We make the wind our wings by raising our arms

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    31 dicembre, Chamonix-Mont-Blanc, Francia

    «Fallo entrare, Worbey... Dio mio, è Nate, lo conosci da vent'anni, stupido di un elfo» bisbigliò scuotendo la testa, mentre, seduto sull'enorme divano di velluto blu, si sporgeva in avanti per riattizzare il fuoco. Aggiunse un altro ceppo, grugnendo appena per il peso, e poi battendo le mani candide tra di loro per spazzare via lo sporco. Non si voltò, rimanendo accovacciato davanti al camino, gli occhi cerulei illuminati dalle lingue scarlatte danzanti riflesse nelle pupille. Chiuse le palpebre per qualche istante, beandosi della piacevole sensazione del calore sulla pelle del viso, arrossata dallo sbalzo di temperatura dal freddo artico dell'esterno e quello dell'interno della baita. Rimase così anche quando udì il pavimento di legno scricchiolare sotto il peso del passo dell'amico, anche quando la porta fu richiusa alle sue spalle, e ignorò pure il fruscio del cappotto lasciato a Worbey. Fu soltanto quando rimasero da soli che Tom riaprì gli occhi, e con una lentezza quasi comica si sollevò, non tanto perché il movimento gli risultasse faticoso, quanto per una particolare indolenza a lasciare quella confortevole posizione. Smise di dargli le spalle appena fu in piedi, e, pur restando lì fermo dov'era, incontrò gli occhi dell'amico di sempre, e un angolo della bocca si sollevò nel solito sorriso. «E quindi ci risiamo» fece con voce bassa, chinando la testa e sorridendo appena più forte, mentre si passava i palmi delle mani sui pantaloni per stirarseli. Si avvicinò, quindi, attraversando l'ampio salone a falcate, sollevandosi le maniche del maglione di lana, per poi assestare una pacca ben stretta sulla spalla di Nate. Fece presa stringendo leggermente, e continuò a guardarlo con un'espressione sghemba, in un silenzio che, come sempre, sembrava dire tutto ciò che i due non avrebbero pronunciato. Se avesse dovuto tirare a indovinare, Thomas avrebbe scommesso che l'amico avrebbe commentato come fosse sparito nel nulla, da quando si erano visti l'ultima volta all'Orion; non avrebbe domandato chiaramente cosa avesse fatto in quei due mesi, ma sicuramente se lo sarebbe chiesto, e forse la curiosità sarebbe stata piuttosto destata dal desiderio di scoprire se le proprie ipotesi su dove si fosse nascosto fossero corrette che non dall'effettiva necessità di venire a conoscenza di certi dettagli. Su moltissime cose, nel loro caso,
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    sopratutto quando tra i due si parlava di Thomas, era sempre stato meglio non chiedere, non sapere. Non era di certo quello il caso: Tom si era rifugiato dal mondo magico e da quanto di esso si era fatto assolutamente, ineluttabilmente soverchiante affittandosi un appartamento nella periferia di Londra, ben nascosto in piena vista, circondato da babbani e pretenziosi individui di North London che indossavano gli occhiali da sole di sera e al chiuso e che bevevano esclusivamente Negroni sbagliati. Era stato meglio così per tutti: non sentire nessuno, non vedere nessuno, non farsi domande, non rispondere a conseguenze. Tornare in libertà era stato sufficientemente complicato di suo, senza che ci si mettesse la sua faccia spiattellata in prima pagina sulla Testata Paterna, l'espressione sconvolta di chi ha appena ricevuto un miracolo sotto la scritta a caratteri cubitali: “Il Lazzaro del Messia”. Non era mai stato un fan delle attenzioni, e tre anni ad Azkaban di certo non avevano aiutato, in quel senso. La vita semplice era ciò che preferiva, da sempre, e il desiderio di riallacciare i rapporti con la propria famiglia sarebbe pure esistito se ci fosse stata una famiglia a cui fare ritorno. Non che non ci avesse provato – stupidamente, futilmente, lasciandosi persuadere dalle suppliche di sua madre, dalla parabola del figliol prodigo. Non gli ci erano voluti più di un paio di giorni (fortunatamente aveva avuto la lungimiranza di non disfare lo zaino e di infilarci dentro quanto di proprio avesse ancora lasciato a casa dei suoi) prima di rendersi conto che una vita sotto lo stesso tetto del direttore della Gazzetta del Profeta significava l'inferno sulla Terra. Forse il padre non si era neanche degnato di abbracciarlo, quando si erano rivisti. Gli aveva messo un braccio attorno alle spalle, l'aveva condotto nel suo studio, gli aveva offerto un sigaro. Qualcosa del genere. Poverino. «Grazie per essere venuto, devo dirti che cominciavo a temere che non ce l'avresti fatta.» Naturalmente, per quanto fisicamente distante, Thomas era rimasto informato su quanto si svolgesse nel mondo magico, specialmente per ciò che riguardava Nate. Sapeva che fosse stato collocato ad Iron Garden – una sorte davvero infelice, e un potenziale che a suo parere andava sprecato, ridotto a fare la sentinella nel ghetto, in mezzo a individui che se non erano già pericolosi in partenza lo sarebbero presto diventati per le condizioni ridicole imposte dal Ministero. «Ho temuto che Minerva ti avrebbe fatto trascorrere pure la fine dell'anno al ghetto. Vi lasciano liberi almeno a Capodanno?» Fece poi, aprendo l'anta del mobiletto da bar accanto al divano, dal quale estrasse una bottiglia di cristallo, contenente un liquido ambrato. Versò il liquore in un bicchiere, senza premurarsi di chiedere al compagno se desiderasse bere – naturalmente desidera bere, uno che lavora ad Iron Garden. «Accomodati pure». Versò un altro bicchiere per sé, aggiunse dei cubetti di ghiaccio per entrambi, con l'aiuto di una piccola pinza. La baita apparteneva alla sua famiglia da generazioni, sebbene di certo Tom non potesse vantare un ampio ventaglio di ricordi dei Montgomery riuniti attorno al focolare per le feste. Prima di allora non c'era mai venuto – l'eco di un rifiuto verso quelli ed altri tipi di vezzi familiari che avevano caratterizzato tutta la vita del ragazzo. Gli era tornata in mente qualche settimana prima, e aveva deciso di organizzarvi una piccola festa per la fine dell'anno. Niente di troppo eccentrico: aveva invitato qualche nuovo amico, babbani per lo più, che li avrebbero raggiunti di lì a qualche ora. Amiche, sopratutto. Servivano più a dare colore, a riempire gli spazi vuoti. L'unica persona con cui Thomas desiderasse riunirsi era Nate – motivo per cui gli aveva chiesto di raggiungerlo lì appena fosse stato per lui possibile farlo. Non aveva fornito spiegazioni o ulteriori dettagli: era stato un invito asciutto e vago, dopo mesi di silenzio, il che faceva sì che prevedesse che difficilmente l'amico se ne sarebbe defilato. Era, quello, uno dei perni fondanti del loro rapporto, la certezza che alla fine, non importava dopo quanto tempo, e quanti silenzi, si sarebbero presentati al luogo dell'appuntamento. Lo raggiunse, prendendo posto sulla poltrona pesante accanto al divano, e sporgendosi per far incontrare il proprio bicchiere con il suo. « Mutatis mutandis. Ai cambiamenti.» Alla luce del camino, gli anelli dorati, indossati da mani gemelle – un memorabilia di tempi distanti, passati, vite precedenti – scintillarono appena nella penombra. «Mi è dispiaciuto non aver avuto modo di incontrarci prima, di parlare di quanto è accaduto.» Sentì il bisogno di dire dopo il primo sorso, mettendosi più comodo nella poltrona e accavallando le gambe. Corrugava la fronte mentre parlava. «Spero che tu non provi risentimento verso di me per il silenzio di questi ultimi mesi.» Non sapeva, con sincerità, se Nate l'avesse capito, quel bisogno di scambiare una cella per un'altra, l'impellenza al ritiro, che sempre l'aveva contraddistinto, amplificata e non esaurita da tre anni di reclusione forzata. «Lo sciacallaggio dei giornali e l'opinione pubblica erano troppo complicati per poter pensare di gestirli. Non sono mai stato un amante dei riflettori ancor prima di venire benedetto da un morto vivente. Odi profanum vulgus et arceo...» Odio la massa volgare e la tengo lontana. Non ci si soffermava troppo, sul cercare risposte agli eventi di quel giorno. Era certo che l'amico, invece, non fosse stato capace di pensare ad altro, avido com'era di risposte, e altrettanto di domande, forse alcune pure rivolte a lui. Adesso si sentiva capace di fronteggiarle, forse. Ne vagliò l'espressione nella luce fioca, passandosi la lingua sulle labbra, e facendole scivolare le une sulle altre, pensieroso. «Se hai qualche domanda per me, Nate, puoi porla.» Fece un altro sorso di whiskey, in attesa, lo sguardo perso sul fuoco ardente. «Dimenticavo» fece però poco dopo, prima che potesse passargli di mente, presi da una conversazione troppo a lungo rimandata, che avvertiva come profondamente necessaria, impellente, esigente. Si alzò, quindi, e poggiò il bicchiere di cristallo sulla mensola che sovrastava il camino imponente. Un piccolo pacco avvolto in carta marrone, annodato da un filo di spago, sedeva a terra. Lo consegnò semplicemente a Nate, una mano infilata nella tasca dei pantaloni, prima di recuperare il proprio bicchiere. «Consideralo un regalo di Natale in ritardo, e un ringraziamento per ciò che hai fatto quando ero ad Azkaban.» La voce era appena più bassa, il tono leggero e tipicamente canzonatorio cedeva il posto ad uno più serio. Tom sapeva, sentiva che l'amico non avesse agito sulla base di cieca fiducia, una parte di lui naturalmente prona a dubitare, a interrogarsi, e forse aveva pure questionato la sua innocenza. Non di meno aveva cercato di aiutarlo come poteva. «Se le cose non fossero andate come sono andate, forse quell'appello mi avrebbe restituito la libertà.» Ci credeva davvero. «Tu e Freya siete stati gli unici a rimanere. Ma non c'è nessun altro che vorrei fosse al mio fianco, ora.» Quelle parole suonarono dure, più di quanto Tom intendesse lasciar trasparire. Che ci fosse del livore, dietro, era indubbio, e pure incontestabile. Nessun altro gli aveva teso una mano. Frequente il nome di amico, ma la fedeltà è rara. Scartando il regalo, Nate si sarebbe trovato per le mani un oggetto di piccola misura, a forma di trottola, dall'aspetto elegante e dal materiale pesante. «Uno Spioscopio, di quelli fatti bene, però» commentò, sporgendosi per guardarla, il metallo opaco dell'ottone che le conferiva sfumature ramate. Porse la mano verso di lui, il palmo verso l'altro, per chiedergli di cedergliela. Quando lo fece, la poggiò sul tavolino di fronte al divano, e la fece ruotare tra pollice ed indice. La piccola trottola cominciò a muoversi in un vortice rapido. «Smette di girare quando qualcuno che ha cattive intenzioni è nei paraggi, o qualora qualcuno cerchi di ingannarti.» Le iridi chiare ne catturarono il movimento incessante, e fu con una punta d'orgoglio che Tom ne constatò il moto ininterrotto. Come una dichiarazione di intenti, come la speranza che si potesse ripartire da capo.


