Something in the way

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    30 dicembre

    «Il problema in sé e per sé non è la qualità della produzione, Wallace. Sei bravo, fai un lavoro decente, sorprendentemente riesci a lavorare con più precisione di chiunque altro qua dentro.» Per forza, gli altri a malapena si tengono in piedi, con gli orari che gli fate fare. Jerôme ascoltava in silenzio, mordicchiandosi l'interno delle guance, di tanto in tanto lanciando un'occhiata distratta all'orologio appeso alla parete dietro Vance Crane, ispettore del Ministero deputato al controllo della produzione siderurgica nel ghetto. Ergo, la più gigantesca delle seccature che potessero capitargli. Poteva andare peggio – questo lo sapeva; Vance non rompeva troppo le palle, a paragone con altri ispettori di cui aveva sentito parlare ad Iron Garden. Si era fatto l'idea che cercasse, in modo assai perverso e piuttosto patetico, di farseli addirittura amici, o quantomeno di non ricalcare la parte del capo che impartisce ordini ad individui sottomessi ed inferiori – come era la realtà effettiva delle cose. Naturalmente, quella messinscena non faceva che innervosirlo ulteriormente. Vance diceva cose tipo “non vorrei doverlo fare, lo sapete, vero?” e poi, però, chiaramente, lo faceva; rivolgeva loro sguardi colmi di preoccupazione quando capitava in fonderia, e guardava chi avesse sangue lycan cedere più di altri sotto il peso delle altissime temperature; suggeriva di fare una pausa – naturalmente poi dedotta dal monte ore di lavoro settimanale. Era una guardia della peggior specie, perché probabilmente al ritorno a casa si sentiva migliore di chi si limitava a compiere il proprio dovere senza mostrare quella stomachevole compassione; probabilmente era convinto che questo lo rendesse più umano, un capo più comprensivo, per quanto fermo e ligio al dovere, in una parola autorevole, mai autoritario, io sì che ho capito come prenderli – non morderebbero la mano che li nutre. Non capiva che l'unica cosa che li tratteneva dal farlo era la posizione che ricopriva. Strinse le labbra, chinando la testa, accavallando le gambe. «Il problema è la quantità. Senti, amico, voglio essere sincero con te. Guardami.» Amico? Jer affondò gli incisivi nel labbro inferiore per soffocare una risata, e alzò il mento, per incontrarne gli occhi, come a comunicargli che sì, l'avrebbe senz'altro ascoltato, ci sapeva proprio fare, guardami, sono solo una stupida creatura, e tu sei il mio maestro. «Se fosse per me, non farei lavorare nessuno di voi. Vi lascerei liberi di trascorrere le giornate come più vi piace – immagino che tu abbia una ragazza, da qualche parte, con quel bel faccino...» Jer sollevò un sopracciglio, analizzando le espressioni facciali dell'interlocutore, i sensi improvvisamente acuiti da qualcosa, nel modo in cui aveva detto quell'ultima frase, che risuonò stranamente familiare nell'intenzione – forse se l'era solo immaginato. «O un ragazzo?» L'ispettore inclinò la testa, e Jerôme ne seguì attentamente lo sguardo, che senza neanche troppe esitazioni o remore sembrò camminargli addosso, come a fargli i raggi X. «Nessuno dei due» si limitò a rispondere, gli occhi ridotti in fessure appena più piccole, mentre si lasciava seguire la pista che evidentemente Vance Crane stava tracciando di fronte a lui, senza neanche troppo delegare all'implicito. Ci stava provando, no? Era chiaro a entrambi? «È un peccato. Fai molte pause – a volte mi chiedo dove te ne vada, quando esci da qui». Il ribrezzo a quelle parole, il tono di voce che si faceva leggermente più mellifluo, e la vicinanza aumentata, con Vance che superava la scrivania e si poggiava al bordo, di fronte a lui, le braccia incrociate al petto – tutto ciò non ebbe il risultato che Jer si sarebbe atteso. Non era un uomo brutto, Vance Crane. Aveva una personalità disgustosa, un ruolo sociale che lo rendeva simbolo di tutto ciò che al Wallace faceva accapponare la pelle, e per l'ispettore lui non era che una creatura in gabbia che si divertiva a stuzzicare con un bastone, con quei patetici tentativi di creare confidenza tra di loro. Ma Crane aveva potere, che era una cosa che a lui, in quel momento, da solo, mancava. E questo era un dato di fatto che non aveva problemi a guardare in faccia, Jer, a chiamare col proprio nome – era qualcosa che terribilmente lo opprimeva, ma ciò non avrebbe mai fatto di lui una vittima. Forse esisteva un modo per manipolare quell'evidente predilezione per lui in qualcosa di più utile, sfruttarla a proprio vantaggio. Entrambi vogliamo qualcosa dall'altro. E così ne sostenne lo sguardo, e negli occhi castani comparse un guizzo, nient'altro, un lampo di intenzione. «Ora sono qui, però. Si può fare qualcosa, al riguardo?» Lo vide, l'effetto che quelle parole suscitarono nell'ispettore. Era sempre stato semplice, fin troppo, una volta intravista una certa apertura, un'inaspettata inclinazione – e chi l'avrebbe mai detto che Vance Crane prediligesse gli uomini? E con quella stessa semplicità, senza interrompere il contatto con i suoi occhi, Jer si disse che forse si sarebbe concesso quel piccolo regalo di compleanno – che tanto non ne avrebbe avuti altri – e con una mano prese il lembo di cinghia infilato nella fibbia della cintura, e la sollevò lentamente, tra il pollice e il medio. Un gesto apparentemente distratto, un sistemarsi i pantaloni, magari, o magari un invito – in fondo, uno che era chiaro Vance Crane stesse aspettando. Fargli credere di essere pronto a dargli quello che voleva, lasciare che abboccasse abbastanza a lungo da farlo sentire in controllo, era chiaro che fosse quella la strategia che funzionava con uno come Crane. Ne lesse l'esitazione, il desiderio trattenuto e combattuto. «Non serve che lo sappiano gli altri – so quanto ci tieni al posto» fu la prima briciola di quella confidenza finta e offensiva che l'ispettore aveva sempre cercato di costruire con loro. Sarebbe stato abbastanza stupido da crederci, specialmente in quelle condizioni. E in fondo Jer avrebbe tenuto fede alla parola: l'avrebbe tenuto in pugno. Un giorno fortunato, da un certo punto di vista. Il sesso non serviva a molto altro che a quello, comunque. Non vi era niente di sacro o di profano, era un gioco di potere, dalla notte dei tempi. Il pensiero bastava a riempire Jerôme di una particolare euforia, non serviva neanche che l'altro gli piacesse più di tanto. E così una mano scese lentamente verso il basso, oltre il cotone dei boxer che indossava, mentre rimaneva seduto, i pantaloni ormai sbottonati, e ci vollero solo pochi altri secondi prima che l'altro gli si inginocchiasse davanti.
