Non è colpa mia

Fitzwilliam & Chrys | Loft di Fitz, 10 dicembre 2023

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    Non volevo tornare da te, Fitz. Se avessi avuto lo sbatti di stilare una lista delle cose da non fare, avrei messo te in cima a tutto il resto. Per una questione di orgoglio personale, mettiamola così. Orgoglio che però ho deciso di mandare a puttane dal momento esatto in cui mi sei tornato alla mente. Che poi, ti giuro, io non sto pensando ad un cazzo, non nel dettaglio, almeno. Non penso a te per quel che siamo potuti essere, né a un bacio o a una stretta che ci abbia in qualche modo illusi di poter essere normali come tutti gli altri che una vita, in compagnia dell'amore, se la costruiscono pure. No, penso semplicemente al tuo viso e quello lo collego al mio passato. E insomma, devi aver capito come mi lavora la testa: se torno da te, io torno da Daisy. Non ho mai detto a nessuno, oltre ad Ash, probabilmente, che Daisy non è morto. O almeno, che io a questa storia non ci credo e so bene che non avrebbe alcun senso, adesso, venir a bussare alla tua porta solo per chiederti di ascoltarmi.
    Non ti ho mai dato il permesso di farlo sino ad oggi, quindi, insomma, perché continuare a provarci, a sperarlo, quasi a convincermi, ecco, che tu ed io, mezza cosa, potremmo davvero farla insieme? Non riesco nemmeno a pensarlo senza darmi troppe pause in cui respirare, quindi vaffanculo.
    Sì, fanculo, anche se quello che accelera il passo per venir sotto casa tua sono io.
    Io che volevo fingere di non saperti a Londra, ma che poi, un po' d'attenzione, me la sono lasciata sfuggire. Perché mi appartieni Fitz. Mi appartieni anche quando entrambi finiamo per cercare altri - e no, non saprai mai del tipo che ho scopato qualche sera fa, non ti interessano queste cose -. Mi appartieni anche quando ti odio e di te mi rendo conto di non saper cosa farmene. Ma mi faccio aprire dal guardiano: avete sistemato per bene questo buco di culo, complimenti, mio caro.
    Avanzo passi che accompagnano il sistemare dei capelli, poi della maglia. Mi stiro i pantaloni con le dita mentre aspetto l'ascensore e allora tiro su col naso come riflesso spontaneo ai momenti di tristezza. Sì, perché insomma, voler riveder te significa che sono triste e che sto per gettarmi in qualcosa che, probabilmente, l'umore non me lo migliorerà. Affatto.

    Continuo a chiedermi cos'è che ci faccio qui. E non so se per qui intendo casa tua o il mondo in generale. Perché devo ammetterlo: non so più dov'è che è giusto muoversi. Non conosco i posti in cui sentirmi al sicuro e la strada di casa vorrei dimenticarla. Vorrei essere altrove e non essere da nessun'altra parte nel medesimo istante. Quasi come se mi pesasse tener i piedi ancorati al terreno. Come se volessi fluttuare un po'. Che la forza di gravità mi schiaccia e coi polmoni così compressi io non so respirare. Disimparo com'è che si faccia. Mi convinco di poter morire da un momento all'altro. Poi però resto in vita. Vegeto o forse, semplicemente, mi trascino.
    Sono arrivato da te trascinandoli i piedi. Rantolando nei respiri e deglutendo quanto basta per provare a cacciare l'ansia nello stomaco.
    Non mi sono nemmeno accorto di essere entrato in ascensore, ma sto ripetendo le parole che vorrei dirti. Un ripasso generale del modo più facile per non passare come un coglione bisognoso. Io non ho bisogno di te, Fitz, ma, per piacere, apri la porta.
    Ci sto battendo i pugni adesso.
    "Fitz, sono Chrys!" ecco, lo sapevo, ti ho fatto sentire che stavo schiarendo la voce.





     
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    Se avesse avuto un galeone per ogni volta in cui la sua vita aveva preso una piega inaspettata, Fitzwilliam sarebbe vissuto a Buckingham Palace e non in un loft a Kensington. Ma tutto ciò era irrilevante, perché poco poteva fare se non remare avanti, restare al fianco dei suoi amici e fare del suo meglio per supplire alla mancanza di supporto offerta loro in passato. Quando aveva deciso di tornare a Londra, Inverness era ancora una splendente civiltà con un nemico invisibile alle calcagna. Ma alla fine, come qualunque villain che si rispetti, la sua vera natura si è mostrata nel peggiore dei momenti. Fitzwilliam aveva assistito a quella disfatta inerme, consapevole di dover mantenere i nervi saldi. Anche quando Eric Donovan era resuscitato dal mondo dei morti. Anche quando il padre di uno dei suoi migliori amici era caduto in battaglia e i volti di molti altri erano finiti a tappezzare le strade dei quartieri magici. La sua era una posizione privilegiata, e per questo, altamente insoddisfacente. Se avesse fatto sufficiente attenzione, sarebbe stato una risorsa utile per la rete, e a questo si sta a adoperando quel giorno. E proprio a questo si adoperava rispolverando le sue vecchie analogiche e predisponendo i nuovi materiali appena comprati con cui rifornire la sua camera oscura. Tornare alla sua primissima vocazione, la fotografia, era il modo più convincente per tornare a respirare e riprendere contatto con il mondo magico senza destare particolari sospetti. Poi, di colpo i colpi alla porta che scombussolarono la quiete cullata da un giradischi incantato che continuava ad alternare i suoi dischi preferiti da quella mattina.
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    « Fitz, sono Chrys! » Dire che fosse sorpreso di sentire quel nome era dir poco. Non aveva notizie del giovane Gilles da parecchio tempo, e a dirla tutta per buona ragione. Mi cerchi solo quando tutto il resto va di merda. Quando proprio non hai più contatto con niente e cerchi un appiglio al passato. Tempi più innocenti in cui per stare insieme non c'era bisogno né di grandi motivazioni, né tanto meno di un grande sentimento. Si stava insieme per non stare da soli, per scacciare le proprie insicurezze, perché in fondo cosa altro avrebbe potuto fare delle proprie giornate se non limonare in giro e farsi promesse a vanvera? Il moro sospirò passandosi le lunghe dita tra le folte ciocche color ebano. Poi, dopo aver soppesato bene la situazione, aprì la porta ritrovandosi di fronte Chrys. Qual buon vento, insomma. Non lo disse, né infierì. Ma considerata l'abitudine dell'altro di presentarsi senza preavviso, né senza una telefonata, decise comunque di fargli pesare almeno un po' quell'improvvisata. Così, allungò il braccio oltre la porta, premendo il dito sul campanello che squillò all'interno della casa. « Non c'era bisogno di sfondare la porta. L'epoca moderna ci ha deliziato con questa fantastica diavoleria chiamata campanello. » Lo sai cos'è, Chrys? « Basta premere - delicatamente. » Inutile dire che si fece da parte, inumidendosi le labbra. « Prego vossignoria, fai come a casa tua. » Ma non troppo. Fitz era molto geloso dei suoi spazi. Li teneva in un estetico disordine che non poteva essere scompigliato, né sistemato. Era una delle tante ragioni per cui aveva deciso a malincuore di prendere un elfo domestico. Troppo impegno dover trattare con le dite di pulizia di Kensington. Infine, gli fece strada verso l'ampio salone, facendogli cenno di sedersi un po' dove preferisse. « Bevi qualcosa? » Perché sia mai che Fitzwilliam dimentica come essere un perfetto padrone di casa, a differenza di qualcun altro. Mentre si versava due dita di scotch in un bicchiere di cristallo, facendo altrettanto con un secondo, qualora Chrys avesse accettato, sollevò appena le sopracciglia voltandosi nella sua direzione portandosi il bicchiere alle labbra. « A cosa devo questa visita? » Cosa ti serve?

