semplicemente scomparsi, come se non fossero mai esistiti. L'uragano Messia aveva spazzato via ogni male e di lui, ormai, si parlava ovunque, in lungo e in largo, anche ben oltre i confini dell'Inghilterra. La piccola e insignificante vita di Mia, tuttavia, veniva animata di fardelli ben più irrilevanti. Drammi che, a detta di molti, si era attirata su di sé volontariamente, e di cui non aveva diritto di lamentarsene. Ed effettivamente era proprio così. Non se ne lamentava Mia, e semmai, tentava di assorbire ogni volpo come una spugna. Tratteneva tutto per paura di essere giudicata, vivendo nel terrore di sentirsi dire che tutto ciò che le accadeva era solo ed esclusivamente colpa sua. Così, dopo essersi recata a casa di Eriko, dove si sarebbe ricongiunta con la cognata, il fratello e altri amici stretti per un pranzo a dir poco povero, Mia aveva salutato Haru con un grosso abbraccio e tanti piccoli baci, dirigendosi alla serra, dove avrebbe incontrato Théa. Le aveva già chiesto di concederle una mezz'oretta il giorno prima, per parlare in separatamente sede. Aveva bisogno di aiuto, e dopo averci pensato per tutta la notte, Mia aveva deciso che l'unica cosa che potesse fare in attesa di capire come gestirsi Kai Parker era temporeggiare. Così, quando mise piede nella serra, si diresse a grandi passi verso il capanno, dove incontrò il viso della giovane Durand china su alcune scartoffie. Bussò tre volte contro la porta prima di entrare lasciandole sotto gli occhi, proprio sopra i registri del petulante ispettore Nathan Douglas II una piccola scatolina attorno alla quale aveva annodato un fiocchetto di spago.
    « Buon Natale capo! » Disse prima di portarsi indice e medio alla tempia mimando una specie sbilenca di saluto militaresco. Poi si sciolse un tenero sorriso, avvicinandosi una sedia all'estremità della scrivania. « Avanti, apri. Non ti aspettare nulla di che, ma ieri ho trovato una cosetta e ho pensato a te. E poi, visto che sono riuscita a sottrarre un po' di ingredienti ho fatto dei biscotti. » All'interno del pacchetto, Théa avrebbe infatti trovato una bella sciarpa verde pastello e una bustina con un po' di biscotti al burro fatti in casa. Considerata la scarsità di cose, sono venuti anche troppo buoni. « Spero per la tua sanità mentale che tu decida di fare una pausa almeno per il pranzo di Natale. » Un po' triste quest'anno, ma l'importante è quanto meno provarci ad avere una parvenza di normalità. « Ti dispiace se chiudo la porta? » Attese la sua conferma prima di fare esattamente ciò che aveva detto, riprendendo poi il proprio posto. « Com'è andata ieri? Il petulante ispettore ha trovato qualche zappa non a norma? I pomodori non erano perfettamente allineati? » Mia non aveva dato troppo peso al panico di Théa. Forse perché in fondo era certa che la loro attività secondaria era ben nascosta e tutto sommato non vedeva ragione per cui Douglas dovesse sospettare di loro. Erano attenti: ci lavoravano solo nei giorni in cui lui non c'era. E anche quando arrivava a sorpresa, tentavano sempre di avere qualcuno che lo distraesse, nel caso cui qualcuno si trovasse all'interno della serra nascosta. Tamburellò le dita sulla scrivania inumidendosi le labbra. Era evidente non fosse venuta per sparlare del loro infame supervisore anche nel giorno di Natale. Quello era ormai un passatempo di tutti i giorni; uno che le aveva avvicinate anche molto. Lui l'ha reso proprio facile questo sodalizio. E' sempre così ingessato e antipatico. Cristo santo se è vero che con l'età si peggiora, lui è dieci volte più antipatico di quanto non lo fosse ai tempi della scuola. « Uhm.. in ogni caso, ti