    L'aria della tarda mattinata cominciava a odorare di bruciato, che poi era lo smog, insieme al fumo delle fabbriche della zona industriale. Il passo piuttosto lento, Jer impiegò qualche minuto per individuare il punto dove Malia lo doveva star aspettando, la foto aperta sul cellulare. La individuò seduta su un muretto, sassi e macerie tutt'intorno, a dondolare una gamba lasciata penzoloni. «Sono in ritardo» ammise appena la raggiunse, le mani infilate nelle tasche dei jeans larghi e logori all'orlo. I ricci castani, lasciati crescere, e il viso sbarbato, gli davano la sua solita aria da perenne adolescente. Eppure oggi sono 23. «Ci sono stati inaspettati risvolti a lavoro che mi hanno trattenuto» fece poi. La guardò per qualche secondo senza dire niente, il solito sorrisetto che compariva in compagnia della Stone. «Hai mangiato?» Fece alla fine, distogliendo lo sguardo e chinando appena la testa, divertito da quel silenzioso contatto, mentre con un piede spostava un sassolino. «Io oggi ho dimenticato di portarmi il pranzo – facciamo metà del tuo?» Avanzò di un passo verso di lei, occupando lo spazio lasciato vuoto dalla gamba che teneva piegata, l'altra che sottilmente gli sfiorava il fianco. «Che hai lì?» Fece, sporgendosi verso il sacchetto marrone che teneva accanto a sé, per ficcanasare. Una routine più che piacevole, quella di quelle ultime due settimane, da quando aveva fatto amicizia con Malia. L'aveva notata quasi immediatamente, quando aveva cominciato a venire alla fabbrica per raccogliere i materiali di scarto. In genere se ne occupava Luke, di portarli ai netturbini, ma quel giorno Jer aveva dovuto dargli il cambio per qualche motivo, e così si erano visti per la prima volta. Lo superava di qualche centimetro, Malia, longilinea e atletica – questa cosa l'aveva notata subito. Poi aveva scoperto che oltre ad avere un corpo mozzafiato era anche una tipa a posto. Riusciva a chiacchierarci piacevolmente, e quando arrivava l'orario di tornare a lavoro, si ritrovava a distaccarsene un po' a malincuore. Era abbastanza convinto che per lei dovesse essere lo stesso, ma gli piaceva che non gliel'avesse mai detto. Infilò la mano nel sacchetto, ripescando un sandwich incellofanato. «Come li preferisce i panini, Malia Stone?» Continuò, esaminandolo meglio. «Se ci sono tracce di tonno in questo sandwich io e te abbiamo un problema» disse serissimo, rimanendo per quanto non necessario a quella distanza ravvicinata, proprio di fronte a lei, tra le sue gambe se lei avesse abbassato anche l'altra, e qualche centimetro più basso visto che lei era seduta su un muretto. Sollevò la testa, incontrandone gli occhi con i propri, notando per la prima volta le lentiggini di lei. Era questo quello che gli piaceva di più, questo gioco di centimetri, di molle tese e lasciate scattare. Solo per qualche istante, mentre parlava, ne fissò il movimento delle labbra. Poi, d'improvviso, retrocesse, e si issò con le braccia sul muretto, accanto a lei. «Va be', passami la mela, va'».