     
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    Mi chiedo se venire qui possa in un qualche modo servire a qualcosa. Se non a quietarmi l'animo, quantomeno a darmi la forza di andare avanti nella mia ricerca. O almeno a resistervi, ecco, all'impulso autodistruttivo che mi porta a sbattere ancora ed ancora la testa negli angoli più bui che io possa conoscere. In un martirio che non so allontanare davvero da me. Perché so di essere colpevole quanto vittima. So di non poter pretendere molto dalla vita, adesso, se non questa misera speranza di un respiro che sappia risalirmi il petto senza graffiarmi la gola.
    E chiuderei gli occhi quando mi apri la porta, magari non per nascondere alla vita la tua bellezza, quanto per concentrarmi sull'insieme. E tornare a respirare senza sentire l'impellente desiderio di distruggerti per i tuoi stupidi insegnamenti. La tua ironia non sollecita la mia. Non mi solletica affatto, nemmeno quando sorrido per cordialità e oso un piede in casa ancor prima che tu possa invitarmi ad entrare. In un istante che potrebbe portarmi muso a muso senza però significarmi nulla. Non ho le farfalle nello stomaco, Fitz: qui tutte le falene sono morte o, in alternativa, riposano. Perché la luce non c'è più e non hanno alcun motivo di tornare ad agitare le loro ali contro l'inesistenza.

    "Bene, sai cosa regalarmi per il prossimo Natale, Fitz. Un bel campanello che possa sostituire il batacchio di Villa Gillies" mantengo il sorriso ben disteso sul volto. Anche se il resto dei connotati sembrano voler collidere tra di loro. Rimescolarsi. Magari, in realtà, io non mi sto espandendo, quanto implodendo. Perché non sempre l'ironia so farla o accettarla. Non sempre sono, ecco, in vena di uscir fuori dalla mia rigidità. E sono rigido, certo, anche se, probabilmente, una parte di me è venuta qui alla ricerca di un momento di pace. Uno tra quei pochi che siamo riusciti a regalarci tempo fa. Tu mi offri il vino, Fitz, io ho ordinato del cibo a domicilio che tra un'ora ci verrà consegnato. Sono previdente? Un gran romanticone? Dimmelo tu.

    "Allora dovrei darmela a gambe quanto prima, se questa fosse come casa mia" come se non lo sapessi, sì, com'è che si vive a Villa Gillies. Cos'è che nascondono i suoi corridoi bui. Forse non te ne ho mai parlato per una questione di onore. Di rispetto per la famiglia che, da quando Daisyderum non c'è più, ha iniziato a sfaldarsi. Ma questo, beh, questo non significa che io sia sempre stato così criptico da non lasciarti intendere il dolore che, quella casa, era in grado di affliggere sia a me che a mio fratello.
    Annuisco, però, quando mi chiedi se ho voglia di bere.
    Ho sempre voglia di bere, Fitz e non perché io sia un ubriacone. Non ho problemi con l'alcol. Non con lui, almeno. Ho più problemi con me da completamente sobrio.

    "Non crederai mai alle mie parole - adesso sono io ad usare un po' di ironia. A fingere che ci sia davvero qualcosa per cui ritrovarsi a ridere. Che non esistano in alcun modo, insomma, i dispiaceri di tutte quelle situazioni rimaste incompiute. In bilico, ecco, com'è che odio stare. - ma volevo vederti." Cerco i tuoi occhi, Fitz e non perché io voglia in chissà quale modo irretirti. Mi va bene anche restarmene qui. Essere messo al muro e premiato solo con un croccantino alla volta. Tanto, insomma, da perdere io non ho nulla, nemmeno la dignità che la famiglia ha sempre cercato di difendere a denti stretti. E io lo so, lo so che l'unico modo che avevo di vederti era questo: perché ai miei inviti non avresti risposto. Non per le nostre feste. Ma d'altronde, ora che non c'è Daisy ad organizzarle con me, ho ben compreso come non abbia quasi più senso metterle in piedi. Io non voglio più così tanta gente in casa mia. Io vorrei solo lui e forse te, se hai voglia di leggere qualcosa insieme. Se hai voglia di scattarci un'altra foto.



     
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    La storia che intercorreva tra Chrys e Fitz era frammentata, come un filo che continuava a interrompersi destinato a non andare mai da nessuna parte. Che fossero fallimentari, Fitz lo aveva capito molto tempo addietro, ma a dirla tutta non l'aveva mai fermato. Non aveva mai tentato di mettere fine alle paturnie di Chrys o al suo girovagare per poi tornare al solito punto di partenza. Forse perché in fondo anche Fitz girava; a modo suo si sbatteva come un uccellino nella gabbia. Sempre un po' troppo fuori, troppo ai margini. Mai sufficientemente coraggioso da esporsi su nulla in maniera chiara. Anche quando lo aveva fatto, non era servito a nulla; e forse non servirà neanche adesso. Voleva provarci però, Fitz, ancora una volta, come se provarci fosse il suo unico motore propulsore che riuscisse a spingerlo fuori dalla costante apatia in cui rigettava la sua vita. Era noia - così la definiva. Odiava annoiarsi e, a dirla tutta, forse questa era la ragione per cui non riuscisse a stringere mai più di una manciata di rapporti sinceri. « Non crederai mai alle mie parole ma volevo vederti. » Il moro annuì portandosi il bicchiere alle labbra. Era pressoché sempre la stessa la risposta di Chrys. Ma non era mai così facile. Lo conosceva sufficientemente da sapere che dietro al paravento di quel volevo vederti si celava sempre qualcos'altro. Era bravo a vedere quella favola della mancanza. Lo era sempre stato. Ma ciò che non aveva mai capito era che Fitz era ancora più bravo a non cascarci. Forse lo faceva per spirito di conservazione, o forse perché, in cuor suo sapeva che se anche lo avesse fatto, avrebbe tentato di evadervi quasi istantaneamente. Era inevitabilmente attratto e al contempo spaventato da personalità come quella di Chrys. Nell'immensità di quel dolore ci aveva sempre visto tanta bellezza; un pozzo da cui attingere per le sue creazioni, per la sua arte. Ma era al contempo pericoloso; quel tipo di fragilità avrebbe potuto essergli fatale.
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    « Questo lo avevo capito. » Asserì lapidario. Che volessi vedermi era evidente dal fatto che fossi pronto a buttare giù la mia porta. Non ci vuole un genio per arrivarci; si chiedeva piuttosto cosa lo avesse spinto a mettere da parte l'orgoglio e trascinarsi ancora una volta alla sua porta. Fitz dal canto suo non lo cercava mai, non lo tratteneva. Chrys era per lui come una farfalla delicata. Se tenti di stringerla nel pugno si spezza. Ed io non sarò l'ennesima ragione della tua rottura, Chrys. Non ho le forze di prendermi anche questa responsabilità. « E ora? » Chiese inclinando la testa di lato, osservandolo con maggiore attenzione. « Mi hai visto. Vivo e vegeto come l'ultima volta - solo un po' più impegnato. » Un modo gentile per dirgli che non aveva tempo per i giochetti. O hai una valida ragione per venire a casa mia, oppure possiamo tagliare corto. Ci abbiamo già provato. Questa abitudine di piombare l'uno nella vita dell'altro non funziona. Ed io sto facendo del mio meglio per crescere. « Devi smettere di fare così, fiorellino - » Un vezzeggiativo che Fitz gli aveva dato molto tempo fa, e che ormai utilizzava come un modo per attirare la sua attenzione. Un po' come quando la mamma dice il tuo nome completo inseguendoti con la ciabatta. « - non ci vediamo da tanto. Non ci siamo chiamati, non ci siamo scritti. » Un'apatia quella reciproca. Un disinteresse che correva in entrambe le direzioni alla stessa maniera. « Non sappiamo letteralmente nulla l'uno dell'altro. Quindi presentarti qui per dirmi che volevi semplicemente vedermi non funziona più. Non abbiamo più diciassette anni. » Non li avevano più da tanto tempo, eppure avevano continuato. Forse perché volevano aggrapparsi a quella dimensione fanciullesca. O forse perché in fondo, non sapevano farsi altrimenti. « Quindi o hai quanto meno una scusa per venire qui, oppure - » Si strinse nelle spalle, scuotendo la testa prima di buttare giù tutto il contenuto del proprio bicchiere. Era palesemente infastidito, forse addirittura innervosito. « - oppure niente, Chrys. Niente. » Lo osservò con attenzione, apatico, freddo, apparentemente disinteressato. Non lo era davvero, ma poteva almeno provarci. « Dimmi che vuoi parlare, dimmi che cerchi qualcosa, qualunque cosa. Ma non fare il ragazzino. Non hai più l'età. »

