How could I fear any hurricane?

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    23 dicembre

    «Sono tre volte che me lo fa rifare, Théa. Tre. Non ho tempo per venire ad aiutare anche te.» Galathéa trasse un respiro profondo, mordicchiandosi le labbra debolmente colorate di rosso – un evento più unico che raro, una condizione a cui si era piegata per volere delle colleghe, che le avevano passato la tinta scarlatta sulle labbra screpolate dalle basse temperature e dall'acqua calcarea, più che per desiderio di partecipazione ai festeggiamenti natalizi. Era una festa che non disdegnava, come la maggior parte delle festività comandate, ma aveva sempre trovato ben più entusiasmanti i solstizi. Ogni tanto, nell'ultimo periodo, era capitato che Théa sentisse la mancanza di quelle ed altre tradizioni warlock, sebbene l'avrebbe negato a chiunque avesse provato a chiederglielo. Si passò una mano sul viso espirando rumorosamente. «Miles. Non è una questione di se o di ma. Tu lo capisci questo?» Si grattò dietro l'orecchio, la mano guantata mentre si occupava di riempire i cesti che la serra avrebbe donato, riempiendola con il po' di raccolto che erano riusciti a ricavare in quei pochi mesi di lavoro. Mazzi di broccoli, spinaci invernali, carote e cavoli creavano un bouquet decisamente povero, ma gratuito, il che significava migliorare la giornata di qualcuno. Non li avrebbero consegnati personalmente: si parlava di un evento di beneficenza in occasione delle festività natalizie, che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno. Avevano sparso la voce tra le famiglie che sapevano avere maggiore difficoltà, viste le quantità limitate di prodotto a disposizione, unito agli avanzi del mercato – e quindi merce non proprio più freschissima. Galathéa, quella sera, era al decimo cestino, e si domandava se e come ne avrebbe riempito un undicesimo senza dover attingere alla scorta della serra – che tecnicamente non sarebbe neanche dovuta esistere, e che per quanto modesta avrebbe senz'altro fatto comodo – con occhi indiscreti puntati addosso praticamente tutto il tempo. «Dobbiamo trovarla immediatamente. Al diavolo il modulo inutile di quel cretino di Douglas – che ti può fare, Miles? Ignoralo, come facciamo il resto del tempo» Bisbigliò tra i denti, i finocchi ficcati nel paniere con più veemenza di prima. Miles deglutì rumorosamente, guardandosi attorno con aria circospetta. Il capanno degli attrezzi, ormai sede da un mese della più grande spina nel fianco della vita di Galathéa in quel momento storico, aveva la porta semiaperta, una luce calda che fuoriusciva dalla porta schiusa. Senza neanche riuscire a scorgerlo, all'interno, sul viso della ragazza comparve un'espressione sprezzante, immaginandoselo lì dentro, chino sui suoi moduli stupidi e insulsi, nel suo angolo di burocrazia o qualunque fosse il nome imbecille che gli aveva dato. «Ha detto che è importante, però, e non ha tutti i torti. Il Ministero vorrà sapere che fine ha fatto tutta questa merce – dice che va riportato esattamente il peso in grammi di tutto ciò che stiamo donando.» Scosse la testa, di nuovo espirando, esausta, le mani a pugno sui fianchi. «Ci permettono, miracolosamente, di fare beneficenza, ma vogliono sapere quanta ne facciamo? Ma tu lo senti, come suona, Miles?» Chiuse gli occhi, cercando di mantenere la calma, regolando il tono di voce, per non mortificare inutilmente un validissimo collaboratore più che perché temesse di essere udita. «È importante puntare i piedi, ogni tanto, capisci che voglio dire?» Riprese a trafficare con il cestino, un nastro rosso attorno al manico che tentava di annodare in un fiocco. Ci metteva troppa forza, però. «Prendilo per il culo, di tanto in tanto. Digli: sì, certamente, te lo farò avere il prima possibile! E in realtà poi fai passare due, tre giorni...» «Non ci riesco, Théa. Lo sai perché.» Lei si arrestò, la triste decorazione floscia ricaduta su se stessa. Annuì piano, voltandosi verso di lui. «Lo so. Hai ragione, scusa. Lascia fare a me.» Gli rivolse un sorriso stretto e rapido, prendendogli dalle mani i moduli sofferti, e poggiandogli sobriamente una mano sulla spalla. Da quando era arrivato l'ispettore era stata sempre più irritabile, sentiva sempre gli occhi addosso, e il suo gruppo di collaboratori si sentiva allo stesso modo, inevitabilmente. Si rendeva conto di avere una certa responsabilità in questo, perché il suo umore dettava quello altrui. Cercava di farci attenzione, e di non irritarsi se gli altri non riuscivano a tenergli testa quanto lei, che talvolta ci provava, altre volte lasciava fare, limitandosi a schioccare la lingua e scuotere il capo. Non molto era cambiato dal loro secondo primo incontro: era stato un proseguire costante e uniforme del reciproco disprezzo, le pareva evidente, nel tentativo di mandare avanti una baracca – nel senso letterale del termine – rispetto alla quale lui si poneva come capitano al timone un po' troppo spesso per i gusti di Galathéa. Gli altri spesso abbassavano la testa, persone come Miles che avevano una famiglia da sfamare, che non potevano permettersi di essere segnalati al Ministero. Non era esattamente un regno del terrore, quello della serra, ma probabilmente lo sarebbe stato, se non ci fosse stata lei: di questo era convinta. Confliggere non era una scelta, ma era una necessità – una addirittura benefica al resto del gruppo, checché gli altri ne dicessero, benché le chiedessero più volte di mostrarsi più collaborativa per non creare tensioni. Le tensioni c'erano già, non erano certo generate dalle sue risposte, ma dal funzionario e dal suo stupido angolo della burocrazia. Ciononostante, doveva ammettere di essere stata sufficientemente fuori di sé, nell'ultimo periodo, da chiudersi ancor di più al mondo esterno, venendo al lavoro imbronciata e lasciandolo ancora più seccata, con la promessa che il giorno dopo sarebbe stato migliore soltanto perché non avrebbe più dovuto sorbirsi quella presenza insultante e offensiva, fortunatamente presente a giorni alterni. La questione, adesso, era che Galathéa aveva un problema. Un piccolo problema – quattro grammi, non di più. Lasciati sul tavolo davanti all'ingresso del vivaio, forse da lei, forse da qualcun altro, poco importava; esistevano, ed erano perduti, e non più ritrovati, il che significava che qualcuno se li era intascati. La piccola piantina di indica era stata coltivata con estrema cura e segretezza da Joe e Miles – un progetto in tandem di cui andavano molto fieri. Adesso, però, che c'era il rischio che Douglas ne avesse scoperto l'esistenza, l'orgoglio aveva lasciato spazio allo sgomento generale. E toccava a lei, ora, andare a fondo della questione. Si fece coraggio, inspirando ed espirando un paio di volte, raccogliendo tutta la calma di cui era capace, sfiorando una piantina lì vicino, persino, come credesse che potesse infonderle serenità. Sull'uscio della piccola e cadente porticina di legno Galathéa bussò un paio di volte, senza ricevere risposta. Si fece avanti lo stesso, quindi, schiarendosi rumorosamente la gola per annunciarsi. Di fronte a lei, la scrivania era sistemata in modo da essere celata parzialmente dalla figura seduta, che quindi le dava le spalle. «Signorino Douglas» fece poi, il tono leggermente più brusco di come l'aveva programmato. Quando si voltò, Galathéa stirò un sorriso così falso da parere un'espressione dolorosa. Non sapeva neanche perché ci stava provando. «Disturbo? Ci metterò un secondo» Come se il tuo lavoro qua dentro servisse a qualcosa. Vieni qua solo a tenere calda la sedia e a compilare i documenti, osservando da vicino ogni nostro movimento, contando ogni cazzo di petalo caduto. Che vita triste. A volte, questo andava detto, Nate aveva saputo sorprenderla – come nel caso del Bezoar, che alla fine era stato determinato a lasciarle. Ci aveva impiegato una settimana prima di decidersi a recuperarlo dallo scaffale dove l'aveva lasciato lui e sistemarlo dove di dovere. La irritava, sentirsi in qualunque forma in debito nei suoi confronti. «Miles, il mio collaboratore, mi ha detto che le ha chiesto di ricompilare questi fogli tre volte.» Il tono cercava disperatamente di essere cortese e pacato. Era la voce con cui cominciava a rivolgersi a lui ogni volta che era costretta a farlo e non poteva ignorarlo o rispondere con un «mh-mh» di assenso o dissenso. «C'è qualche motivo? Qualche problema in particolare? Forse è il caso che lei si rivolga a me quando c'è un problema di questo tipo» Fece il giro della scrivania, di modo da trovarsi di fronte a lui. La luce calda illuminava i lineamenti del suo viso, circondato dal buio. Non gli si rovinava la vista, in quel modo? «Non le mandano altre luci, da Londra, per il suo angolo di burocrazia? Deve starsene in penombra? Non può usare un incanto lumos? Ah, già» fece, un cenno del mento verso la bacchetta dell'ispettore, già intenta a rilasciare calore, per intiepidire la stanza. «Servirebbe un altro artefatto... Come un ditale» commentò distrattamente, pollice che faceva ruotare l'anello in bronzo che portava al mignolo. Com'è che l'aveva chiamata? Primitiva, le pareva di ricordare. «Lei non deve farsi problemi, lo sa, qualora abbia bisogno di qualcosa da parte nostra siamo a disposizione. Le bacchette purtroppo servono agli altri, ma sono sicura che potremmo trovare un modo per rendere il suo lavoro più confortevole.» Una spocchia di cui non si era ancora disfatta, nonostante gli ammonimenti. Percorse lo spazio davanti alla scrivania, prima di recuperare uno sgabello dal fondo della stanza, e portarlo di fronte a lui, sedendocisi sopra. Allungò quindi i documenti sulla scrivania, battendoci sopra con la mano. «Allora, quale pare sia il problema e come posso rendermi utile?» Altro sorriso stirato, stavolta più stretto.


