Talking to the moon

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    Cause every night, I'm talking to the moon
    Still trying to get to you
    In hopes you're on the other side talking to me too
    Or am I a fool who sits alone talking to the moon?


    Non era certo nemmeno lui di come fosse iniziata. Era successo e basta. Forse l'isolamento gli aveva giocato qualche brutto scherzo alla testa, ma come poteva andare diversamente? Aveva perso tutto. La sua fidanzata, suo fratello, la sua comunità e anche la sua libertà. Una alla volta tutte quelle certezze che aveva gli erano state lentamente tolte, come in una crudele partita di risiko, quando ti ritrovi improvvisamente rintanato in un territorio, con due soli carrarmati a proteggere ciò che ti è rimasto. Non puoi attaccare, speri di non doverti difendere, non puoi andare da nessuna la parte e la consapevolezza che per te il gioco sia finito si insinua strisciante. Ma se il gioco finisce e la pedana può sempre essere richiusa nella sua scatola in attesa di una nuova partita in cui tirare i dadi per una rivincita ad armi pare, la vita vera non è così. Ciò che è perso è perso e basta. E quanto, di preciso, avesse perso, Eliphas lo aveva realizzato solo quando la solitudine lo aveva costretto a guardare in faccia quelle mancanze incolmabili. L'est Europa era freddo e grigio, e per quanto il calore della comunità gitana lo aiutasse a trascinarsi di giornata in giornata, il suo status di ospite estraneo era più che mai evidente. Non era uno di loro, quella non era la sua gente: lo avevano accolto, non gli facevano pesare la sua presenza o la sua diversità, ma era comunque il pezzo di un puzzle diverso che cercava di incastrarsi a forza in un'immagine a cui non apparteneva. Aveva provato ad affrontare i primi giorni con la sua solita vena ottimista, tentando di studiare i comportamenti di quelle persone e ambientarsi, ma ad un certo punto aveva semplicemente gettato la spugna. Non era una mancanza di volontà, ma una vera e propria incapacità. Ciò che riusciva a fare meglio - forzare un sorriso e trovare il lato positivo di tutto - improvvisamente si era atrofizzato. Poteva rendersi utile durante la giornata e partecipare alle loro brillanti feste notturne, ma quando l'alcol esauriva, il fuoco si spegneva e il sonno calava anche sugli occhi degli ultimi irriducibili, Eliphas rimaneva solo con i propri pensieri. Una solitudine viscerale, scandita da un silenzio così assordante da rendergli impossibile ignorarlo. Forse il primo passo verso quella caduta era stato venire meno alle regole che si era dato anni prima, spolverando la tavola ouija per provare a contattare prima il fratello e poi Aleyda. Quando aveva perso la prima, si era ripromesso che non avrebbe mai usato i propri poteri a quello scopo; anni e anni da demonologo gli avevano insegnato quanto pericoloso fosse tentare di raggiungere chi si era perso, specialmente se quel lutto non era stato ancora completamente elaborato. Chiudersi in quell'illusione era facile, così come lo era incappare in altre entità e rendersi inconsapevolmente loro preda. Dopo un primo momento di naturale tentazione, quella sua personale imposizione sembrava aver funzionato, e sebbene di tanto in tanto il pensiero tornasse, riusciva facilmente a scacciarlo via. Di certo non si sarebbe aspettato che dopo anni, questo sarebbe tornato ancor più potente, alla stregua di un'irresistibile ossessione. E così, una sera, aveva ceduto. Un primo scivolone che si era fortunatamente risolto in un nulla di fatto, visto che nessuno dei due defunti aveva risposto alla sua chiamata. Eppure aveva segnato un precedente che, inevitabilmente, aveva aperto la strada del non ritorno. A quel punto non avrebbe nemmeno saputo dire come fosse successo. Forse in un momento di ubriachezza aveva parlato troppo, e prima che potesse razionalizzare il tutto, qualcuno gli aveva proposto di stendersi su un divano logoro con una strana pasta appiccicata alle gengive e un intenso odore di incenso a riempire la stanza chiusa. Scivolare in quell'illusione era stato facile, talmente facile che, prima ancora di rendersene del tutto conto, quella pratica di rivisitare i ricordi più felici era diventata una prassi quotidiana. Ci passava sempre più tempo, a volte giornate intere. Viveva steso su quel divano come un paziente in coma: la vita intorno a lui continuava a scorrere mentre nella sua testa si susseguivano le stesse immagini. Era tutto così vivido. Non era un semplice spettatore dei propri ricordi, no. Era come riavvolgere il nastro e rivivere in prima persona tutto quanto: le emozioni, le sensazioni, le immagini, le parole. Non vi era alcuna consapevolezza del dopo, dell'attuale presente, ma solo il momento. Ed era felice; così incredibilmente felice che, quando si risveglia, il freddo era ancora più gelido e la tristezza insopportabile. E allora rimaneva solo l'alcool per anestetizzarsi al punto da perdere i sensi, in attesa del prossimo sogno.