spiego subito la situazione così mi dici se puoi aiutarmi o meno. Però se non ti va, o non riesci, va bene lo stesso eh. Cioè non sentirti obbligata. » Questo per dire che capiva in ogni caso se non se la sentisse di prendersi il rischio. Dalla tasca posteriore dei jeans tirò fuori il foglio con tutte le sue presenze. I responsabili dei vari lavori dentro il quartiere avevano l'obbligo di firmarli indicando le ore svolte in modo tale da permettere il pagamento dei servizi svolti. Una miseria, sia chiaro. Non ci sono straordinari, né feste pagate. Siamo sotto la soglia della povertà. « Avrei bisogno di lavorare il più possibile nei prossimi giorni. Cioè ho bisogno di essere ufficialmente occupata. Potresti magari inventarti un'infestazione in una zona della serra, o non so, qualcosa del genere? Posso pure catalogare i granelli di terra, purché io sia ufficialmente qui. » Si stringe nelle spalle. « Puoi avere parte del ricavato delle ore - specialmente se non è che lavoriamo per davvero tutto questo tempo. » Si morse il labbro inferiore. « Mi servirebbero le ore dopo cena. Il più tardi possibile.. » Si schiarì la voce. « Si può fare? »



     
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    25 dicembre

    Galathéa, di quei tempi, entrava a malincuore nel capanno degli attrezzi dove Nate Douglas aveva stabilito il proprio “angolo di burocrazia”, come l'aveva pomposamente nominato lui stesso. Nonostante avesse poco senso, e se ne rendesse pienamente conto, non era un punto della serra che cercava di evitare unicamente quando l'ispettore era presente, ma anche il resto del tempo. Si passò la lingua sulle labbra secche e screpolate, e rimase stupidamente così, impalata, davanti alla porta, a strapparsi le pellicine con i denti, pensierosa. Era vuoto, lo sapeva che era vuoto. Con un sonoro sbuffo, chiuse gli occhi, e solo dopo averli riaperti si decise a spingere la porta con il palmo della mano. Fu un riflesso naturale quello di tenere lo sguardo puntato a terra, guardarsi attorno il meno possibile, una sensazione simile all'imbarazzo, o forse più alla vergogna, che le suggeriva che lei lì non avrebbe dovuto trovarcisi, sebbene fosse una bugia. Il fatto che Nate lasciasse l'ufficio aperto durante la sua assenza era una questione di necessità più che di fiducia – il capanno, checché lui ne dicesse, era per definizione uno spazio utilizzato da tutti i lavoratori della serra, per quanto una grossa parte dell'attrezzatura fosse disseminata in giro, lasciata laddove era stata utilizzata l'ultima volta, in quel modo disordinato che a lui tanto creava fastidio. “Saresti tu la carnefice, quindi?” Scosse la testa, come per scrollarsi di dosso l'eco di quelle parole, e per tutta risposta alla domanda che nessuno le aveva posto si sedette laddove tipicamente stava lui, e ruotò un paio di volte sul posto, poggiando le mani sui braccioli della sedia. È questa la prospettiva dalla quale guarda il mondo, l'ispettore Douglas sembrava pensare, mentre piano piano tornava a ridimensionare quelle quattro mura. Quando ebbe finito di compiere quella rotazione, gli occhi castani di Galathéa si poggiarono distrattamente su un punto apparentemente indistinto sulla parete, e tracciarono una traiettoria verso il basso, laddove il ridicolo quadro di Eric Donovan – quella strana specie di beffa, di insulto, o forse di monito che Nate aveva avuto l'ardore di affiggere al muro – era caduto e si era frantumato. Non ne aveva fatto parola con nessuno – perché avrebbe dovuto? I suoi colleghi lo vedevano, l'avevano perfettamente compreso, ormai, quanto poco si potesse stare tranquilli quando lei e l'ispettore