     
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    Era seduta scomposta su un muretto pieno di polvere e calcinacci, e muoveva incessantemente la gamba che penzolava nel vuoto. Con il tallone colpiva ripetutamente il muretto di pietra sottostante, in movimenti ripetitivi. Uno, due, tre. Uno, due, tre. I tempi morti e la solitudine non erano mai stati il forte della giovane Stone, ma negli ultimi tempi in particolare li evitava come la peste. Quei mesi nel ghetto aveva cercato di trascorrerli sempre indaffarata, sempre in compagnia, così da non dover restare mai sola con i propri pensieri. Perché se la sua testa cominciava a vagare, era matematico che pensasse solo a cose brutte, e non era il caso. « Sono in ritardo » Una cosa bella era Jerome. Era iniziato come l'ennesima distrazione, ricercata avidamente per rimpinzare di endorfine anche la breve finestra della pausa pranzo, ma nel corso delle ultime settimane il pensiero del ragazzo aveva cominciato a fare capolino anche in altri momenti della giornata, per la gioia della Stone. « E quando mai? » lo schernì, una risata leggera che sbuffava dalle narici, mentre gli occhi nocciola seguivano i movimenti del ragazzo. « Ci sono stati inaspettati risvolti a lavoro che mi hanno trattenuto » Aggrottò la fronte. « Risvolti di che tipo? » chiese, curiosa, ma per risposta non ebbe che un sorrisetto impertinente. « Hai mangiato? » « Non ancora. » Ti aspettavo non l'avrebbe detto. C'era una specie di equilibrio fragile che reggeva i loro scambi, era come se ognuno dei due preferisse scoprire le proprie carte poco alla volta; a Malia piaceva molto, quella dinamica. La teneva impegnata, le permetteva di fantasticare e ipotizzare. « Io oggi ho dimenticato di portarmi il pranzo – facciamo metà del tuo? » Sbuffò, con finto fastidio. « Io in verità avrei fame » si lamentò, mentre Jerome si avvicinava di più al muretto e a lei. In quel moto costante che pareva calmarla, Malia continuava a muovere la gamba destra, avanti e indietro, la stoffa ruvida della sua tuta da lavoro che sfregava contro quella dei jeans chiari di lui. Dall'alto, lo osservò mentre si allungava verso il sacchetto del proprio pranzo, il viso da quella prospettiva coperto quasi completamente dall'ammasso di ricci disordinati che rimbalzavano ad ogni movimento. Ogni tanto Malia doveva arrestare il pensiero intrusivo di affondare le dita tra quei ricci, per provarne la morbidezza. « Come li preferisce i panini, Malia Stone? » In silenzio, lo guardò studiare il contenuto del proprio panino attraverso la pellicola trasparente. « Se ci sono tracce di tonno in questo sandwich io e te abbiamo un problema. » Incontrò nuovamente gli occhi scuri di lui, senza riuscire a trattenere una risatina scema. « Fai tutto il giorno il macho man che fonde i metalli e resiste ai cinquanta gradi e non riesci a sopportare un po' di tonno? » scherzò, prima di rubargli il panino dalle mani. « Mi dispiace dirtelo, ma è proprio il tonno l'ingrediente principale. » E come poteva essere altrimenti. Aveva la casa piena di scatolette, sembrava essere l'unico cibo che arrivava da quelle parti. Fu con un leggero disappunto che percepì il suo allontanamento, fino a quando non le si sedette accanto sul muretto. « Va be', passami la mela, va' » Abbassò la gamba che teneva piegata, così da averle entrambe a penzoloni, e recuperò il sacchetto di carta, che sistemò in equilibrio a
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    metà tra la propria coscia sinistra e quella destra di lui. Rovistò per qualche secondo, prima di tirare fuori la mela da lui richiesta. « Tieni » Portò il frutto all'altezza del viso di lui, a pochi centimetri dalle labbra, affinché potesse affondarvi i denti. Quando lo fece, lasciò la presa con le dita, e per qualche secondo lo guardò tenere in bilico il frutto con i denti. « Ecco, ora sembri un maiale arrosto. » Rise. « La temperatura ce l'hai già, poi » scherzò, tastandogli con il dorso della mano una guancia bollente, come a volersene accertare. Infilò poi di nuovo la mano nel sacchetto, per estrarne un contenitore di plastica. « Ecco, prendi questi. Sono biscotti molto buoni. E non dire che non sono magnanima. » Un pensiero gentile di Galathéa, quello - Malia non era di certo in grado di cucinare così bene. Ma questo avrebbe evitato di dirlo. Mentre lui si serviva, liberò il proprio panino dalla plastica e addentò un primo morso. « Ma fai che oggi ho trovato un afforbente fporco dove ci ftanno i vampiri » Parlò con la bocca piena, dopo qualche minuto di silenzio, guardandolo di sottecchi. « Fecondo te fono cofì difperati da...? » Il pensiero era ridicolo ma la faceva ridere non poco. C'era da chiedersi, d'altronde, in che modo i vampiri si stessero adeguando a questa nuova vita, e così come le provviste scarseggiavano un po' per tutti, ad Iron Garden, Malia era certa che anche per quelle creature ci fossero difficoltà. « A te come è andata la giornata? »

     
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    «Tieni». Avvicinò le ginocchia al petto, cingendole con le braccia, guardando altrove per qualche secondo, gli eventi di quella mattina che continuavano a stuzzicargli i pensieri. Probabilmente si era guadagnato un piccolo cambiamento di status, seppur modesto, e forse i risvolti di quanto accaduto avrebbero potuto cambiare un po' di cose, per lui. Era chiaro che non potesse spingersi troppo oltre, che dovesse fare attenzione, tenere un certo precario equilibrio, ma non aveva particolari preoccupazioni, al riguardo. Fu distratto da quei pensieri dalla comparsa di una mela proprio di fonte ai suoi occhi, e quindi si voltò verso Malia, per afferrarla. Ma lei non mollava, cosicché le rivolse un sorriso sghembo, e la addentò, lasciando che la tenesse lei; non potè però strapparne via un pezzo succoso, perché lo lasciò così, con il frutto tra i denti. «Ecco, ora sembri un maiale arrosto.» Roteò gli occhi al cielo, rimanendo così solo per qualche istante, masticando il boccone e tenendo in mano il pomo morso, sbuffando rumorosamente. «Mi rovini il mood, Stone!» Fece a bocca