    Edited by roman candle - 23/12/2023, 21:12
     
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    « A naso direi che è arrivata l'ora di mandare in pensione quest'elfo. » Annunciò la propria venuta con quell'osservazione, ancora intento a liberare il collo dalla pesante sciarpa, del tutto incurante delle orecchie della creatura ancora presenti nella stanza. L'elfo ai suoi piedi tenne protese le piccole braccia esili e rugose nella sua direzione, affinché potesse riporvi i propri indumenti da esterno. Solo quando ebbe finito si avviò claudicante verso l'uscita, con l'enorme cappotto di Nate stretto tra le braccia che torreggiava sulla sua figura magra e invecchiata. Il ragazzo gli concesse una seconda, rapida occhiata, prima di portare la propria attenzione sul padrone di casa. « E quindi ci risiamo » Nella penombra del salottino, illuminato solo dalla luce fioca proveniente dal camino, Nate sulle prime faticò a giudicare cosa avesse davanti. Thomas Montgomery aveva cambiato volto così tante volte, nel corso della loro amicizia, da rendergli ogni nuovo incontro una sorpresa implicita. Il suo invito a festeggiare il Capodanno insieme, dopo mesi di silenzio, era stato inaspettato, ma non l'aveva sconcertato: quella discontinuità era tipica del personaggio, e perfino Nate aveva imparato a farci i conti. E dopo anni di prigionia sapeva di potersi ritrovare davanti a chiunque. Azkaban cambia le persone. Era pronto a tutto, dunque, ma fu nondimeno grato di incontrare dall'altra parte un'espressione familiare, accogliente. Attese che Thomas lo raggiungesse, e ricambiò la sua energica pacca sulla spalla con una più delicata sullo stesso braccio del ragazzo. « Grazie per essere venuto, devo dirti che cominciavo a temere che non ce l'avresti fatta. » Pensavi che ti avrei dato buca. « Ho temuto che Minerva ti avrebbe fatto trascorrere pure la fine dell'anno al ghetto. Vi lasciano liberi almeno a Capodanno? » Alzò gli occhi al cielo. « Non ne parliamo, guarda. » L'argomento era, se possibile, più fastidioso di quanto Nate avrebbe voluto ammettere. Quei mesi alla serra erano stati faticosi, poco appaganti e pieni di problematiche che aveva assolutamente voglia di dimenticare. « Non capisco sinceramente perché ci siamo sempre ostinati su Cortina e Saint Moritz. » Un'osservazione casuale, la sua, mentre sotto invito dell'amico si accomodava senza fare troppi complimenti sul divano di velluto scuro accanto al camino. Non era difficile notare la superiorità di Chamonix rispetto ad altre località turistiche. Era più intima e tranquilla, ma non meno panoramica, senza mancare dei servizi essenziali - il giusto compromesso, in breve.
    Accettò di buon grado il bicchiere di liquore, e lo sollevò nella direzione dell'amico per farlo scontrare delicatamente con il suo. « Mutatis mutandis. Ai cambiamenti. » « Ai cambiamenti » ripeté a sua volta, in un sussurro, come assorto da qualche altro pensiero. Le iridi riflettevano la danza delle fiamme all'interno del camino, che le coloravano di un verde ancor più brillante. Nate sorseggiò il contenuto del bicchiere assorto dallo spettacolo di quelle lingue di fuoco, che si dividevano e si mescolavano tra loro in maniera imprevedibile: provava una sorta di piacevole fastidio nel vedere quelle onde arancioni prendere traiettorie inaspettate, incontenibili. Anche nel recinto sicuro del camino di pietra, il fuoco appariva indomabile. Spostò lo sguardo su Thomas. « Mi è dispiaciuto non aver avuto modo di incontrarci prima, di parlare di quanto è accaduto. Spero che tu non provi risentimento verso di me per il silenzio di questi ultimi mesi. » Nate sospirò, un sorriso sghembo che apparse sulle sue labbra. Era una sceneggiatura già vista tante volte, quella. « Non credo di avere più le energie per essere risentito nei tuoi confronti » scherzò, il tono leggero, nella speranza che Tom cogliesse il sottotesto di quelle parole: ormai siamo grandi per queste cose. Comprendeva i timori di Tom: c'era stato un tempo, quello in cui i due erano legati l'uno al fianco dell'altro, in cui anche il minimo sospetto, o dettaglio che uno dei due dimenticasse di menzionare, avrebbe dato luogo a conversazioni lunghe ore tra i due su correttezza e questioni di principio. Ora che si erano spogliati dalle divise di Hogwarts avevano dovuto smettere di giocare a fare i grandi ed diventarlo davvero, e nel farlo Nathan aveva pian piano scoperto di non avere più spazio per questioni infantili come le offese e i risentimenti. Sentiva piuttosto che la loro amicizia avesse raggiunto un nuovo livello di maturità, tale da diventare a tutti gli effetti quel che era: poche domande, poche pretese, e una buona dose di fiducia. « Lo sciacallaggio dei giornali e l'opinione pubblica erano troppo complicati per poter pensare di gestirli. Non sono mai stato un amante dei riflettori ancor prima di venire benedetto da un morto vivente. Odi profanum vulgus et arceo... » Nascose il viso dietro al proprio bicchiere, le sopracciglia inarcate, la curiosità viva per quella giustificazione. « Il prezzo da pagare per essere stato il prediletto del Messia, suppongo... » Quelle parole le pronunciò con una pesante nota sarcastica, ben attento alla sua reazione. C'erano aspetti della vita di Tom che aveva rinunciato a voler approfondire - non erano rilevanti al loro rapporto di fiducia e non lo sarebbero mai stati; la sua presunta affiliazione con Eric Donovan, tuttavia, era un tassello capace di farne vacillare tanti altri, in quell'equazione. « Se hai qualche domanda per me, Nate, puoi porla. » Lasciò che quelle parole penetrassero nel silenzio, prima di interromperlo con una risata leggera. Con la destra fece roteare il contenuto del bicchiere di cristallo, gli occhi ancora pervasi dall'ilarità del momento. « La notte delle Confessioni di Thomas Montgomery » lo canzonò istintivamente, ma non fece in tempo a continuare perché fu proprio Tom a interromperlo di nuovo, per porgergli un pacco avvolto da carta scura. « Consideralo un regalo di Natale in ritardo, e un ringraziamento per ciò che hai fatto quando ero ad Azkaban. » Aggrottò la fronte, Nate, visibilmente colto alla sprovvista, più dalla serietà del tono di Tom che dal regalo in sé. « Cioè poco e niente. » Erano rare le volte in cui l'ex Serpeverde si lasciava andare a momenti di umiltà o autocommiserazione, e il giovane Montgomery era uno dei pochi privilegiati spettatori di quei momenti. « Se le cose non fossero andate come sono andate, forse quell'appello mi avrebbe restituito la libertà. Tu e Freya siete stati gli unici a rimanere. Ma non c'è nessun altro che vorrei fosse al mio fianco, ora. » Strinse le labbra in una linea inespressiva, improvvisamente serio. Aveva sempre provato un forte disagio in circostanze di questo genere - quelle in cui si condivideva, parlava di sentimenti: e se era per lui faticoso con le ragazze, con amici come Thomas era semplicemente una tortura. Si tenne dunque impegnato in quegli istanti, eliminando