    Edited by liquid smooth - 6/12/2023, 11:59
     
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    « Signorino Douglas »
    Non è giornata. Lo pensò, non lo disse. Nella sua sedia scomodissima, immerso tra le scartoffie, in quella gabbia di ghiaccio Nate era consolato solo dal debole tepore del proprio incantesimo riscaldante e dal pensiero che nel giro di qualche ora avrebbe fatto ritorno al proprio attico. L’interruzione di Galathéa Durand non l’aveva messa in conto, ma soprattutto non si sentiva psicologicamente pronto a soffrirla. In quelle settimane i due avevano avuto modo di tollerarsi a sufficienza, talvolta con una buona dose di malizia da parte di entrambi, di modo che si era venuto a creare un curioso conflitto che in alcune occasioni Nate si divertiva perfino ad alimentare. Quella mattina, però, la sua testa era altrove. Il freddo della serra gli entrava nelle ossa a discapito di tutti i tentativi, e quel lavoro meccanico e ripetitivo gli pesava più del solito. Il grigiore di quella giornata l'aveva trascinato suo malgrado in un vortice di dubbi e desolazione, dove vedeva vividamente la gabbia in cui si era cacciato con le sue stesse mani. Si chiese, mentre guardava con occhi spenti l'ennesimo modulo da compilare, se stesse ancora costruendo il proprio futuro: se da qualche parte, in mezzo a quelle mille scartoffie troppo disordinate per i suoi gusti, ci fosse davvero un'opportunità nascosta, una possibilità di riscatto come voleva credere. Forse lui non era diverso da chi abitava ad Iron Garden - forse la sua strenua convinzione che sarebbe uscito, prima o poi, da quella situazione, lo rendeva il più illuso di tutti, lì dentro. « Disturbo? Ci metterò un secondo »
    Restava il fatto che Galathéa Durand era insopportabile. Voltatosi, le rivolse uno sguardo disinteressato. « Ormai sei entrata » osservò pigramente, tanto da perdere per un momento quella formalità che lui stesso aveva voluto imporre. « Miles, il mio collaboratore, mi ha detto che le ha chiesto di ricompilare questi fogli tre volte. » Sospirò, spostando il peso del corpo da una parte, tanto da far roteare leggermente la sedia girevole su cui era accomodato. « Già. » « C'è qualche motivo? Qualche problema in particolare? Forse è il caso che lei si rivolga a me quando c'è un problema di questo tipo. » Si strinse nelle spalle. « Erano sbagliati. Non l'ho chiamata perché non pensavo che ad una persona non bastassero tre tentativi per azzeccare un paio di numeri. » Seguì i movimenti della ragazza mentre attraversava lo spazio che li separava, fino a superare la sua scrivania. Lo sguardo cadde sulla sua figura esile, che ebbe l'impressione essere ancora più gracile rispetto a quando l'aveva conosciuta per la prima volta. Delle volte si chiedeva come avesse fatto a convincersi che gli piacesse, quel giorno a Flindrinkin. « Non le mandano altre luci, da Londra, per il suo angolo di burocrazia? Deve starsene in penombra? Non può usare un incanto lumos? » Aggrottò la fronte, prendendosi un istante per guardarsi intorno. Quasi non si era accorto della penombra che regnava nel capanno degli attrezzi. Oltre le finestre di vetro, il sole era da un po' scomparso dietro le nuvole spesse e cariche di pioggia. I pensieri martellanti di Nate l'avevano distratto perfino da questo. « Ah, già. Servirebbe un altro artefatto... Come un ditale. » Ah, già. Sospirò, stancamente. Era evidente che fosse una di quelle mattine in cui Galathéa era in vena di punzecchiarlo. Ecco che si ricomincia. « Lei non deve farsi problemi, lo sa, qualora abbia bisogno di qualcosa da parte nostra siamo a disposizione. Le bacchette purtroppo servono agli altri, ma sono sicura che potremmo trovare un modo per rendere il suo lavoro più confortevole. » Inarcò un sopracciglio. « È questo il motivo del rossetto di oggi? » Battuta pessima, lo riconosceva da sé, eppure gli strappò un sorriso assistere alla reazione di lei. Aveva notato quel dettaglio insolito sul volto della ragazza non appena gli si era avvicinata, e per qualche ragione era stato più forte di lui non commentarlo con quel suo fare sarcastico, anche nella speranza di metterla a tacere una volta per tutte.
    « Allora, quale pare sia il problema e come posso rendermi utile? » Quando Galathéa si sedette di fronte a lui, Nate riprese serietà, prima di prendere il modulo dalle sue mani. « Il problema è molto semplice: è sbagliato » ripetè nuovamente, con semplicità. Con la penna cerchiò alcuni dati, per poi mostrarglieli: i totali erano tutti sbagliati, sembravano quasi svolti da una persona convinta che due più tre facesse sei. « Probabilmente avrebbe dovuto occuparsene lei dall'inizio. Ma poiché è lei incaricata dell'organizzazione del personale, sinceramente non capisco perché mai abbia deciso di delegare questa task a qualcuno che è evidentemente discalculico. » Ridacchiò sommessamente,
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    prima di recuperare di cancellare dal modulo con un colpo di bacchetta tutti i totali scritti da Miles, e poi porgerle nuovamente il foglio, insieme ad una penna. « Non mi interessa chi compila questo modulo, mi importa che sia fatto correttamente. » È chiedere tanto? « Non mi importa nemmeno se lei reputa che sia un passaggio inutile - Siamo in due - questo è quello che dobbiamo fare. » E poche storie. « Può compilarlo anche qui e ora. Se lei è in grado di far di conto, ci vorranno appena due minuti » disse, puntellando il gomito sulla scrivania e poggiando il mento sul pugno chiuso, intento a osservarla. « Di certo gradirei che, quanto meno al quarto tentativo, i numeri per una volta fossero corretti.» Era consapevole quanto fosse paradossale che il Ministero volesse controllare le rimanenze di tutte le piante della serra, perfino gli ortaggi. Il ragionamento era tanto intelligente quanto subdolo, ai suoi occhi: Londra poteva ammettere che i residenti di Iron Garden coltivassero per il proprio sostentamento, per soddisfare a mala pena i bisogni della comunità, ma non poteva ammettere che ci fossero eccedenze di alcun tipo. Il rischio era che la produttività di Iron Garden potesse superare l’autosufficienza e sfociare naturalmente nel commercio - e quindi in autonomia economica. Alla base della segregazione delle creature magiche stava un concetto elementare: ostacolare ogni tipo di crescita fuori misura. Era essenziale che gli abitanti di Iron Garden, alla fine dei giochi, fossero dipendenti dal Ministero, altrimenti sarebbe stato impossibile controllarli come desiderato. A Nate di certo non faceva piacere far parte di quel sistema, alimentare quelle ingiustizie sociali che non avevano nessun fondamento, come non aveva fondamento l’autorità di un pazzo resuscitato da chissà dove, che era diventato il simbolo di quel nuovo regime. Era stato perfino costretto ad appendere una foto di Eric Donovan sul muro del capanno degli attrezzi, per ricordare ai residenti dove risiede la nostra fedeltà, così avevano detto al Ministero. Visibilmente esasperato, dai suoi stessi pensieri e dalle facce scocciate della Durand, restò a guardarla in silenzio mentre completava il documento. « Come va con la preparazione dei cestini? » s'informò nel frattempo, ricordandosi dell'iniziativa natalizia. « Dovrebbero presenziare alcuni rappresentanti Ministeriali, alla serata di beneficienza, almeno così mi è stato detto. » Ciò per dire: cerchiamo di non fare figuracce.
     
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    «Ormai sei entrata». Sei? A Galathéa quell'altalenante confidenza, quelle sottile modalità con cui l'ispettore si poneva nei confronti suoi e dei suoi collaboratori, come asserendo il proprio potere attraverso mosse subdole e apparentemente innocenti, dava decisamente dieci volte più fastidio di quando era apertamente ostile. Era chiaro che non si fosse trattato di uno scivolone o una dimenticanza – se c'era una cosa che aveva capito della persona in questione era la propria indomabile fascinazione e attenzione per la forma. C'erano stati dei momenti in cui si era lamentata col gruppo – se l'era concesso una volta o due, arrivati ad un punto, dopo un mese, in cui era chiaro a tutti che tra i due non scorresse buon sangue; la maggior parte delle volte che aveva fatto loro notare atteggiamenti simili, parole scelte meticolosamente, mosse neanche troppo celate che puntavano a scavalcarla, imbarazzarla o ridicolizzarla, si era sentita rispondere in modo tiepido e con tentativi di rappacificarli, come se li notasse soltanto lei, come se ci stesse pensando troppo, leggendo troppo a fondo a insignificanti frasette che puntavano proprio a quello, a farle saltare i nervi. Perché? Se l'antagonismo che era provenuto dal primo momento da parte di Galathéa poteva essere comprensibile a chiunque, a suo parere, e ancor di più poteva essere giustificato dalla semplice sgradevolezza dell'atteggiamento del funzionario ministeriale, non si riusciva a spiegare l'instancabile voglia di lui di darle filo da torcere. Perché doveva essere personale, ad un certo punto, e sopratutto doveva essere spiacevole anche per lui un ambiente di lavoro del genere. Era forse un modo che aveva per richiederle attenzioni, forse sperando che in questo modo sarebbe riuscito ad ottenere il suo rispetto? C'era qualcosa della persona di Théa, storicamente e notoriamente poco affabile nei confronti dell'altro, che era capace di entrargli sotto la pelle e rendere impossibile smettere di attaccarla ad ogni occasione utile si presentasse? Qualunque fosse la risposta, non gliel'avrebbe data vinta solo per il bene placito – non avrebbe mai e poi mai abbassato la testa di fronte a certe prepotenze, sebbene si sarebbe sempre riservata il lusso di scegliere le proprie battaglie. Certe volte semplicemente non ne valeva la pena, e si trovava costretta a fare la persona superiore – dal momento che lo era, semplicemente, e stava avendo a che fare con un individuo prepotente, oltre che infantile. Come la storia del modulo, chiaramente una sublimazione neanche troppo celata del proprio desiderio di asserire il proprio potere, fare sfoggia del fatto che con un solo gesto del dito poteva obbligarli a lavorare il doppio, il triplo, finché non fosse stato soddisfatto. Sadico. Non poteva credere che gli altri le chiedessero di lasciar perdere e permettergli di trattarli così. «Erano sbagliati. Non l'ho chiamata perché non pensavo che ad una persona non bastassero tre tentativi per azzeccare un paio di numeri.» Con la fronte corrugata, Théa rigirò il foglio nella propria direzione, leggendo per la prima volta di cosa effettivamente trattasse il modulo. Non aveva dubitato neanche per un secondo che potesse non trattarsi di impossibili pretese e capricci idioti che Nate aveva mosso soltanto perché doveva annoiarsi. «Infatti normalmente non è così. Miles è un ottimo collaboratore e non è mai capitato che io gli chiedessi di ripetere un'operazione banale come questa tre volte – quindi il problema non sta in lui. Accanirsi non serve a niente, semmai rende il lavoro meno efficace.» Qualcosa di cui lui sembrava occuparsi tremendamente, da quando era arrivato alla serra, spesso controllando il loro operato offrendo suggerimenti assolutamente non richiesti su come lavorare in modo più veloce, a suo parere. «È questo il motivo del rossetto di oggi?» Galathéa aggrottò la fronte di fronte a quell'esplicita provocazione, suo malgrado avvertendo una leggera fitta di imbarazzo, un vezzo che neanche aveva richiesto che veniva usato per prendersi gioco di lei su un piano diverso dal solito, perché lo avvertì come personale, non più professionale. Esitò per qualche istante nel rispondere, rimanendo a fissarlo nella penombra, ingoiando il rospo. «Ovviamente no» fu la risposta poco mordace che riuscì a produrre, presa alla sprovvista, inconsciamente serrando i denti per quel fendente. Le dava fastidio l'idea che potesse percepirla da un punto di vista fisico, sebbene razionalmente sapesse che ciò fosse inevitabile. Commenti sull'aspetto erano più che fuori luogo, la mettevano a disagio, perché varcavano la soglia del contesto lavorativo e si addentravano in altri tipi di territorio. Lei non avrebbe mai commentato il suo abbigliamento, il leggero filo di barba che cominciava a comparire sul suo volto, l'acqua di colonia che decideva di indossare o non indossare al mattino – per lei quelle cose neanche esistevano. «Il problema è molto semplice: è sbagliato.» Sbuffò sonoramente, battendo le palpebre ripetutamente come cercava di fare quando doveva mantenere la pazienza. Non conosceva individui al mondo più irritanti, ne era certa. «Probabilmente avrebbe dovuto occuparsene lei dall'inizio. Ma poiché è lei incaricata dell'organizzazione del personale, sinceramente non capisco perché mai abbia deciso di delegare questa task a qualcuno che è evidentemente discalculico.» «Lo reputo altamente improbabile,
    con tutto il rispetto.»