piena, scuotendo la testa e ridacchiando. Lei faceva spesso così, ed era l'aspetto della sua personalità che lo sorprendeva di più – il modo in cui ciò la rendesse diversa da molte altre ragazze con cui aveva avuto il piacere di stuzzicarsi a vicenda. Non assumeva quei fastidiosi atteggiamenti da femme fatale, con quel modo imbarazzante di inclinare il mento, e fare gli occhi da cerbiatta – una cosa che terribilmente lo irritava, per quanto non avesse mai costituto un deterrente dal proseguire. Lei neanche ci provava, sembrava, e questo lo divertiva molto, perché gli permetteva di domandarsi se davvero tra loro due stesse succedendo qualcos'altro oltre a semplici pause pranzo e sigarette smezzate, e gli dava modo di spingersi sempre un po' oltre, senza la paura che lei si facesse per questo strane idee. La palla era per la maggior parte del tempo nel suo campo, per così dire, e si poteva sempre contare su di lei per smorzare un po' le cose, il che spesso era frustrante al punto giusto, e talvolta gli faceva solo venire il dubbio che invece lei, semplicemente, non ci sapesse granché fare, in quel tipo di situazioni, il che non gli dispiaceva. «La temperatura ce l'hai già, poi» disse poco dopo, poggiandogli il dorso di una mano gelida sulle guance calde, intiepidite dalle giornate difficili in fonderia e dallo sforzo fisico. Evitò battute scontate e volgari, che pure gli balenarono nella testa al parlare di alte temperature o di maiali, limitandosi a dare un altro morso alla mela croccante, rimanendo in silenzio. «Ecco, prendi questi. Sono biscotti molto buoni. E non mi dire che non sono magnanima», gli aveva detto poco dopo, porgendogli un contenitore di plastica. «Addirittura biscotti!» Commentò compiaciuto, prendendo il contenitore e poggiandoselo in grembo mentre finiva la mela. «Banchettiamo, praticamente» la incalzò, col solito tono sarcastico, mentre la guardava scartare il proprio panino. «E buon appetito» «Ma fai che oggi ho trovato un afforbente fporco dove ci ftanno i vampiri» Jer si limitò ad annuire, già sapendo dove sarebbe andata a parare Malia. «Probabilmente è come pensi» le confermò, mentre si accaniva sul torsolo del frutto per addentarne ogni parte commestibile – aveva sempre mangiato voracemente, anche prima di non sapere quando sarebbe stato il prossimo pasto e in che cosa sarebbe consistito. La vita che aveva condotto a Seattle, per molti versi, forse era peggiore di quella che spettava a lui e agli altri abitanti del ghetto adesso. Ciò non significava che non fosse ugualmente incazzato, solo che se la cavasse straordinariamente bene ad adattarsi alle condizioni momentaneamente imposte. «Fecondo te fono cofì difperati da...?» «Sì, sì, assolutamente» Lanciò quanto rimasto della mela verso un cassonetto a qualche metro da loro. «Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare, quando ho frequentato dei vampiri a Seattle.» Si portò le dita alla bocca, appiccicose dal succo della mela, e le ripulì una ad una con uno schiocco leggero delle labbra. «I vampiri penso siano tra le creature più sopravvalutate, sia tra i maghi che tra i babbani» argomentò, rubando un biscotto a Malia, per quanto poco amasse i dolci. «Fanno schifo, veramente; tutto il mito del vampiro che dev'essere affascinante per poter attrarre le proprie prede, forse vale solo per i babbani, non saprei, o forse sui lycan non ha alcuna presa» fece, stringendosi nelle spalle. «Vivono sostanzialmente senza saziarsi mai, perché difficilmente riescono a trovare persone di cui nutrirsi, specie quelli che vivono tra i maghi, per cui spesso devono ripiegare su animali, che però manco li soddisfano. Fanno una vita di stenti.» Conosceva una persona a cui purtroppo era toccata quella sorte; l'aveva salvata prima che morisse, il che forse era stato un gesto nobile, per certi versi, ma a volte si domandava se non sarebbe stato meglio che vederla destinata ad una vita del genere. L'avrebbe trasformata in lycan, se solo avesse potuto – a parte la menata della Mano di Dio, era una sorte decisamente migliore. «Suppongo però che l'immortalità possa tornare comoda, per alcuni. Io penso che sia una condanna sopravvivere a tutti gli altri» fece semplicemente. Guardare tutti i tuoi cari morire era qualcosa con cui Jer era dolorosamente più familiare di altri, conosceva la sensazione, non l'avrebbe consigliata a nessuno. «Va be', comunque... Cambiamo argomento?» Fece, facendo leva sulle
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    mani per ruotare il proprio corpo verso di lei, sporgendosi un po' in avanti in modo da guardarla dal basso, leggermente, cercando di smorzare l'atmosfera pesante. Con delicatezza, prese una mano di lei tra le proprie, ora che aveva finito di mangiare, e la infilò nella tasca della propria felpa, senza interrompere quel contatto, in modo da riscaldargliela. «A te com'è andata la giornata?» Gli chiese, e lui fece vagare lo sguardo sullo spazio attorno a loro. «Così così» commentò vago alla fine. «Ti dicevo, risvolti inaspettati. Stasera sono di turno al Rusty Rose. Passaci, se ti va» fece, con un sorriso accennato. «Se passi entro le 19 riusciamo a farci anche una birretta, forse, dipende un po' com'è la situazione.» Senza dire altro, fu rapido e naturale il gesto di Jer di ruotare nuovamente su ste stesso, in modo da darle momentaneamente le spalle, prima di stendersi sul muretto e poggiarle la testa in grembo. Non si preoccupava mai eccessivamente di invadere lo spazio personale di Malia – sembrava provarci particolare gusto proprio per quella connotazione un po' irruente, che era poi parte della sua natura. Prese la sigaretta rollata che teneva precariamente incastrata dietro l'orecchio, e se la piazzò tra le labbra, accendendola. «Tu che hai fatto?» Chiese infine, aspirando un paio di boccate per assicurarsi che tirasse a dovere. Poco dopo sollevò appena il bacino, per poter estrarre la confezione di tabacco dalla tasca posteriore dei jeans, e porla a Malia. «Sai girartela o faccio io?» le disse, prima di espirare una nuvoletta bianca, ruotando la testa in modo da non fargliela arrivare in faccia.