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    la carta regalo, per rivelare l'oggetto che nascondeva: « Uno Spioscopio, di quelli fatti bene, però » Esaminò la fattura dell'oggetto facendolo rigirare tra le dita affusolate, apprezzandone il pregio dei dettagli e l'evidente qualità dei materiali. « È molto bello » commentò, prima di posare lo Spioscopio sulla mano di Tom, che lo richiedeva. In silenzio, lo guardò azionare la trottola sul tavolino di fronte a loro. « Smette di girare quando qualcuno che ha cattive intenzioni è nei paraggi, o qualora qualcuno cerchi di ingannarti. » Assorto dal moto ininterrotto della trottola, Nate lasciò che cadesse il silenzio. Bevve un sorso di liquore, mentre lo Spioscopio ruotava, accompagnato dal crepitio del fuoco accanto a loro. Concettualmente, al fuoco Nate preferiva l'acqua. Il suo moto seguiva delle regole osservabili a occhio nudo, comprensibili; rispondeva alle logiche della gravità, e non lo coglieva mai di sorpresa come le fiamme ribelli. Tutta la vita Nate aveva avuto la sensazione di voler essere acqua, per poter controllare tutti i fuochi che lo circondavano. Il fuoco di Thomas non aveva saputo tenerlo a bada mai, ma forse era stato un bene. « Non dovevi disturbarti così tanto » commentò, qualche secondo più tardi, tornando a guardarlo. « Non servono rassicurazioni da parte tua - non potresti comunque ingannarmi: me ne accorgerei subito con o senza Spioscopio. Sono più sveglio di te e lo sappiamo entrambi. » Ed eccolo di nuovo, quel tono scherzoso e canzonatorio, lo stesso del dormitorio di Serpeverde, accompagnato dalla stessa risata spensierata che riecheggiava nelle ampie volte di pietra della Domus Aurea, e da quella gomitata da quindicenni, che a ventiquattro anni compiuti aveva un sapore nostalgico e fraterno. Assunse quindi una posizione più rilassata, accavallando una gamba sull'altra e poggiando la caviglia sinistra sul ginocchio destro. « Cosa vuoi che ti chieda, Tom? » fece allora, tranquillo, inclinando il capo di lato. « Se il giorno dell'Eclissi eri già preparato a quello che sarebbe successo? Se ti sei in qualche modo affiliato con Eric Donovan e il Progetto Minerva? » si strinse nelle spalle. Tutte le domande che l'intero mondo magico si chiede. E a cui nemmeno io, il tuo migliore amico, dopo mesi so dare risposta. « Se vorrai darmi risposte su queste cose, te ne sarò grato. Certezze non ne avrò in ogni caso. » Come non ne ho avute fino ad ora. Guardò lo Spioscopio, che intanto continuava a ruotare ininterrotto sul tavolino. « Forse qualcuna » si corresse, ma Tom lo conosceva. Doveva sapere che Nate non sarebbe mai stato in grado di delegare il proprio giudizio al cento per cento a terze parti. « Sono piuttosto curioso di sapere quali sono i tuoi piani, a questo punto. » Per quanto fosse impaziente di conoscere le risposte agli interrogativi precedenti, quest'ultima curiosità non sapeva tenerla per sé. Ora che Thomas era rientrato finalmente nella società, era avido di conoscere quale ruolo avrebbe ricoperto. Si alzò dal divano, attraversò con pochi passi lo spazio che lo separava dal mobiletto, e recuperò la bottiglia di liquore, per versarne qualche altro sorso nel proprio bicchiere. Lo stesso fece con quello di Thomas. « Sei un uomo libero, ora, Tom. Puoi fare quello che desideri. » Chi vuoi essere? Si prese un istante per apprezzare quell'osservazione. Entrambi avevano desiderato tanto, quel momento. La spensieratezza, la libertà. Le possibilità infinite che si aprivano di fronte ad un nuovo membro della società. « Chiaro che potresti continuare a fare questa vita per sempre... » Accennò allo spazio che li circondava. Per quelli come loro, il lavoro era una scelta, un diletto, una ricerca di prestigio - mai una necessità. Sapeva che Tom, come lui, non si sarebbe accontentato. « Ma so già che non sarebbe nelle tue corde. » Si strinse nelle spalle, mentre tornava ad occupare il proprio posto sul divano. « Il Ministero te lo sconsiglio vivamente - non è il periodo giusto. Io ho sempre di più l'istinto di volerne scappare via a gambe levate. » Rise, sebbene trovasse quasi faticoso parlare di quell'aspetto della sua vita - l'ennesimo incendio che non riusciva a domare.
     
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    «Il prezzo da pagare per essere stato il prediletto del Messia, suppongo» era stato il commento leggero che Nate aveva lasciato cadere dalle sue labbra tra un sorso di liquore e l'altro, e sebbene sul momento Thomas non avesse risposto a quelle parole, queste erano rimaste a riempire lo spazio vuoto, enorme, dello chalet famigliare, e ad avevano raggiunto il soffitto, e ogni angolo impolverato che persino gli elfi dimenticavano di spolverare, e sotto i letti e dentro gli armadi: il prediletto del Messia era lì, e ancora non si sapeva perché lo fosse. Mentre l'aveva invitato a rivolgergli chiaramente qualunque quesito dovesse affollargli la mente, Tom aveva riflettuto sul significato dell'espressione figurativa “elefante nella stanza”; nonostante gran parte del salone in cui sedevano fosse stata lasciata vuota – forse di proposito, un'ostentazione di vastità tale da non sapere che cosa farci, come riempirla, mogano e cemento da ammirare indisturbati – a Thomas quella suggestione parve farsi largo e occupare, ovunque si girasse, una porzione del suo campo visivo. Non era qualcosa con cui era stato portato a fare i conti, l'effettiva questione del perché lui; la prerogativa era stata esclusivamente eludere quelle ed altre domande provenienti dall'esterno, cosicché anche ai ragionevoli dubbi interni non aveva prestato attenzione, con il risultato che rimase sorpreso, quasi scosso, sebbene niente di ciò che Nate avesse appena detto fosse a lui ignoto o poco familiare. Il prediletto del Messia. Ciò che immaginava, ora, molti avrebbero fatto al posto suo, se non altro mossi da uno spirito di curiosità tale da sovrastare quello di autoconservazione, come proverbialmente accade, sarebbe stato chiedere perché al diretto interessato; forse qualcun altro avrebbe chiesto, dopo aver avuto il tempo per metabolizzare quanto appena accaduto e recuperata una certa parvenza di sanità mentale, un incontro con il Messia stesso, o con qualcuno che ne facesse le veci, per poter comprendere le motivazioni di quella decisione, per confermare quelle certamente ipotizzate nel frattempo. Si domandò se Nate si aspettava che lui avesse fatto questo, che lui quindi potesse dargli una risposta effettiva a quell'implicita domanda, camuffata da commento sarcastico. La verità era che Thomas di risposte ne aveva sempre avute ben poche, e di domande ancora meno. Non faceva parte della sua indole dubitare, sebbene per tutta la vita avesse pensato di essere un argomentatore, un sovversivo, un pensatore libero: aveva seguito un copione per tutta la vita, individuato nemici illudendosi di sceglierli arbitrariamente e che proprio in quel movimento, in quella scelta della battaglia da intraprendere, stesse la sua personalissima specialità. Ma non aveva mai agito in modo libero in vita sua: si era sempre soltanto mosso al negativo.