venivano lasciati da soli a discutere, e adesso che quella conflittualità sembrava aver raggiunto il culmine, erano seguiti giorni di silenzio, di cortesia – una che Théa non gli aveva mai mostrato più di tanto. Di quel cambio di atteggiamento qualcuno doveva pur essersi accorto, per quanto Galathéa sperasse che non fosse così, e che nessuno avrebbe cercato di indagare. Si vergognava immensamente per ciò che era successo, per il modo in cui si era permessa di perdere le staffe, sebbene ne riuscisse a individuare i catalizzatori, e probabilmente gli altri non l'avrebbero biasimata; motivo per cui preferiva non soffermarsi sulla questione, le parole di consolazione che senz'altro gli altri avrebbero cercato di spendere per tranquillizzarla che non avrebbero fatto altro che ulteriormente frustrarla. Il problema non avrebbe saputo indicarlo con certezza, ma senz'altro stava anche nel fatto che fosse stata una scelta irresponsabile, che quella lotta che aveva deciso di intraprendere contro Nate Douglas era senz'altro pretestuosa, simbolica, per quanto assolutamente reale fosse il fastidio che lui le suscitava. Non era mai stato personale, non davvero, ma aveva continuato, per quanto lo sapesse, e adesso doveva tenere braccia, gambe e dita incrociate affinché ciò che era accaduto tra di loro non ricadesse su tutte le persone che su di lei e sulla serra avevano puntato tutto, persino la propria sopravvivenza. Accese la lampada sulla scrivania, ed estrasse lentamente la lettera che la sera prima le aveva portato Aslan Lee dalla tasca del cappotto di lana. Tirando su col naso, ne rilesse il contenuto per la milionesima volta, passandosi la lingua sui denti, cercando di buttare giù un rospo troppo grosso per riuscire a farlo. La risposta della congrega era arrivata, e quella sua reazione non aveva alcun senso, perché era chiaro a tutti, persino ad Aslan, che manco l'aveva letta, che cosa le avrebbero risposto alla richiesta di intercessione che aveva formulato una settimana dopo essersi stabilita ad Iron Garden, avendo compreso che qualunque fosse stato il motivo per cui non se l'era direttamente data a gambe, appena reso pubblico l'obbligo di ammissione al ghetto, la sua era stata una scelta tanto inutile quanto bizzarra. Adesso che aveva ricevuto risposta, invece, capiva che se pure avesse lasciato il territorio britannico, la congrega non l'avrebbe mai protetta dal Ministero, perché era una creatura censita, e tanto bastava affinché il Concilio se ne lavasse le mani, così come aveva già fatto con altri warlock come lei. Almeno aveva una cosa in meno per cui rimproverarsi, e anzi, per quanto faticasse ancora a crederci, una parte di lei riusciva addirittura a compiacersi per averci visto così chiaro fin da subito, fin da sempre, su ciò che la comunità warlock rappresentava per lei. Aveva vissuto tutta la sua vita come se non avesse niente o nessuno a guardarle le spalle, il che l'aveva isolata ulteriormente, perché a nessuno interessa star dietro ad una persona che non intenda farsi aiutare o proteggere; e come una profezia che si autoavveri, la realtà che aveva sempre raccontato, una narrazione per la quale aveva pagato lo scotto dell'esclusione sociale, adesso le si palesava davanti agli occhi scuri, sintetizzata in tre righe intrise di deresponsabilizzazione e formalismi diplomatici per stringersi nelle spalle. Théa non si era neanche accorta delle lacrime che avevano cominciato a montare, della gola ostruita dal magone, dei passi in avvicinamento, finché non aveva sentito bussare. Era trasalita, tirandosi su d'istinto, il viso candido accartocciato dal naso arricciato. «Avanti, avanti» fece