    Almeno, che io sappia. Il modulo richiedeva di specificare il tipo di merce donata e la quantità esatta, stimata per metro quadrato. Un calcolo neanche troppo difficile, e che il ragazzo aveva già svolto in passato. A meno che... Un atroce dubbio le balenò nella mente, celato da un'espressione che rimaneva corrucciata, mentre pregava con tutta se stessa che Miles fosse solo discalculico e non un completo idiota. «Non mi interessa chi compila questo modulo, mi importa che sia fatto correttamente». La voce dell'ispettore sembrò ovattata, oscurata dall'attenzione focalizzata sui numeri che aveva davanti – la somma dei quali eccedeva significativamente non soltanto dal risultato matematico che si sarebbe ottenuto calcolandolo sui numeri presenti sul foglio, ma anche rispetto al quantitativo generale di produzione della serra dichiarato. Ha incluso la merce in surplus? «C'è qualcosa che non torna, ha ragione» fece, scuotendo la testa, mordicchiandosi le labbra. «Non mi importa nemmeno se lei reputa che sia un passaggio inutile» continuò tuttavia lui, mentre lei continuava a pensare a come avesse potuto sbagliarsi di tanto. Forse aveva pesato la merce effettivamente presente nei cestini, senza sottrarre quella che tecnicamente non sarebbe dovuta esistere affinché tornassero i conti. «Può compilarlo anche qui e ora. Se lei è in grado di far di conto, ci vorranno appena due minuti.» La fronte di Théa si distese immediatamente, a sentire quelle parole. «Oh, non lo so, tra primitivi non impariamo la matematica.» Inclinò la testa di lato, la voce addolcita in modo innocente. «Contiamo sulle dita e utilizzando ramoscelli secchi per fare le addizioni e le sottrazioni.» Schioccò la lingua, quindi, sbuffando dal naso. Ma tu guarda con che coraggio. «Di certo gradirei che, quanto meno al quarto tentativo, i numeri per una volta fossero corretti.» Annuì, avvicinando a sé il foglio magicamente ripulito. Per quanto le costasse, avrebbe obbedito, e li avrebbe compilati lei stessa, avendo a mente di dover fare un discorso evidentemente urgente a Miles sul significato di errori come quello. Erano fortunati che Douglas fosse abbastanza stupido da non farsi due domande e sufficientemente pieno di sé da pensare ad un deficit dell'apprendimento di fronte ad un banale errore di calcolo del genere – ripetuto tre volte allo stesso modo – invece di insospettirsi. Come sempre, comunque, fingersi cretini funzionava. «Dev'essere davvero discalculico, ispettore» fece, un brivido di disgusto a pronunciare quelle parole, che dissimulò grattandosi il naso. «Lo compilerò io. Magari in futuro mi assicurerò che documenti così delicati non scavalchino me. Immagino che sia accaduto perché ero occupata con i cestini di beneficenza, ho sottovalutato la cosa.» Assottigliò le labbra, passandosi la lingua sui denti. Cosa sarebbe successo se Douglas avesse scoperto delle coltivazioni nascoste? Fin dove si sarebbe spinto, pur di rovinarli? Non voleva saperlo, e cercava di pensarci il meno possibile. Tutti loro l'avevano sfangata per un pelo, però. Così rimase seduta dov'era, fece i conti con calma – ennesimo esercizio di potere, perché le somme le avrebbe potuto calcolare lui stesso, invece di sottoporla a quell'inutile distrazione. «Come va con la preparazione dei cestini?» «Perché? Vuole aiutarci?» Lo sfidò, con un soffio ironico. «Siamo indietro. Non abbiamo abbastanza prodotti da donare affinché avanzi qualcosa per il mercato o per noi. Bisogna ringraziare il suo Ministero, e questo preciso modulo, in effetti, per questo.» Una rendicontazione ridicola, non c'era neanche bisogno di dirlo. Producevano cibo, ed era un crimine produrne troppo. Questo era il mondo per cui parteggiava Douglas. «Dovrebbero presenziare alcuni rappresentanti Ministeriali, alla serata di beneficenza, almeno così mi è stato detto.» Théa gli rivolse un'espressione compiaciuta, per la prima volta sollevando la testa dal foglio, per guardarlo. «Un'ottima occasione per mettervi in mostra, quindi. Cosa ne pensa, lei, della presenza del Ministero ad un evento per fare carità nei confronti degli abitati nel ghetto, in cui ci ha bandito lui stesso?» Fece, parlando piano e assottigliando lo sguardo, mentre posava per un attimo la piuma sulla scrivania. Era una domanda sincera, una sua effettiva curiosità – no, di più, era un bisogno profondo che avvertiva di sentirsi dare una spiegazione plausibile, concreta: come se lo spiegava? Qual era stata la comunicazione d'ufficio, al riguardo? «Lei presenzierà? Potrebbe servirci una mano alla bancarella.» Una richiesta chiaramente sarcastica, perché oltretutto la presenza di Nate avrebbe complicato le cose, dovendo furtivamente trasportare qualche cestino in più del previsto all'evento di beneficenza – cestini chiaramente non conteggiati in quel modulo. Era certa che non sarebbe stato un problema, però: il peso era espresso in grammi, non in numero di ceste donate, e l'eccedenza era talmente sottile che ad occhio sarebbe stato estremamente difficile accorgersene, persino per chi conosceva la quantità dichiarata, e cioè soltanto Nate, a parte loro. Era più l'aspetto logistico di trasporto dei cestini in più, auspicabilmente comunque non oltre due o tre, che avrebbe dato nell'occhio qualora lui fosse stato presente. Saperlo le sarebbe tornato comodo, comunque: avrebbe potuto organizzarsi in modo da ridistribuire la merce in più tra i cestini prefissati. Il fiato le si condensava in nuvolette. Esausta da quel freddo a cui Douglas si rassegnava pateticamente pur di non ammettere le proprie mancanze, passò nuovamente il pollice sulla superficie del ditale al mignolo. In un secchio in fondo alla stanza una leggera fiamma scarlatta illuminò ulteriormente la stanza, riflettendo ombre allungate e danzanti, la potenza del fuoco controllata affinché non incenerisse l'intera baracca. «Avevo freddo.» Sentì la necessità di specificare, in risposta a quella che gli parve un'espressione incerta dell'ispettore. «Questa bacchetta mi pare abbastanza inutile.» Tornò a chinare la testa, per continuare con la compilazione.
     
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    Rimase a guardare Galathéa, intrattenuto in una certa misura dal suo scoprire gradualmente gli errori sul modulo, e passare dall'incredulità alla realizzazione. Chissà perché devi sempre presumere che il mio scopo sia quello di soverchiare. « C'è qualcosa che non torna, ha ragione. » « Ecco, appunto. » Godette di quella piccola vittoria, mentre riprendeva ad appuntare informazioni sui moduli che aveva davanti a sé. Per carità, aveva fatto pace con il proprio ruolo - sapeva benissimo di essere il cattivo della storia di quelle persone - però lo infastidiva essere tacciato di accanimento o prepotenza quando le sue richieste al contrario erano perfettamente ragionevoli. « Oh, non lo so, tra primitivi non impariamo la matematica. Contiamo sulle dita e utilizzando ramoscelli secchi per fare le addizioni e le sottrazioni. » Quella risposta piccata fu capace di strappargli una risata: lo compiaceva oltremodo l'idea che una battuta che aveva fatto al loro primo incontro nella serra, solo e unicamente per infastidirla, si fosse insinuata nei suoi ricordi in maniera indelebile, tanto da far sì che la rivangasse con risentimento. Fu la seconda vittoria che sentì di potersi aggiudicare nel giro di pochi istanti, e tanto gli bastava. Con personalità come quella di Galathéa, ogni conversazione era come una partita a tennis: ci si rilanciava la palla all'infinito, fino a quando uno dei due non la colpiva più forte dell'altro e si aggiudicava il punto. « Mhm, allora potrebbe essere un problema con le somme. Non so se abbiamo abbastanza ramoscelli per calcolare tutti questi chili » si ritrovò a scherzare, con leggerezza.
    Lei, nel frattempo, era tornata a concentrarsi sul foglio. « Dev'essere davvero discalculico, ispettore. Lo compilerò io. Magari in futuro mi assicurerò che documenti così delicati non scavalchino me. Immagino che sia accaduto perché ero occupata con i cestini di beneficenza, ho sottovalutato la cosa. » Fu quindi appurata l'evidente discalculia di Miles, e quel punto Nate le rivolse un'espressione eloquente, allargando le braccia, come se quella ammissione fosse per lui una specie di liberazione. Ci voleva tanto? « Mi spiace essere duro, ma proprio su questo documento il Ministero è estremamente puntiglioso » si sentì di giustificarsi. E per ovvie ragioni. « Un'irregolarità qui potrebbe significare controlli più stringenti. È essenziale che siate attenti. » Probabilmente non sarebbero state percepite in quell'ottica (anzi), ma Nate intendeva quelle parole come un vero e proprio consiglio gratuito; quegli appunti erano l'unico strumento che possedeva per metterli in guardia circa l'accanimento che il Ministero covava verso di loro, e la necessità di difendersi. Cos'altro poteva fare?
    « Perché? Vuole aiutarci? » Nate sorrise, di fronte a quell'offerta per nulla invitante. « Sono convinto che ve la caviate benissimo senza di me. Non sono mai stato un asso in Erbologia, sarei d'intralcio » si defilò, così da quella che, in fondo lo sapeva, era più una provocazione che un reale invito. « Siamo indietro. Non abbiamo abbastanza prodotti da donare affinché avanzi qualcosa per il mercato o per noi. Bisogna ringraziare il suo Ministero, e questo preciso modulo, in effetti, per questo. » Sospirò, prima di allungarsi verso una pila di fogli alla propria sinistra. Quella che Galathéa evidenziava era una problematica seria e tangibile, alla quale lui, al momento, non aveva una soluzione. Comprendeva l'esigenza di controllare i risvolti commerciali della raccolta, per quanto poco condivisibile, ma trovava inutilmente crudele l'ostinazione di far rimanere un gruppo non esiguo di persone senza nulla da mangiare, solo per evitare che fossero troppo autosufficienti. A suo parere, esistevano modi più efficaci di controllare la produzione di Iron Garden, senza che gli abitanti nel frattempo morissero di fame. « Lo so » ammise, con evidente frustrazione, recuperando tra i fogli un modulo in particolare. « Ho fatto richiesta due giorni fa all'ufficio competente affinché aumentasse la soglia delle quantità coltivate consentite. Al momento sono quantità al limite del ridicolo. » Di solito evitava di esporsi troppo con i lavoratori della serra in merito ai suoi pensieri circa le decisioni del Ministero, ma su quel punto non aveva remore: la relazione di quattro pagine che aveva presentato qualche giorno prima al Ministero poteva facilmente essere sintetizzata in poche parole: state prendendo delle decisioni ridicole. Una relazione non cambiava il mondo, certo, ma era tutto ciò che gli era concesso.