    «È molto bello.» Il solito entusiasmo. Ma Thomas lo sentiva, che quel regalo fosse stato apprezzato più di quanto l'amico non fosse capace di dare a vedere. Quell'emotività coartata l'avrebbe portato al tracollo, prima o poi, così l'aveva sempre vista Tom, per quanto la compostezza inglese di Nate portasse equilibrio in quel loro rapporto, e da sempre l'avesse fatto; per quanto lui stesso, in primis, avesse difficoltà a comprenderne il limite, esistevano momenti deputati a specifici impeti, a certi tipi di eccessi, in cui il raziocinio delegava all'istinto, in cui concedersi sbavature. Nate non era mai stato particolarmente interessato a trovarli, ma Tom si domandava se in quegli anni in cui non si erano visti con altrettanta frequenza lui si fosse concesso qualche momento per far sbavare l'inchiostro, e dove le mettesse, dentro di sé, quelle emozioni che non poteva controllare. Tom non sapeva che vivere ardendo. «Non dovevi disturbarti così tanto» «No – non dovevo.» Convenne, annuendo, sopprimendo un sorrisetto complice quando incontrò lo sguardo di Nate. «Non servono rassicurazioni da parte tua - non potresti comunque ingannarmi: me ne accorgerei subito con o senza Spioscopio. Sono più sveglio di te e lo sappiamo entrambi.» La risata di Tom fu fragorosa, forse persino un po' troppo, rispetto al tono di voce pacato dell'amico. Quando tornò appena più serio, conservò il sorriso sulle labbra, inclinandosi leggermente in avanti, sulla poltrona, e puntellando entrambi i gomiti sulle ginocchia, il bicchiere che scintillava nella penombra. «Distinguere gli amici dai nemici è molto importante quando perdi i punti di riferimento. Lo so che la più affidabile delle bussole sei tu, per te stesso, ma imparare a delegare è una lezione importante, secondo me» commentò, annuendo leggermente alle proprie parole. Parlava per esperienza personale, del resto: rimanere rinchiuso ad Azkaban per tre anni aveva significato dipendere interamente da qualcun altro, ed era stata quella la lezione più difficile quando cresci senza aver mai imparato a riporre la tua fiducia in qualcun altro – qualcuno che non fosse legato da un qualche obbligo formale, ma che
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    davvero sapesse starti accanto nel momento del bisogno. Lo Spioscopio era un simbolo, la rappresentazione concreta dei tempi che li attendevano, di fronte a loro, in cui sapersi fidare probabilmente avrebbe potuto essere salvifico, perché l'era dell'autarchia era tramontata, e lo sapevano entrambi. Nessun uomo è un'isola, volente o nolente. «Cosa vuoi che ti chieda, Tom? Se il giorno dell'Eclissi eri già preparato a quello che sarebbe successo? Se sei in qualche modo affiliato con Eric Donovan e il Progetto Minerva?» «Io non voglio tu mi chieda niente, ma credo che farebbe bene a entrambi ammettere che dei dubbi ci sono stati e ci sono – per quanto non possano essere dissipati.» Rispose piano. Poggiò il bicchiere sul tavolino di fronte a lui, e poi intrecciò le dita pallide tra di loro. Vorrei che non avessi paura di parlarne, pensò, portando gli indici alle labbra e accarezzandole distrattamente, mentre teneva lo sguardo fisso sul bordo del tavolo. Vorrei che non avessi paura delle risposte, e che fossi capace di credermi. «Se vorrai darmi risposte su queste cose, te ne sarò grato. Certezze non ne avrò in ogni caso.» Aggrottò la fronte, incassando la durezza di quelle parole, forse una che ingenuamente non si aspettava – la faceva sempre molto più semplice di quanto non fosse, Tom, umorale e mutevole come il fuoco che ardeva nel camino. Sapeva che dopo anni di opacità quel suo desiderio di completa e totale sincerità non sarebbe mai stato esaudito, e vedeva come fosse un aspetto che in fondo era sempre mancato anche in quell'unico rapporto davvero significativo che aveva stretto nella sua vita. Aveva un carattere evasivo e indipendente, ma dopo anni ad essere frainteso, ad essere reputato un criminale incolpato di un delitto di cui non si era macchiato, e adesso seguace di qualcuno di cui non capiva neanche l'esistenza, Thomas non desiderava nient'altro che di essere creduto. Che qualcuno lo vedesse esattamente per ciò che era, non per ciò che si diceva di lui. «Forse qualcuna Guardò Nate, l'espressione più distesa, e comprese che se mai la fiducia fosse tornata non sarebbe stata qualcosa da conquistare. Non aveva la possibilità di controllare cosa l'altro pensava di lui: poteva solo dimostrarglielo. Comprendeva che le sole parole, probabilmente, non sarebbero state sufficienti; forse per Nate non era neanche necessario conoscere le risposte a quelle domande implicite, forse la sua lealtà non gli imponeva quel vincolo, ma non di meno per Tom sarebbe stata una prerogativa scoprire ogni carta, per quanto Nate non gli avrebbe chiesto di farlo. Doveva esserci qualcuno al mondo che poteva dire di conoscerlo davvero. «Anche se potresti non credermi, la mia parola ha sempre avuto un suo peso specifico, Nate.» Fece serio, scandendo piano le parole. «Sono sempre stato una persona che fa di testa propria, e ci sono state molte cose che ti ho tenuto nascosto, nel corso degli anni, per indole o perché avevo paura.» La conversazione in cui aveva vuotato il sacco sui ricatti dello Shame era stato uno dei momenti più difficili della sua vita. «Ma non ti ho mai dato motivo di dubitare della mia parola. Ci sono cose su cui non mentirei – non l'ho mai fatto. Sono egoista, elusivo, ma mi piace credere che tu sappia chi sono.» E certo che per lui era importante che fosse Nate, più di tutti, a saperlo, e che fosse chiaro a lui che c'era un limite alle cose che persino una persona come Tom sarebbe stato capace di tenere nascoste. «Ho bisogno di sapere che c'è qualcuno che mi crede.» Lo disse ad alta voce, in modo semplice, pragmatico, chinando appena la testa, e deglutendo, le mani ancora intrecciate. Non sentì il bisogno di dirlo direttamente, che lui in tutta quella storia non c'entrava niente. La trottola, intanto, continuava a girare, silenziosa.
    «Sono piuttosto curioso di sapere quali sono i tuoi piani, a questo punto. Sei un uomo libero, ora, Tom. Puoi fare quello che desideri. Chiaro che potresti continuare a fare questa vita per sempre... Ma so già che non sarebbe nelle tue corde.» Parlare di questioni pratiche era più semplice, per quanto Tom avesse ormai superato la fase in cui si parla esclusivamente in termini fattivi; e così Nate, che per la prima volta si ritrovava l'amico di fronte, senza manette a cingergli i polsi, evidentemente preferiva discutere di questioni più concrete per colmare quanto negli anni trascorsi era mancato. E il biondo accondiscese, seguendo il cambio di tono e volgendo lo sguardo sul presente. «Speravo di poterti parlare anche di questo, a tempo debito» fece, il bicchiere incantato che automaticamente si riempiva di liquido ambrato. «Il Ministero te lo sconsiglio vivamente – non è il periodo giusto. Io ho sempre di più l'istinto di voler scappare via a gambe levate.» «Dovresti farlo» fu l'eco serio di Tom a quelle parole, contrastante con la risata dell'altro. «Non capisco fino in fondo perché accetti di rimanere tra le fila di Minerva – cioè, ovviamente ha senso a modo proprio» argomentò, gesticolando. «Mi rendo conto che non ci siano posizioni che non siano pro o contro un morto vivente, nessuno ha davvero scelta. Ma ho sempre pensato che io e te, e quelli come noi, fossero un po' al di sopra di certe partizioni.» Si strinse nelle spalle con semplicità, nascondendo parzialmente il viso con il bicchiere, per prenderne un sorso. «Che idea ti sei fatto, su questo governo?» L'argomento era molto più d'interesse per Tom di quanto non desse a vedere, sul momento, ma la parte che più gli piaceva della disquisizione su qualunque tema con Nate era quel preludio, il momento in cui la sua opinione, ancora in procinto di essere pienamente sviluppata, veniva momentaneamente sospesa per ascoltare quella dell'altro. «Io devo dirti che non credo che tornerò al college. L'esperienza ad Azkaban mi ha cambiato in più modi di quanto immaginassi o mi aspettassi, temo» confessò, corrugando nuovamente la fonte, come faceva quando diceva qualcosa di molto serio o di molto vero. «A me sembra chiaro che ci sia qualcosa di profondamente marcio e altrettanto sbagliato nel modo in cui il mondo gira, e mi pare anche che ci sia molto poco che persone come me e te riescano davvero a comprendere appieno, di ciò che sta accadendo e che è accaduto». Parole apparentemente vaghe, ma che certamente Nate avrebbe inteso. «Io però sono stanco di sentirmi perso, Nate» disse, la voce rotta come da uno sbuffo esasperato, quasi un gemito, mentre Tom scuoteva la testa. Si passò una mano sul viso, stancamente, sospirando. «Non ti senti piccolo Con il viso ancora tra le mani, il ragazzo ruotò la testa, il lampo che gli attraversò lo sguardo che si intravedeva tra le dita leggermente separate, mentre si rivolgeva verso Nate. Le lasciò cadere tra le gambe, i gomiti ancora poggiati sulle cosce. I capelli gli si erano arruffati un po', cosicché, per la prima volta quella sera, Tom apparì in tutta la propria irrecuperabile prostrazione. «E non sei stanco di sentirti piccolo?» Come alla cena di Natale, quando gli adulti parlano al tavolo degli adulti, e i piccoli mangiano al tavolo dei piccoli.