     
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    Alla fine mi bastano davvero cinque minuti con te per capire cos'è che mi ha spinto ad andare via tutte quelle volte. Mi basta poco. Un solo accenno per ricordare tutti quei momenti ai quali, almeno io, mi sono ritrovato ad aggrapparmi con disperazione. E non ne manca nessuno all'appello. Posso non contarli sulle dita di una mano perché non entrano nemmeno in due, ma eccome se li ricordo. Io li ricordo benissimo, Fitz. Così come credo possa sovvenirmi il motivo principale per il quale mi sono spinto proprio da te. Qui, sì, piuttosto che alla ricerca di un Çevik che sa mettersi in ginocchio senza far troppe domande. Forse ho bisogno - almeno oggi, s'intende - di qualcuno che le domande me le faccia. Che mi sfidi, per un certo senso. E magari tu fai davvero al caso mio. Anche se non ti capisco e questo mi fa imbestialire. Mi fa sentire fottutamente stupido. E no, no che non mi piace sentirmi così. Non piacerebbe nemmeno a te, Fitz. Per questo magari non abbiamo mai parlato di un cazzo tu ed io. Per non finire a darci degli stupidi. La nostra suppongo sia stata una "relazione" basata sul rispetto.

    "Pensavo che uno come te le sapesse cogliere certe sfumature" e non lo dico con cattiveria, anche se so immaginare il tono con il quale mi è uscito. Non sono arrabbiato io o almeno, forse lo sono solo con me stesso. Il fatto è che non capisco se me ne devo andare o meno. Se devo correre via o osare spogliarmi del cappotto per restare prima in maglietta e poi - poi non lo so, in realtà.

    "Che non dovessi metterti nero su bianco che ho voglia di scopare, tipo" non ho ben capito se è la sincerità che vuoi, Fitz. Io posso darti questo però: un modo assai stupido nel tentativo di dirti che mi sento solo. Che mi sento perso. E che tutte queste cose insieme poi concorrono a farmi sentire un bastardo. Un farabutto, quasi. E per questo che ti nascondo lo sguardo, suppongo: perché non vorrei dirti questo, ma non sanno uscirmi parole diverse. Quindi mandami via e se devi farlo, insomma, sii diretto.

    "Che sì, magari non è solo quello. Insomma, magari volevo riprovarci. Volevo scambiare due parole con te perché - e non mi rendo conto di passeggiare per casa. D'altronde, mi hai detto di fare come se fossi in casa mia, no? E io in casa mia non tocco alcun mobile. Io vago, fluttuo, come se tra me e Daisy il fantasma fossi io. " - perché mi è piaciuto passare del tempo con te, anche se non sono più in grado di star bene tra la gente."
    Poi siedo sul divano, così pesantemente che per mandarmi via forse c'è bisogno di chiamare qualcuno che sia in grado di trascinarmi di peso. Forse è meglio così, sì, che se le gambe non mi reggono, allora significa che me la sto vivendo male. Che non sto capendo, ecco, in quali confini limitarmi. Perché questo è il mio problema Fitz, ma sono cose che non hai mai avuto modo di conoscere. Se non capisco, se non riesco a farlo, io esplodo.

    "Quindi - non lo so, se hai voglia beviamoci qualcosa. Tra più o meno un'ora dovrebbe arrivare del cibo. Mangiamo insieme o usciamo a fare una passeggiata. Quello che vuoi. Proviamo a far finta che ci sia qualcosa di ok in questo periodo storico folle. Rimaniamo immobili come i protagonisti delle tue fotografie."



     
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    « Pensavo che uno come te le sapesse cogliere certe sfumature » Da dietro il bicchiere di cristallo, Fitz sorrise in maniera quasi impercettibile. Uno come me. Si era chiesto spesso cosa quella frase significasse. Erano in molti ad adoperarla, e il più delle volte sembrava si trattasse unicamente di un'espressione idiomatica, un modo di dire. Su Fitz, uno come te, ci stava bene, perché appariva anticonvenzionale, fuori dagli schemi, distaccato. Ma cosa significava? Che accezione davano le persone a quelle parole? Se lo chiedeva spesso, ma non osava chiederlo, perché più di non sapere, Fitzwilliam temeva la conoscenza. « Che non dovessi metterti nero su bianco che ho voglia di scopare, tipo. Che sì, magari non è solo quello. Insomma, magari volevo riprovarci. Volevo scambiare due parole con te perché mi è piaciuto passare del tempo con te, anche se non sono più in grado di star bene tra la gente. » Lo aveva capito, dal primo momento, ma. Fitz le parole piacevano. Gli piaceva sentirsele dire, e dirle a sua volta, e così annuì soddisfatto dalla risposta, perché in fondo seppur del distacco ci fosse, non disprezzata, né disdegnava la presenza di Chrys. Gli piaceva essere cercato; trovava attraente la sua incapacità di resistere ai suoi impulsi, e il fatto che, nonostante facesse il duro, sotto sotto cercava quella dolce culla dell'infanzia, il ritorno a tempi più morbidi, più rassicuranti, quell'età in cui le preoccupazioni erano più semplici. Con Chrys era semplice; ottenere ciò che voleva, giocare. E lui sembrava rispondere sempre esattamente come se lo aspettava. « Quindi - non lo so, se hai voglia beviamoci qualcosa. Tra più o meno un'ora dovrebbe arrivare del cibo. Mangiamo insieme o usciamo a fare una passeggiata. Quello che vuoi. Proviamo a far finta che ci sia qualcosa di ok in questo periodo storico folle. Rimaniamo immobili come i protagonisti delle tue fotografie. » Il giovane rampollo di casa Gauthier sospirò, scoccando la lingua contro il palato. Camminò avanti e indietro di fronte al tavolino di caffé per un po' come se stesse meditando su chissà cosa, e infine tornò a osservare il giovane spasimante con un'espressione neutra. « Fuori fa freddo, e noi stiamo già bevendo qualcosa. Dico giusto? » Faceva ciò che Chrys voleva o era l'esatto contrario? Tra loro era sempre difficile dirlo, capire chi stesse giocando col cibo e chi faceva da pasto. Ma quelle erano domande a cui Fitzwilliam non aveva mai voluto trovare risposta. Forse perché - appunto - la conoscenza fa paura, e avere risposte a certe domande non è necessariamente un bene. Funzionavano perché restavano nella nebbia, perché tra loro non c'era nulla di scritto, e anche così, trovavano sempre un modo per accogliersi. E forse, in quel momento anche Fitz, nella sua frustrazione, nei mille dubbi, nella tempesta di confusione in cui si annidava, necessitava di essere accolto.
    Così, dopo aver portato l'ampolla di cristallo sul tavolino di fronte a Chrys, fece il giro per avvicinarsi al divano posando un ginocchio sul sulla seduta accanto al suo ginocchio. Lo osservò in silenzio, contando i battiti del proprio respiro, i movimenti delle palpebre di lui, sommando nella propria mente tutti quei piccoli dettagli che componevano l'immagine del giovane uomo che aveva di fronte. Poi, con nocche leggere gli accarezzò la guancia. Una, due, tre volte. Gesti gentili, che portarono un po' alla volta le sue dita a spostarsi sulla nuca, solleticando i riccioli ribelli un tempo più lunghetti di adesso. Si chinò di colpo sulla figura di lui strofinando il naso contro il suo e poi poco alla volta, lasciò che il contatto tra le loro labbra si intensificasse, finché non lo incatenò in quella danza veemente, simbolo di tutta la frustrazione e tensione che pervadeva il corpo del canadese. Di colpo le dita si strinse attorno ai suoi capelli, tirandoli repentinamente all'indietro; si staccò da quel bacio, ricercando il suo sguardo con un'espressione scomposta, soffiando pesantemente sul suo viso. « Ti sembro una puttana, fiorellino? » Glielo chiese con apparente tranquillità inclinando la testa di lato mentre lasciava lo sguardo vagare lungo l'intera figura di lui. « Cosa ti fa pensare che hai davvero il diritto di arrivare qui con tutta questa voglia di scopare? » Giocava col cibo. Voleva sentirselo dire. Voleva avere in pugno la situazione, pretendere, reclamarlo. « I premi si conquistano, e fino ad ora tu hai solo fatto i capricci, battendo i piedini come un marmocchietto disperato. » Pausa. « A me non va di stare immobile, ma forse a te farebbe bene. Devo considerarlo, Chrys? »