in risposta, passandosi una mano sugli occhi umidi e recuperando un fazzolettino. «Questo maledetto raffreddore» borbottò, schiarendosi la gola, mentre faceva ruotare la sedia verso la porta, dietro di sé. «Buon Natale capo!» Galathéa non era granché con i sorrisi, ma la visione di Mia, il pacco che fece poggiare con noncuranza sulle scartoffie e i registri dell'ispettore del Ministero, e il saluto militare scimmiottato che le rivolse, la fecero scoppiare in una risatina candida. «Che fai qui a Natale?» la salutò, mentre la seguiva con lo sguardo avvicinare una sedia alla scrivania. «Avanti, apri» la ignorò, e Théa si passo una nocca della mano sotto il naso, per asciugarlo. «Non... Non ti ho regalato niente, io, però» protestò, corrugando la fronte mentre prendeva tra le mani il pacco che la collega si era anche presa la briga di impacchettare. Non era un'usanza a cui era abituata, quella, e cercando di frugare tra i ricordi Galathéa realizzò che lei un regalo di Natale non l'avesse mai ricevuto, se la memoria non la ingannava. «Non ti aspettare nulla di che, ma ieri ho trovato una cosetta e ho pensato a te.» Era il momento peggiore per un gesto così affettuoso, pericolosamente emotivo, per cui Théa ebbe la necessità di scartarlo con estrema lentezza, per avere il tempo per mantenere un contegno, evitando di scoppiare a piangere di fronte alla collega e darle l'impressione di essere ancora più strana di quanto non dovesse già ritenerla. «E poi, visto che sono riuscita a sottrarre un po' di ingredienti ho fatto dei biscotti» «Mia...» mormorò, mentre faceva passare la mano perlacea sulla stoffa calda e morbida della sciarpa che le aveva regalato. Deglutì, alzando infine il viso e guardandola un po' commossa. «La metto subito» fece poi, attorcigliandosela attorno al collo e sollevando i capelli. Galathéa non si era mai soffermata a pensare a quale fosse il suo colore preferito, ma se l'avesse mai fatto probabilmente avrebbe concluso che fosse proprio quella tonalità di verde. Continuò a rigirarsi la stoffa calda tra le mani, prima di aprire la bustina di biscotti e porgerla anche a lei, per condividerli. «È la ricetta che ti avevo dato?» chiese, spezzandone uno con gli incisivi. «Ma mi sembra troppo brutto essere a mani vuote... Vediamo se posso trovare qualcosa da rubare a Douglas» fece dopo qualche secondo, battendo le mani tra di loro per ripulirle dalle briciole. L'iniziale intimidazione completamente sparita, Théa cominciò a frugare nei cassetti della scrivania, certa che non avrebbe trovato altro che scartoffie noiose, niente di neanche lontanamente incriminante o divertente. «Spero per la tua sanità mentale che tu decida di fare una pausa almeno per il pranzo di Natale» Nascosta sotto il bordo della scrivania, Théa si strinse debolmente nelle spalle, senza che Mia però potesse vederla. «Non ho niente di meglio da fare, e ieri ci siamo andati un po'
    troppo vicini, con la storia della rendicontazione sbagliata di Miles, per cui voglio assicurarmi che non ci siano altri errori del genere che magari sono sfuggiti a me e non a Nate»
    . Si tirò su, i capelli un po' in disordine. «Non che ci sia niente per cui preoccuparsi, eh, chiaro.» Fece subito, maldestramente cercando di tranquillizzare Mia. «Com'è andata ieri? Il petulante ispettore ha trovato qualche zappa non a norma? I pomodori non erano perfettamente allineati?» Théa ridacchiò sbuffando dal naso, ritornando alla propria indisturbata invasione della privacy altrui. Tecnicamente questo posto è del Ministero, che l'ha dato in gestione a me, per cui niente è di proprietà di nessuno. «Mmh... La sera prima della vigilia non