     
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    « Distinguere gli amici dai nemici è molto importante quando perdi i punti di riferimento. Lo so che la più affidabile delle bussole sei tu, per te stesso, ma imparare a delegare è una lezione importante, secondo me » Di solito era Nathan ad impartire consigli e lezioni di vita; Thomas era più l'amico che sbuffava e liquidava le ramanzine con gesti noncuranti, e forse era questa sua storica predisposizione a rendere tanto curiose certe parole, in quella circostanza. Nate rimase in silenzio, lo sguardo perso tra le lingue di fiamme nel camino, sorseggiando dal proprio bicchiere. Lo svantaggio di conoscersi così bene era essere sempre capaci di pungere sul vivo l'altro. « Io non voglio tu mi chieda niente, ma credo che farebbe bene a entrambi ammettere che dei dubbi ci sono stati e ci sono – per quanto non possano essere dissipati. » Comprendeva a fatica quell'esigenza impellente di Tom di chiarire, a ogni costo, ogni cosa. Una parte di lui avrebbe di gran lunga preferito liquidare tutto e sperare che fosse il tempo a rendere gli eventi più cristallini - d'altronde era sempre stato questo il suo modus operandi. Era molto più sicuro constatare dei fatti che fidarsi alla cieca, senza grandi appigli della ragione. E aveva poi davvero senso stare a ponderare eventuali moventi di una persona che aveva trascorso più di un anno ad Azkaban, e che senza ombra di dubbio era entrata in contatto con chissà quali realtà, e si era potenzialmente trovata a scendere a chissà quali patti? Era ragionevole fidarsi di Tom? « Anche se potresti non credermi, la mia parola ha sempre avuto un suo peso specifico, Nate. Sono sempre stato una persona che fa di testa propria, e ci sono state molte cose che ti ho tenuto nascosto, nel corso degli anni, per indole o perché avevo paura. » Non lo era. Non lo era perché storicamente Tom gli aveva dato motivo di ridurre la fiducia riposta in lui fino all'osso; non lo era perché ad Azkaban accadeva di tutto ed era impossibile da prevedere; non lo era perché Nate era solito soppesare ogni decisione, e non avrebbe avuto senso delegare questa. « Ma non ti ho mai dato motivo di dubitare della mia parola. Ci sono cose su cui non mentirei – non l'ho mai fatto. Sono egoista, elusivo, ma mi piace credere che tu sappia chi sono. » Gli occhi di Nate saettarono dal camino allo Spioscopio, che ruotava in equilibrio ininterrotto. Imparare a delegare. « Ho bisogno di sapere che c'è qualcuno che mi crede. » Nate sospirò, mentre abbandonava il bicchiere ormai vuoto sul ripiano di legno accanto alla propria poltrona, e intrecciava le dita, con i gomiti puntellati sui braccioli. Era impossibile trovare un senso in quel salto di fiducia, perché in quell'equazione entrava in gioco anche qualcos'altro. « Io ti credo, Tom. » Lo disse con un tono che palesava ovvietà, come se tutta la questione fosse superflua; eppure quelle parole ebbero l'effetto di un sospiro di sollievo, una boccata d'aria dopo l'apnea. Non l'avrebbe ammesso ma era confortante, avere qualcuno dalla propria parte.
    Questioni più pragmatiche presto li coinvolsero, e Nate fu quasi sorpreso nell'udire la determinazione con cui Tom appoggiava una sua iperbole, scapparsene a gambe levate. « Dovresti farlo » disse, serio, quasi non avesse colto la sua battuta. « Non capisco fino in fondo perché accetti di rimanere tra le fila di Minerva – cioè, ovviamente ha senso a modo proprio. Mi rendo conto che non ci siano posizioni che non siano pro o contro un morto vivente, nessuno ha davvero scelta. Ma ho sempre pensato che io e te, e quelli come noi, fossero un po' al di sopra di certe partizioni. » Si strinse nelle spalle, picchiettando distrattamente con le dita sulla superficie dei braccioli. « Non mi sento di essere tra le fila di Minerva. » Ci tenne a specificarlo, quello, un'espressione schifata che sfigurava i suoi lineamenti delicati. « È un posto come un altro, il mio. Ho scelto di intraprendere una carriera ministeriale ed è quello che mi tocca. I partiti sono volatili, si sa. Se lavoro per il Ministero non significa che lavoro per il partito che lo governa al momento. » Chissà perché tutti continuano a rinfacciarmelo. Ricordava la rabbia di Galathéa, i suoi perentori e petulanti "Deve prendere una posizione, ispettore". Perché? Chi lo obbligava? Scosse piano il capo, consapevole di aver messo in campo un ragionamento futile, quanto meno di fronte all'amico. Tom non aveva certo bisogno di certe lezioncine da prima elementare, eppure quell'interrogativo sembrava aver risvegliato in lui un fastidio sopito, un rigurgito di una discussione non ancora digerita. « Vabbè, tu non hai bisogno che te lo dica » si corresse allora, quando comprese di star parlando con il giovane Montgomery e non con quella deficiente di Galathéa Durand. « Che idea ti sei fatto, su questo governo? » Sospirò, mentre assottigliava lo sguardo e lo rivolgeva ad un punto imprecisato di fronte a sé. Era difficile rispondere a una domanda di quel tipo, perché, nonostante il tempo trascorso a rifletterci, un'idea chiara del Progetto Minerva non sentiva di averla ancora. « Inizialmente pensavo che fossero solo un gruppo di incompetenti saliti al potere un po' per fortuna, un po' per la forza della demagogia. » Si strinse nelle spalle. « Ora è evidente che ci sia qualcos'altro dietro. Qualcosa di oscuro e, francamente, spaventoso. » Non usava quelle parole con leggerezza, Nate. Quando ripensava agli eventi del giorno dell'eclissi, percepiva ancora un brivido che gli percorreva la nuca. « L'Eclissi è stata una trappola per tutti quanti, un modo per far assistere più persone possibili a quella specie di... resurrezione, o quel che era. È chiaro, ora, che il progetto Minerva non sia popolato da sprovveduti. Qualunque cosa sia Eric Donovan, oggi... È un'arma. » Contro chi? Bella domanda. « E se oggi cammina su due gambe, nel suo corpo - sempre ammesso che quello sia il suo corpo - lo fa di certo grazie all'uso di una qualche magia oscura e indicibile, qualcosa che neanche riusciamo a immaginarci. Qualcosa di spaventoso. » Tante ipotesi l'avevano sfiorato in quei mesi: da un potente incanto di Illusione agli Horcrux, ma nulla sembrava incastrarsi bene con le vicende che avevano vissuto. Sospirò. « Ma noi di cose spaventose ne abbiamo viste un paio, no? » Incatenò gli occhi verdi a quelli del compagno, e fu sufficiente quella singola occhiata per capirsi. Il Lockdown, con il suo sottosopra e le sue trappole mortali all'interno del castello, era ancora bene impresso nelle menti di entrambi. Scosse piano il capo, il labbro inferiore stretto tra le file di denti bianchi. C'erano così tante cose che non tornavano, in quella vicenda. « Io comincio a pensare che i Ribelli abbiano qualche elemento in più sulla questione. » Un pensiero che gli balenava in testa già da un po', e che in fondo non era certo un colpo di genio: chiunque poteva immaginare che i Ribelli avessero legami con la dimensione che andava oltre il sensibile, la stessa che avevano affrontato dentro al castello grazie a Edmund Kingsley. « D'altronde non è curioso che perfino le comunità warlock si siano unite a loro? » Aggrottò la fronte, consapevole di non poter andare oltre quelle osservazioni. Erano tutte ipotesi, le sue, supposizioni che potevano avere una base solida così come crollare come un castello di carte. Alla fine dei conti, per lui i Ribelli non erano altro che un gruppo di riottosi (ben organizzati e potenti, per carità) troppo violenti e senza grandi idee.
    « Io devo dirti che non credo che tornerò al college. L'esperienza ad Azkaban mi ha cambiato in più modi di quanto immaginassi o mi aspettassi, temo » Annuì, incrociando le braccia al petto e rilassandosi sulla poltrona, la schiena appoggiata alla spalliera e il capo leggermente reclinato all'indietro. « Comprensibile. D'altronde non ne hai mai avuto bisogno » commentò in maniera spicciola. « A me sembra chiaro che ci sia qualcosa di profondamente marcio e altrettanto sbagliato nel modo in cui il mondo gira, e mi pare anche che ci sia molto poco che persone come me e te riescano davvero a comprendere appieno, di ciò che sta accadendo e che è accaduto. Io però sono stanco di sentirmi perso, Nate. » Chiuse gli occhi per un momento, mentre ascoltava le parole dell'amico. Era come se fosse riuscito a dipingere alla perfezione i suoi pensieri, e senza bisogno che li esprimesse mai. Era anche a questo che serviva, delegare. « Non ti senti piccolo? » Guardava ora il soffitto, Nate, le iridi verdi ipnotizzate dalle venature scure delle assi di legno. Da mesi ormai si sentiva piccolo, piccolissimo. Costretto dietro alla sua piccola scrivania in un orrido capanno degli attrezzi, spesso passava il tempo a ripercorrere tutte le scelte, ed eventualmente gli errori che l'avevano portato a quel punto. A controllare i chili di patate per gli abitanti del ghetto. « E non sei stanco di sentirti piccolo? » Una smorfia divertita gli incurvò le labbra, prima che sollevasse il capo per incontrare lo sguardo del tuo amico. « Lo sai. » Non aveva bisogno di parlare, esprimere il suo punto di vista: era tutto così palese. Certo, che era stanco. Certo, che era esasperato. « Dovevamo essere noi a dettare legge, e invece siamo alla mercé di un gruppo di... » Non sapeva come definirli, perché non sapeva cosa fossero. Li qualificò allora con un breve gesto della mano, il polso che roteava mentre le dita restavano aperte, a segnalare qualcosa di non ben identificato. « Credevo che giocare al loro gioco avrebbe funzionato. Credevo che bastasse dimostrar loro di essere il migliore, per averlo riconosciuto. » Si strinse nelle spalle. « E invece la meritocrazia, come millantano loro, non esiste nel loro universo. Se così fosse Percy non starebbe in un ghetto a badare a dei bambini, io non starei chiuso in una serra a vigilare gli ortaggi. » Poteva quasi percepire il veleno sulla bocca mentre pronunciava quelle parole con profondo disprezzo. Era tutto così ingiusto e disgustoso. Guardò di nuovo Tom, gli occhi colmi di amarezza ed esasperazione. « Come facciamo a riprenderci quello che ci meritiamo, Tom? » Come facciamo a riprenderci la nostra vita?