     
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    Non ho del tutto disimparato com'è che ci si rapporta con te. In realtà non credo di essere in grado di dimenticare quei momenti, eppure mi sento immobile, braccato, quando come un avvoltoio, inizi a volteggiare sulla mia carne. Ho capito dove scivola il tuo consenso già dal modo in cui soppesi le parole. E ne scegli di accurate, perché il messaggio non deve arrivarmi direttamente, ma nemmeno deve essere così fuorviante. Deve lasciarmi l'idea di aver capito qualcosa anche quando potrei sbagliare tutto e io di questi piccoli spazi nei quali infilarmi un po' vivo, esisto. E forse è solo così che so distaccarmi davvero da casa e da questi anni che non hanno fatto altro che pesarmi sulle spalle. Voglio dire, non c'è niente di sbagliato nel cercare una via di fuga, non è così? Perché nel farlo mi sento un codardo, allora indosso la mia coda e le mie orecchie da bestia. Mi faccio braccare, come un cane messo al muro, stretto alla catena, costretto alla fame.
    E di fame ne ho tanta, Fitz. Ho fame di amore, perché anche se non lo capisco ancora così bene come dovrei, io sono certo di aver ceduto la mia parte a qualcun altro. Nessuno, nemmeno i miei genitori si sono mai premurati di distribuirlo equamente tra me e mio fratello. E non ho mai compreso il motivo. D'altronde a cosa sarebbe servito? Nessuna risposta mi avrebbe risollevato dal bisogno di una fisicità capace di scaldarmi.
    Fuori fa freddo? Non sai che freddo sento io quando sono in casa.
    Ma non te lo dico, mi sembra suoni strano persino pensarlo. Magari mi vergogno, sì, di sentirmi tanto indifeso. Come un bambino che però ha perso la sua infanzia. Che di crescere ne ha abbastanza. Ma che guardando indietro, beh, guardando indietro si rende conto di non riuscire a vedere niente.

    "Sì - sì, dici giusto."
    Non vorrei farlo uscire con tono così lapidario, ma il fatto è che mi freddi. Mi spiazzi e non perché io non ti conosca, quanto perché so sperare sempre in una reazione diversa. In un modo diverso in cui potresti porti. E nell'errore sono io, ovviamente. Io che devo averti sempre e solo idealizzato. Che ho vissuto e amato, sì, anche se a modo mio, quell'immagine avevo di te. Magari uno degli innumerevoli e contorti motivi che mi hanno spinto qui è anche questo. L'illusione e ultimamente, nelle menzogne, seppur con rabbia io non riesco a non nascondermici. Mi sento a pezzi. Un morto che cammina, ma questo non so ancora come ben identificarlo.
    Ho persino questo problema di non sapere com'è che si faccia a non seguirti. A non muovere i tuoi stessi passi quasi come fossimo fratelli. Come se il mio Daisyderum fossi stato sempre e solo tu e allora non ci fosse bisogno di cercare il sangue del proprio sangue perduto. Magari Daisy è morto davvero, magari, se riuscissi a guardarti negli occhi, capirei di avere soltanto te e quei momenti fugaci che racchiudono il concetto astratto del "noi".
    Ma so incrociare il tuo sguardo solo quando ti fai vicino. Solo quando la tua mano scivola lungo il mio viso e allora le ciglia mi tremano. Mantengo ben stabile il verde nel tuo castano, mi fondo a te in un solo istante. E magari non respiro. Non respiro perché ho bisogno di restare sull'attenti, di fingermi preso alla sprovvista solo per non lasciarmi sfuggire quei dettagli che, l'abitudine, trascinerebbe via. Ho bisogno, sì, di queste tue dita, Fitz. Così come, probabilmente, avrei bisogno di odiarti con più convinzione e così trovare il modo di superarti. Di lasciarti andare via. "F-fitz" lo sibilo nel bacio. Nel tuo piccolo naso che trova il mio. Nelle tue labbra che ritornano ad incastrarsi perfettamente al loro posto. Potremmo baciarci quante volte vuoi, ma ogni volta mi sembrerebbe come la prima. Perché potrei aver paura di non sapere come reagire. E perché le tue intenzioni, per quanto io le conosca, non riesco mai a leggerle del tutto. Allora mi viene spontaneo spingere una mano lungo il tuo fianco, perché è questo, sì, che la delicatezza mi porta. Voglio sfiorarti anche io senza aver la perenne sensazione di star facendo una cazzata. Ma ringhio, quando la stretta tra in capelli si fa strattone e i nostri occhi tornano ad incastrarsi, ammanettati.

    "Puoi essere quello che vuoi, Fitz" anche una puttana, se è questo che desideri, perché io non ho alcun potere su di te e forse non voglio averlo. Non voglio legarti a questa vita, a questo corpo, ma voglio che invece tu faccia tutto l'opposto. Che le tue voglie siano sincere. Che racchiudano in sé la rabbia. Perché anche se non puoi essere mio, io - anche se brevi istanti - voglio fingere di essere tuo.
    "Devi!" Non rispondo al resto perché lo capisco da me che certe domande sono solo retoriche. Che ti servono per prendere il dominio. Per ostentare ciò che non ti strapperei mai. Magari non adesso. E te lo ringhio in faccia, in uno strattone del capo che vorrei di nuovo vicino al tuo. Se vuoi giocare, Fitz, giochiamo. Ma spiegami le regole, perché io - lo sai - in questo modo non ce la faccio. "Esponimi come una cazzo di fotografia" Prendo fiato. La mano che ha tentato la presa sul suo fianco scivola sul divano. "Guardami. Sono bellissimo e tu non desideri nient'altro che me."




     
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    Negli occhi scuri del canadese si cela una foga che non riesce a nascondere; forse è solo frustrazione, dettata dalla sua incapacità di esserci in alcun altro modo se non quello. Lo bacia, Fitzwilliam, mentre stringe i riccioli sulla nuca del ragazzo lasciando scorrere dita affusolate sul suo petto. Non lo ascolta neanche. Soffoca le sue parole ogni qual volta tenti di esalarle, quasi volesse rubargli l'aria nei polmoni. Se la ricorda bene quella sensazione; è il frutto di un desiderio che scorrere da tanto tempo e che pur sopito, ritorna a bussare alla sua porta ogni volta con la stessa foga. Chrys gli è sempre piaciuto, in un modo o nell'altro, gli piacerà sempre, perché nella sua mancanza di autocontrollo, il giovane Gauthier riesce a mettere ordine. Glielo ha detto più volte che gli piace metterlo in riga, ma questo non lo ha mai portato a passare il segno. E in effetti non lo fa neanche allora. Nonostante le sue parole siano dure, il suo tocco è tanto fermo quanto leggero, lo attira a sé mentre afferra il suo braccio per invitarlo ad alzarsi, ma non abbandona le sue labbra neanche per un istante. Vortica assieme a lui nella stanza mentre lo attira a sé stringendo la sua carne, accarezzando ogni lembo di pelle che gli viene concesso. Un po' alla volta si dirige verso le scale, scendendo con baci pesanti lungo il suo collo, mordendo, ispirando il suo profumo. E alla fine, mentre tasta il primo gradino verso il piano superiore, si ferma, accarezzandogli la guancia con dolcezza.
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    « Vuoi salire di sopra con me? » Un modo come un altro di chiedergli permesso, nonostante gli sia già stato concesso. Un modo per assicurarsi che è effettivamente ciò che vuole. Non lo biasimerà se non è così, ma non gli dà nemmeno spazio per pensarci a mente fredda. Si tuffa sul suo collo con desiderio, lasciando una scia di baci umidi al suo passaggio, mentre con Non mi offendo, se vuoi ripensarci. »[/color] Questa volta lo guarda negli occhi mentre conclude il lavoro sui bottoni, calcando un altro gradino verso l'alto, e poi un altro, e un altro ancora, lasciandosi seguire con gentilezza, con i suoi tempi, ma ricercando comunque i suoi baci mentre accarezza il torace esposto di lui. La carne giovane, la consapevolezza che quel corpo esercita su di lui un forte desiderio. Ormai in cima alle scale si avvicina per mordergli il labbro inferiore. Lo fa senza risparmiarlo poi molto, tant'è che quel leggero sapore di ruggine solletica appena le sue papille gustative. Ci sono cose che a volte non capisco di me. Molte. E spesso. Questo però lo capisco. Capisco perché sei qui, capisco cosa vuoi, di cosa hai bisogno. Ed è lo stesso per me. Non a caso, mentre varca la soglia della camera da letto dalle grandi finestre, le lunghe dita di lui si fermano sul collo del compagno, percorrendone le arterie con una strana fascinazione. Le alterazioni della pelle, ogni piccola imperfezione l'ha sempre affascinato. Lo liberò quasi istantaneamente della camicia spingendolo all'interno del luminoso ambiente stringendo con foga una delle sue natiche ridacchiando appena. « È ancora questo ciò che vuoi, fiorellino? Perché se così fosse, sai cosa devi fare.. » Inclinò la testa osservandolo con un'espressione eloquente, inumidendosi le labbra. Un sorriso mefistofelico si dipinse sul volto candido di lui mentre sollevava le sopracciglia abbassando lo sguardo con un'espressione ancor più allusiva. « Sai bene dove e come mi piacciono i miei ragazzi. »