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    Si era convinto che rispondere alla chiamata di Albus Potter gli avrebbe fatto bene. Che rivedere qualche volto amico gli avrebbe permesso di tirare avanti. Dio se si sbagliava. Di certo non aveva considerato l'astinenza. Da alcol, sì, ma soprattutto da quell'escamotage magico da cui ormai dipendeva per non sprofondare nella più assoluta depressione. Non aveva considerato, quanto disgustosa e insopportabile potesse apparirgli la realtà senza l'abbraccio consolatorio del passato. Dal gelo inglese non si poteva sfuggire: ti entrava nelle ossa, secco e tagliente, insinuandosi in ogni cellula. Ogni strada, ogni respiro, rigirava il coltello nella piaga. Avrebbe solo voluto addormentarsi su un altro divano lercio, sognare, tornare tra le braccia di Aleyda e sentire il profumo dei suoi capelli - beatamente inconsapevole del fatto che un giorno quella felicità gli sarebbe stata tolta, e che sarebbe stato proprio lui a causarne la morte. Gli occhi profondamente segnati da cerchi scuri, le guance più scavate del solito, i movimenti nervosi e il tremore alle mani - tutto tradiva un malessere più profondo e preoccupante di quello che qualcuno nelle sue condizioni avrebbe dovuto naturalmente provare. Ogni tomba che sorpassava in quel cimitero vuoto dove aveva dato appuntamento ad Aslan per farsi portare alcuni oggetti lasciati indietro, ogni lapide, gli ricordava la necessità di tornare indietro. Doveva tornare. Ne aveva bisogno. Come se vivere fosse solo un insopportabile intervallo tra un sogno e un altro. Come se la vita vera, la sua realtà, fosse altrove, in un passato che non riservava alcuna sorpresa e che non poteva fargli alcun male nella sua ripetitività. « Hey. » Lo aveva salutato veloce, nel vederlo apparire dalla porta della vecchia cappellina diroccata in cui gli aveva dato appuntamento. Nessuno andava a trovare quei defunti, e se pure lo avessero fatto, di certo non avrebbero scelto la notte come orario di visita. Saltò giù dal grosso blocco di marmo centrale che un tempo doveva essere stato adornato dai fiori che i familiari portavano a memoria. « Li hai portati? » Sembrava sbrigativo, anche più del solito, come se avesse fretta di andare altrove per qualcosa di più importante. I suoi occhi cercarono velocemente di individuare le forme degli oggetti che aveva richiesto ad Aslan - per lo più materiali per incantesimi e sigilli, rune e gemme, ma anche qualche vestito pesante. « Scusa se ti ho scomodato. Gli zingari non hanno un cazzo della roba che mi serve. Ma non voglio rubarti troppo tempo, tranquillo. » Tranquillo. Come se la sua frettolosità fosse dovuta ad una cortesia nei confronti di Aslan e non, invece, alla sua personale fretta di evitare la realtà.

     
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    Quella notte il Saint Peter's Cemetery era deserto. Ma se non lo fosse stato, se fossero stati presenti almeno un paio di occhi attenti o, ancor meglio, impegnati a monitorare i movimenti aventi luogo oltre i cancelli, avrebbero potuto scorgere una scena piuttosto singolare. Due creature avevano fatto il proprio ingresso usufruendo di un'entrata secondaria, a diversi minuti di orologio l'una dall'altro. Il primo ad entrare era stato un aggraziato felino dal manto setoso e nero come il cielo notturno. Il gatto — o meglio: la gatta — aveva osservato l'ambiente circostante con sguardo vigile per diversi minuti. Aveva dunque cambiato punto di vedetta svariate volte. Prima si era appollaiata su di una lapide. Poi su di un'altra, che somigliava molto di più ad un monumento. Quando un cane di passaggio, un randagio con ogni probabilità, aveva avuto l'ardire di abbaiare nella sua direzione, l'aveva osservato con quello che qualunque essere umano avrebbe potuto solo che catalogare come uno sguardo di sufficienza. Si era infine spostata ancora un'ultima volta, balzando con grazia sul ramo di un albero poco distante da un edificio diroccato, i brillanti occhi giada fissi su di esso. Rimase così, attenta, per diverso tempo. Ignorò un suo simile dal pelo rosso che si aggirava ai piedi della quercia miagolando, così come l'ululare del cane di prima ancora ben udibile in lontananza. Ignorò ogni movimento, anzi, finché non vide qualcuno avvicinarsi a passo spedito alla cappella gentilizia che aveva osservato testardamente fino a quel momento, e sparire al suo interno. Mantenne gli occhioni fissi sulla struttura per ancora qualche attimo. Poi si stiracchiò e abbandonò il suo nascondiglio... per tornare qualche minuto dopo. Al seguito aveva un giovane slanciato, dagli abiti e dai capelli scuri come il suo manto, con un borsone in spalla. Lui, la seconda stramba creatura di quella notte, era apparso usufruendo esattamente della stessa entrata. La gatta lo precedeva di poco, sembrava guidarlo, agevolandogli i movimenti nell'ambiente buio e, a ben guardare, anche piuttosto tetro. Il giovane tuttavia non sembrava a disagio nel trovarsi al camposanto in piena notte. Ma non era quello, forse, l'elemento che un osservatore esterno avrebbe trovato strambo... quanto più il fatto che stesse amabilmente conversando con l'animale.
    « Sì, hai fatto un buon lavoro, Blacky. » La micia emise un trillo contento, voltandosi a guardare il giovane con espressione tronfia dipinta sul musino. Lui distese le labbra in un sorriso, poi continuò: « Ho bisogno che tu tenga d'occhio il tutto di nuovo però. Non so dirti quanto ci vorrà. Probabilmente un po'. » Il ragazzo si piegò sulle ginocchia per accarezzare Blacky dietro le orecchie. La gatta emise un miagolio che aveva dell'interrogativo. « Sì. Puoi farti vedere quando esce. Non trattenerlo però. Non credo abbia molto tempo. » Quelle erano state le parole di congedo. La gatta si lasciò andare ad un sinuoso movimento della coda, poi sparì nella notte. Per prendere nuovamente posto sul ramo che aveva occupato in precedenza, nonostante questo fosse un dettaglio ignoto al suo accompagnatore.
    « Hey. » Un saluto semplicissimo, quello che accolse Aslan una volta che lo psichico ebbe messo piede all'interno della vecchia cappellina dove Eliphas gli aveva dato appuntamento. Un Eliphas del quale non aveva più avuto notizie dalla fatidica notte in cui il demonologo era stato bandito dai quartieri warlock. Sollevò lo sguardo, lo stregone, ma il sorriso in cui aveva pianificato sino a quel momento di distendere le labbra, semplicemente non accadde. Non venne. Non ebbe luogo. Persino al buio di quella tomba riusciva a scorgere che qualcosa, nell'aspetto dell'amico, fosse cambiato. Era chiaramente emaciato. Aveva gli occhi cerchiati di scuro. Era molto più pallido del solito. « Hey » contraccambiò comunque a bassa voce. « Come sta- » , ma non ebbe il tempo di finire la frase. Non ne ebbe il tempo perché venne battuto sul tempo dal Luhng: « Li hai portati? » Di fronte a quella domanda, Aslan indicò il borsone che aveva portato con sè, annuendo.