     
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    «Io ti credo, Tom.» Il problema di Thomas, se n'era reso conto soltanto grazie a quel periodo di distanza, come un pittore che inquadri la scena comprendendola nella sua complessità, nella sua vastità e interezza solo compiendo un passo indietro, era sempre stata la nostalgia. Era stata una lezione complicata da apprendere, sopratutto perché Tom non si era mai considerato una persona sentimentale, non aveva sofferto mai in modo significativo il passaggio del tempo, e mai i cambiamenti erano stati per lui una fonte di preoccupazione o di sgomento – era difficile che fosse altrimenti, in una vita senza punti di riferimento saldi, in cui l'adattamento era la sua principale risorsa; tutt'altro, infatti: l'aveva ricercata lui stesso, quella particolare tipologia di scomodità che nasce dal guardare la tua vita capovolgersi completamente. E proprio in quello stava il più grande segnale della menzogna che raccontava a sé stesso, perché ogni riforma era stata autoimposta, e pertanto controllata, mai subita, affinché non dovesse mai sentirsi vittima degli eventi, affinché non sentisse mai di adagiarsi troppo, di sentirsi troppo tranquillo, cullato da una routine che era mortifera per il fatto stesso di esistere. Che le cose potessero cambiare era un fatto naturale, ma difficilmente si era fermato ad aspettare che ciò accadesse di punto in bianco, sul più bello – perché è così che naturalmente le cose tendono a mutare, proprio quando senti di averle in pugno. Ma era proprio quel bisogno di esserne padrone, quello strapparsi il cuscino da sotto la testa proprio poco prima di addormentarsi, a raccontare la storia di un ragazzo terrorizzato dal pensiero di farsi trovare impreparato, quando inevitabilmente il castello di sabbia che aveva costruito sarebbe crollato; e per questo non aveva mai costruito, mai per davvero, stringendosi nelle spalle e convincendosi che quel tipo di comportamento, di chi vede i propri progetti, la propria stabilità spazzata via dal vento e ciononostante ricomincia a illudersi di poter costruire, fosse vana fatica, una lotta contro i mulini a vento, contro il caos che sta dentro a ogni cosa, e non fai a tempo a tenerla in mano che quella ti viene strappata via, per cui tanto valeva battere il destino al suo stesso gioco e non tenere mai in mano niente, in assoluto. Ma questa era una vita di povertà, di nichilismo, che ti protegge dalla perdita, ma nel compendio finale della tua vita apparirà chiaro come da niente nasca niente, e quel sadico gioco al ribasso l'avrebbe soltanto impoverito sempre di più, protetto così tanto dalla paura di perdere ciò che aveva da diventare egli stesso il suo spietatissimo aguzzino. E così aveva vissuto di idilli, quelle poche cose che aveva potuto tenere strette in un pugno, o illudersi di averlo fatto, erano la magra consolazione per una vita sostanzialmente vuota, fondamentalmente priva di sostanza; una vita fatta di superficialità e noncuranza, sicura, in questo modo, ma inesorabilmente arida. Aveva esaminato, nei lunghi giorni che si confondevano gli uni con gli altri, i tramonti che sbavavano nelle albe che arrivavano sorprendentemente in fretta, i disperati tentativi di tornare a vivere nel passato, di tornare a riafferrarne la materia, e quindi le ceneri di qualcosa che era stato – o che, forse, non era mai esistito davvero. Greagoir l'aveva capito prima di lui, e spesso aveva riletto le parole di quella lettera che gli aveva inviato tre anni prima, soltanto qualche mese prima di essere rinchiuso ad Azkaban: non era mai stato capace di vedere le cose per quello che erano, non davvero, offuscato dalla patina rosea dei ricordi, che pertanto li alterava, li camuffava; sentiva, l'aveva percepito con assoluta determinazione, che un tempo fosse stato felice, e che in generale tutti i migliori momenti non potessero che essere declinati al passato, perché nessuno avrebbe potuto toglierglieli, ed erano pertanto sicuri, protetti, ed era sicuro per lui ripercorrerli, a distanza di tempo, e provare in ritardo le emozioni che non si era concesso di sentire sul momento; era questa, la sua personale definizione di nostalgia. Nella sua cella, si era a lungo domandato se i sogni passati che aveva inseguito fossero mai esistiti davvero. La sua fumosità, la sua inafferrabilità, che era poi la stessa materia di cui era fatto il presente, risiedeva proprio in quel suo non essere del tutto , di fronte all'interlocutore, nella sensazione che invece si trovasse altrove, e anche quand'era stato presente fisicamente, difficilmente Thomas si era sentito partecipe, perché l'appartenenza è un'altra cosa che possono portarti via, e che è molto più sicuro declinare al passato. Appartenevo al Clavis. Io e Nate eravamo grandi amici. Ti ricordi di questo libro che leggevamo sempre? Niente di tutto ciò era mai stato reale, perché quando era di fronte a lui Thomas aveva sempre esitato dall'afferrarlo, e pertanto non faceva parte di lui neanche adesso che era trascorso del tempo. Aveva trascorso la maggior parte della sua vita ai bordi, senza davvero partecipare. Questa era stata una verità durissima da accettare, perché dell'azione aveva fatto il suo canto di vita, la sua unica vocazione, e adesso aveva capito di aver sempre agito per scappare a qualcos'altro, quando l'unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stato stare, starci, rimanere, essere presente, statico, e farsi colpire dalle intemperie, e farsi erodere, perché questo significava vivere. L'amicizia con Nate non era stata una chimera: era stata reale, ma a un certo punto aveva smesso di esserlo, ed era stata alimentata soltanto dai ricordi del passato, e da un vago senso di preziosità, che ci fosse qualcosa che non bisognava buttare via, per cui nessuno dei due aveva mollato la presa; e probabilmente, se avesse dato voce a quei pensieri, a tutti questi snodi logici, Nate l'avrebbe guardato perplesso, e forse non avrebbe manco davvero capito di che cosa stesse parlando, ma fu con quelle quattro parole snocciolate con semplicità, non perché banali ma perché sintetiche nella loro efficacia, che Thomas sentì di essere presente, e che l'altro lo fosse, e che non si trovassero immersi in un sogno, o in un ricordo, dove la voce veniva ovattata dai riverberi nell'acqua. Fu come se, in quel momento, il loro legame venisse ravvivato, e una pesante nebbia che li aveva avvolti, attraversata senza senso dell'orientamento, senza sapere o capire esattamente cosa ci fosse dall'altra parte, si fosse di colpo dissipata, ed ora si vedevano di nuovo. Non ancorarti al passato, Thomas. Solo perché qualcosa è stato - per quanto bello - non significa che debba per forza continuare ad essere, ora o in futuro. Abbi sempre il coraggio di vedere le cose per come sono, anche quando questo ti reca tristezza o amarezza. Solo così potrai essere felice.. e libero. Solo così potrai crescere. Ed era cresciuto davvero. Quelle parole ci avevano messo tre anni a permeare, ad attraversare la scorza dura che gli rivestiva la pelle, ma adesso le capiva, e la rabbia che l'aveva riempito al sentirle, l'indignazione per quella prospettiva così disincantata, aveva lasciato il posto ad un credo rinnovato, ad un'edita impellenza: quella di vedere sempre le cose esattamente per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero. Essere presente era la lezione più difficile che aveva dovuto imparare, specialmente quando fuggire altrove sarebbe stato più facile che mai, quando vivere nella realtà significa accettare di trovarti ad Azkaban; eppure aveva dovuto lasciare che quel dato di fatto gli entrasse nella testa e la pervadesse, e per quanto nascondersi e sgusciare via rimanesse un istinto naturale, si stava sforzando di rimanere fermo, piantato in un posto soltanto, giudicare se stesso per ciò che faceva, non ciò che avrebbe voluto fare, non ciò che aveva fatto in passato.