     
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    Non mi sta bene, ma per quel che ne so, questo non interessa a nessuno. Non ha valenza in alcun posto, soprattutto non qui. Soprattutto non quando sono il primo a dar valore alle sue volontà e magari finisco persino per alimentarle. Me ne compiaccio. Magari è vero che so vivere solo di questo. Che pur di essere all'altezza di un fratello, poi mi lascio scivolare sulle ginocchia. Allora salgo le scale perché è lui a spingermi su ogni gradino. Lo fa ancor prima di chiedermi il permesso, anche perché sa conoscermi così bene da aver la consapevolezza di non dovermi chiedere nulla. Non sono l'uomo dalle mille risposte. Sono quello che esegue gli ordini e questi ordini, beh, non me li si deve impartire per forza a voce. So intenderli da me. Li concepisco, li interiorizzo e spesso, anche se questo processo avviene a modo mio, poi arrivo a soddisfare tutti.
    Questo è il fulcro di ogni cosa, non è così? Baciare gli altri per essere baciato a propria volta. Stringere gli altri per essere nuovamente stretto e se ad assecondare questo movimento è Fitz magari va bene così: lui sa cos'ha tra le mani più di quanto possa saper io cosa metterci. Ed è un artista: gli artisti si prendono cura delle cose che capitano loro a tiro. Sono delicati per antonomasia. Così non rispondo alle sue domande retoriche. Non rispondo a nulla se non ai movimenti di un corpo che sanno farsi automatici. Mi muovo in questa casa non solo perché è lui a permettermelo, ma perché c'è una parte di me che questi posti li ricorda perfettamente. Come queste dita, queste labbra, questo profumo nauseabondo. I fiori del cazzo, Fitz, a me non sono mai piaciuti. Forse perché mio fratello ed io portiamo nomi di fiori. Forse perché tutta la mia famiglia si è divertita a coltivare il proprio giardino con la cura di uno psicopatico.

    "Non la smetti mai di parlare?" non è una domanda nemmeno la mia. Non quando, arrivati nella sua stanza, spingo con delicatezza una mano sul suon collo. Mi piace, penso, passare il pollice sul suo pomo d'Adamo. E non voglio, in realtà, che se ne stia in silenzio. Vorrei solamente sentirgli dire cose sensate. Cose giuste. Come il fatto che non ci sono altri ragazzi. O che se ci sono, insomma, non deve portarli qui. Non in questa casa, non adesso.

    "Io -" deglutisco, spingendolo piano verso il letto. Affinché si sieda, affinché col muso continui a guardare me. Che mi guardi negli occhi. Che se la imprimi nel cervello questa immagine.
    "Io sono il tuo ragazzo" sibilo piegandomi su di lui solo per esser certo di avere la pelle delle sue gambe a vista. Che i pantaloni se li sfili del tutto e se non vuole, insomma, glieli sfilerò io. Scivolo in ginocchio, le mani strette ai suoi fianchi pronte a portarmelo più vicino. Che si aprano le danze. Che si accorra a banchettare.
    "Guardami." mentre realizzo i tuoi desideri. Mentre mi amalgamo alla folla e divento come tutti gli altri. Guardami mentre fingo di lottare per dei diritti che nemmeno voglio. Che non sarò mai tuo, nemmeno se passassimo anni a giocare a questo gioco del cazzo. Io non ti apparterrò mai, perché se sono di qualcuno, allora sono dei miei ansimi, di quei gemiti che rimbombano nel vuoto che ho nel petto. Se devo essere di qualcuno, allora voglio essere mio.




     
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    « Non la smetti mai di parlare? » Quel commento scatenò una leggera risata, ma non rispose, lasciandosi guidare piuttosto da quell'emergenza di averlo. L'avrebbe inglobato se solo avesse potuto; lo baciava e mordeva, facendosi spazio lungo ogni centimetro di pelle che gli capitasse a tiro, stringendo la sua carne per esercitare una forma di possesso opprimente. Lo lascia fare, Fitz, si lascia guidare verso il letto, e lì si siede allargando le gambe mentre lo attira a sé intrecciando le dita a quelle di lui. Poi lo osserva; non si perde nulla, neanche un piccolo movimento. « Io sono il tuo ragazzo » Lo era? Non lo sapeva, ma in quel momento Fitz gli avrebbe detto qualunque cosa. Gli avrebbe promesso qualunque cosa, perché l'egoismo scaturito dalla necessità di sentirlo, scardinava completamente la sua ragione. Strinse le dita attorno ai riccioli di lui mentre un leggero mugolio fuoriusciva dalle sue labbra al primo contatto. E lo guardava anche senza che lui glielo chiedesse. Lo guarda con una bramosia crudele che lo portava a stringere i capelli di lui con più decisione mentre si fa spazio tra le sue labbra. Mentre cerca scompostamente di seguire quella danza folle nella quale si immerge, perdendo ogni forma di ragione. Lo esplora senza vergogna sempre più profondamente sentendo sempre di più quel profondo piacere invadergli ogni cellula nervosa. E quando sente di essere sul punto di toccare il climax sfuggire al tocco di lui, per marchiarne il viso senza perdersi un solo istante di quel momento.
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    Gli umori del moro sulla pelle diafana scatenano in lui un senso di profonda soddisfazione, come se in quel gesto inaspettato ci fosse un'opera d'arte. Chrys è la sua tela, e Fitzwilliam ne può disporre a proprio piacimento. Lo fissa, mentre i muscoli di lui si rilassa, intorpiditi da quell'estasi che sembra avergli donato più soddisfazione di quanto pensasse, e poi, di colpo, noncurante dei suoi precedenti gesti, torna a esercitare la presa sui capelli di lui, ricercando le sue labbra. Ne esplora la bocca con la stessa bramosia di prima, ricercando la sua lingua mentre si alza in piedi obbligandolo a fare altrettanto. E mentre lo bacia volteggia sul posto sbottonandogli i pantaloni. Gli indumenti lo abbandonando dandogli così modo di osservarlo, esposto di fronte a lui. Un piccolo spinte, semplice, leggero, basta affinché l'altro prenda il posto che spettava fino a pochi minuti fa a Fitz. Ancora una volta, il canadese lo guarda dall'alto verso il basso; uno sguardo imperscrutabile che brucia. « Fammi vedere. » Asserisce inclinando appena la testa di lato. Glielo dice come se Chrys dovesse già sapere cosa Fitz si aspetta. Sa che non è così. Forse non si è mai comportato in questo modo. Ma fa parte dell'ordine delle cose. Fa parte del ciclo dell'evoluzione, della crescita. « Fammi vedere cose fai quando ti manco. » Era più di una richiesta. Chrys avrebbe capito che Fitz non stava affatto scherzando. Non lo avrebbe toccato ulteriormente, non a caso si allontanò appena sollevando il mento a mo di sfida. « Avevi tutta questa voglia di vedermi - si vede che mi pensi spesso. Mostramelo. » Mostrami cosa fai quando nessuno ti vede, Chrys. Forse era crudele; forse era indisponete, a dir poco capriccioso, ma la verità è che non intendeva più aggrapparsi a cose che lo annoiavano. Non aveva più il tempo e la voglia di aggrovigliarsi attorno alle stesse vecchie situazioni, alle stesse circostanze. Era annoiato dalla sua stessa vita, Fitz, e aveva bisogno di sentire che qualcosa, in un modo o nell'altro si stava muovendo, evolvendo. Se tu non rientri in questa categoria, Chrys, se non sei disposto a darmi qualcosa a cui aggrapparmi, un pompino del cazzo è tutto ciò che ti concederò. E dal modo in cui incollò la schiena nuda contro la parete opposta della stanza, osservandolo senza perdersi una sola microespressione della vecchia fiamma, era evidente che da lì poteva muoversi in ogni direzione - verso di lui o fuori dalla porta.