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    « Controlla pure se c'è tutto quello di cui hai bisogno. » Con quelle parole lasciò scivolare l'anonima sacca dalla spalla trattenendola quanto bastava per impedirle di fare troppo rumore. Lui, dal canto suo, poggiò semplicemente la schiena contro una delle pareti rifinite in marmo. Probabilmente era una di quelle lastre dietro cui riposava qualcuno. Dubitava, comunque, che in quel momento avesse importanza o che al suo occupante dispiacesse in qualche maniera. A lui non importava. Lee si limitava ad osservare i movimenti dell'amico in silenzio, con espressione piuttosto neutra, cercando di capire cosa esattamente non gli tornasse. Perché qualcosa di diverso dal solito, di fuori posto, c'era. Aslan non era mai stato paranoico: non gli piacevano i voli pindarici, non gli piaceva saltare a conclusioni affrettate, né era solito puntare il dito contro qualcuno (ancor meno le persone a lui care) se non ne aveva realmente motivo. Eppure in quel momento gli sembrava di star osservando una persona diversa da quella che conosceva. Forse non proprio un estraneo, ma qualcuno di certamente più lontano dell'Eliphas che l'aveva accompagnato per così tanti anni. C'era qualcosa — non sapeva ancora se nelle sue espressioni o nei movimenti. Ma sapeva che ci fosse qualcosa. Come un tassello fuori posto. O uno incastrato per forza. « Scusa se ti ho scomodato. Gli zingari non hanno un cazzo della roba che mi serve. Ma non voglio rubarti troppo tempo, tranquillo. » Intanto Eliphas aveva continuato. E quelle parole, in qualche modo, stridettero ancora di più nella mente di Aslan. Non perché al Luhng non fosse proprio preoccuparsi per gli altri e nemmeno perché non ammetteva che gli pesasse di averlo scomodato; era perché, per qualche strana ragione, lo psichico aveva la netta sensazione che l'altro non volesse nemmeno essere lì. Che quella fosse una sorta di tappa obbligata. Che non avesse nemmeno voglia di parlare con lui. All'improvviso il silenzio stampa di Eliphas non gli sembrava più così normale. Non gli era mai sembrato davvero normale per lui, a dire il vero, ma si era detto che il demonologo potesse aver bisogno di spazio. Tempo per permettere alla ferita di rimarginarsi, per ambientarsi. Si era detto un sacco di cose, ma all'improvviso gli sembravano un po' meno plausibili. « Non c'è problema, Eliphas. » Disse comunque, lo sguardo di nuovo sul viso dell'amico. « Ti ho detto che ci sarei stato, e ci sono. » Lasciò passare qualche istante, tuttavia, prima di riprendere. E, per quanto il tono della voce e l'espressione non stessero ancora giocando contro di lui, cominciava a percepire sempre di più un certo disagio nell'aria. « Sai, avevo capito che sarei stato io il primo a venire a trovare te. Non che mi dispiaccia il contrario, ma c'è qualche motivo per cui sei qui? » Si stava smuovendo qualcosa, forse? Non sapeva quanto potesse essere plausibile, non sapeva se fosse troppo presto. Ma faticava a credere che la presenza dell'amico in territorio inglese fosse una casualità. « Non ti ho sentito granché, finora. » Non ti ho sentito affatto. Perché? « Come sta andando? »



    Edited by haegeum - 7/12/2023, 05:13
     
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    Era sempre difficile quando si trattava di Aslan. Poteva non dire assolutamente nulla, non commentare, non fare alcuna domanda - ma tu riuscivi comunque a percepire il peso del suo sguardo su di te. Era uno psichico, d'altronde; ne aveva viste così tante da non aver nemmeno bisogno di intrudere nella testa delle persone per capire quando qualcosa era fuori posto. Se si trattava di Eliphas, poi, a maggior ragione. I due si conoscevano bene, come le proprie tasche, e qualunque nota stonante rispetto al normale veniva immediatamente colta dall'altro. Il demonologo lo sentiva: Aslan lo stava guardando - o meglio, lo stava osservando. In cuor suo, da quando aveva pattuito quell'incontro, non si era mai illuso che potesse andare altrimenti: l'amico era perspicace, e il cambiamento di Eliphas sufficientemente evidente da saltare all'occhio anche allo sguardo meno attento. Però si era detto che in fin dei conti, come poteva anche Aslan aspettarsi qualcosa di diverso? Viveva in esilio, lontano dalla comunità che l'aveva cresciuto e che tanto amava, senza la possibilità di fare nulla o anche solo di circondarsi delle persone che gli stavano a cuore. La spiegazione più plausibile era a portata di mano: nessuno, al posto di Eliphas, sarebbe stato pienamente in sé. Così si era illuso che questo - la plausibilità - bastasse a coprirlo, a dargli un alibi abbastanza solido da giustificare i suoi comportamenti e tutto ciò che non rispondeva al consueto ordine delle cose. « Non c'è problema, Eliphas. Ti ho detto che ci sarei stato, e ci sono. » Annuì, stirando un mezzo sorriso che sperava fosse abbastanza convincente, nonostante il freddo che percepiva. « Sai, avevo capito che sarei stato io il primo a venire a trovare te. Non che mi dispiaccia il contrario, ma c'è qualche motivo per cui sei qui? Non ti ho sentito granché, finora. Come sta andando? » Si umettò le labbra, affondando le mani nelle tasche del lungo cappotto mentre scrollava leggermente le spalle in un movimento decisamente innaturale, connotato di un nervosismo tanto fisico quanto psicologico. Si sentiva a disagio. Non era mai successo con Aslan, ma in quel momento percepiva nettamente il bisogno di essere altrove. Voleva scappare - dalla vita, dalla consapevolezza, da se stesso, ma anche dallo sguardo dell'amico, che lui non aveva nemmeno il coraggio di guardare negli occhi. Evitava di incontrarli come se fosse Perseo al cospetto di Medusa, consapevole che un solo sguardo avrebbe potuto determinare la sua disfatta. Forse erano solo paranoie e stava attribuendo ad Aslan capacità anche superiori a quelle già spiccate che realmente possedeva; ma tutto nella sua testa sembrava ingigantito. Ogni istante dilatato, ogni movimento un chiaro segnale, ogni parola un indizio. Era il senso di colpa a farlo sentire così? Era la consapevolezza subconscio delle profondità in cui si era immerso a fargli credere che i suoi difetti fossero più esposti del solito? Oppure era stato l'eccessivo