    Edited by superstarshit - 6/1/2024, 10:17
     
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    « Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare, quando ho frequentato dei vampiri a Seattle. » L'ascoltò parlare in silenzio, assorta, mentre trangugiava con un certo appetito il proprio panino al tonno. Tra tutte le creature, i vampiri le avevano sempre fatto meno simpatia, per così dire. Era come se vivessero in una specie di dimensione a parte, lontani dalla luce, dalle persone, dalla civiltà stessa. Malia di certo trovava aberranti le accuse avanzate dal Ministero della Magia nei confronti dei vampiri, eppure una parte di lei riusciva quasi a comprendere perché certe teorie avessero così tanta presa con il mago inglese medio. Non era difficile, alimentare una paura già ampiamente diffusa - e lo stesso valeva per i lycan. « Suppongo però che l'immortalità possa tornare comoda, per alcuni. Io penso che sia una condanna sopravvivere a tutti gli altri. » Aggrottò la fronte, colta alla sprovvista da quella riflessione forse eccessivamente profonda per una pausa pranzo trascorsa sul muretto a mangiare panino col tonno, mele e biscotti. « Penso anch'io » si trovò tuttavia a dire, gli occhi nocciola persi tra i cespugli di fronte a sé, i pensieri chissà dove. Lei, che era nata babbana, talvolta faticava a comprendere alcuni presupposti della magia stessa - l'immortalità le pareva una faccenda tanto oscura quanto aberrante. Jerome aveva ragione. Cosa poteva esserci, di bello, nel vivere per sempre, mentre tutti intorno a te ti lasciavano? Jerome parve cogliere alla perfezione la deriva vagamente malinconica che la conversazione aveva imboccato, e si preoccupò di riparare. « Va be', comunque... Cambiamo argomento? » Annuì, convinta. Sì, decisamente, cambiamo argomento. Fu allora che la Stone si avventurò a chiedere notizie della sua giornata, probabilmente nella speranza che lui elaborasse un po' di più sul punto degli sviluppi inaspettati a cui aveva accennato poco prima, ma neanche in questa occasione il ragazzo parve volerle dare sazio. Nel frattempo, lasciò che lui prendesse una delle sue mani per infilarla nella tasca della propria felpa, forse con lo scopo di portarle un po' di calore. Malia non trattenne un sorriso a quel contatto, e nel piccolo spazio chiuso della sua tasca intrecciò le dita con quelle calde di lui, il pollice che lentamente percorreva il dorso della sua mano. « Ti dicevo, risvolti inaspettati. Stasera sono di turno al Rusty Rose. Passaci, se ti va. » Inarcò il sopracciglio. « Il Rusty Rose? Mi sa che non ci sono mai venuta » osservò. « Se passi entro le 19 riusciamo a farci anche una birretta, forse, dipende un po' com'è la situazione. » « Solo se me la offri tu la birra, ché al momento sono al verde » Rise, mentre lui cambiava posizione di nuovo - « Ma non ce la fai proprio, a star fermo? » - e si sistemava coricato sul muretto, con la testa sulle gambe di lei. « Tu che hai fatto? » Si strinse nelle spalle, dando di riflesso una stretta alla mano di lui, ancora dentro alla sua tasca, mentre l'altra giocava distrattamente con i suoi ricci scuri. « Niente, solita roba. Ho raccolto spazzatura come sempre » rise, lo sguardo che percorreva il profilo dei grandi camini industriali dismessi in lontananza. « L'assorbente è stato un po' il mio highlight of the day. Pensa tu. » Spostò dunque lo sguardo su di lui. « Tu invece non hai proprio voluto raccontarmi dei tuoi risvolti inaspettati. Hai un'altra con cui ci stai provando, di' la verità. Vuoi farmi ingelosire? » ridacchiò, divertita, mentre accettava da lui il pacchetto con cartine e tabacco. Le piaceva sempre, mettere sul piatto le cose in questo modo, con la sua solita semplicità. Perché lo so che ci stai provando. « Sai girartela o faccio io? » A quelle parole lo fulminò, dall'alto, negli occhi un misto tra lo sconcertato e l'oltraggiato. « Scusami? » gli chiese, mentre i polpastrelli di pollice e indice si stringevano sul dorso della sua mano, per lasciargli un piccolo pizzicotto di vendetta. « Ma va' fammi il piacere, che sei nato ieri. » Lo schernì, prima di liberarsi definitivamente dalla sua tasca, così da avere entrambe le mani libere per iniziare a rollare la propria sigaretta, con la sua personalissima tecnica ormai decennale.