    « Un'ottima occasione per mettervi in mostra, quindi. Cosa ne pensa, lei, della presenza del Ministero ad un evento per fare carità nei confronti degli abitati nel ghetto, in cui ci ha bandito lui stesso? » Gli occhi verdi del ragazzo si ritrovarono inaspettatamente incastrati in quelle iridi nocciola, curiose e sfidanti. La domanda di Galathéa aveva il tono suadente di una provocazione e l'ingenuità dell'interesse più sincero, dettato dalla mera curiosità. Lo colse in contropiede. La fronte aggrottata, si mise a sedere più comodamente sulla propria sedia, chiudendo con una certa inerzia il fascicolo che aveva di fronte, a cui stava lavorando - quasi a voler prendere tempo. « Penso che il Ministero è molto attento a sfruttare le opportunità di visibilità. » È tutto vero e non c'è niente di male, in fondo. « E ci tiene a far sapere agli abitanti di Iron Garden che si prodiga per il loro benessere. » O, per lo meno, ci tiene a convincerli che sia così. « Lei presenzierà? Potrebbe servirci una mano alla bancarella. » Incrociò le braccia al petto, assorto nella conversazione. « È probabile che verrò per qualche ora. Nell'eventualità che qualcuno dei funzionari desideri visitare la serra, ho intenzione di occuparmi di riordinare entrambi gli spazi. » Serra e capanno degli attrezzi, visto che sono due piccole discariche ormai. Sospirò. « Poiché l'ordine non è la priorità di qualcuno - le scoccò un'occhiata eloquente - vorrà
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    dire che dovrò occuparmene con le mie risorse. »
    Aveva già avvertito gli elfi domestici, affinché si organizzassero in modo tale da dedicare qualche pomeriggio nei giorni successivi al riordine della serra. Non avrebbe permesso che il Capo dell'Ufficio Regolazione delle Creature entrasse in una serra disordinata e piena di scatoloni e tubi in cui inciampare.
    Fu distratto improvvisamente dai suoi pensieri da rumore scoppiettante che lo fece sobbalzare, accompagnato da un tepore nuovo e accogliente. Quando si voltò, alla propria destra un piccolo fuoco controllato aveva iniziato a bruciare dentro al secchio in cui di solito Nate si divertiva a lanciare i documenti appallottolati, per testare la propria mira. Guardò Galathéa, con aria interrogativa. « Avevo freddo » fu la spiegazione di lei, e Nate non avrebbe replicato, se lei non avesse subito seguito con un « Questa bacchetta mi pare abbastanza inutile. » Restò a guardarla, divertito, mentre lei con la sua caparbia serietà tornava a chinare il capo per dare attenzione al modulo, i capelli lisci che le ricadevano sul viso, lasciandoglielo intravedere solo in parte. « Proprio non riesce a dimenticare quella faccenda, vero? L'ho offesa così tanto? » Inclinò leggermente il capo, per studiare meglio l'espressione di lei. Era già la seconda volta, nel giro di pochi minuti, che la ragazza alludeva all'irriverenza che Nate aveva dimostrato nei confronti della sua comunità. Eccola, un'altra vittoria. Di Galathéa come persona sapeva poco e niente, ma una cosa ormai gli era ben chiara: era fiera della proprio passato, della propria gente. Colto da quella curiosità, protrasse un braccio sulla scrivania, fino a raggiungere la mano di lei che calzava il fantomatico ditale, ferma sulla superficie liscia del tavolo. Infilò le dita sotto quelle di lei, e delicatamente le sollevò, con il dorso dell'indice. Percepiva il tepore della pelle della ragazza contro la propria, ed un leggero tremito delle dita che forse ne testimoniava la ritrosia ed il disagio per quel contatto inaspettato. Lui fu deciso, e con gli stessi movimenti di chi sta per praticare un baciamano portò la mano di lei più vicino al volto, fermandosi non appena il ditale fu ben visibile al suo sguardo. Restò qualche momento ad analizzarlo, curioso. « Che materiale è? » chiese, tracciando la superficie dell'oggetto con il pollice, mentre con gli occhi ne studiava le piccole scanalature. « Forgiato da Goblin? » tentò, per quanto lui stesso non fosse convinto di quell'ipotesi. Il metallo di Goblin era forse troppo convenzionale. « È un bell'oggetto » concesse, sollevando infine lo sguardo, fino a incrociare quello di lei.
     
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    «Mi spiace essere duro, ma proprio su questo documento il Ministero è estremamente puntiglioso. Un'irregolarità qui potrebbe significare controlli più stringenti. È essenziale che stiate attenti.» Non hai idea di quanto. Non reagì, limitandosi a ripensare a quelle parole, che parvero riecheggiarle nella testa. Forse aveva sottovalutato la capacità delle persone che lavoravano con lei di gestire un segreto del genere, sicuramente reso più complicato dalla presenza fissa di un funzionario ministeriale – qualcosa a cui nessuno di loro era preparato. Aveva cercato di rassicurarli e di negare ogni tipo di preoccupazione, come sempre cercando di dare il buon esempio, ma forse era il caso di tornare sull'argomento, accertarsi che fossero ancora convinti di voler portare avanti quella storia, che nessuno avesse ripensamenti o, peggio ancora, che non la stessero prendendo sotto gamba. Forse nel tentativo di tranquillizzarli si era mostrata troppo sicura di sé e del loro nascondiglio segreto, e così non erano più sufficientemente all'erta. Un altro pensiero, mentre affondava gli incisivi nella carne delle labbra inferiori, fu che trovasse strano che Douglas permettesse loro di compilare documenti così tanto importanti senza accertarsi personalmente che il peso dichiarato corrispondesse a quello effettivo. Anche di fronte all'errore di Miles, non aveva chiesto loro di pesare la merce davanti a lui, monitorando che venisse riportata la giusta quantità – si era fidato. Aveva dato loro quattro diverse opportunità per manipolare quei documenti, e loro chiaramente l'avevano fatto. Anche adesso, Théa gli sedeva davanti, compilando una rendicontazione fasulla. Probabilmente doveva pensare che lo spirito di autoconservazione dei lavoratori della serra si sarebbe di riflesso espanso fino a lui, che non fosse nel loro immediato interesse falsificare documenti del genere col rischio di venire scoperti. E tuttavia non le tornava, quel discorso, perché su tante altre cose Douglas si era mostrato abbastanza presente – fin troppo – e meticoloso, sicuramente non per spirito altruistico. Théa era certa che nessuno si sarebbe accorto della merce in eccesso, ma se così fosse stato non sarebbe stato un problema soltanto per loro, ma anche per l'ispettore, su questo non ci pioveva. Del resto, non aveva idea di che tipo di punizione li avrebbe aspettati, qualora fossero stati scoperti. Un errore del genere poteva comunque essere facilmente ridimensionato, giustificato come un semplice difetto della bilancia, o persino un tentativo coraggioso di violare le regole in occasione di un evento di beneficenza; difficilmente avrebbe generato il sospetto che nella serra esistesse un'intera area nascosta dedicata alla coltivazione di merce non dichiarata. Ma plausibilmente avrebbero potuto voler ispezionare la struttura, quello senz'altro, e allora si sarebbe trattato di stringere i denti e pregare che l'incanto di Disillusione facesse il proprio lavoro. Preferiva non pensarci, al momento, perché non serviva a niente. Suppose, quindi, che non potendosi trattare di fiducia, quella piccola negligenza dell'ispettore potesse invece essere ricondotta a semplice dimenticanza, forse un eccesso di certezza di non avere a che fare con degli sprovveduti che avrebbero agito contro il proprio interesse. Forse aveva pensato che loro ragionassero come lui. «Lo so. Ho fatto richiesta due giorni fa all'ufficio competente affinché aumentasse la soglia delle quantità coltivate consentite. Al momento sono quantità al limite del ridicolo.» Questo sì che le faceva comodo. Non alzò la testa che per qualche veloce istante, al sentire quelle parole, guardandolo fugacemente ed evidentemente perplessa. A che gioco stava giocando? Cosa gli cambiava se aumentavano la produzione consentita, ad uno che non guardi oltre la punta del proprio naso? Cercava di mostrarsi altruista, dipingersi come il buono della situazione? L'avrebbe fatta sembrare ancora più pazza di fronte ai propri collaboratori, se avessero saputo di quella sua mossa. «Lo sappiamo, che sono ridicole. Ma c'è un motivo specifico se le cose sono state fatte in questo modo, e lo conosciamo entrambi. Questo tipo di richieste sono destinate e rimanere inascoltate, e questo lo sa anche lei» Quando smetterai di fingere di avere a cuore il bene delle persone di Iron Garden? Quando cadrà la maschera di funzionario ministeriale? Probabilmente mai, perché è questo ciò che sei: una marionetta. Conosceva bene come si vivesse senza rivelare davvero i propri pensieri, era una condizione familiare, quotidiana persino; ma rinnegare la propria natura per così tanto tempo e in modo così radicale è impossibile persino per i più abili manipolatori, per cui in fondo, alla base, anche se ogni tanto mentiva, e dava risposte in cui non credeva davvero, e usava parole vuote e prive di significato, in lui si annidava comunque un nucleo di sincerità, di autentico benestare. Non sapeva perché continuasse a interrogarsi sulla veridicità di ciò che Nate diceva, perché cercasse di estrapolargli
    dichiarazioni che sembrassero più sincere, che sembrasse sentire davvero – perché non accettasse che fosse davvero tutto lì, che non ci fosse alcun indottrinamento, alcuna maschera. Forse lo faceva perché si rifiutava di credere che esistesse qualcosa di così profondamente diverso, distante, antitetico a sé e a ciò a cui lei credeva, così opposto alla realtà che lei vedeva con i suoi stessi occhi. Adesso che ce l'aveva di fronte un giorno sì e uno no, un simbolo dell'inspiegabile cattiveria, il profondo egoismo, la sopraffazione a tutti i costi, non poteva esimersi dal volerci affondare le mani dentro, toccarla con la punta delle dita e continuare, ancora e ancora, finché tutto il marcio non fosse venuto a galla, o finché non si fosse invece dissolto. E invece, puntualmente, rimaneva delusa. «Penso che il Ministero è molto attento a sfruttare le opportunità di visibilità. E ci tiene a far sapere agli abitanti di Iron Garden che si prodiga per il loro benessere.» Un disco rotto, a quel punto, ogni tentativo di offrirgli opportunità di redenzione tristemente fallito. E va be', si vede che non ce la fai proprio. Ridacchiò, semplicemente, con un sorriso amaro sul viso, mentre finiva gli ultimi calcoli. Non serviva neanche dargli una risposta, non sapeva perché ci provasse. Era come cercare di far ragionare una persona affetta da Alzheimer, aiutarla a ricordare ripetendo ancora e ancora informazioni che poi scivoleranno via dopo qualche minuto. Era più forte di lei, ma si sarebbe arresa. «È probabile che verrò per qualche ora. Nell'eventualità che qualcuno dei funzionari desideri visitare la serra, ho intenzione di occuparmi di riordinare entrambi gli spazi. Poiché l'ordine non è la priorità di qualcuno – vorrà dire che dovrò occuparmene con le mie risorse.» «Bene, ci sarò anche io con lei, allora. Mi faccia sapere quando ha intenzione di dedicarcisi e la raggiungerò», mio malgrado, affermò semplicemente, senza sentire di dover offrire una giustificazione per una decisione che era perfettamente nelle sue facoltà poter prendere.