tornavano quei conti sui cestini, no? Non so se Miles ti ha raccontato – in breve Miles, un cuore di panna ma completamente privo di un singolo osso vagamente furbo nel suo corpo, stava segnando i quantitativi reali di prodotto che abbiamo portato al mercatino, non quello che rispecchiava il peso concordato. Nate ha chiamato me pensando che fosse un problema di discalculia, il che chiaramente è il problema.» Fece, sarcastica, mentre le dita si avvolgevano attorno ad una bustina, in fondo all'ultimo cassetto. «Ho sistemato la questione e poi non ci sono state altre beghe, il Ministero non è più venuto a visitare la serra, credo non abbiano avuto tempo, non so.» Un pericolo non indifferente dal quale erano state protette solo grazie alla fortuna, perché un Salvio Hexia che lei non aveva neanche le abilità di lanciare personalmente difficilmente avrebbe retto di fronte ad una perizia appena più furba. Il loro più grande vantaggio fino a quel momento era stato quanto il Ministero li avesse sottovalutati, l'attenzione principalmente catturata da interrogatori e liti da niente da pubblicizzare sulla Gazzetta per ulteriormente stigmatizzare le Creature. Ma Théa sapeva che non sarebbe durato a lungo, e che avrebbero dovuto trovare un modo meno azzardato di celare il baule – specie visti i rapporti tesi con la spia che il Ministero gli aveva sbolognato. «Una bustina piena di graffette» annunciò alla fine, sollevandola davanti al viso di Mia, poco soddisfatta. «Non mi pare un regalo equo. Mi sdebiterò in altro modo.» Fece con poco entusiasmo, lasciandola cadere con noncuranza sul tavolo. Manco una fiaschetta, niente. Che palle, Douglas. «Uhm... in ogni caso, ti spiego subito la situazione così mi dici se puoi aiutarmi o meno. Però se non ti va, o se non riesci, va bene lo stesso eh. Cioè non sentirti obbligata.» Théa richiuse i cassetti, in ascolto. «Ah! Ecco il perché di questi regali, volevi corrompere il capo» scherzò, rivolgendole un sorrisetto furbo, prima di poggiare il mento sulle mani intrecciate, i gomiti puntellati sulla scrivania. «Avrei bisogno di lavorare il più possibile nei prossimi giorni. Cioè ho bisogno di essere ufficialmente occupata. Potresti magari inventarti un'infestazione in una zona della serra, o non so, qualcosa del genere? Posso pure catalogare i granelli di terra, purché io sia ufficialmente qui.» La ragazza inclinò la testa, un solco un po' più su delle sopracciglia, sulla fronte. Non amava ficcare il naso nelle faccende altrui, secondo lo stesso principio per cui non avrebbe apprezzato domande aggiuntive se i ruoli fossero stati invertiti. Non amava che ci si preoccupasse per lei, la faceva sentire infantilizzata, e lo stesso tipo di trattamento riservava per gli altri. «Puoi avere parte del ricavato delle ore - specialmente se non è che lavoriamo per davvero tutto questo tempo Pertanto, non avrebbe chiesto a Mia da dove veniva quella richiesta, anche perché non era anomala e non era difficile provare a darsi una spiegazione, visto i tempi che correvano. Mia lavorava duramente, questo era chiaro a tutti loro in serra, sebbene facesse meno ore degli altri per dividersi tra quelli e altri impieghi. Forse aveva perso il posto altrove? Difficile da immaginare, visto quanto si impegnava, ma di ingiustizie se ne vedevano tutti i giorni. «Mi servirebbero le ore dopo cena. Il più tardi possibile. Si può fare?» Galathéa annuì rapidamente, adattandosi all'urgenza che sembrava provenire dalle parole di Mia. «Ma certo che è possibile» fece con semplicità. «Se è una questione economica è difficile che io riesca a convincere Douglas a farti pagare di più – dovremmo passare