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    crogiolarsi in una sicurezza fittizia a farlo sentire vergognosamente nudo nella realtà? « Va. Solitariamente, ma va. » si affrettò a dire, come se la velocità della sua risposta potesse determinare un'impressione migliore. « Sì, non ho potuto comunicare troppo perché volevo far passare un po' di tempo e acqua sotto i ponti. I nostri mi hanno garantito che non mi avrebbero dato la caccia, ma sempre meglio prevenire che curare, no? » D'altronde come biasimarlo per quella sfiducia? Aveva giocato tutta la propria vita sulla parola degli warlock, sulla loro promessa di comunità e fratellanza, solo per poi trovarsi in quell'esatta situazione: nelle scarpe di uno che aveva perso letteralmente tutto. Dire qualcosa del genere doveva essere al pari di un'offesa. Come osava lui, uno warlock, mettere in dubbio la lealtà dei suoi simili? Chiunque altro lo avrebbe biasimato per quelle parole - per la scioltezza con cui le buttava lì, quasi fossero scontate. Ma Aslan non lo avrebbe fatto, e se pure fosse stato qualcuno di diverso, Eliphas non si sarebbe comunque morso la lingua a quel punto. Cos'altro gli devo, d'altronde? Non gli ho già dato abbastanza? Sono libero. Almeno quello. Solo, distrutto, incazzato, ma libero. Nei primi tempi della sua fuga, prima ancora di incappare in quella dipendenza che ormai gli consumava le giornate, Eliphas aveva avuto molto tempo a disposizione per capire cosa fosse quel sentimento alla bocca dello stomaco che non se ne andava mai: risentimento. Lo aveva capito, e di giorno in giorno era diventato sempre più familiare, fino a crescere in una certezza solida. Provava rancore per la sua comunità: per tutto ciò che gli avevano tolto, per l'ingiustizia di quella punizione, per la facilità con cui lo avevano sacrificato e per la velocità con cui gli avevano voltato le spalle. Un sentimento nuovo, per chi come lui il rancore lo aveva sempre e solo provato verso se stesso. « E poi c'è sempre il Ministero. » Si strinse nelle spalle, come se quello fosse un dettaglio tanto secondario quanto trascurabile. Lo era, per lui. Di essere sgradito all'autorità dei maghi non gli importava nulla: lo era sempre stato, quella era solo un'ufficializzazione con premio in denaro annesso. « Sono venuto solo per.. curiosità, diciamo. » Forse era piuttosto riduttivo parlare in quei termini dell'incontro con gli altri ricercati, ma quello era il sentimento di Eliphas a riguardo. Non sapeva quanto potesse permettersi di dire, oltre alle informazioni che era magicamente impossibilitato a comunicare. « Ti ricordi quando ti ho detto che non credo nel mal comune mezzo gaudio? » Sorrise, un sorriso vuoto. « Ecco, per me continua ad essere così. Per altri immagino sia diverso. » Pausa. « Non li biasimo. Ognuno ha bisogni diversi. » Rimase per un istante in silenzio, giocherellando con l'anello che teneva sempre sull'anulare - un vecchio regalo di Aleyda, simbolo della promessa che si erano fatti e che le circostanze gli avevano impedito di portare a termine ufficialmente. « E far parte di qualcosa, attualmente, non è un mio bisogno. » Non lo è più. Immagino che mi abbiano fatto passare la voglia. « Comunque grazie per avermi portato le cose. » Sospirò, continuando a giocare nervosamente con l'anello, con la mano immersa nella tasca del cappotto. « Tu invece? Come stai? Novità? » Domande che normalmente avrebbe chiesto all'amico per puro e genuino interesse, ma che adesso sembravano uscire dalle sue labbra come una vuota formalità.

     
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    C'erano volte in cui Aslan avrebbe desiderato essere più stupido. Questa era senza dubbio una di quelle volte. Avrebbe preferito non percepirlo, quel disagio nell'aria, talmente spesso che si sarebbe potuto tagliare con un coltello. Non poteva dire di provare vero e proprio dolore di fronte a quella scoperta, non ancora almeno, ma da qualche parte nella sua testa, in un angolo remoto, quella sensazione aveva innescato il principio di una dissonanza. Conosceva bene Eliphas e, com'era naturale che fosse, l'aver trascorso interi anni in sua compagnia, l'aveva reso anche più percettivo del solito nei suoi confronti. Ne derivava che Lee sapesse benissimo riconoscere quando il demonologo non fosse a proprio agio in una situazione. Se per un altro sarebbe stato più difficile unire i puntini, per lui si trattava soltanto di portare lo sguardo sull'enorme insegna lampeggiante e assorbirne il messaggio. Lo psichico, però, era anche sempre stato piuttosto metodico e cauto nel suo giungere a qualsivoglia tipo di conclusione: aveva bisogno di analizzare gli input ricevuti, catalogarli, ed infine calcolarne il risultato. In poche parole: sebbene avesse cominciato a riflettere sulla questione, non si sentiva ancora pronto ad esporre la cosa all'amico. Forse, in quel caso specifico, si trattava anche di una forma di protezione. In fondo, per quanto razionale potesse pensare di essere e per quanto effettivamente lo fosse, era anche lui soltanto umano; anche a lui lasciava l'amaro in bocca rendersi conto che un suo caro gli stesse parlando così, perché costretto dalle circostanze. Rimase perciò ad osservarlo, stringendo appena le labbra in una linea più sottile del solito. Non poté fare a meno di notare - e questa era con ogni probabilità una deformazione professionale - che, come da impressione iniziale, anche la gestualità del giovane Luhng sembrasse essere diversa. I movimenti gli apparivano nervosi. Se non scattosi, quasi. Perché? Risposte che, si rendeva conto, non poteva ottenere da sé. Però chiederlo così, a bruciapelo, sentiva che non fosse opportuno. Seppure di risposte ne avesse il bisogno, non intendeva far diventare quell'incontro un terzo grado già nei primi cinque minuti di conversazione. « Va. Solitariamente, ma va. » A quella sua affermazione Aslan annuì appena, come a dire che capiva. A dire il vero però, i conti gli tornavano anche meno di prima. Non sapeva se fosse stato un caso - seppure per natura nei casi ci credesse poco e niente - ma gli era sembrato di capire che l'amico si fosse stabilito in mezzo ai sinti. O qualcosa del genere. Da quel che aveva detto lo stesso demonologo, almeno, sul fatto che i suddetti non avessero a disposizione quanto gli serviva. Le comunità gitane erano solitamente numerose, non ci voleva un genio a capirlo - ed allora perché solitariamente? Certo, poteva riferirsi all'assenza di propri simili, però.... Però