    Ascoltò le parole di Nate sull'attuale Ministero e sulla scelta che non sentiva di aver compiuto, al riguardo, e non riuscì a sopprimere un sorrisetto, sebbene cercasse di celarlo chinando il capo in avanti. «Se lavoro per il Ministero non significa che lavoro per il partito che lo governa al momento.» Non rispose, ma non concordava con quel modo di vedere le cose. Nate stava compiendo una scelta, pur raccontando a sé stesso di starsi astenendo dal farlo. «Vabbè, tu non hai bisogno che te lo dica» aggiunse poco dopo, e Thomas annuì debolmente, poco convinto, avvertendo quel piccolo, nuovo, divario tra di loro, senza giudicarlo. Probabilmente, se avesse dovuto provare a fare un'ipotesi, dal punto di vista di Nate il discorso era unicamente dettato dalla convenienza, e tra le uniche due strade momentaneamente percorribili quella al Ministero era senz'altro la migliore, e ciò non necessariamente doveva indicare un'aderenza a certi tipi di pensiero, ma sicuramente ne suggeriva una certa tolleranza. Per questo pose ulteriori domande, e ne ascoltò le risposte mantenendo il silenzio. «Inizialmente pensavo che fossero solo un gruppo di incompetenti saliti al potere un po' per fortuna, un po' per la forza della demagogia. Ora è evidente che ci sia qualcos'altro dietro. Qualcosa di oscuro e, francamente, spaventoso.» Strinse le labbra, Thomas, due piccole fossette a segnargli gli angoli della bocca. Era stato chiaro a chiunque, persino a profani come loro due, che per riportare in vita un morto ci volesse della magia nera, e particolarmente nera. Ammettere di averne paura era la cosa più intelligente da fare – Minerva sapeva la dichiarazione che stava compiendo con un gesto del genere. «Ma noi di cose spaventose ne abbiamo viste un paio, no?» «Molto più di quanto non sia definibile come un fair share». Ma erano sempre andati avanti, loro e tutto il mondo magico con loro. Mutatis mutandis. Stare al passo era l'unica arma reale contro un mondo che non si fermava per niente e per nessuno – rinchiudersi negli idilli del passato equivaleva a illudersi di esserne esulato. «Io comincio a pensare che i Ribelli abbiano qualche elemento in più sulla questione. D'altronde non è curioso che perfino le comunità warlock si siano unite a loro?» Tom fece passare la lingua sulla punta dei molari, pensieroso. «Hanno distrutto Inverness, Nate, hanno ghettizzato i lycan e le altre creature magiche. Ce l'hanno con il Branco.» Sottolineò l'ovvio, stringendosi nelle spalle. «È chiaro che ci sia un qualche tipo di fazione in gioco tra Minerva e la razza dei lycan – un disegno di cui io e te non facciamo parte.» E questo ci fa sentire esclusi. Così si erano scambiati quel poco di nozioni sulla condizione attuale delle cose senza particolare convinzione, e Tom trovò rincuorante leggere il proprio scoramento negli occhi dell'amico, fissi sulle travi di legno che attraversavano il soffitto dello chalet. «Lo sai. Dovevamo essere noi a dettare legge, e invece siamo alla mercé di un gruppo di...» Tom deglutì, alzandosi in piedi, le mani a stirare il tessuto dei pantaloni raggrinziti. Conosceva il significato di quelle parole, l'emozione che le generava, le implicazioni che sottendevano. «Credevo che giocare al loro gioco avrebbe funzionato. Credevo che bastasse dimostrar loro di essere il migliore, per averlo riconosciuto. E invece la meritocrazia, come millantano loro, non esiste nel loro universo. Se così fosse Percy non starebbe in un ghetto a badare a dei bambini, io non starei chiuso in una serra a vigilare gli ortaggi.» Ridacchiò, l'ex Serpeverde, grattandosi distrattamente la nuca mentre si avvicinava al camino imponente, di fronte a loro, e si poggiava alla mensola con un gomito. «Come facciamo a
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    riprenderci quello che ci meritiamo, Tom?»
    Soltanto allora il ragazzo scosse la testa, senza voltarsi verso Nate, il tepore del fuoco che attraversava il tessuto dei suoi vestiti, arrossandone invisibilmente la pelle candida, così come faceva con quella della mano, che teneva aperta davanti alla fiamma. «Non è mai stato nostro, Nate» Stringendo il bottone tra pollice ed indice, Tom liberò la seconda e terza asola della camicia, il colletto più morbido attorno al collo. «Io non ho mai smesso di sentirmi piccolo da quando sono nato» confessò, ridacchiando in modo quasi sinistro, per quanto dissonante dalla tristezza di quelle parole. «Non ti sto parlando di una sensazione generata da questo specifico momento storico. Io mi sentivo così anche durante gli anni della scuola, anche quando ero Vicepresidente del Clavis – qualunque cosa questo titolo valesse.» Ha mai significato davvero qualcosa? Cosa ne abbiamo mai fatto, di tutto il potere che credevamo di avere? Era una favola che ci raccontavamo per dormire sogni tranquilli, per nutrire il nostro ego senza dover alzare un dito e dimostrare a noi stessi di che pasta eravamo fatti davvero. «Mi sono sentito così durante il Lockdown, e quando rubavamo da mangiare a quelli fisicamente più deboli di noi, perché sapevamo che avremmo potuto batterli, se si fossero voltati contro di noi.» Si passò la lingua sulle labbra, lambendole con i denti. «Mi sono sentito piccolo dal giorno in cui sono nato in una famiglia in cui avrei potuto avere qualunque cosa volessi, tranne la più importante di tutte, e così non ne ho voluta neanche una, e ho cominciato una battaglia contro mio padre, perché senza di lui non sapevo io chi fossi o chi sarei diventato, e questo mi faceva infuriare.» Deglutì, il pomo d'Adamo che seguiva quel movimento, visibile nel profilo scuro, in controluce. «Ho sempre sentito il bisogno di lottare per affermarmi, e questo perché pensavo che fosse l'unico modo per distinguermi da mio padre, per guadagnarmi il suo rispetto mentre odiavo il fatto di averne bisogno. Ma in tutto questo, Nate, io e te non abbiamo mai contato un cazzo Era sicuro che non gli stesse dicendo niente di sconvolgente, niente di così nuovo – se lo augurava, più di tutto, che Nate non vivesse ancora in un mondo intriso di false promesse, di abbagli, di un vago senso di diritto che sovrasta qualunque lucidità. «Non contavamo niente quando facevamo parte del Clavis, non contiamo niente adesso. Abbiamo fatto la fine degli aristocratici decaduti, ci chiudiamo nelle nostre belle ville e ci convinciamo che tutto sia ancora in ordine perché abbiamo ancora gli elfi domestici che ci puliscono le carpe e ci preparano da mangiare. Io adesso lo capisco, che mentre io stavo a fare i dispetti a mio padre, e mi ribellavo a qualunque senso di dovere io sentissi per il fatto di essere nato in questa famiglia, lì fuori la gente scriveva la storia, quella che conta davvero qualcosa.» E noi rimanevamo all'oscuro di tutto, a illuderci di essere intitolati o meritevoli di una fetta della torta, senza aver mai alzato un dito, senza aver mai stretto niente in mano. Si voltò verso Nate soltanto allora, facendo cadere le braccia lungo i fianchi, il suono sordo del palmo della mano che colpiva la coscia. «Non ci meritiamo niente di diritto. Non è una causa per cui combattere, il pensiero che semplicemente noi ci meritiamo di meglio. Finché il pensiero rimane questo, non andremo da nessuna parte, perché il merito va dimostrato, e le lotte non si combattono per la meritocrazia, ma per la giustizia. Tu perché pensi che sia giusto che tu viva la tua vita in modo più degno di così?» Lo sfidò Tom, con un cenno del mento, e fu chiaro che non fosse altro che dialettica, una provocazione intellettuale, come ai tempi della scuola – come ciò che più li appassionava.