    Il Rusty Rose era in buona sostanza un postaccio; di quelli con la ruggine, le porte che cigolano e la muffa alle pareti. Probabilmente nessuno - o pochissimi - degli abitanti di Iron Garden si sarebbe mai arrischiato di frequentare un posto del genere nella propria vita precedente, ma, nello scenario di reclusione in cui ormai avevano imparato a sopravvivere, perfino un pub come quello diventava oro agli occhi degli abitanti del ghetto. Malia non si era propriamente messa in ghingheri quella sera - d'altronde in un luogo come Iron Garden sarebbe stato ridicolo. Si poteva dire, però, che il suo rossetto color granata, insieme a quell'accenno di mascara, insieme a quel maglioncino un po' scollato che lasciava intravedere il giusto, erano stati una scelta quanto meno pensata. Era entrata nel locale senza guardarsi troppo intorno, e si era diretta sin da subito verso il bancone, lì dove sperava di trovare Jerome. Si accomodò ad uno degli sgabelli un po' sbilenchi, e attese. I camerieri erano tutti un po' affaccendati, e solo quando, una decina di minuti più tardi, le fu data attenzione, Malia chiese del suo amico. « Cerchi Jerome?
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    Aspetta che te lo chiamo, che è sul retro. »
    Il mago che le aveva appena rivolto la parola era un uomo sulla quarantina, un po' stempiato e dall'aspetto piuttosto burbero. Quando si avvicinò alla porta che dava sul retro, Malia lo vide urlare con veemenza verso qualcuno dall'altra parte: « OH FESTEGGIATO! CI STA QUA UNA TIPA PER TE! » La Stone ridacchiò a quella visione, divertita, ma non poté fare a meno di notare un dettaglio particolare. Festeggiato? Aggrottò la fronte, e appariva ancora confusa quando Jerome apparve di fronte a lei, dietro al bancone. « Ma è il tuo compleanno? » chiese al ragazzo, assottigliando lo sguardo, e inclinando leggermente il capo di lato. Solo quando ne fu certa, si lasciò andare ad uno sbuffo spazientito. « Avresti potuto dirmelo. Ti avrei portato qualcosa, non so, un regalino... » Rivolse un sorriso mellifluo ai suoi occhi scuri, mentre allungava le braccia lunghe sul bancone. « Allora, se sei il festeggiato devi per forza offrirmi la birra. È la regola. » Strinse le spalle, una ciocca di capelli neri che le ricadeva sul viso. « E poi sono anche stata puntuale apposta. Prima delle diciannove, come avevi detto tu. Lo sai quanto è difficile per me essere puntuale? »




     
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    Sdraiato così, la sigaretta pendente dalle labbra e Malia che distrattamente gli accarezzava i capelli, il mondo non era proprio un posto terribile. Si trattava delle piccole cose, dei momenti che riuscivi a ritagliarti, in mancanza di una struttura che poteva garantirti un benessere perpetuo – che comunque sarebbe stato illusorio anche vivendo in condizioni più decenti. Ma del resto bisognava essere specialmente ottusi per non comprendere che il problema non erano le condizioni di vita in sé e per sé, per quanto oggettivamente squallide, per quanto soltanto chi era dotato di speciali capacità di adattamento – grazie ad un passato chissà quanto peggiore del presente che vivevano – riuscisse a farselo pure andar bene; Jerome aveva due lavori, la gente che gli rompeva il cazzo era sempre esistita, soltanto che avevano il vizio di raccontarsi di essere quelli buoni della storia, e almeno quelli lì dentro non cercavano di fargli la morale e spiegargli come certe cose lui gliele dovesse di diritto, dalla nascita. Veniva ugualmente sfruttato, ma almeno a 'sto giro lo pagavano in cambio di quella sottomissione, per quanto fosse una miseria, per quanto in fondo Jer sapesse di non avere una scelta. Momenti più propizi sarebbero arrivati, si trattava solo di pazientare, e ci sarebbe stato spazio per il riscatto. La radice della sua rabbia si trovava altrove, non negli orari massacranti, non nei tuguri che chiamavano appartamenti in cui non c'era il riscaldamento, non negli alcolici scadenti che concedevano loro di servire al Rusty Rose; il problema era l'atteggiamento di rassegnazione generale, la passività di chi semplicemente sperava in tempi migliori, si metteva in ginocchio con le manine giunte e iniziava a pregare il muro di dare un segno che qualcuno sarebbe venuto a salvarli. Nessuno era abbastanza incazzato, e non perché, come lui, avessero trovato il modo di gustarsi i piccoli momenti positivi concessi, riuscendo ad accantonare la furia in favore di un atteggiamento di paziente determinazione, ma perché si erano sottomessi anche nello spirito, oltre che nel corpo. E del resto non avevano sempre fatto questo, quelle persone? Seguito un leader, senza meta, come dei caproni, ora guidati dal Branco, ora guidati da Minerva? Aspettavano un eroe che non sarebbe mai arrivato finché non avessero capito che ogni qualvolta si eleggerà qualcuno a capo di qualcosa questa discenderà verso una dittatura, esattamente come succedeva con le religioni, la politica, le famiglie, tutto. «Tu invece non hai proprio voluto raccontarmi dei tuoi risvolti inaspettati Jer ridacchiò, nuvolette di fumo che gli uscivano dal naso mentre si voltava a guardarla, dal basso. «Non credo che tu voglia saperli davvero» la provocò, la lingua che sfiorava la punta degli incisivi. Quella