    «Proprio non riesce a dimenticare quella faccenda, vero? L'ho offesa così tanto?» Galathéa non alzò la testa, ma interruppe la propria scrittura, passandosi la lingua sui denti. La riprese pochi istanti dopo. «Non si monti troppo la testa, ispettore. Trovo offensive molte cose della sua persona, questo non è un segreto. E trovo oltraggiosa l'ignoranza.» Credeva di aver colto nel segno, forse, di averla toccata laddove era più sensibile. La cosa sembrava compiacerlo, e di nuovo, Galathéa fu attraversata da una scarica di piacere sinistro, che la avvolgeva ogni volta che lui lasciava intravedere quell'istinto sadico a fiutare il sangue. Ecco quello che sei. Era un rapporto complicato, quello con la propria comunità. L'avrebbe protetta da qualunque pregiudizio, pur non avendo mai avvertito la propria appartenenza alla congrega. Non puoi permetterti di giudicare qualcosa che non conosci. Avrebbe auspicato che tanto bastasse per rimettere al proprio posto l'individuo di fronte a lei, ma, suo malgrado, così non fu. Poggiò nuovamente la penna sulla scrivania, i polpastrelli sul foglio che lo guidarono nel rivolgerlo verso l'altro lato del tavolo, indicando che aveva finito. Ignorandolo, quando Nate allungò la mano verso la sua, i loro palmi a contatto, Galathéa trattene il fiato per un istante. Il corpo immobile, muoveva solo gli occhi, che osservavano il viso dell'interlocutore e cercavano di leggerne l'intenzione. «Che materiale è?» Cosa del proprio comportamento gli aveva dato l'impressione di potersi prendere la libertà di toccarla? Aveva forse alimentato troppo quella reciproca ostilità idiosincratica, tanto da favorire confidenze di quel tipo? No, era l'ennesima sfida. «Forgiato da Goblin? È un bell'oggetto.» L'altra mano di lei, poggiata in grembo, si chiuse in un pugno, inconsapevolmente. Deglutì, osservandolo sfiorare il ditale con il proprio pollice, avvicinando la sua mano a sé per scrutarlo da vicino. Le mani di una persona dicono molto di lei. Era un aspetto a cui faceva molta attenzione, quello. Le mani di Eliphas erano grandi, le dita sottili, e si muovevano rapide, eleganti, contenevano tutta la sua essenza, l'affidabilità; avevano toccato, sfiorato, afferrato, e avevano anche ferito. Quelle di Théa erano più piccole, seppur affusolate, le nocche arrossate e secche, i polpastrelli resi callosi dalle corde di chitarra e dai lavori, le cuticole scorticate, alcune dovevano aver sanguinato. La terra rimaneva incastrata sotto l'unghia, e lei aveva smesso di combatterci. Quelle di Nate erano più massicce, pulite, ordinate, calde, lisce. Non raccontavano alcuna storia che non fosse quella del privilegio.
    Non interruppe quel contatto. Guardò il ragazzo negli occhi, ne ricambiò l'intensità, tenendo a bada l'istinto di strappare via la mano. Si mostrò tranquilla, il mento sollevato, e lo lasciò fare. In silenzio, serrò la mascella per un istante, il respiro appena più affannato. Non avrebbe saputo spiegare cosa di quel gesto la turbasse tanto – forse l'aveva trovato viscido, quel contatto, forse l'aveva avvertito come l'ennesimo gioco per asserire il proprio potere, la seconda volta che in quella conversazione si sentiva messa in difficoltà, perché l'avversario giocava una partita diversa, senza regole, attraversando campi che avrebbero dovuto rimanere esclusi. «È semplicemente fatto di bronzo». Non si sarebbe sottratta. Spostando lo sguardo dai suoi occhi al dorso della sua mano, Galathéa la cinse con la propria, quella libera, e la fece ruotare, affinché fosse rivolta verso l'alto, un movimento veloce ma delicato. «Questo anello che porta lei, invece?» Ricambiò lei, a voce più bassa. «È oro?» E fece lo stesso, avvicinando la mano di Nate al viso, sostenendolo con il palmo. A quella distanza, avrebbe potuto avvertire il soffio caldo del respiro di lei. «Ha le mani di chi non ha lavorato un giorno in vita propria.» Fece infine, interrompendo quel contatto prolungato, lasciando cadere la mano di lui.
     
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    « Lo sappiamo, che sono ridicole. Ma c'è un motivo specifico se le cose sono state fatte in questo modo, e lo conosciamo entrambi. Questo tipo di richieste sono destinate e rimanere inascoltate, e questo lo sa anche lei. » Era difficile controbattere. Se la burocrazia del Ministero della Magia era già lenta e imperfetta nei suoi tempi migliori, con Greengrass al comando, ora era semplicemente un disastro - per non parlare, appunto, del fatto che anche nelle migliori delle condizioni le sue richieste sarebbero rimaste inattese. Continuava a tentare, Nate, perché quello era l'unico strumento che conosceva e approvava per provare a cambiare le cose, perché, per quanto imperfetta, contorta, macchinosa e crudele lui credeva ancora profondamente nella politica, nello stato magico, nel potere della contrattazione e della diplomazia. Tentativi riottosi come quello dei Ribelli lo avevano disgustato molto più per i metodi che per gli ideali in sé, che in fin dei conti avrebbe considerato anche condivisibili. Non poteva non convenire, tuttavia, che anche le vie da lui predilette fossero assai tortuose.
    « Bene, ci sarò anche io con lei, allora. Mi faccia sapere quando ha intenzione di dedicarcisi e la raggiungerò. » Inarcò un sopracciglio, sorpreso da quella proposta. « Credevo che le piacesse abitare in questo caos » rimarcò, facendo roteare la penna nera tra l'indice ed il medio con movimenti veloci. « Comunque vorrei portare qui i miei elfi domestici già nel primo pomeriggio di oggi, se per voi può andare. La sua presenza non è assolutamente richiesta, ci tengo a precisare che questa è un'attenzione aggiuntiva che vorrei personalmente dedicare a questi spazi. Ciò per dire, non si senta obbligata a presenziare. » Annuì, lanciando di sfuggita uno sguardo all'orologio appeso alla parete spoglia della stanza, proprio accanto al Messia. Era già trascorsa metà mattinata e lui aveva concluso poco e niente. « Se vorrà essere presente, tuttavia, potrebbe sempre occuparsi di supervisionare gli elfi nel loro lavoro. Non hanno contezza degli spazi e del loro utilizzo, e chi meglio di lei può dare loro indicazioni più precise su dove e come riporre gli oggetti, di modo che il loro intervento non sia poi d'intralcio alla vostra operatività nel quotidiano. » Un'osservazione logica, priva di alcuna impronta sarcastica o significati sottesi. Se hai voglia di aiutare, ben venga, altrimenti non sarà un problema.
    « Non si monti troppo la testa, ispettore. Trovo offensive molte cose della sua persona, questo non è un segreto. E trovo oltraggiosa l'ignoranza. » Ignoranza, addirittura. La osservò per qualche istante, immobile, l'espressione accigliata e lo sguardo indecifrabile. Talvolta si chiedeva per quale motivo restava ad ascoltare, impassibile, quelle offese gratuite e completamente fuori da ogni realtà. L'impulso di rispondere e metterla a tacere una volta per tutte era non indifferente, eppure finiva sempre per mordersi la lingua, ligio ai doveri del proprio ruolo lavorativo, al proprio codice di condotta personale e, più di tutto, aggrappato saldamente al proprio orgoglio. Un qualsiasi cedimento su quel fronte l'avrebbe reputato come una sconfitta, e lui le sconfitte non le prendeva mai bene - Galathéa, questo, l'avrebbe scoperto di lì a poco. Aveva lasciato correre quella battuta, come tante altre, tronfio della propria superiorità in più di un ambito della vita.
    Qualcosa era scattato quando lei, apparentemente impenetrabile dalle provocazioni di lui, aveva trattenuto la sua mano tra le proprie, calde e ruvide al tatto, e aveva iniziato ad esaminarla con la medesima meticolosa cura. Era pregno di disprezzo, quello sguardo. Assistere a quella scena provocò in Nate una sensazione peculiare. « Questo anello che porta lei, invece? È oro? » Guardando Galathéa in quegli istanti, si era immaginato cosa ci dovesse essere dietro a quegli occhi sdegnati, alle labbra arricciate: il tocco sulla mano di Nate era delicato, eppure lui avrebbe giurato di poterla sentire stringergli le nocche con violenza, e in un angolo della propria mente riusciva realmente a vederla, con gli occhi assetati di sangue e l'espressione insaziabile, tirare fuori un coltello dalla lama affilata e recidergli l'intera mano con un gesto improvviso. « È oro » confermò lui, attento a sostenere il suo sguardo, dopo qualche attimo di silenzio. « Ha le mani di chi non ha lavorato un giorno in vita propria. » Galathéa abbandonò la presa, e Nate ritrasse istintivamente il braccio, assottigliando lo sguardo. Eccolo, il suo attacco: così infido e puerile da apparirgli ridicolo. Rise, sommessamente, perché questo a suo parere si meritava un'osservazione così vuota e ignorante come la sua. E avrebbe potuto commentare in modo disinteressato, lasciar cadere il discorso, memore del patto che aveva fatto con se stesso circa la propria superiorità, e l'inutilità del contrattacco in un contesto di quel tipo. L'avrebbe fatto, in un altro momento, perché in fondo lui era così: ad un certo punto lasciava perdere. Si stancava facilmente, del conflitto, perché faticava a vederne i vantaggi, e raramente provava piacere nel conflitto con l'altro, quand'anche questo dovesse essere intellettualmente stimolante. Era più forte di lui, e dopo le prime battute, per noia o per spirito di conservazione che fosse, alzava le mani, andava via senza rispondere e chiudeva la porta, né permetteva all'altro di replicare. Era il suo modo di vincere anche quando perdeva.
    Non seppe spiegarsi perché quelle
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    parole, in quel momento, scatenarono una reazione opposta. Forse era la frustrazione verso il proprio ruolo, l'incertezza rispetto alla propria carriera, la stanchezza per quelle ore trascorse in un luogo così scomodo, o semplicemente la profonda irritazione che provava quando Galathéa apriva bocca per commentare con le sue stolte osservazioni qualsiasi cosa che riguardasse la sua persona. Il petto fu scosso da un respiro profondo, mentre si passava una mano sul volto, evidentemente stanco di quella dinamica, e della persona che aveva davanti. « Stiamo avanzando delle presunzioni un po' insolenti, mi pare » disse, tamburellando con gli indici sull'orlo della scrivania. « Signorina Durand, lei non sa niente di me. Niente. » Le labbra stavolta non erano piegate da un sorriso sardonico, ma dal veleno dell'offesa. « È curioso che sia proprio lei a tacciarmi d'ignoranza, a questo punto. Queste accuse vuote non hanno significato, e sono semplicemente inappropriate. » Parlare a vanvera solo per dar fiato alla bocca, in poche parole. « Prima che lei lavorasse qui, fino a qualche mese fa, se non vado errato, io facevo un lavoro d'ufficio e lei suonava il pianoforte nelle sue giornate. » Insomma, nessuno dei due stava a spaccare pietre. « Non ha elementi per giudicare o commentare il mio lavoro, la mia propensione a quest'ultimo, o le mie scelte in questo senso. » Non ho scelto io di sedermi da questa parte della scrivania. « Lei è vittima di una sorte ingiusta, e per qualche ragione questo la porta a disprezzare profondamente chiunque non condivida il suo stesso destino. » Era una cosa che Nate detestava, il pregiudizio rispetto al privilegio. « Il mondo non è diviso in carnefici e martiri, né in lavoratori e nullafacenti. Lo trovo un modo di pensare gretto e presuntuoso. » Sospirò, chiudendo con un tonfo la pratica che aveva davanti, tanto da far sollevare alcuni fogli lì vicino per il colpo. Quella discussione lo aveva alterato più del dovuto, più di quanto si sarebbe concesso. Realizzò, e si pentì immediatamente di essersi esposto un po' troppo, aver usato termini non prettamente da funzionario ministeriale. Di essere stato, per un momento, più Nate che ispettore. « Adesso la invito ad uscire e lasciarmi lavorare in pace. » Anche se lei questo non lo considera un lavoro.