per lui, per questo genere di questioni. Non...» si schiarì la voce, prendendo a sistemare le carte in disordine sulla scrivania, più come riflesso nervoso che non per necessità. «Non so se è opportuno che ci parli io visti i tempi che corrono tra me e lui, ma se hai bisogno posso provarci.» Detestava dipendere da chiunque, più che mai da uno come Nate, a cui quel genere di influenza, di potere, sembrava dare linfa vitale. «Ma per quanto riguarda le ore in più possiamo sicuramente trovarti qualcosa da fare. Solo che va rendicontata per bene al Ministero, se deve corrispondere ad una paga maggiore». Era assurdo che quella fosse una condizione, se a più ore di lavoro debba corrispondere una paga maggiore era un concetto fuori da ogni principio di giustizia. «Trovo difficile immaginare che Douglas possa negartela, però, se il lavoro che devi svolgere è ben giustificato. Al Ministero piace mostrarsi magnanimo, equo, cercano di premiare chi lavora duro – li fa apparire giusti.» Infilò la lettera che aveva tirato fuori nella tasca della giacca, e spezzò un altro biscotto. Non le era del tutto chiaro se la necessità della ragazza fosse quella di lavorare o soltanto di figurare come occupata, vista la finestra di ore che le aveva indicato, in modo abbastanza specifico. Aveva fatto ruotare appena la testa, per guardarla di sbieco. «Ma tu vuoi effettivamente lavorare ancora di più di quanto tu non faccia già o c'è altro sotto?» Disse piano, soppesando le parole. «Non è per ficcanasare, non voglio sapere i fatti tuoi» disse, alzando una mano. «Solo... È per capire cosa mi stai chiedendo, esattamente. Cioè, se ti serve un impiego reale o soltanto uno da far risultare a registro, ecco». Fu mentre diceva quelle parole, e finiva di sistemare le carte che qualcuno aveva messo in disordine sulla superficie altrimenti ossessivamente tenuta pulita dal proprietario, che Théa la vide. La bustina di erballegra che aveva cercato due giorni prima. La fissò incredula, per poi far saettare lo sguardo su Mia, di fronte a lei, e farlo tornare sulla busta. Lentamente la afferrò, le implicazioni di quella scoperta che le vorticavano nella testa. «Allora – aspetta. Mi sa che ti ho trovato il regalo di Natale» Fece a voce appena più bassa, mentre se la portava più vicino al viso, per assicurarsi di averci visto giusto. Due giorni prima Miles e Joe erano accorsi da lei, preoccupati per la scomparsa di qualche grammo di erba ad uso personale che i ragazzi si erano presi la libertà di coltivare, opportunamente nascosti; Théa si era preoccupata di andare a parlare con Nate, per assicurarsi che lui non fosse accidentalmente incappato nella bustina persa – ma a quanto pareva era proprio così. E lui non le aveva lasciato intendere niente. Deglutì, vagamente preoccupata. «Ti va?» Fece infine, sollevando il capo e incontrando lo sguardo della ragazza, con un cenno del mento indicando il sacchetto. Théa fumavacchiava, di tanto in tanto, ma non era una sua grande passione – non quanto Miles e Joe. È pur sempre Natale, e lo sto passando nel cazzo di ghetto, dove resterò per Dio solo sa per quanto tempo. I need this. Sarebbe stato più saggio lasciare la bustina lì dove l'avevano trovata? No – Nate già sapeva che apparteneva a loro. Potevano essersela procurata da fuori, non doveva necessariamente essere stato un campanello d'allarme per l'ispettore, no? «Così io faccio una pausa, qui, e tu mi spieghi un attimo meglio?» Qualcosa le suggeriva che non fosse un'idea brillante, ma pur riflettendoci faticava a trovarci un problema, l'unico pensiero che rimaneva ad angosciarla quella scelta di Nate di nasconderla, senza dire niente.