era una mezza verità; l'altra metà era che non gli piaceva raccontare i fatti propri e fine della storia. «Hai un'altra con cui ci stai provando, di' la verità.» Jerome sollevò le sopracciglia, sinceramente divertito da quella beffarda ammissione, e la fissò per qualche istante, compiaciuto e allettato. «Altra oltre a chi?» Rincarò, saggiando il limite fino al quale la Stone si sarebbe spinta in quell'improvvisa manifestazione di schiettezza, a cui doveva necessariamente fare da contraccolpo la più strenue delle negazioni. Sennò non c'è divertimento. «Vuoi farmi ingelosire?» Jerome rise di gusto, il capo lievemente inclinato all'indietro, in quella posizione supina. «Perché mai dovresti ingelosirti» fece, schioccando la lingua mentre le allungava il pacchetto per rollare. «Noi siamo buoni amici, no?»

    Volente o nolente, alla fine Eriko aveva vuotato il sacco – senza farlo di proposito, a sua discolpa, mentre gli augurava un buon compleanno colpendolo laddove sapeva avrebbe dato più fastidio, e casualmente Thresh passava nelle vicinanze. Lo spettacolo che aveva seguito quella semplice scoperta era stato un incubo, un orrore mai provato, mentre l'intero personale del Rusty Rose – e quindi quelle quattro, cinque povere anime rinchiuse in quella bettola dove non batteva mai la luce del sole – scandagliava gli scaffali e i ripiani alla ricerca di una bottiglia di Whiskey incendiario, una qualunque, anche vecchia decenni e impolverata, qualcosa che non fosse birra annacquata a malapena frizzante. Jerome si era ripromesso che gliel'avrebbe fatta pagare, una minaccia tanto vaga quanto impossibile da portare a compimento, perché nessuno poteva mai farla pagare ad Eriko Yagami, questo ormai l'aveva capito bene. «OH FESTEGGIATO! CI STA QUA UNA TIPA PER TE!» Obbligato a starsene fuori dal locale, sul retro, mentre i colleghi confabulavano qualcosa di poco chiaro alle sue spalle, Jerome se ne stava melanconicamente seduto su un gradino di fronte alla pesante porta di metallo, il piede che tamburellava a terra inconsapevolmente, a sfumacchiare quello che rimaneva della canna che gli aveva messo su Rohan per tenerlo impegnato nell'attesa. «Se mi chiami un'altra volta così finiamo male, Pius!» urlò di rimando, rimanendo dov'era. Gettò via il mozzicone
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    senza troppe premure, prima di tirarsi su e inspirare profondamente una, due volte. Calciò la porta sul retro e si ritrovò l'omaccione che gli assestava una pacca sulla spalla, le sue manone pesanti che lo obbligavano a chinarsi appena a quella botta. «Ma che problemi hai coi compleanni, mh? Ti pare bello che dobbiamo scoprirlo così?» Jer arricciò il naso, scuotendo la testa, i ricci castani che gli ricadevano sulla fronte. «Posso entrare e dovete ancora tenermi in esilio qua fuori a morirmi di freddo?» Rispose senza rispondere, ricevendo per tutta risposta uno spintone verso il bancone e un fischio, che non gli fu chiaro se fosse indirizzato a lui o alla ragazza. Ancora faticando a recuperare l'equilibrio, si aggrappò al legno malandato con entrambe le mani, solo dopo aver piantato entrambi i piedi a terra voltandosi verso la persona che lo aspettava. Quando la vide, sorrise automaticamente – un sorriso coi denti di fuori. «Ma è il tuo compleanno?» Non anche tu. Sospirò rumorosamente, sbuffando un colpo d'aria che gli fece rimbalzare un ricciolo davanti agli occhi. «Per piacere, eh» fece, passandosi una mano sul viso. «Avresti potuto dirmelo. Ti avrei portato qualcosa, non so, un regalino...» «Per carità. Bastano loro» fece seccato, lanciando un'occhiata ai ragazzi in cucina che continuavano a trafficare rumorosamente. «Però sono contento che sei passata» fece, più serio, gli occhi castani vispi e un po' più intensi mentre si lambiva il labbro inferiore con gli incisivi. Malia estese le braccia sul bancone, e probabilmente normalmente avrebbe ricambiato quell'avvicinamento sottile, ma c'era qualcosa dei compleanni che lo faceva sentire terribilmente vulnerabile, incontrollabilmente a disagio. Non sapeva dove mettere le mani, così le infilò nelle tasche posteriori dei jeans. «Qualcosa da bere? Abbiamo... Coca, acqua tonica, acqua tonica sgasata e birra annacquata.» «Allora, se sei il festeggiato devi per forza offrirmi la birra. È la regola» Jer si strinse nelle spalle, espirando uno sbuffo divertito dal naso. «A tuo rischio e pericolo. 'Sta roba è acida e insapore allo stesso tempo, non so come facciano» le disse, mentre spillava il liquido ambrato dal barile, dovendo però gettare via qualche bicchiere riempito di schiuma chiara. «E poi sono anche stata puntuale apposta. Prima delle diciannove, come avevi detto tu. Lo sai quanto è difficile per me essere puntuale?» Jer schioccò la lingua, mentre le allungava il boccale ghiacciato. «Con me sei sempre puntuale» fece guardandola, sporgendosi appena oltre il bancone come a volerla sfidare. Si accorse allora del rossetto, gli occhi curiosi che le analizzavano i lineamenti del viso. «Ti sei anche truccata? Per me?» Fece ritraendosi, le braccia incrociate al petto. «E perché mai?» Fece, serio, con un'espressione corrucciata. «Non ti sarai presa una cotta per me, Stone...» Di nuovo, fece schioccare la lingua, tre volte, come a dire “no, no no”.