     
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    «Credevo che le piacesse abitare in questo caos» – una frase a cui Théa non diede peso, l'ennesima conferma che la persona che aveva di fronte viveva in un mondo avulso dalla realtà, in cui non soltanto non ascoltava ciò che lei gli diceva e non capiva come funzionavano certe cose come i cantieri ed aveva priorità allucinanti, ma pensava persino anche qualcuno – lei – potesse trarre un qualsiasi tipo di piacere, ad un qualunque livello di consapevolezza più o meno alto, dalla condizione in cui si trovavano. «Comunque vorrei portare qui i miei elfi domestici già nel primo pomeriggio di oggi, se per voi può andare. La sua presenza non è assolutamente richiesta, ci tengo a precisare che questa è un'attenzione aggiuntiva che vorrei personalmente dedicare a questi spazi. Ciò per dire, non si senta obbligata a presenziare.» I miei elfi domestici. Erano quelle le risorse a cui faceva riferimento – non le proprie forze, o la magia, o dei collaboratori esterni. Degli elfi domestici. La pratica barbarica appartenente al mondo magico di utilizzare creature estremamente potenti, soggiogate al controllo di un padrone, e il fatto che continuasse tutt'oggi indisturbata, la lasciavano quantomeno perplessa. Non era una sua battaglia, non apparteneva a quel mondo – ogni tanto doveva ricordarlo a se stessa – ma non di meno apparve accigliata quando comprese l'identità dei collaboratori. C'era chi diceva che a loro quella condizione stesse bene, che la preferissero; personalmente, non ne aveva mai visto uno, e conosceva i meccanismi di potere e il modo in cui si radicano all'interno del tessuto di una società, ogni cambiamento a certi equilibri pericolosamente minaccioso. Personalmente, si sarebbe semplicemente astenuta dal farne mai ricorso, nella propria vita, e si sarebbe sentita a disagio a doverne fare uso in quell'occasione più che mai. «Se vorrà essere presente, tuttavia, potrebbe sempre occuparsi di supervisionare gli elfi nel loro lavoro. Non hanno contezza degli spazi e del loro utilizzo, e chi meglio di lei può dare loro indicazioni più precise su dove e come riporre gli oggetti, di modo che il loro intervento non sia poi d'intralcio alla vostra operatività nel quotidiano.» Théa scosse la testa, senza neanche soffermarsi sulla sensazione che da qualche parte, in quelle parole, si celasse l'ennesimo tentativo di sminuirla – di fatto era quello il suo lavoro: la capo cantiere, prima di tutto. «Preferirei non ricorrere ad elfi domestici. Non credo si appropriato per svariate motivazioni» aggrottò la fronte, parlando piano, ragionando ad alta voce. «Questioni personali a parte, che trovo vano esplicitare vista la nostra ormai scontata divergenza di opinioni su come certe cose vadano fatte, credo che l'intervento di un personale di pulizia sia quantomeno fuori luogo quando la serra sta ancora venendo ristrutturata. Non ha proprio senso. Si possono liberare i pavimenti dai calcinacci – che comunque sono già ammassati, per cui dovrebbe essere semplice riuscire a spostarli con la magia. Si può riporre gli attrezzi nel capanno – qui» fece, guardandosi attorno, lo sguardo che si posò per un secondo sull'immagine di un raggiante non-morto-Eric-Donovan affisso alla parete, e vi rimase per qualche istante, sbigottito, prima di sciogliersi in un'espressione sconfitta che sembrava dire ho perso le speranze. «– per cui sarà necessario risistemare tavolo e sedie per fare più spazio. Sono cose che possono occuparci dieci minuti al massimo, la aiuterò io. Non scomoderei le sue risorse per così poco. Piuttosto, gradirei essere presente nel caso in cui i funzionari del Ministero vogliano visitare la serra. Trovo essenziale che conoscano chi vi è a capo.» E speriamo di chiuderla qui, 'sta storia dell'ordine. È maniacale.
    «È oro», e Théa piegò gli angoli della bocca verso il basso, compiaciuta. Ma che bravo. Non riuscì a trattenere un sorriso sfidante quando Nate ritrasse il braccio, rimanendo lì, oltraggiato da una mossa innocente – almeno tanto quanto lo era stato lui. Aveva cercato di ridacchiare, in risposta alla sua osservazione, e il suo sorriso si allargò, un po' sinistro, cosicché da fuori, se qualcuno fosse stato capace di vederli interagire senza conoscerne il contesto, avrebbe potuto credere che vi fosse una certa sintonia, tra i due, che stessero ridendo all'unisono, ad una stessa battuta. Che si stessero divertendo. Lentamente, Théa sentiva di star perdendo certi freni inibitori, ne era
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    consapevole, il dubbio che si insinuava nella sua mente che forse si stesse affacciando sull'orlo di qualcosa che superava il semplice contrattacco, che esulava dal ripagare con la stessa moneta per difendersi e imporsi – in breve, che si stesse sporgendo oltre il limite dei colpi che era giusto e consentito che lei assestasse. Un dubbio lecito, un'eco di disciplina che proveniva da un codice specifico, da un esempio ben chiaro. Qualcosa che tratteneva la sua natura, la rabboniva, l'addolciva, in una tensione costante e artificiosa. Estenuante. «Stiamo avanzando delle presunzioni un po' troppo insolenti, mi pare» «Giudico solo ciò che vedo» Il movimento in avanti che compì fu microscopico, la schiena leggermente inclinata, e i gomiti poggiati sulla superficie del tavolo, mentre invece lui pareva simmetricamente ritrarsi, poggiare il dorso contro la sedia. Non scappare. «Signorina Durand, lei non sa niente di me. Niente.» Aggrottò la fronte, ancora una smorfia divertita. Da quando era importante che sapessero con certezza qualcosa, l'uno dell'altra? Non si erano forse mossi dal primo momento su premesse diverse, sulla consapevolezza della reciproca ignoranza, e che tanto bastasse per farsi un'idea di chi avessero di fronte? O forse era concesso solo a lui, avanzare ipotesi azzardate, insolenti suggestioni, commentare il suo aspetto, toccarla, intrudere? «È curioso che sia proprio lei a tacciarmi d'ignoranza, a questo punto. Queste accuse vuote non hanno significato, e sono semplicemente inappropriate». Lo lasciò parlare, provando autentica fascinazione per ciò che stava osservando, l'esempio più plateale del proverbio you can dish it out, but you can't take it. Era quello che aveva desiderato sin dal primo momento, in un certo senso, che i loro ruoli potessero essere ribaltati, che lei potesse farlo sentire come si sentiva lei, e quello era un assaggio, a modo suo. Qualcosa lo legittimava a trattarla con sufficienza, superiorità, maleducazione persino, e poi si riservava il diritto di impedire all'altro di fare lo stesso con lui. O forse si stava solo vergognando? Aveva detto qualcosa di vero, aveva colto nel segno? «Prima che lei lavorasse qui, fino a qualche mese fa, se non vado errato, io facevo un lavoro d'ufficio e lei suonava il pianoforte nelle sue giornate.» «Va errato, ma continui pure» non potè trattenersi dal ribattere, la testa poggiata sul palmo di una mano, in una posizione che comunicava sincero ascolto. Vediamo come ne esci. «Non ha elementi per giudicare o commentare il mio lavoro, la mia propensione a quest'ultimo, o le mie scelte in questo senso. Lei è vittima di una sorte ingiusta, e per qualche ragione questo la porta a disprezzare profondamente chiunque non condivida il suo stesso destino.» Continuò a guardarlo, agitato nella sua poltroncina, le iridi nocciola illuminate dalla luce della lampada sul tavolo. Quindi non posso giudicarti, ma tu puoi credere di sapere come io mi senta, o perché mi senta così, e puoi credere di comprendere il mio comportamento sulla base di un'esperienza che non hai, e che non avrai mai. «Il mondo non è diviso in carnefici e martiri, né in lavoratori e nullafacenti. Lo trovo un modo di pensare gretto e presuntuoso» «Ispettore, ma io non le ho dato del nullafacente. Lei fa molto – solo non con le sue mani. È questo il punto.» La voce di Galathéa suonava dolce, come volesse rassicurarlo, come parlasse per confortarlo. In un altro momento, sentire una frase del genere l'avrebbe presa alla sprovvista, avrebbe forse colto nel segno più di quanto non intendesse fare l'interlocutore. In quello, Théa fiutava il sangue, e siccome c'è un animale in ciascuno di noi, che attende il momento giusto per venire fuori, quello dentro di lei non avrebbe mollato la presa. «Adesso la invito a uscire e lasciarmi lavorare in pace.» Ma lei sarebbe rimasta a godere di quella posizione ancora per qualche istante. La testa leggermente reclinata, lo guardava sottilmente dall'alto, gli incisivi a trattenere le labbra inferiori. Per ancora qualche secondo, lei ne esplorò i lineamenti, per la prima volta non più segnati dall'aria altezzosa che li distendeva in un'espressione serena, ma contratti, gli occhi appena più sfuggenti, che correvano sui fogli di fronte a sé, forse un indice che la conversazione per lui fosse finita, forse una distrazione, una via di fuga. Ci fu un momento in cui provò il desiderio di sollevargli il mento, con l'aiuto del pollice, di modo che tornasse a guardarla, cosicché lei potesse continuare a leggerne le reazioni – ad essere testimone di quella, in particolare, e vedersi riflessa nelle iridi chiare di lui. «L'ho forse messa a disagio?» bisbigliò, apertamente gongolante. «Non era mia intenzione. Suppongo che semplicemente la vediamo in modo diverso, ma non c'è bisogno di offendersi per questo. Che gliene importa, ispettore, della mia opinione? Del giudizio che posso avere o non avere di lei?» Eccola, quella linea tra il giusto e il sadico, tra l'etico e l'accanimento, tra il buono e il cattivo; ne cavalcava l'onda consapevole che la discesa sarebbe stata la parte peggiore. «Ci sono carnefici e martiri, in questo modo, per quanto lei voglia pensare che non sia così. Io non faccio parte della seconda categoria, però» fece, scuotendo piano la testa, i capelli lunghi e mossi che le accarezzavano le spalle, le punte come a solleticare la superficie della scrivania. Non era una vittima, non era una martire, ma avrebbe lottato per un mondo più giusto, in cui le regole erano uguali per tutti, e se questo doveva renderla il carnefice della situazione presente, se per questo doveva comportarsi in modo sgradevole, allora l'avrebbe fatto, questo era giusto – vero? «Non trovo ci sia niente di peggio di un lupo che si finge agnellino. Come fa il vostro Messia –» fece, indicando l'immagine ridicola appesa al muro con la testa. È sempre stato questo, il punto: da che parte decidi di stare, quale faccia decidi di mostrare? Se sei dalla parte dei cattivi non puoi ergerti a paladino della giustizia. « – per cui deve prendere una posizione, ispettore.» Si sollevò in piedi, lo sguardo fisso su di lui, i palmi aperti poggiati sul tavolo. Si sporse ancora un po' in avanti, abbastanza vicina da percepirne il profumo. «La smetta di recitare».