Eliphas, tu fai amicizia anche coi sassi. Saresti in grado di stimolare la parlantina di un muro. Eppure, solitariamente. Va solitariamente. « Dove ti sei fermato alla fine?» Gli chiese però, con una certa leggerezza, sebbene leggero non ci si sentisse per nulla. Anzi, ad ogni secondo che passava, gli sembrava che lasciare tutto quello spazio all'amico fosse stata la più grande stronzata che avesse potuto fare. « Sì, non ho potuto comunicare troppo perché volevo far passare un po' di tempo e acqua sotto i ponti. I nostri mi hanno garantito che non mi avrebbero dato la caccia, ma sempre meglio prevenire che curare, no? E poi c'è sempre il Ministero. » Lo psichico annuì nuovamente, incrociando tuttavia le braccia al petto, la schiena ancora poggiata contro quella parete. « Capisco. » Rispose. In realtà era impegnato a osservare l'altro. Un Eliphas che non l'aveva ancora neppure guardato negli occhi. Sì, però va, giusto Eliphas? Devo comunque pensare che sia tutto ok. Uh-huh. « Sono venuto solo per.. curiosità, diciamo. » A quelle parole in particolare, Aslan si lasciò andare forse alla prima vera espressione da quando era entrato. Inarcò un sopracciglio, curioso di sentire il resto. « Ti ricordi quando ti ho detto che non credo nel mal comune mezzo gaudio? Ecco, per me continua ad essere così. Per altri immagino sia diverso Non li biasimo. Ognuno ha bisogni diversi. E far parte di qualcosa, attualmente, non è un mio bisogno. » Mh-mh. Fissò nuovamente gli occhi scuri su di lui, rendendosi conto, di nuovo, che il demonologo sembrasse trovare più interessante una cappella gentilizia rispetto alla sua presenza. Non parlò, ancora. E, seppur Aslan fosse in sé una persona piuttosto silenziosa, a quel punto, se già non l'aveva fatto, anche la sua controparte doveva essersi resa conto che stesse riflettendo. « Comunque grazie per avermi portato le cose. » Aslan sospirò. « Penso tu abbia ringraziato prima. Cos'è, un modo gentile per farmi capire che sarebbe ora di levare le tende? » E se da un lato non c'era nulla di diverso, nel moro, perché quello era esattamente il tipo di risposta che gli avrebbe dato in altre circostanze, e l'avrebbe fatto esattamente con quel tono per di più, quella volta specifica la sua domanda aveva davvero un fondo di verità. Nonostante l'angolo della bocca sollevato, lo sguardo di Aslan era rimasto serio. E forse aveva osservato l'amico per un secondo di troppo. Non che l'altro potesse saperlo, questo, considerato quanto ostinatamente evitasse di fare lo stesso. « Tu invece? Come stai? Novità? » E anche questa domanda gli parve avere un retrogusto insolito. Di nuovo, gli parve che l'altro avesse fretta. Tanta fretta. « Qualcuna, sì. » Gli disse, con apparente tranquillità. Se non vuoi dedicarmi tempo di tua sponte, vorrà dire che me lo prendo comunque. « Sono stato contattato, un po' di tempo fa, da qualcuno che è nella tua stessa situazione. Col Ministero, e compagnia cantante. Conosce Galathéa, a quanto pare. » Pausa.
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    « Forse è anche lei una di quelli del mal comune mezzo gaudio. Ho deciso di aiutarla. » Si strinse nelle spalle, conscio del fatto che, se Eliphas avesse voluto approfondire la questione, l'avrebbe fatto da sé. Quella dichiarazione, però, era sufficiente, secondo Aslan, a fargli capire che non fosse stato con le mani in mano e che, in generale, avesse scelto in che direzione muoversi. Non gli parlò del caos che il suo esilio aveva causato al quartiere. Non gli disse niente di quanto profonda fosse la crepa che il sui allontanamento aveva creato. « Nel borsone c'è chǎo fàn se lo vuoi. » Tacque sul fatto che l'avesse preparato la madre del demonologo. Se ne sarebbe accorto qualora avesse deciso di mangiarlo. E non si dilungò sulle condizioni della stessa - era già abbastanza difficile fingere di non sapere niente con lei, o imbucarsi di tanto in tanto a casa sua, giusto perché non dimenticasse come erano fatte le persone. Anche quel riso glielo aveva dato da portare, a pranzo, quel giorno. E lui ovviamente l'aveva portato ad Eliphas. Lo psichico si prese ancora qualche istante per decidere su come procedere da quel punto in poi. Per la prima volta quella notte fu lui a distogliere lo sguardo dal compagno, fissandolo su di un punto oltre la sua spalla, senza nemmeno curarsi questa volta di dissimulare l'ovvio, ossia che il demonologo gli avesse tutto sommato dato da pensare. « Mi pare di intuire che non ti interessi fare gruppo e che anche la questione di Inverness non ti attragga. » Non c'era accusa nel tono dello psichico, quello no, sicuramente però c'era una punta di perplessità. « Quali sono le tue priorità ora, quindi? Da quel che mi hai detto sei anche per conto tuo, in qualche modo dovrai riempirle, le giornate. » Un momento di silenzio. « Senti, Eliphas - non farò quello che si nasconde dietro le porte a vetri. Sono abbastanza preoccupato per te. »


    Edited by haegeum - 17/12/2023, 08:04
     
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    « Qualcuna, sì. Sono stato contattato, un po' di tempo fa, da qualcuno che è nella tua stessa situazione. Col Ministero, e compagnia cantante. Conosce Galathéa, a quanto pare. » Aggrottò appena la fronte. Non era certo di chi potesse parlare, ma aveva la sensazione che si trattasse di Juniper Rosier. Già quando Thea si era trasferita in Inghilterra e lo aveva invitato a casa sua, il nome della mora era uscito fuori, provandogli quanto il mondo fosse estremamente piccolo. Non si sarebbe dunque stupito, se quella ne fosse stata l'ulteriore riprova. « Forse è anche lei una di quelli del mal comune mezzo gaudio. Ho deciso di aiutarla. » Quello di June era rimasto nella testa di Eliphas come un tentativo fallito, quando in realtà un tentativo lo era stato a malapena. Si era detto che l'unica ragione per non approcciarla fosse il fatto di non poter rivelare la propria identità, ma anche quando quell'imperativo era venuto meno, Eliphas non aveva mosso dito. L'unica volta che lo aveva fatto era stato alla festa di Natale, quando tuttavia le parole erano uscite dalle sue labbra involontariamente, per l'effetto dell'incantesimo di qualche burlone. La verità - che lui l'accettasse o meno - era ben diversa: non era pronto a conoscere qualcuno di nuovo per più a lungo di una notte. Non era pronto a lasciarsi andare a qualcosa