     
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    Mi viene facile credere che tutto questo faccia parte di un gioco. Un gioco che magari sto comprendendo solo adesso e che, per tutti questi anni, non ha fatto altro che scivolarmi davanti agli occhi. Non ne ho mai afferrato il reale concetto. Non l'ho mai fatto mio come avrei potuto. Con tutte le mie forze, ad esempio. Con una vocazione talmente potente da mantener in piedi ogni cosa. Ogni volontà, ogni desiderio e tutto quell'orgoglio che adesso mi costringo a mettere da parte. Soprattutto quando ti sfili dalle mie labbra e io finisco per capire immediatamente cos'è che vuoi. Gli occhi si chiudono istintivamente. Non ho nulla da ridire contro il calore che mi inumidisce il viso. Di quei tremori leggeri che accompagnano l'orgasmo. La tensione e il rilascio dei muscoli. Un movimento naturale che ricorda la risacca del mare. Dovrei averne paura. Potrei morirne, ma come il cagnolino che sono trattengo il respiro e nel mare mi tuffo. Accolgo le sue onde in me, con una mano a risalirne la scia perlacea, tanto da trascinarla sino alle labbra, sulla lingua, laddove i non detti avrebbero dovuto concentrarsi già da qualche minuto.
    Non rispondo nemmeno a ciò che mi chiedi. Il modo in cui me lo imponi mi da ai brividi. Mi spinge via e al col tempo, costringe coi piedi a terra. Con le ginocchia ancora puntate al terreno. Il busto dritto, il collo tirato per permettere al capo di restar inclinato. Nemmeno ti guardo: d'altronde conosco bene le curve del tuo viso. L'armonia delle tue forme come se fossi anche io l'artista capace di notare certi dettagli. Di farli propri. E mi appartieni. Fitz, mi appartieni così come lo fa la vergogna, il dolore, la convinzione di non potermi alzare da qui quando i muscoli mi dicono che solo spingendo la mano oltre l'inguine potrò essere libero.
    Libero dalle menzogne che mi spingono qui.
    Libero da quelle che mi impediscono di andar via.
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    E l'afferro, l'erezione. Stringo le dita per non perdere la presa. Con gli occhi, timidamente cerco i tuoi. Timidamente, sì, come fossi una cazzo di ragazzina dinanzi all'impensabile. A chiedermi, magari, perché mi stai forzando a questo. Fitz, davvero, cosa cazzo vuoi? Stiamo ancora giocando o c'è dell'altro? Ti piaccio di più se faccio ciò che dici? Se inizio ad avvampare come uno stupido e, sensuale, finisco per non sentirmici affatto? Allora il cuore batte forte la sua corsa. I brividi, sì, mi percorrono tutta la schiena e lungo il collo. Ma la mano non cessa il movimento. Nemmeno quando mordo labbra che finiscono per non essere più mie e io nemmeno ci faccio caso. Perché nel momento più concitato chiudo gli occhi, mentre la mascella si fa più lunga. Il volto più fino. Daisyderum era il più sensuale tra i due. Era lui quello che volevano guardare, ammirare, sognare. Non me, Fitz. Ma fintanto che l'orgasmo resta tale, non importa a nessuno di quale finzione andiamo ad affidarci. Ad aggrapparci. Cosa te ne fai di questi peccati, Fitz? Che te ne fai di uno che sa essere uno e trino? Che i dettagli più importanti te li strappa via un gemito che gli schiude le labbra mostrando denti più affilati, perfetti? Vorrei morderti quella soddisfazione che ti colora il viso e convincermi così, sì, che so ancora com'è che si tira avanti. Come si sopravvive.




     
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    Non vuole perdersi neanche un istante di quel momento, come se nel consenso di quella richiesta si classe il desiderio di Chrys di seguirlo o meno, di affidarsi a lui, di fidarsi. Lo scruta con occhi attenti; il campo inclinato di lato mentre si inunidisce le labbra con bramosia. Si sente compiaciuto, soddisfatto; accolto. Nel vederlo seguire le sue istruzioni prova un piacere che si sublima nella consapevolezza di avere di fronte un soggetto dall'infinita bellezza. Chrys, Fitz, lo ha sempre trovato attraente. Nei meandri del suo essere ha sempre visto qualcosa di nascosto, invisibile agli occhi altrui e che pure si è sempre manifestata sotto i suoi occhi con estrema forza, fino a quasi imporsi. La sua fragilità e impulsività erano belle. Ma erano anche pericolose. Ingannevoli. E il prezzo da pagare per guardarle era sempre alto. Lo avrebbe scoperto, Fitz, che sotto la pelle diafana del suo partner, c'era qualcosa che gli era sempre stata celata, e che sotto sotto, quella bellezza che per lui pensava non avesse segreti, ci fosse qualcosa - un seme di malessere - che forse avrebbe preferito non scoprire, né svelare. Ora desiderava che non fosse stato lui ad aver svelato quel segreto, ad aver innescato quella reazione a catena che porta il suo desiderio a scivolare via da lui di colpo. Il petto si muove velocemente, mentre sbianca nel veder apparire sotto i suoi occhi il volto di un vecchio amico. Una persona con cui, un tempo, Fitz condivideva conversazioni piacevoli, ma nulla altro. Daisy era stato un buon compagno di conversazioni; era sveglio e aveva una forte fascinazione verso tutto ciò che di colto esiste. Era sensibile, e sapeva plasmarsi sulle corde del suo interlocutore con estrema facilità. Ma per Fitz, era sempre stato solo un amico, e quando era venuto a mancare, se ne era dispiaciuto. Non lo aveva mai visto come un amante, né lo aveva desiderato come tale. Forse perché in fondo, a Fitz piacciono le cose un po' rotte, le bellezze nascoste, le persone diverse da lui. Forse perché in fondo, Daisy non poteva dirgli nulla che non sapesse già, o forse perché semplicemente la chimica tra i due non era mai scattato. Con la schiena ancora incollata al muro, osserva la figura accasciata sul suo letto e vorrebbe solo buttarlo fuori, prenderlo per un braccio e gettarlo in strada così com'è. Odia essere sorpreso in casa propria, odia doversi sentire così fottutamente preso alla sprovvista. Stringe i denti e abbassa lo sguardo, come se volesse tagliare corto con quella immagine. Non è bello trovarsi a letto con un fantasma, non è bello tornare indietro, ripercorrere ricordi dolorosi. E così, fuori di sé, ma pur sempre sotto controllo, riprende possesso dei suoi boxer e pantaloni, infilandoseli meccanicamente prima di gettargli addosso i propri vestiti. Non sapeva che le capacità di Chrys potessero arrivare a fargli prendere le sembianze di un'altra persona, figuriamoci prendere le sembianze di suo fratello. « Vestiti. Avanti - vestiti. » E' freddo e irremovibile. Se solo lo guardasse gli mollerebbe un pugno, forse anche peggio. Ciò che sta facendo è crudele, ed è, nell'opinione di Fitz a dir poco malato. Così attende che faccia come gli ha ordinato. Non accetta un no come risposta. « Mi spieghi che cazzo ti passa per quella testa? Hai la merda nel cervello, Chrys? » No. Non ha gradito quella sceneggiata e in fondo, non sa nemmeno se vuole sapere cosa gli passa per la testa. « Tu stai male. » Il suo è un sussurro, mentre si riallaccia il pantaloni, richiudendo bottone e zip. « Questi giochi del cazzo li vai a fare con le tue puttane, mi hai sentito? Torna in te. » Lo guarda per la prima volta, solo per rendersi conto che sta ancora parlando con Daisy. No. Non riesce a guardarlo. Scuote la testa fuori di sé e lascia la stanza. « Cazzo non riesco nemmeno a guardarti. Lavati o fai il cazzo che ti pare, ma qui abbiamo finito. » Queste le sue ultime parole prima di sbattersi la testa alle spalle scendendo le scale in fretta e furia. Ha bisogno di bere per dimenticare quell'immagine. E' sbagliato, ed è a dir poco malato. Ce l'ha così tanto con lui che vorrebbe solo averlo fuori da casa sua il prima possibile. E quindi beve; si versa un a quantità sufficiente di scotch che svuota con una rapidità impressionante. Ma nemmeno questo riesce a fargli dimenticare quella scena. Un dannato circo degli orrori. Non è così che doveva andare.