     
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    Théa era una brava persona. Mia lo aveva capito dal primo momento; ciò che non le era sfuggito nel tempo era quanto tentasse di nascondere la dolcezza che la contraddistingueva dietro quel tono sobrio e risoluto, che ora, di fronte a un semplice regalo fatto un po' sovrappensiero stava perdendo. Sorrideva, la giovane Yagami nell'osservarla, non riuscendo a nascondere una leggera patina di divertimento nel vederla così ostinata a trovare un regalo adeguato per ricambiare. « Guarda che non ti ho fatto un regalo perché mi aspetto qualcosa in cambio. Non funzionano così i regali. » Mia aveva pensato a lei nel trovare quella quisquiglia, e così aveva semplicemente di impacchettarla come poteva e portargliela. Un modo per dirle che la apprezzasse, che si sentisse fortunata di sapere che tra le tante persone c'era anche brava gente come lei. La metteva a proprio agio, non le metteva mai pressione, e finché faceva il suo lavoro, Théa se la teneva sotto l'ala senza pregiudizio alcuno. Nonostante il bimbo che bazzicava in giro per la sua serra. Nonostante la taglia sopra la testa di suo marito. Nonostante Mia fosse decisamente troppo incasinata e diffidente per avvicinarsi a chiunque. Ed è proprio per questa ragione che si sente di partire alla carica chiedendole aiuto. Sa che non verrà giudicata e che, al massimo, le dirà che in tutta onestà non può fare nulla per lei. E invece, la giovane Durand non si smentisce neanche questa volta. « Ma certo che è possibile. Se è una questione economica è difficile che io riesca a convincere Douglas a farti pagare di più – dovremmo passare per lui, per questo genere di questioni. Non... Non so se è opportuno che ci parli io visti i tempi che corrono tra me e lui, ma se hai bisogno posso provarci. Ma per quanto riguarda le ore in più possiamo sicuramente trovarti qualcosa da fare. Solo che va rendicontata per bene al Ministero, se deve corrispondere ad una paga maggiore. » Mia annuisce registrando tutte le istruzioni della mora, cercando di farsi un piano mentale su come agire sulla questione. Non ha bisogno di qualcuno che interceda per lei, ma di certo non vuole nemmeno scavalcarla andando a parlare direttamente con il petulante ispettore Douglas. Dal suo punto di vista la serra è di Théa ed è lei a decidere se certe cose possono o non possono essere fatte nel posto che ha creato. « Si certo - cioè non è necessario che ci parli tu. Non voglio darti altre rogne. Però - mi sembrava giusto parlarne prima con te. » Questo posto è casa tua, e il fatto che tu mi abbia accolta non mi dà il permesso di fare come se non ci fossi. Per Mia, la serra non sarebbe esistita senza Théa, né poteva funzionare senza il suo benestare. Le sue capacità di gestione - e non solo - era indiscutibili e per questo, la giovane Yagami non l'avrebbe mai scavalcata. « Trovo difficile immaginare che Douglas possa negartela, però, se il lavoro che devi svolgere è ben giustificato. Al Ministero piace mostrarsi magnanimo, equo, cercano di premiare chi lavora duro – li fa apparire giusti. » « E che premio! » Si sentì di commentare con vena ironica. « Sto chiedendo di cambiare orari perché per colpa loro non riesco più a gestire la mia vita, ma sì - immagino che è facile essere il problema e la risposta al problema. » Era frustrante rendersi conto che in ogni caso avevano il coltello dalla parte del manico. Ma cosa altro poteva fare? « Ma tu vuoi effettivamente lavorare ancora di più di quanto tu non faccia già o c'è altro sotto?» Disse piano, soppesando le parole. « Non è per ficcanasare, non voglio sapere i fatti tuoi. Solo... È per capire cosa mi stai chiedendo, esattamente. Cioè, se ti serve un impiego reale o soltanto uno da far risultare a registro, ecco » Di fronte a quella