di cui sentiva terribilmente la mancanza: avvicinarsi ad un'altra persona, essere vulnerabile, permettergli di entrare e accettare tutti i rischi che ciò comportava. No, non era decisamente pronto nemmeno a contemplare l'idea di affezionarsi nuovamente in quella maniera, perché nessuno poteva garantirgli che non si sarebbe ritrovato ad affrontare un nuovo dolore. Sciocco, sì. Era uno sciocco per precludersi qualcosa a prescindere, senza nemmeno sapere come sarebbe andata, preferendo vivere di rimorso piuttosto che di sconfitte. Decise quindi di non rispondere, né dare voce ai suoi dubbi. Aslan, d'altronde, aveva sentito parlare della ragazza proprio da Eliphas. Non ricordava di avergli detto il nome, ma in quel momento preferiva non associare eventualmente le due identità. Si limitò ad annuire, vago. « L'importante è che non ti cacci nei guai. » La liquidò così. « Nel borsone c'è chǎo fàn se lo vuoi. » Stirò un piccolo sorriso, forse il primo sincero. Da quanto non lo mangiava? O meglio, da quanto non mangiava qualcosa che fosse più di semplice cibo per nutrirsi? I gipsy cucinavano bene, in quantità abbondante, ma non era la stessa cosa. Forse neanche questo lo sarà, ma è già qualcosa. D'altronde, a rendere speciale quel cibo nella sua testa non era tanto la ricetta o gli ingredienti, quanto i ricordi a cui era collegato. Lo mangiavano sempre insieme, con i suoi genitori e con Magnus. Da piccoli, sua madre glielo preparava spesso nei portapranzi da portarsi a scuola, quando ancora frequentavano le elementari nel quartiere di Londra. « Mamma? » chiese, come a voler confermare quel sospetto. « Mi pare di intuire che non ti interessi fare gruppo e che anche la questione di Inverness non ti attragga. » Sospirò. C'era da aspettarselo. Aslan non era tipo da lasciare troppe questioni irrisolte o menare il can per l'aia. Incrociò dunque le braccia al petto, come in un inconscio tentativo di proteggersi dalla perspicacia dell'amico, che - lo sapeva - non si sarebbe esaurita lì. « Quali sono le tue priorità ora, quindi? Da quel che mi hai detto sei anche per conto tuo, in qualche modo dovrai riempirle, le giornate. » Si umettò le labbra nel silenzio, evadendo ancora una volta dal suo sguardo. « Senti, Eliphas - non farò quello che si nasconde dietro le porte a vetri. Sono abbastanza preoccupato per te. » Scrollò le spalle, forse troppo velocemente, in un gesto tanto nervoso quanto meccanico. « Beh, al momento non è che ci sia nulla di cui preoccuparsi. La mia punizione l'ho già ricevuta. E dubito che il
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    Ministero stia impiegando tutte le proprie forze nello scovare proprio me, tra tutti. »
    Non era quello il punto di Aslan, lo sapeva bene, ma c'era poco che potesse fare oltre tentare di fuggire dal vero significato di quelle parole. Tirò su col naso, alzando appena una spalla in simulata noncuranza. « So che ci si aspetterebbe una reazione diversa da me. Tipo bo.. abbracciare la lotta e fare tutti quei discorsi pieni di speranza per cambiare il mondo. » Sollevò gli angoli delle labbra, come se quelle parole contenessero una qualche battuta di cui solo lui comprendeva l'ironia. « Ma andiamo, Aslan.. cosa vuoi che cambi? La nostra comunità avrà i suoi difetti, ma su una cosa ha sempre avuto ragione: i maghi non conosceranno mai pace e l'unico modo per salvarsi dalla stessa sorte è tenerli a distanza. » Io l'ho imparato a mie spese. Perché ero uno di quegli stupidi che ai discorsi di speranza ci credeva. Che pensava davvero che il mondo potesse cambiare, che potessimo tutti essere compatibili se solo ci fossimo sforzati. « Sei preoccupato per questo? Perché ho perso il mio tocco da inguaribile ottimista? » Sei uno psichico, dovresti essere bravo a metterti nei panni degli altri. È così assurda la mia posizione? « Come uomini abbiamo un numero limitato di preghiere a nostra disposizione. Abbiamo anche un numero limitato di cose che ci possono togliere prima di renderci conto di quanto sciocco sia ostinarsi a controllare tutto ciò che abbiamo intorno. » Tirò su col naso una seconda volta, tentando di scacciare via la patina che sentiva iniziare ad appannargli la vista. E io ho pregato. Cazzo se ho pregato. Ma non mi pare che sia servito a qualcosa. Non mi pare che abbia impedito alla Loggia Nera di togliermi l'unica persona che amavo, che abbia impedito ad un fato cieco di fare a pezzi la mia famiglia o di perdonarmi un errore fatto in buona fede. Ho pregato in continuazione e perso in continuazione, fin quando anche io sono giunto al limite - messo di fronte all'evidenza di quanto inutile sia, tutto ciò. « Questo mondo non è fatto per la gente che spera, Aslan. Ci ho messo quasi trent'anni a capirlo, ma adesso mi è chiaro. Quindi non hai nulla di che preoccuparti. Non di cosa farò, perché non farò nulla. Non di quali siano le mio priorità, perché non ne ho. E per me è solo liberatorio. » Perché gettare la spugna è sempre più facile del contrario. Dirsi che non ci sia nulla, assolutamente nulla, che sia in nostro potere fare per cambiare le cose - anche questo è facile. Ma soprattutto non puoi perdere se nemmeno giochi. Sollevò le spalle, scrollandosi di dosso quell'amarezza. « È inutile costruirci troppi castelli sopra. Doveva andare così. E forse è per il meglio. » Pausa. « Un'occasione di crescita. L'ho presa così. »


     
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    « Beh, al momento non è che ci sia nulla di cui preoccuparsi. La mia punizione l'ho già ricevuta. E dubito che il Ministero stia impiegando tutte le proprie forze nello scovare proprio me, tra tutti. » Fu al principio di quel discorso che lo sguardo di Aslan tornò sul volto dell'amico demonologo. E, sebbene la sua postura risultasse ancora rilassata - pigra, quasi - gli occhi scuri parevano aver assunto una sfumatura ancora più vigile. « So che ci si aspetterebbe una reazione diversa da me. Tipo bo.. abbracciare la lotta e fare tutti quei discorsi pieni di speranza per cambiare il mondo. » Probabilmente in un altro momento sarebbe stato quello a preoccupare maggiormente anche lui, non lo negava. Eppure, più lo osservava e più lo sentiva parlare, più si rendeva conto che, tra le sue preoccupazioni, quella fosse solo la punta dell'iceberg. Il motivo stesso per il quale Aslan aveva, seppure a malincuore, lasciato tutto quello spazio