     
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    « Preferirei non ricorrere ad elfi domestici. Non credo sia appropriato per svariate motivazioni. » Impossibile per lui non alzare gli occhi al cielo a quelle parole. Quelle storie sugli elfi domestici erano per lui come una specie di cantilena ripetitiva, un po' come i membri anziani dell'Astra che alle cene ripetevano le solite storie di gioventù che tutti conoscevano. Le aveva sentite tutte, riguardo i diritti degli elfi, la segregazione, la schiavitù, eccetera, eccetera. Era pronto, dunque, a dissociarsi mentalmente nel tempo che lei avrebbe impiegato a fare le proprie considerazioni buoniste sulla faccenda elfi domestici - ma, per sua fortuna, Galathéa fu abbastanza cortese da risparmiargli l'ennesima predica scontata. « Questioni personali a parte, che trovo vano esplicitare vista la nostra ormai scontata divergenza di opinioni su come certe cose vadano fatte, credo che l'intervento di un personale di pulizia sia quantomeno fuori luogo quando la serra sta ancora venendo ristrutturata. Non ha proprio senso. Si possono liberare i pavimenti dai calcinacci – che comunque sono già ammassati, per cui dovrebbe essere semplice riuscire a spostarli con la magia. Si può riporre gli attrezzi nel capanno – qui. per cui sarà necessario risistemare tavolo e sedie per fare più spazio. Sono cose che possono occuparci dieci minuti al massimo, la aiuterò io. Non scomoderei le sue risorse per così poco. Piuttosto, gradirei essere presente nel caso in cui i funzionari del Ministero vogliano visitare la serra. Trovo essenziale che conoscano chi vi è a capo. » Nate si strinse nelle spalle, con noncuranza. Aveva ascoltato solo in parte quel suo vaneggiare - proprio non capiva per quale motivo fosse così ostinata nel far regnare quel caos, lì dentro. Era un cantiere, certo, ma esistevano anche cantieri ordinati e vivibili. « Non voglio che questo posto splenda, mi rendo conto che è impossibile. Ma che sia almeno presentabile per chi lo venga a visitare. E sì, come preferisce, se vuole presenziare io non ho niente in contrario. » Volle chiuderla lì, perché la questione l'aveva stancato.
    L'intera conversazione l'aveva esasperato e, giunto al culmine della propria pazienza, pochi momenti più tardi, non desiderava altro che vederla scomparire oltre la porticina di legno del capanno degli attrezzi. « Ispettore, ma io non le ho dato del nullafacente. Lei fa molto – solo non con le sue mani. È questo il punto. » Ma lei era ferma lì, a fissarlo con quei suoi occhi da bambina dispettosa, la frenesia di chi ha appena scoperto un nuovo giocattolo e non vede l'ora di distruggerlo alla prima prova. « L'ho forse messa a disagio? » Quel tono angelico e quasi stranamente sensuale aveva il suono di un martello elettrico alle sue orecchie: fu quel profondo fastidio a fargli cadere le braccia con pesantezza contro i braccioli della sedia, il corpo che già preannunciava i segnali di resa. « Non era mia intenzione. Suppongo che semplicemente la vediamo in modo diverso, ma non c'è bisogno di offendersi per questo. Che gliene importa, ispettore, della mia opinione? Del giudizio che posso avere o non avere di lei? » Niente, non mi importa niente. Rispose tuttavia con un sospiro, gli occhi verdi schivi da quelli curiosi di lei, intenti ad esaminare alcuni documenti che stava riponendo in una pila, come se Galathéa non fosse presente. « Nessuna offesa, si figuri. Non sono la persona che si lascia offendere da una come lei. » Fu generico, in quella definizione: voleva esserlo. Una come lei poteva portare con sé un miliardo di significati, ed il tono sprezzante con cui pronunciò quelle parole mirava ad accennare a quelli assolutamente peggiori. « Ci sono carnefici e martiri, in questo modo, per quanto lei voglia pensare che non sia così. Io non faccio parte della seconda categoria, però. » Fu in quel momento che sollevò il capo, i suoi occhi verdi irrimediabilmente richiamati all'attenzione da quell'ingenua fierezza. « Saresti tu la carnefice, quindi? » chiese, calmo, scandendo ogni sillaba, la voce pregna della stanchezza che provava. Assaporò quella sua propria esasperazione come fosse sale sulla lingua, mentre gli occhi percorrevano la sadica curvatura delle labbra di Galathéa, le sottili grinze che piegavano la pelle intorno ai suoi occhi a mandorla, in quell'espressione soddisfatta; la linea delicata della mandibola, e perfino le clavicole ossute che la scollatura del suo maglione lasciava intravedere. Si sforzava di trovare una bruttura, qualcosa di raccapricciante da poter ripudiare con sdegno. Qualcosa a cui aggrapparsi per liberarsi di quel sadico piacere che provava, in quel momento. Se avesse potuto bere l'essenza di Galathéa, probabilmente sarebbe stata succo al limone: quello che ti costringe a contrire il volto per la sua acredine, invade il palato e lo devasta, lasciando al proprio passaggio il sapore aspro dell'acido citrico e la sorpresa finale di una bocca dissetata.
    « Non trovo ci sia niente di peggio di un lupo che si finge agnellino. Come fa il vostro Messia, per cui deve prendere una posizione, ispettore. » Inarcò un sopracciglio, confuso. Io devo prendere una posizione? Ne seguì i movimenti, mentre si alzava dal proprio sgabello e si propendeva sul tavolo verso di lui, più vicino di quanto non gli fosse stata fino ad ora. « La smetta di recitare. » Nate battè le palpebre con calma apparente, una, due volte, sostenendo lo sguardo di lei. Da quella distanza riuscì anche a notare alcune pagliuzze gialle che le coloravano le iridi scure. Le labbra serrate, restò fermo in quella posizione in silenzio, come se stesse riflettendo. Quegli istanti di quiete gli parvero dilatarsi, fino a quando il silenzio non fu interrotto da uno scoppio improvviso. Come se lì dentro fosse appena esplosa una bomba, dal fondo della stanza li raggiunse un rumore acuto, seguito dallo scintillio di frammenti di vetro nell'aria. Il vetro del quadro raffigurante il ritratto di Eric Donovan era esploso
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    in mille pezzi, come vinto dalla pressione di una forza ignota. Nate trattenne il fiato. Le schegge cosparsero gran parte del capanno, mentre la cornice del quadro cadeva per terra con un moto che parve quasi a rallentatore, specie dopo l'immediatezza con cui il vetro si era appena distrutto. Nate respirò a fondo, prima di recuperare la bacchetta e ripulire la scrivania dalle schegge di vetro, così come il resto del capanno, e raccogliere tutto in un mucchietto scintillante nell'angolo della stanza. « Tutto a posto? » domandò a Galathéa, in quella che appariva come una sincera apprensione, mentre alcuni frammenti che dovevano aver raggiunto il piccolo fuoco all'interno del secchio iniziavano a spezzarsi con il calore, diffondendo un fastidioso crepitio nella stanza. « Sono cose che capitano » osservò, atono, prima di tornare a guardarla. Respirava a fondo, lentamente. « Comunque » si sfregò le mani lentamente, come a volersi riscaldare da un freddo improvviso. « Poiché, come le ho detto, il mondo non è fatto di bianchi né di neri, non sento di dover prendere una posizione. Non con lei, soprattutto. » Parlava lentamente, in modo estremamente più calmo e calcolato, con ogni frase separata dalla successiva da piccole pause. « Vuole credere che la mia sia una recita? Ben venga. Non le devo niente. Né una spiegazione, né una presa di posizione, né una verità. » Nate, le sue verità, le aveva sempre protette più di ogni altra cosa. « Io sono qui a lavorare. Può crederci oppure no. Può raccontarsi le storie che più la aggradano nella sua testa, può dipingermi come il lupo cattivo o come la pecorella smarrita della sua storia. Veda un po' lei. » Si strinse nelle spalle. Non ti darò quello che vuoi solo perché hai deciso di pretenderlo. « Vorrei solo che smettesse di sindacare sul mio operato. Non rientra nelle sue mansioni e, francamente, non ha il mio stesso livello di competenze. »
     
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    «Saresti tu la carnefice, quindi?» E così le diede ciò che voleva. Galathéa deglutì, impassibile in apparenza, mentre serrava la mascella inconsapevolmente. In quello scambio, in quella lotta di sguardi in cui chi l'avesse distolto prima avrebbe messo la propria inferiorità, la propria debolezza, Théa se ne accorse, dei sottili movimenti che gli occhi di Nate compirono tracciando il perimetro del suo volto, esaminandolo, e si ritrovò a pensare che non le era mai capitato prima, forse, di sopportare lo sguardo di qualcuno addosso e di riuscire a ricambiarlo con altrettanta instancabile ferocia – pensò che probabilmente conoscesse il viso dell'ispettore meglio di chiunque altro nella sua vita, che ne avrebbe saputo tracciare una copia identica, impressa nella sua mente come quelle canzoni che detestiamo di più ma che per qualche motivo non riusciamo a toglierci dalla testa. Se ne accorse, dunque, che qualcosa dentro di lui stava facendo lo stesso, perché i suoi occhi non erano vuoti, spenti, disinteressati, come il resto del tempo; vi lesse un guizzo, e un'intenzione, la lettura di una specifica geografia, che esitò sulle sue labbra, e poi si spostò altrove, su, attorno ai suoi occhi, e poi ne tracciò il perimetro, dalla fronte al mento. Vi fu un instante in cui avrebbe giurato vederne cambiare la direzione, distolta dalla sua faccia e rivolta ad un punto più basso, lungo il collo, per poi tornare a sondarne i lineamenti. Il solo rumore, dopo quelle parole, fu quello crepitante del fuoco contro le pareti di metallo del secchio, e quello distante dei passi dei collaboratori fuori da quell'arena, cadenzato dai respiri appena più pesanti di lei – come un affanno. Si domandava che cosa cercasse, che cosa significasse, e anche come fossero arrivati fin lì, in un breve istante di lucidità; ad un soffio di distanza, quando ragionevolmente entrambi sarebbero stati tanto più sollevati quanta più distanza potessero generare tra loro. Eppure adesso erano lì, e si trattava di secondi, ma le parve di scorgere qualcosa di inaspettato, di superfluo, in quel reciproco indugiarvi, forse persino di eccessivo. Forse sì. Forse questa sono io, che mi comporto da carnefice. È ciò che divento a contatto con te, è ciò che mi tiri fuori. Come un richiamo. Non rispose, il barlume di una confusione improvvisa che ne indeboliva la forza dello sguardo, e tanto bastò a tirarla fuori, strapparne la coscienza come se questa si fosse librata sopra di loro, il gusto che cominciava ad assaporare per quel duello già diventato amaro, sebbene ne stesse godendo fino a qualche istante prima; qualcosa, provocato