     
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    Penso si tratti di una frazione di secondo. O, almeno, è così che sembra a me. Il tempo qui non rallenta, anzi, si velocizza. Lo fa quando comunque ogni cosa finisce per sembrarmi perfettamente nitida dinanzi ai miei occhi. Allora a fermarmi magari sono io. Io che rallento la presa sull'erezione. Che lo sguardo lo alzo piano verso il suo. Io che spingo le ginocchia a terra come a volermi alzare così. Io che non so muovermi e allora spero che sia lui ad afferrarmi. Lui a tirarmi verso di sé a dirmi, diversamente, di rinsavire. Di non lasciarmi andare al panico. All'inadeguatezza di sentirmi bello per ciò che sono.
    E non ragiono più. Il cervello si spegne, la vista si fa annebbiata e solo quando i vestiti mi finiscono addosso allora forse riesco a connettere i pezzi. Solo quando lo sento andar via, qualcosa in me si risveglia. E allora scalpita. Lo fa portandomi le lacrime agli occhi. Le mani che si staccano dal corpo per finire a terra. Le unghie che piano grattano il pavimento. Cosa cazzo ho fatto. Tiro su col naso. Mi sento così congestionato da far schifo. Da far schifo persino a me stesso. E per un po' la porta da cui è uscito nemmeno la guardo. Me ne resto in silenzio, anche se non è propriamente quello a fendere l'aria. In realtà mi sembra di vibrare. Il cuore batte forte in petto come un martello pneumatico. Tum. Tum. Magari fosse un infarto. Il momento dell'ultima corsa. Io che vedo nero e poi più niente. E se Daisy è davvero morto, beh, che mi accolga a braccia aperte.
    Hai sentito, sì, fratellino?
    Sentito cos'è che ci siamo detti? E i vestiti me li stringo addosso con disprezzo. Non so se odio più Fitz o me stesso. Non so nemmeno se è te che odio più del resto, Daisy. Quello di cui sono certo è che non posso restare nudo qui. Per questo provo a ricompormi. A tornare me. A riacquisire qualche centimetro in altezza e una vita più fine. Che a forza di mangiar male mi si vedono le ossa sulla schiena. Ma questo Fitz non lo nota. Questo nessuno lo vede. E va bene così, anche se in realtà non va bene un cazzo.
    Non va bene che stretto nei vestiti io mi spinga verso le scale come un ragazzino in preda ai sensi di colpa. Che i boccoli mi si afflosciano in viso come petali di un fiore. Sono il suo fiorellino, lo son io, Des, non tu. Ma rendermene conto non mi permette di rimediare. Sto male, d'altronde. Me l'ha detto anche lui. Sto male, ma non so com'è che funziona la guarigione. Allora spingo un piede dopo l'altro. Lo faccio con delicatezza. Con la pianta che mi duole ad ogni peso che vi esercito sopra.

    "Non ho nessuna puttana, Fitz - " lo sibilo, quasi convincendomi che potrebbe comunque sentirmi. Che è questo che potrebbe salvare questo folle momento. Un'ammissione tanto stupida ma utile. Oso un altro passo. Gli occhi rossi ma non più liquidi. Le ciglia separate dalle lacrime già pronte a seccarsi così. "Fitz - sono io. Sono io." Non so bene cos'è che voglio dirgli. Ma sono io, sono tornato in me. Sto parzialmente bene. "Scusa - scusa, ok? Non lo faccio più" Non so nemmeno perché io lo faccia. Non è come con Joshua: questa volta non è stato volontario. E pensarci, beh, pensarci mi fa un po' paura. "Scusami se sono diventato noioso, magari è meglio che vada - vuoi che vada via, vero?"





     
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    Non riesce a crederci. Ciò che è successo lo offende, e in un certo qual modo lo ferisce. Sente quella spada di Damocle pendere sopra la sua testa, mentre ammette a se stesso che non ha capito proprio niente. Guarda il liquido color ambra nel proprio bicchiere e si chiede perché. Dove ha sbagliato. Cosa ha fatto di tanto crudele da portarlo a prendere le sembianze di qualcun altro. Le sembianze di un amico, che per giunta non c'è più. Non voleva ricordarsi Daisy in quel momento, e tanto meno voleva vederlo nudo sul proprio letto. Si sente come se lo avesse deturpato, come se avesse violato la sua salma, come se avesse compiuto un peccato capitale. Non era nemmeno certo fino a quel momento che i talenti di Chrys gli permettessero di mutare forma fino al punto di diventare completamente un'altra persona. No uno qualunque. Suo fratello. Si chiede cosa si è rotto in quella stanza, e soprattutto cosa si è rotto nel ragazzo che conosceva. Ma nonostante questo non riesce ad affrontare quel discorso; forse perché non può digerire il fatto che implicitamente Chrys ha dato per scontato che volesse trovarsi lì con Daisy. O forse semplicemente non gli va giù il fatto che di tutti i momenti in cui avrebbe potuto confessargli che qualcosa non andasse, ha scelto un momento così intimo. Ti presenti a casa mia dopo un sacco di tempo, fai le tue solite sceneggiate, mi chiedi di portarti a letto e poi mi lasci con qualcun altro. Forse si era sentito un bimbo sperduto. Si era spaventato. Ecco qual è la pura, semplice verità. Non se lo aspettava e ha dato di matto; troppo preso dal momento, troppo inebriato dalla parvenza di potere che Chrys gli ha concesso, si è sentito di colpo togliere la terra da sotto i piedi. Se era uno scherzo, era uno davvero pessimo. Se voleva dirgli qualcosa - non è questo il modo. E così svuota il bicchiere, Fitzwilliam; lo svuota, e poi lo riempie di nuovo, mentre dopo un tempo che gli appare infinito, rumori al piano di sopra gli segnalano che forse l'ex compagno ha deciso di muoversi. « Non ho nessuna puttana, Fitz - » La voce è la sua, ma il giovane Gauthier evita di guardarlo, quasi avesse paura di vedere di nuovo l'altro. Gli sembra un fantasma tornato a tormentarlo. E perché? Fitz non aveva mai fatto nulla a Daisy. A parte le conversazioni intrattenute per lo più a casa dei Gilles, i loro contatti erano pressoché inesistenti. « Fitz - sono io. Sono io. Scusa - scusa, ok? Non lo faccio più » Fitz ispira profondamente, e forse è la prima volta che percepisce per davvero l'ossigeno nei polmoni. Non sa se sia perché lo vede - è lui - o se è piuttosto perché sente forte e chiaro la strisciante rabbia che scorre nelle sue vene. I suoi occhi scuri ardono mentre lo osservano. « Scusami se sono diventato noioso, magari è meglio che vada - vuoi che vada via, vero? » Noia. Era davvero questa la lettura che voleva dare di quanto appena accaduto? « Io - non - sono - annoiato. » Sbotta in un tono meccanico, che sottolinea ognuna delle parole, mentre lo guarda con occhi grandi, e un'espressione che forse sta finalmente andando incontro allo shock. Non ci sono dubbi; è un cane rabbioso, e se solo Chrys non fosse palesemente sul punto di scoppiare in lacrime, probabilmente lo prenderebbe davvero a calci e pugni. « Ma forse lo sei tu, se sei davvero così deviato da pensare che mentre stiamo nudi in camera da letto ho voglia di incontrare faccia a faccia un uomo morto. » Lui è morto, Chrys. Che cazzo di problemi hai? Se lo sta chiedendo ancora, perché in fondo pensa sia crudele avergli fatto vedere tutto ciò, averglielo fatto vedere nudo, intento a fare - cose. Sfoga la rabbia gettando il bicchiere che ha tra le mani contro la parete stringendo i denti per poi dargli le spalle, respirando in maniera accelerata mentre posa entrambi i palmi contro il bancone della cucina a vista. « Io vedo gente morta di continuo, cazzo! Basta chiudere gli occhi e li vedo. Sono caduti per darci una possibilità - una vita migliore.. e hanno fallito. » Tutti noi abbiamo fallito. E ora? Ora li stiamo deludendo. « Forse tu eri troppo occupato a farti le seghe, in qualunque buco ti rintani quando sparisci per mesi, ma lì fuori di morti ce ne sono a bizzeffe. Morti, scomparsi, gente imprigionata - gente in fuga.. » Pausa. « E io non voglio vedere nessuno di loro mentre sto scopando. » Si gira nuovamente nella sua direzione e lo osserva con due occhi che sono a malapena fessure. C'è dolore in quelle vene, frustrazione, l'incapacità di agire, di essere sufficientemente reattivo rispetto.. - rispetto a tutto. « Perché? Dimmelo. » Non è una domanda. Lo pretende. « Credi forse che una persona vale l'altra? Oppure pensi che mentre mi scopavo te pensavo a lui? » Stringe i denti e soffia pesantemente. « Dimmelo, Chrys, avanti. Che merda pensi che sono? » Non c'è nulla della solita eleganza. Non ci sono mezze misure. Non c'è controllo in quel Fitz.