per metabolizzare all'amico, era proprio questo - aveva in qualche modo preventivato che tutti quegli avvenimenti sarebbero stati precursori di un grosso cambiamento di priorità. E quando aveva infine ricevuto sue notizie, al Saint Peter's Cemetery ci si era diretto con tutta la buona volontà di comprendere in che modo l'amico stesse facendo i conti con quella sua nuova situazione. Se io per primo mi sono sentito come preso a schiaffi in pubblica piazza - aveva pensato in quelle lunghe settimane di silenzio stampa - non oso immaginare come possa essersi sentito lui. Per questo non aveva mai mosso passi nella sua direzione, seppure avrebbe voluto. Gli era sembrato più giusto rispettare il suo dolore e non essere invadente. Nel guardare il viso spento di Eliphas tuttavia, si chiese per una seconda volta se non avesse fatto un errore di calcolo. « Ma andiamo, Aslan.. cosa vuoi che cambi? La nostra comunità avrà i suoi difetti, ma su una cosa ha sempre avuto ragione: i maghi non conosceranno mai pace e l'unico modo per salvarsi dalla stessa sorte è tenerli a distanza. » Il tuo ragionamento non fa una piega, non fosse che ti hanno portato a scoprire questa cosa dopo avertici fatto avvicinare. E comunque il problema non è nemmeno questo. Il problema era un altro, sì: che più guardava Eliphas e più gli sembrava di aver davanti una sua controfigura. In tempi più rosei avrebbe probabilmente ironizzato dicendo che si trattasse del suo doppio. I segni in fondo ci sarebbero tutti - pensò con amara ironia il modo in cui dici le cose non torna, le cose che dici neanche e, per finire in bellezza, sembra quasi ti dia fastidio che io possa volermi interessare a quel che ti succede. La verità però era ben diversa; la verità, paradossalmente, sembrava anche più amara di così. Guardava Eliphas Luhng, Aslan, e gli pareva di vederne una pallida ombra. Non una controfigura, ma una cosa sfuggente, lontana. Forse un'eco. E se anche avesse voluto illudersi, fingere, che quella fosse soltanto una sua impressione, se pure fosse stato il tipo da voltarsi dall'altra parte, non ne sarebbe stato in grado. Eliphas Luhng non l'aveva soltanto accompagnato per una parte del suo tragitto, della sua vita - vi si era conquistato un posto. Un posto che aveva curato con la sua caratteristica frizzante grazia, tanto che negli anni per Aslan era diventato naturale, metaforicamente, riservagliene sempre uno. Anche laddove lontani - separati da idee diverse, chilometri, o impegni - Aslan era certo Eliphas sapesse benissimo avrebbe trovato sempre un posto dovunque lo psichico fosse. Che l'altro ne avrebbe creato uno, se necessario. Perché quando qualcuno persevera così, quando è il primo a dare un posto a te, diventa la tua famiglia. Aslan non aveva fratelli, da piccolo non ne aveva nemmeno mai voluti, ma in quel momento si rese conto in modo particolarmente vivido di quanto Eliphas fosse vicino a quello che immaginava fosse per lui l'idea di un fratello. E la realizzazione di vederlo così si accompagnava con un dolore sordo e persistente, come cronico. Forse perché sapeva che, da qualche parte là sotto, l'Eliphas che conosceva lui doveva esserci ancora. « Sei preoccupato per questo? Perché ho perso il mio tocco da inguaribile ottimista? » A questa domanda parve reagire finalmente in maniera differente dal solito silenzio. « No. » Sapeva che quella di Eliphas fosse una domanda quantomai retorica eppure gli rispose lo stesso. Con fermezza, anche, scuotendo appena il capo. « Come uomini abbiamo un numero limitato di preghiere a nostra disposizione. Abbiamo anche un numero limitato di cose che ci possono togliere prima di renderci conto di quanto sciocco sia ostinarsi a controllare tutto ciò che abbiamo intorno. Questo mondo non è fatto per la gente che spera, Aslan. Ci ho messo quasi trent'anni a capirlo, ma adesso mi è chiaro. Quindi non hai nulla di che preoccuparti. Non di cosa farò, perché non farò nulla. Non di quali siano le mio priorità, perché non ne ho. E per me è solo liberatorio. È inutile costruirci troppi castelli sopra. Doveva andare così. E forse è per il meglio. Un'occasione di crescita. L'ho presa così. » Aslan sospirò, annuendo piano, come ad interiorizzare quelle parole del demonologo. Spostò lo sguardo sul marmo ai suoi piedi e annuì un altro paio di volte, facendo poi scoccare la lingua contro il palato e cercando le iridi scure del giovane con le proprie. Lo sguardo di Aslan per contro appariva indurito; non arrabbiato, ma certamente più affilato di prima. Quasi avesse finito di riflettere. « Ho la sensazione che, oltre ai maghi, la distanza tu stia scegliendo di metterla anche tra noi due. » Osservò, forse un po' secco. Ma Aslan era fatto così - nelle sue questioni personali proprio non riusciva ad ignorare l'elefante nella stanza. Anche quando prenderne consapevolezza lo feriva, anche quando era lui a sentirsi come avesse appena preso un calcio in bocca. « Eliphas, perdonami - mi hai detto un sacco di cose, ma nessuna di queste rincuorante o... beh, concreta, almeno. È da quando sei entrato che sembra tu voglia soltanto andartene. » L'inizio dei calci nei denti, a quanto pare. Questo l'aveva sentito tutto. « Di dove sei, ho capito solo in mezzo ai gitani. Di cosa fare da ora in poi, mi dici che fondamentalmente non ti interessa perché va benissimo così. Anzi, è pure stata un'opportunità di crescita, a quanto pare. » Snocciolò, osservandolo con un sopracciglio inarcato. « Ti aspetti che niente di tutto questo mi preoccupi? » Fece una pausa, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi per infilare le mani nelle tasche del cappotto. Abbassò lo sguardo, umettandosi le labbra. Ignorò il groppo che iniziava a formarsi alla gola. Cercò di mandarlo giù. « Il discorso non è che ti debba importare della lotta. Una qualsiasi lotta. » Il discorso non è nemmeno che ti debba importare di me, perché capirei se volessi prendere le distanze anche dal sottoscritto . Io sono parte di quella congrega. Sebbene non mi sia macchiato in prima persona, potrei comunque essere un memento. « Il punto è che ti guardo e mi sembra che non ti importi di niente. Ho l'impressione che non ti importi di te. E sì, questo mi preoccupa. Anche tanto. » E se me lo chiedi, non mi va bene. « Quindi.. se il mondo non è fatto per la gente che spera, per chi è fatto? » Se non sei più uno che spera... chi sei?