    da quello scambio, si era proteso verso di lei e aveva affondato una mano laddove si annodava la sua furia, e nel farlo un equilibrio si era spezzato, di modo che la sua imperitura certezza che fosse necessario, debito, mandatario portare a termine quello scambio scomparve improvvisamente, perché sentiva che stesse diventando altro – altro da ciò che si sarebbe autorizzata a fare, altro da ciò in cui si riconosceva, un altro che la destabilizzò. Ebbe il tempo di retrocedere appena con il capo, come risvegliandosi lentamente, e di distogliere lo sguardo, saettato alla destra dell'ispettore, quando l'esplosione di schegge li colse alla sprovvista. Dando le spalle al quadro, Galathéa non fu graffiata in volto, e tuttavia la rapidità e la potenza con cui il vetro attraversò lo spazio del capanno fu tale da provocarle una ferita alla mano, sufficientemente profonda da non far male sin da subito. «Tutto a posto?» Le mani sopra la testa, lei non aveva emesso alcun suono, ma aveva chiuso gli occhi, e quel fatto, assieme al bruciore che cominciava a salire sempre di più, fu la pericolosa combinazione che fece sì che i suoi occhi si riempissero pericolosamente di lacrime. Le ricacciò immediatamente indietro, affondando i denti nella carne delle guance, e ingoiandole. Fu rapida nel tirare di nuovo su la testa, i capelli lunghi leggermente scompigliati, e la mano ferita prontamente celata dall'altra, distrattamente poggiata sopra. «Sì» riuscì a dire con la voce più ferma che aveva. «Sono cose che capitano» – ma lei era già altrove, insolitamente e inspiegabilmente sentendosi sempre più sconvolta. Non lo stava neanche più ascoltando, gli occhi che vagavano per la stanza dove le piccole schegge brillavano riflettute dalla luce delle fiamme, mentre magicamente si spostavano, coordinate e all'unisono, in un mucchietto. «Comunque. Poiché, come le ho detto, il mondo non è fatto di bianchi né di neri, non sento di dover prendere una posizione. Non con lei sopratutto.» Com'era possibile che adesso fosse lui ad aver recuperato tutta la calma che aveva in corpo, la tensione di poco prima come stemperata dallo scoppio improvviso? Il viso inespressivo, adesso era lei che aspettava soltanto che finisse, perché non sentiva di avere più la facoltà di prestarsi a quella patetica partita a scacchi in cui l'aveva costretta – e, ancor peggio, che lei si era così tanto divertita nel giocare. Che aveva fatto? Come aveva potuto lasciarsi prendere la mano a quel modo? «Vuole credere che la mia sia una recita? Ben venga. Non le devo niente. Né una spiegazione, né una presa di posizione, né una verità. Io sono qui a lavorare. Può crederci oppure no. Può raccontarsi le storie che più la aggradano nella sua testa, può dipingermi come il lupo cattivo o come la pecorella smarrita della sua storia. Veda un po' lei. Vorrei solo che smettesse di sindacare sul mio operato. Non rientra nelle sue mansioni e, francamente, non ha il mio stesso livello di competenze.» Distrattamente, a stento percependo il rivolo di sangue che percorse il dorso della sua mano, Galathéa si stropicciò gli occhi con i palmi freddi, come sperando che quando li avesse riaperti tutto sarebbe apparso più sensato – ma così non fu. Si sentì disgustata, umiliata dal suo stesso comportamento, e ancor di più di vergognò; come previsto, fu veloce e puntuale la punizione che l'attendeva dall'altro lato di qualunque eccesso. Inconsapevolmente, la mano riposta in grembo, affondò il pollice sulla ferita viva, e premette, e si trattenne dal rispondere, mentre la mascella si contraeva, ma non si sarebbe data sosta. Questo è ciò che sei. Guarda chi hai davanti: non sei diversa da lui. Sei uguale – forse peggio. Rimase in silenzio ancora per qualche secondo. «Dovrei andare a medicarmi.» Non lo guardò, gli occhi semichiusi, l'aspetto di un animale ferito e sconfitto più nell'orgoglio che nell'effettivo. «E devo tornare a lavoro, così come anche lei.» La sua voce le suonò mutata, come appartenesse ad un'altra persona – piatta e irriconoscibile. «Ci vediamo dopo». Fu rapidissima nell'uscire, tanto che potesse sembrare una fuga, ma non le sarebbe importato, qualora questa fosse stata l'impressione data. Vincere o perdere con lui non valeva così tanto, non valeva più della giustizia, più dell'etica, più delle vite dei colleghi, che aveva messo a rischio quando aveva superato la linea e si era trovata quasi fronte contro fronte con un funzionario del Ministero; l'aveva istigato, non aveva solo risposto, l'aveva provocato e gli aveva quasi chiesto di mostrarsi completamente nella propria severità, senza sconti, senza tener conto delle pericolose ripercussioni che avrebbe generato se lui l'avesse presa alla lettera. Ringrazia che non abbia già riportato al Ministero te e gli altri. Mentre sfrecciava verso il rubinetto dell'acqua, accanto alla pompa per l'irrigazione, incrociò lo sguardo di Miles, che riempiva le ceste, e il groppo che le montò alla gola stavolta non riuscì a scacciarlo, né a mandarlo giù, e un singulto di rimorso le fuoriuscì dalle labbra prima di riuscire ad essere completamente da sola. Niente scenate, Galathéa, ci manca solo questo. Controllati, a chi pensi di fare pietà? Vuoi muovere le persone a compassione di te? Non era giusto, sapeva che non era giusto parlarsi così – sapeva che c'era un motivo se aveva agito come aveva agito, ma la disciplina non conosce eccezioni, e non manca mai di riscuotere quanto deve. “E lasciarmi a me stesso, che sono il mio spietatissimo carnefice.”
     
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    Lo scoppio del quadro aveva rilasciato un'aria nuova, densa. Le parole si erano fatte più rade, meno frenetiche, gli sguardi di colpo sfuggenti. Le iridi verdi di Nate erano riempite dalla vista di quei cocci di vetro. Che disordine incredibile. Doveva disfarsene immediatamente, pensò. La fotografia di Donovan giaceva in un angolo piegata, come un qualunque foglio di carta dimenticato in mezzo all'ammasso di cianfrusaglie di quella stanza. Nate distolse presto lo sguardo: quell'incidente era appena avvenuto e desiderava già scartarlo mentalmente, come se non fosse mai successo. C'erano però due occhi nocciola a poter testimoniare quella sua collera inaccettabile: la presenza di Galathéa rendeva quelle schegge disseminate nel pavimento reali e terrificanti. Sotto il suo sguardo attento, Nate percepì una specie di formicolio divagarsi in tutto il corpo, qualcosa di simile, forse, alla vergogna. Pregò che la sua interlocutrice sparisse dalla sua vista, lasciandolo da solo con i resti della propria solidità. Il fuoco intanto crepitava più forte, e pareva sussurrargli maliziosamente: È questo che sei diventato? Corruttibile ad un paio di innocue provocazioni? Guardava Galathéa, ma ai margini del suo campo visivo quel mucchietto di schegge si faceva sempre più ingombrante.
    La sua attenzione tornò realmente sulla ragazza soltanto quando questa prese nuovamente parola. Teneva lo sguardo basso, probabilmente anche lei inorridita come lui da quanto era appena accaduto. Che terribile scempio. « Dovrei andare a medicarmi. » Abbassò lo sguardo, Nate, e subito notò quel rivolo di sangue che sporcava la sua pelle candida. « Ha bisogno d'aiuto? » fu l'unica, flebile, domanda che riuscì a fare, ma fu ignorato dall'altra parte. « E devo tornare a lavoro, così come anche lei. Ci vediamo dopo. » Con quelle parole la ragazza si congedò, lasciando la stanza in modo fulmineo. Mentre scappava - dalle sue grinfie, da quella ripugnante dismisura a cui aveva assistito - alcune gocce di sangue denso scivolarono lungo la sua mano e caddero sul pavimento del capanno.
    « Gratta e Netta » si affrettò a dire, puntando la bacchetta in quella direzione, prima ancora che la porta si chiudesse alle spalle della ragazza. E poi rimase fermo, con lo sguardo perso nel vuoto, ogni centimetro del proprio corpo abbandonato su quella sedia che gli pesava ora più di un'incudine. Scosse piano il capo, come a cercare di destarsi da quel torpore sgradevole, ma fu impossibile distogliere la mente da quei pensieri per il resto della giornata.
    Il mondo non è fatto di vittime o carnefici, ripeteva una voce nella sua testa. Oggi però sì. E questo pensiero lo destabilizzava più di ogni altra cosa. Nella sua vita, non aveva mai reputato importante che si propendesse da una parte piuttosto che un'altra - giusto e sbagliato erano sempre stati concetti incredibilmente relativi. L'eccesso, però, quello era davvero inaccettabile: per qualcuno che si vantava di sapere vivere una vita di equilibri, abbandonare la propria aurea mediocritas era il peccato più grande che si potesse commettere. E questo era il reato di cui si era macchiato quella mattina: e il pensiero più insopportabile era che fosse scaturito da una conversazione a tratti banale, da una persona che avrebbe dovuto trattare con sufficienza, e da una circostanza che avrebbe dovuto ignorare. Aveva sempre provato piacere nel pensare a se stesso come l'auriga razionale del racconto di Platone: con la sua biga comandava i due cavalli alati che lo spingevano in due direzioni opposte, rispettivamente verso l'alto e verso il basso. Quella mattina, la sua straordinaria abilità di proseguire in una linea retta, in quella perfetta medietà, mesótes, era stata compromessa e aveva, per un momento, ceduto alla pressione del suo epithymetikòn, quel cavallo nero che conduceva verso il mondo sensibile, verso gli istinti più animali dell'uomo. Aveva perso il controllo, precipitando rovinosamente non verso il male, ma verso la dismisura. Ripensò, quasi per caso, ad una frase che aveva letto tempo addietro. Il male non è ciò verso cui si cade, ma riguarda l'atto del cadere; non si cade cioè verso nature cattive, ma si cade in modo cattivo. Questo era accaduto e questo doveva cominciare ad accettare: era caduto in fallo e non esisteva rimedio per ciò. Galathéa aveva assistito a quello spettacolo penoso e forse l'avrebbe raccontato ad altri, forse no. Non era certo che gli importasse davvero, ma di certo avrebbe preferito che questo propria degenerazione non fosse avvenuta sotto gli occhi di qualcun altro.
    Il resto della sua giornata lo passò a svolgere compiti meccanici, compilare documenti, contare moduli, scrivere resoconti pieni di numeri, laddove la mente si teneva impegnata. Quando uscì dalla serra, qualche ora più tardi, all'ora di pranzo, gli addetti erano ancora nel pieno del lavoro. Vide Galathéa, di spalle, e sentì l'esigenza di affrettare il passo, per raggiungere l'uscita.
     
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