     
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    Le parole sono solite piacermi. Mi piace il modo in cui le persone le fanno suonare. Mi piace, ecco, pensare che la gente, parlando, si rivolga a me. Mi piace ascoltare. Perché attraverso il suono si scoprono tante cose. E non è solo parte della semantica, ma tutto l'insieme. Mi piacciono le onde. Quelle che non vedo infrangersi contro uno scoglio ma che sento pervadermi. E mi cullano, mi tengono in piedi loro, come se tutto l'universo a modo suo cercasse di dirmi qualcosa. E allora, a forza di parlare e parlare, mi spinge a restare in piedi.
    L'onda mi spinge la schiena, poi il ventre e nel momento in cui mi costringe ad alzare il viso verso Fitz, mi permette di star fermo. Di prendere un ulteriore secondo per me. Di respirare anche se ho disimparato com'è che si faccia. Ma respiro. Respiro anche se ho le lacrime agli occhi.
    Respiro anche quando so di dover incassare la morte di Daisyderum. Che lo so, sì, è così anche per lui. Lo è per tutti, d'altronde.
    Incasso quando mi rendo conto di non aver alcuna ragione dalla mia parte.
    Incasso quando le sue parole mi sembrano così giuste da riuscire a tagliarmi la pelle. Secondo un concetto puramente romantico adesso sanguinerei. La parola come arma bianca. Uno struggimento indescrivibile. Sospiro.
    Non saprei nemmeno cosa aggiungere se non un "N-non..." non è vero.
    Nego a me stesso le cose più ovvie. Ci provo. D'altronde l'ho detto: è così che vado avanti. Con le parole. Con le bugie che mi dico per risvegliare le onde. E allora lasciarmi dondolare, cullare da esse. Fino al torpore. Al sonno più profondo. A quello che mi porta via dalla realtà che ci circonda. E non ci sono, per me, altre lotte a cui partecipare. Non c'è niente per cui ribellarsi. Nulla per cui morire se non questo.
    Per me, ecco, c'è solo l'egoismo. Quello che sto imputando a Fitz e che poi mi rendo conto di poter condannare solo e soltanto a me stesso.
    Perché ha ragione.
    Ha ragione, certo.
    Quello malato sono io.
    Quello pazzo e fuori dal mondo sono io.
    Io che mi nascondo dietro un morto per non dover prendere una posizione. Per non dover essere costretto a scegliere da che parte stare. E allora un dolore vale l'altro. E io ce l'ho lì, a portata di muso. Ed è così grande da annullare il resto. Perché mi dico di essere un uomo semplice e di non poter star appresso a tanti altri orrori. Io ho stupidamente il mio e non voglio che altri si battano per me. O per lui.
    Eppure, ecco, so di non dover aver paura.
    Nessuno lo farebbe. D'altronde esistono cose ben più importanti di queste. D'altronde i morti restano morti. "Non penso tu sia una merda." Che è vero. Non lo penso, non in questo modo. I miei giudizi vanno e vengono, sono come i raffreddori. Come una folata di vento. Non ho la voglia né il coraggio di odiare qualcuno per un tempo decisamente troppo lungo. O altre persone da detestare. Altri momenti da sacrificare in virtù di qualcos'altro di cui non parleremo qui. Forse non ne parleremo mai. Nemmeno quando le parole mi piacciono e io potrei provare a mentire ad entrambi.
    Ma cosa cazzo ne ricaverei?
    "E hai ragione." Non dovrei piangere perché farlo è da stolti. Perché i ragazzi non piangono. Perché a papà non è mai piaciuto sentirci piangere. Lui non lo voleva. Non voleva che stessimo male. Che ostentassimo così quale cazzo di problema avessimo. I Gilles, da che ne dovrei aver memoria, non ne hanno di problemi. Non ne hanno mai avuti. Nemmeno per un istante. Nemmeno quando Daisy mi pregava di non dargli la buonanotte perché la detestava. Perché alla fine c'era il mostro della sera che era pronto ad afferrarlo per le caviglie. A trascinarlo giù. Via. In casa sua, laddove i casini, se arrivano, restano solo fuori dalle finestre. A guardare.
    Ad assistere al diorama della disperanzione.
    Allora di dormire spettava a me.
    A me che dovevo coprirmi fino alle orecchie. Mentre il bacio di mio padre su una guancia finiva per asciugarsi col tempo.
    Buonanotte Bruchino, anche oggi la fortuna è stata dalla tua parte.
    Che cazzo di privilegiato. Che cazzo di Damerino.
    E sì, non vorrei piangere, perché questo mi renderebbe patetico. E io non voglio sembrare patetico dinanzi ai suoi occhi.
    Io non voglio chiedergli di aiutarmi, di dare a me parte delle sue priorità. Almeno un po' di attenzione. Almeno di un corpo contro il quale stringermi con la convinzione di essere in un posto sicuro. Un posto che non deve sapere neanche per un istante di casa. Un posto che se ne sta al di là del tempo, dello spazio stesso. “Sono un deviato." Scuoto le spalle e non per dire che tutto questo non mi tocca minimamente. Cazzo se mi tocca. Cazzo se nel farlo scava direttamente una fossa. Ma è istintivo. È il modo che ho per sparire nella mia stessa schiena. Per chiudermi a riccio. Per salvarmi dalle percorse. "E mi dispiace non essere bravo in un cazzo se non a fare melodrammi." Perché è vero. Mi dispiace non essere utile. Mi dispiace non riuscire a schierarmi. Non essere mai attivo. Di parte. Ben predisposto. "A me piaci da morire. Ma è evidente che a piacermi magari è solo l'idea di quello che saremmo potuti essere se ci fossimo impegnati meglio da ragazzini e se - se io non fossi così." E le mie cose le riprendo. Che sia la giacca e il resto. Perché non riesco a stare in un posto in cui mi sento male. Non riesco, ecco, ad accettare di non essere bravo in niente. Di non poterlo aiutare. Di non riuscire nemmeno ad alleviargli i fastidi. Dovevamo solo scopare. Scopare e non pensare a niente. E invece la mia mente si incasina, fottendo sempre tutto. "E non sono annoiato - non mi sto divertendo. Sto solo male. Sto male, ma non fa niente."





     
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