     
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    « Non è mai stato nostro, Nate » Inclinò leggermente il capo, guardando l'amico un po' interdetto. « Che vuoi dire? » domandò, lanciando distrattamente un'occhiata all'orologio da polso. Quasi le otto. Presto gli invitati di Thomas sarebbero giunti alla baita - quel pensiero gli ricordò di non essersi nemmeno premurato di chiedere chi, effettivamente, sarebbe stato presente a quella serata insieme a loro. Immaginava fossero i soliti jolly da festa; talvolta perfino Nate si scopriva annoiato all'idea dell'ennesima serata in compagnia di persone irrilevanti. « Io non ho mai smesso di sentirmi piccolo da quando sono nato. » Quella particolare scelta di parole lo spiazzò, tanto che, accavallate le gambe, si distese meglio sulla poltrona, le braccia incrociate al petto, curioso di ascoltare il resto del monologo dell'amico. « Non ti sto parlando di una sensazione generata da questo specifico momento storico. Io mi sentivo così anche durante gli anni della scuola, anche quando ero Vicepresidente del Clavis – qualunque cosa questo titolo valesse. » Incurvò un angolo delle labbra, Nate, in un sorriso mesto al ricordo dei tempi del Clavis Aurea, per lui ancora tanto cari. Forse Thomas col tempo aveva cambiato prospettiva, probabilmente reputava quel tempo trascorso insieme con gli altri una sciocchezza, ma Nathan era convinto di aver costruito il proprio carattere grazie a ciò che aveva ricevuto da quelle persone: dalle memorie stravaganti alle disquisizioni più filosofiche. Il Clavis era stato la sua piccola palestra di vita. « Mi sono sentito così durante il Lockdown, e quando rubavamo da mangiare a quelli fisicamente più deboli di noi, perché sapevamo che avremmo potuto batterli, se si fossero voltati contro di noi. [...] Ho sempre sentito il bisogno di lottare per affermarmi, e questo perché pensavo che fosse l'unico modo per distinguermi da mio padre, per guadagnarmi il suo rispetto mentre odiavo il fatto di averne bisogno. Ma in tutto questo, Nate, io e te non abbiamo mai contato un cazzo. » Sorrise, la fronte lievemente corrugata a rivelare la sua confusione di fronte a quell'osservazione. Certo che non abbiamo mai contato niente, eravamo ragazzini, avrebbe voluto dire, ma tacque. Comprendeva come dietro al discorso di Tom vi fossero molti più elementi, molti altri rincrescimenti da passare in rassegna uno a uno, in una sfilza di amarezza e delusione. Solo ora, forse, le contraddizioni vissute per anni dall'amico cominciavano a venire a galla: il suo strenuo desiderio di ribellione nei confronti del padre, la voglia di essere altro, oltre ciò che gli era stato imposto alla nascita. In questo, Nate e Tom differivano di molto: il primo si era sempre identificato quasi perfettamente con l'immagine di sé che vedeva riflessa nel proprio ambiente: in quei luoghi per lui sacri aveva ascoltato, appreso, rubato ed ereditato, e da lì aveva costruito il proprio essere; Tom, dal suo canto, negli anni aveva preferito cercare sé stesso fuori dall'ordine prestabilito, nell'insurrezione, nella determinazione a uscire da quegli schemi ad ogni costo. S'immaginava, Nate, o meglio ne aveva la sensazione, che dopo la fine della sua incarcerazione ad Azkaban - causata dall'ultima delle sue insurrezioni da ragazzo - il suo amico sentisse l'esigenza di fare un bilancio a consuntivo di ciò che era stato, ripercorrere tutte le strade della sua vita e analizzarle con freddezza, per distinguere quelle sane da ciò che si era rivelato essere marciume. Capì che non era un'accusa nei suoi riguardi, quella di Tom, e nemmeno un rimprovero - era semplicemente un modo per elaborare anni di vita tutti insieme, e provare ad attribuirvi un senso che potesse traghettare con lui anche in questa sua vita nuova, finalmente adulta. Comprese che qualsiasi commento sarebbe stato fuori luogo, perché quel monologo non riguardava lui. Lo ascoltò allora con attenzione, e attese che finisse di parlare per iniziare ad elaborare la propria risposta. « Non contavamo niente quando facevamo parte del Clavis, non contiamo niente adesso. Abbiamo fatto la fine degli aristocratici decaduti, ci chiudiamo nelle nostre belle ville e ci convinciamo che tutto sia ancora in ordine perché abbiamo ancora gli elfi domestici che ci puliscono le carpe e ci preparano da mangiare. Io adesso lo capisco, che mentre io stavo a fare i dispetti a mio padre, e mi ribellavo a qualunque senso di dovere io sentissi per il fatto di essere nato in questa famiglia, lì fuori la gente scriveva la storia, quella che conta davvero qualcosa. » « Ah! » Sbuffò una risata dalle narici, mentre scuoteva leggermente il capo. « Ti sei forse pentito di non esserti unito ai Ribelli? » Una piccola provocazione, la sua, che non richiedeva realmente una risposta, ma che serviva a sondare il terreno. Non gli era più molto chiaro ciò che Tom volesse intendere, a questo punto, dove volesse davvero arrivare. In un altro momento avrebbe detto che fosse l'ennesima delle sue disquisizioni volte al nulla - parlare per parlare, questo era quello che sapevano fare meglio. Ma quelle parole stavolta avevano un altro sapore, poteva percepirlo. Ne avvertiva la frustrazione, forse perché lui per primo poteva rispecchiarvisi. Nate non avrebbe mai ammesso di essere un fallimento, ma era pur vero che nella sua vita mai si era trovato così vicino dal pensarlo. « Non ci meritiamo niente di diritto. Non è una causa per cui combattere, il pensiero che semplicemente noi ci meritiamo di meglio. Finché il pensiero rimane questo, non andremo da nessuna parte, perché il merito va dimostrato, e le lotte non si combattono per la meritocrazia, ma per la giustizia. Tu perché pensi che sia giusto che tu viva la tua vita in modo più degno di così? » Puntò gli occhi chiari sulla figura dell'amico, le dita affusolate che accarezzavano la pelle dei braccioli della propria poltrona. « È giusto perché me lo merito » ripeté, d'istinto, in quello che sembrava un gioco di parole, sebbene per lui non lo fosse per nulla. Sospirò. « Io non so come Azkaban abbia cambiato le tue prospettive - sto iniziando solo adesso a farmene un'idea. Ma se ti ha convinto che la meritocrazia non sia un valore valido per cui vivere, me ne dispiaccio. » Si strinse nelle spalle, spostando lo sguardo sul fuoco che divampava nel caminetto. « Io non ho mai pensato di meritare qualcosa di diritto. Non mi sono mai illuso di contare più di quanto non facessi realmente. » Scosse leggermente il capo. « Credo di aver sempre vissuto, però, con la certezza che avrei raggiunto un certo tipo di risultato; e non perché sono figlio di mio padre, o perché possiedo i contatti che mi permetteranno di arrivarci. Ma perché io, Nate, ho un valore intrinseco che mi darà la possibilità di meritarmi ciò che otterrò. » Per lui non si trattava di privilegio, né di occasione. Era una mera questione di qualità del suo essere, che sarebbero andate sprecate in qualunque altra posizione che non fosse quella che desiderava. Si sporse dunque leggermente in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, gli occhi puntati di nuovo in quelli dell'amico. « Guardami in faccia, Tom, e dimmi che io, con le mie conoscenze, le mie capacità, con tutto il mio bagaglio culturale, sono perfettamente adeguato a quello che sto facendo ora. » Sorrise, allora, prima di scuotere leggermente il capo. Una domanda retorica, la sua, conosceva già la risposta di Thomas. « No, appunto. Per questo dico che non me lo merito. Siamo cresciuti studiando storia, musica, politica, origliando dietro alle porte gli accordi d'affari dei nostri genitori. Tutto questo ci ha formato, ci ha reso quelli che siamo - ci ha reso persone complete, con una marcia in più rispetto a molti altri. » I nostri studi, le nostre esperienze, certo, derivano da un privilegio intrinseco. Ma ciò non toglie che quello che abbiamo ottenuto da questo privilegio ora è nostro, è ciò che ci rende competenti, preparati. « Io non mi merito una vita più degna perché il mio nome sta scritto da qualche parte. Me la merito perché - guardami - le mie capacità vanno ben oltre ciò che mi ritrovo a fare. » Si strinse nelle spalle, tornando ad appoggiarsi con le spalle alla sedia. « Se non ti piace vederlo come un diritto, vedilo come un dovere. Per me è anche questo. Mi è stato dato tanto, nella vita - ora è giusto che io lo spenda al meglio, perché da quello che ho ricevuto ne possa beneficiare non solo io, ma anche la mia comunità. » Sono una macchina da corsa che cammina a venti all'ora, Tom. Capisci che è uno spreco per tutti? « Questa è la mia giustizia. » Si strinse nelle spalle. « E potremmo stare ore a parlare di politica, di ideali, di chi ha ragione e chi no, e sarebbero tutte discussioni molto interessanti, ma le fondamenta per me sono queste: che tutti stiano al posto giusto. Se il mondo magico sta andando a rotoli, in questo momento, è semplicemente perché qualcuno è arrivato dove non dovrebbe stare. » Niente di più semplice. « Questo, probabilmente, i Ribelli l'hanno capito prima di molti altri. Hanno agito nel loro solito modo violento e balordo, e non hanno che peggiorato le cose - come al solito. Resta il fatto che l'hanno capito. » Sospirò, quindi, facendo pressione con le mani sui braccioli della poltrona, per alzarsi e sgranchirsi un po' le gambe. Le mani affondate nelle tasche dei pantaloni neri, face qualche passo nell'ampio salotto. Dava ancora le spalle a Tom quando riprese a parlare, dopo qualche attimo di silenzio. « Troveremo il nostro posto, Tom. Non so quando, non so con quali mezzi, ma so che succederà. E, quando succederà, mi auguro che riuscirai a sentire di meritartelo.»
     
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