     
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    « Per piacere, eh » Non era particolarmente brava a cogliere i segnali non verbali, Malia, ma ebbe come la sensazione che Jerome non fosse particolarmente contento dell'idea che fosse il proprio compleanno, né sembrò apprezzare gli accenni della mora alla questione. « Per carità. Bastano loro. » Si sporse leggermente oltre il bancone, per spiare dal vetro della piccola finestrella che portava alla cucina dove, evidentemente, gli altri membri dello staff del pub stavano orchestrando qualche cosa. « Che stanno combinando? » domandò, curiosa, tornando a portare la propria attenzione al ragazzo. « Però sono contento che sei passata » Aggrottò la fronte, gli occhi scuri attenti ai movimenti del ragazzo. « Ah sì? » fece, senza mascherare quella punta di scetticismo, che era sorto naturalmente nel vederlo ritrarsi da lei. Non sembra. Non si conoscevano abbastanza bene da avere una dinamica già consolidata, Jerome e Malia: le ore trascorse insieme erano scandite da quello studiarsi a vicenda, uno scoprirsi continuo che finiva per essere tanto elettrizzante quanto snervante, a seconda dei casi. Malia, poi, che era da sempre prona allo spazientirsi, finiva per dare a vedere la propria stizza con più facilità; questo la rendeva forse meno forte, in quel giochino stupido che si divertivano a mandare avanti. Si ritrasse allora dal bancone, mettendosi a sedere più composta sul proprio sgabello, e gli confermò il proprio ordine. « A tuo rischio e pericolo. 'Sta roba è acida e insapore allo stesso tempo, non so come facciano. » Ne seguì i movimenti con gli occhi, mentre teneva le mani impegnate giocherellando con un fazzoletto di carta che aveva trovato lì sul bancone. Lo osservò versare la birra all'interno del boccale e poi porgerlo a lei. Ne bevve subito qualche sorso, per poi confermare, annuendo convinta: « Fa proprio schifo, hai ragione. » Con il dorso dell'indice si asciugò il labbro superiore, inumidito dalla birra, e poi rivolse al ragazzo un cenno del capo. « Mi fai compagnia? » Non le piaceva bere da sola. Jerome tuttavia pareva preso da altri pensieri. « Con me sei sempre puntuale » Puntò gli occhi scuri in quelli di lui, decisa a non cadere in quella sua piccola provocazione. Ancora indispettita per la freddezza inusuale con cui l'aveva accolta, decise in quell'istante che Jerome non avrebbe avuto vita facile, quella sera. « Sono sempre puntuale perché ci vediamo all'ora di pranzo e ho sempre fame. Io con il cibo non scherzo. Non ti montare la testa. » Fece spallucce, prima di nascondere il viso nel grande boccale di birra, dal quale bevve qualche altro sorso. « Ti sei anche truccata? Per me? E perché mai? » Assottigliò lo sguardo, quando lo colse a esplorare i suoi lineamenti con curiosità. Conosceva perfettamente quella tecnica, ma non sarebbe arrossita di fronte a quell'occhiata furba. « Preferisci vedermi con la tuta da lavoro e ricoperta di spazzatura dalla testa ai piedi? » indagò, inclinando leggermente il capo. « Non ti sarai presa una cotta per me, Stone... » Jerome schioccò la lingua sul palato un paio di volte, e Malia si ritrovò a sospirare, alzando gli occhi al cielo in quella che appariva come esasperazione, ma probabilmente era un modo per sfuggire agli occhi scuri di lui, così insistenti e magnetici. Tornò a guardarlo qualche momento più tardi, mentre si concedeva qualche altro sorso di birra. « Perché, pensi forse di essere alla mia portata? » Si lasciò andare ad una risatina leggera, mentre accarezzava il bordo del boccale con i polpastrelli, distrattamente. « In fin dei conti sei tu quello che voleva passare il suo compleanno con me. » Da soli non fu necessario aggiungerlo. Inarcò le sopracciglia, guardandosi intorno per un attimo, la sala del Rusty Rose quasi completamente vuota. « Non è che stai puntando un po' troppo in alto, Jerome? » E gli rivolse un occhiolino complice, facendo schioccare a sua volta la lingua contro i denti.
     
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