domanda, così diretta, Mia trattenne il respiro osservandola con un'espressione un po' più eloquente. Secondo te? Sarebbe stato molto più semplice sputare il rospo e basta, ma la verità era che non sapeva se fosse giusto. Théa rischiava già parecchio con quanto stava accadendo nella serra. Metterle di traverso altri problemi, forse sarebbe stato ingiusto. Accidenti, Théa, perché devi essere così sveglia? Ma prima che possa rispondere, la giovane tira fuori un regalo alquanto inaspettato che suscita una risata goliardica che non riesce a trattenere. « Ti va? Così io faccio una pausa, qui, e tu mi spieghi un attimo meglio? » Ebbe un istante di tentennamento, dovuto al luogo in cui si trovavano. Se ci becca qualche Auror siamo spacciate, ed io ho già abbastanza problemi con gli Auror. Sarebbe però necessario puntualizzare che non c'è propriamente un divieto di uso di sostanze di quel tipo. E comunque secondo me la gente usa roba pure più pesante qui dentro. Così dopo aver tirato un lungo sospiro, rotea gli occhi al cielo prendendo la bustina dalle mani di lei dirigendosi verso l'uscita.« Fanculo facciamolo. Hai delle cartine o improvvisiamo? » Tanto chi vuoi che ci becchi alla Vigilia. « Usciamo però da qui dentro. Ci manca solo che il petulante ispettore si lamenti del fatto che abbiamo impuzzolentito i suoi preziosissimi report. » Così si diresse verso il fondo della serra, percorrendo diverse grandi aiuole per accertarsi che fossero sufficientemente lontane. Quando furono sufficientemente lontane dalle entrata, le passò la bustina, sedendosi direttamente a terra lungo una delle corsie, sospirando.
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    « Comunque il punto è questo. Non ho proprio bisogno di più ore, quindi non sarebbe un problema di rendicontazione, ecco. » Si strinse nelle spalle. Certo, più soldi non le avrebbero fatto schifo, specialmente ora che doveva contare solo sul lavoro nel ghetto e ciò che le passava Raiden. Ne aveva abbastanza per lei e Haru, ma avrebbe preferito contare meno sugli sforzi del marito, che era certa si stesse sacrificando un po' troppo per mandare loro abbastanza. Figuriamoci poi; al mercato nero lo scambio sterlina-galeone è svantaggioso da morire. Quegli stronzi se ne approfittano da morire. « Però avrei bisogno di essere qui la sera, mi spiego? » Soffiò un po' spazientita ciondolando la testa prima di allungare la mano per afferrare la sigaretta e farsi un lungo tiro annuendo piuttosto soddisfatta. Era roba buona. Naturale. « Va beh, senti. In sostanza mi sono messa nei guai. E ora sto cercando di liberarmene. Ho un accollo che mi sta col fiato sul collo perché vuole farmi fare delle cose che non mi piacciono fuori dal ghetto. » Pausa. « Ultimamente si è fatto un po' troppo insistente, e vorrei semplicemente dirgli senti coso, non posso, sono una working girl. » Ci provava a mantenere l'aria da dura, Mia, a farla sembrare una cosa da niente, ma la verità è che quella mattina Kai Parker le aveva fatto per la prima volta paura. « Gente un po' losca. » Pausa. « Loschissima. » Si strinse nelle spalle. « E non posso nemmeno andare a lamentarmi col petulante ispettore o con chissà chi altri, perché è gente loro, capito? Devo stare zitta e buona, ed evitare finché.. » Finché cosa, Mia? « Finché questo posto non salta. » Perché deve saltare prima o poi. Succederà. « Niente ho deciso di starmene alla larga per non sfidare la sorte. Quindi devo tentare di lavorare il più possibile in quegli orari - così almeno ho una scusa in più per starmene alla larga. Però faccio tutto ciò che serve eh - non è che voglio guadagnare a buffo.. se sono ore in più però.. ecco - possiamo impegnarle in maniera diversa. » Tanto perché non siamo già nei guai fino al collo.


     
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