    Edited by haegeum - 29/12/2023, 01:16
     
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    « Ho la sensazione che, oltre ai maghi, la distanza tu stia scegliendo di metterla anche tra noi due. » Forse era proprio ciò che stava facendo, pur se in maniera non del tutto consapevole. Non voleva allontanare Aslan da sé, ma di certo voleva tenerlo a distanza dagli errori che stava commettendo. Errori che, sotto sotto, sapeva essere tali. Sapeva anche che l'amico si sarebbe fatto in quattro pur di aiutarlo ad uscirne, anche a costo di scavalcare la sua volontà pur di raggiungere un benefico fine ultimo. Ma il punto era proprio quello: Eliphas non voleva essere aiutato. Voleva continuare a torturarsi, credendo stupidamente che quei continui passaggi tra apatia e felicità fittizia fossero tutto ciò che gli fosse rimasto da vivere. Un morto che camminava. Un ammasso di carne e ossa che non faceva altro che esistere, nella speranza di negarsi al dolore attraverso il processo di negarsi alla vita. Era l'unico modo di proteggersi che conosceva. Dapprima lo aveva fatto alla morte di Aleyda, negandosi la possibilità di innamorarsi nuovamente, e adesso - con la perdita di quanto gli era rimasto, stava solo applicando lo stesso metodo a tutto il resto. Istintivo come ritrarre la mano dal fornello quando ci si scotta. « Eliphas, perdonami - mi hai detto un sacco di cose, ma nessuna di queste rincuorante o... beh, concreta, almeno. È da quando sei entrato che sembra tu voglia soltanto andartene. Di dove sei, ho capito solo in mezzo ai gitani. Di cosa fare da ora in poi, mi dici che fondamentalmente non ti interessa perché va benissimo così. Anzi, è pure stata un'opportunità di crescita, a quanto pare. Ti aspetti che niente di tutto questo mi preoccupi? » Inspirò, stringendo la presa delle braccia conserte mentre il suo sguardo sfuggiva ancora una volta da quello di Aslan. Come poteva realisticamente chiedergli di non preoccuparsi? Al suo posto non avrebbe fatto nulla di diverso. « No. Ma non mi aspettavo nemmeno di essere interrogato. » ribatté, questa volta più brusco. Perché era così che si sentiva: come se Aslan stesse metaforicamente cercando di metterlo con le spalle al muro e cavargli la verità di bocca. Cosa di cui non aveva mai avuto bisogno, non tanto per la sua linea di lavoro, quanto perché Eliphas era sempre stato un libro aperto con lui: non gli aveva mai nascosto nulla, né aveva mai trovato difficoltà a confidarsi. Ma era semplice farlo quando non c'era in ballo la possibilità che l'altro potesse togliergli il tappeto da sotto i piedi, facendo qualcosa che avrebbe potuto allontanarlo dalle abitudini da cui era ormai diventato dipendente. « Il discorso non è che ti debba importare della lotta. Una qualsiasi lotta. Il punto è che ti guardo e mi sembra che non ti importi di niente. Ho l'impressione che non ti importi di te. E sì, questo mi preoccupa. Anche tanto. » Alzò lo sguardo, ricambiando quello di Aslan per la prima volta quella sera. E se fosse? Se pure fosse? Non sarebbero comunque affari tuoi. Non proferì quelle parole, ma forse il loro significato era scritto a chiare lettere nelle sue iridi scure. « Quindi.. se il mondo non è fatto per la gente che spera, per chi è fatto? » Rimase a guardarlo in silenzio per alcuni istanti strazianti. « Per quelli che accettano il
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    proprio posto. »
    Pausa. « Anche di non averne uno. » Perché alla fine era proprio quello il nocciolo: qualunque posto Eliphas avesse creduto di avere nel mondo, nella sua comunità, non c'era più. O quanto meno era uno da cui poteva tranquillamente essere rimosso, come se non gli fosse mai appartenuto realmente. Faceva male affrontare quella realtà, capire che la sua lealtà non fosse servita a nulla, e che quel senso di appartenenza che aveva sempre sentito fosse in realtà univoco. Sarà anche ingiusto scaricare tutto ciò su di te, che un posto ancora ce l'hai. Ma proprio perché sei in questa posizione, non accetto che tu mi dica di cercarne uno. Di combattere per riaverlo. Di dargli anche solo qualche valore. Non ne ha. Non ne ha mai avuto. Detto ciò, si chinò a raccogliere il borsone che Aslan gli aveva portato, assicurandoselo a tracolla sulle spalle. « Fai un piacere a te stesso, Aslan. Non sprecare il tuo tempo ad indagare la mia vita. Non è così esaltante, non ne vale la pena. » Tirò su col naso, annuendo sommessamente, più tra sé e sé che altro. « So badare a me stesso. Sto solo imparando a farlo da solo. » E forse era giunto il momento. A quel punto si incamminò verso l'entrata del mausoleo, fermandosi solo un istante vicino all'amico per stirargli un sorriso meccanico. « Fai sapere a mia madre che il chǎo fàn era il migliore che abbia mai cucinato. » Un'altra pausa. « E falle un po' compagnia.. se puoi. » Gli rivolse un breve cenno del capo a mo' di saluto, oltrepassando quindi il varco d'uscita della cappellina per incamminarsi a passo svelto nella notte.



     
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