Road Rats & Books

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    | Old Fashioned Library, 567B, Londra



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    Remì è un piccolo cervellone. L'ho capito quando ha cominciato a spulciarmi casa in cerca di libri, e più ne trovava e meno era felice, perché sapeva ce ne sarebbero stati troppo pochi. Per questo ho montato una nuova libreria, per questo in camera ci sono scaffali su scaffali, perché non si accontenta mai, non smette mai di voler imparare.
    E quanto cazzo gli piace che gli legga qualcosa prima di dormire, soprattutto quando il temporale è troppo forte. E lo so, io, che gli fa una paura fottuta. Allora si stringe di più, si incassa contro il mio petto, e la mia voce deve sovrastare i tuoni mentre con una mano gli copro piano l'orecchio più esposto. Lui si calma con le storie, si emoziona con le storie, in pratica vive di quelle.
    E lo capisco, cazzo. Nessun ragazzino vuole parlargli come si deve e gli adulti non posso dargli sempre tutti gli stimoli di cui ha bisogno. Almeno, sì, almeno può rifugiarsi in qualcosa di bello.
    Solo che 'sti cazzo di libri non ce li regala mai nessuno, e più lui cresce, più quelli che gli piacciono costano. Però non fa niente, lo so che una volta che passiamo davanti ad una libreria, io non ho scampo.
    E non che Remì si impunti, lui si ferma solo ad ammirare i libri come un cucciolo appostato fuori dalla salumeria. Guarda loro, guarda me, ed io già so. So che non posso resistere, che mi fermo e lo guardo a mia volta. — Due, ok? Non di più. E' il limite economico che ho messo.
    Serve a me, e serve a lui, affinché capisca che non voglio impedirgli di essere felice, ma che questo tipo di felicità ha un costo. Ed è perché non posso usare le mie capacità troppo spesso, non ora che i controlli sono rigidi, che non c'è scampo, anche se mi muovo in zone babbane per mimetizzarmi meglio. Per far perdere eventuali... tracce.
    Quindi sì, quando entriamo, io lo lasci andare, libero la sua mano perché scelga lui, perché finisca tra gli scaffali e faccia il piccolo topo qui e lì. In questi posti non c'è quasi mai un cazzo di nessuno, sono luoghi isolati, e forse perché la gente sta diventando sempre mano istruita, sempre più pigra. Come me. Non so dove cazzo sarei se non fosse per Remì, forse già sulla forca. Magari avrei già ricevuto il bacio di un Dissennatore.

    E Remì cerca, scava, legge le copertine senza mai toccare nulla, nonostante l'occhio vigile della commessa dietro il bancone. La guardo anche io, è una donna di mezza età e probabilmente i bambini li odia. Non ho bisogno di leggerne la postura per sapere che ha paura che Remì tiri giù tutte. Cristo se non avesse messo delle colonne di libri come torri pendenti, magari avremmo rischiato di meno, ma-... ma io so che mio figlio non tocca mai niente senza il mio permesso. Tant'è che lo aspetto, mi aggiro piano anche io, qualcosa la cerco, ma più che altro mi informo di più sulla lingua dei segni, sfioro le pagine di qualche libro. Le uniche storie che leggo, me le sta mettendo in mano Remì queste notti.
    Respiro la polvere che si appoggia anche trai suoi ricci, tant'è che è brizzolato quando torna da me, e mi fa ridere mentre gliela tolgo di dosso. — Abbiamo i nostri vincitori? mormoro, e Remì annuisce. Mi porta lui da tutti i libri che vuole, e lo vedo indugiare. "Viaggio al centro della terra", "il giro del mondo in 80 giorni" - questi so che cosa sono ma, sulla via del bancone, ne guarda un altro. Anzi, sono due. "Zanna Bianca" e "Il Richiamo della Foresta". Li avevo anche io, a casa con mio padre. Lo sa che gli ho detto che abbiamo un limite, ma sono io il primo che può trasgredire alle nostre stesse regole, e prendo anche quei due.

    — Sono quaranta sterline. Cristo dio. Non le ho, ovviamente. Quaranta cazzo di sterline mi durano per tre cene, sono la metà di quello prendo in galeoni per ripulire una mente. E per fortuna che oblivio ogni cazzo di volta il proprietario di casa per convincerlo che ho già pagato l'affitto. Grazie a dio vive da solo e nessuno gli fa i conti in tasca. —Sì- io... Io non la pago, stringo le mani intorno alla bacchetta, incastrata dietro la schiena, sicuro che nessuno mi veda, e sfilo quel piccolo insignificante ricordo, che si scioglie nell'etere. Veloce come so di essere.



     
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    Riley Dylan Cunningham
    36 anni . 1/4 veela . legilimens . auror . padre . irlandese

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    Non ho tempo da perdere. Di base, non l’ho mai avuto. Ed è stato così dal primo momento in cui mi hanno costretto ad essere ciò che non sono mai stato in grado di rappresentare. Un calcio ben dritto nel culo e via, svezzato e gettato in pasto al mondo. Che poi a me quel mondo sia piaciuto è un altro paio di maniche, il fatto è che, comunque, di tempo per comprenderlo meglio non lo ho. Non è in mio possesso la capacità di ammorbidire i muscoli. Né la competenza giusta per far sì che l’aria mi entri nei polmoni riempiendoli totalmente piuttosto che solo a metà. Ho disimparato com’è che si respira quando ho aperto gli occhi e mi sono ritrovato solo. Solo, certo, anche se sempre con il fiato di mio padre sul collo. Allora ho dovuto cercare il modo migliore per mantenermi a galla. Se non con tutto il corpo quantomeno con la testa. E nella merda, come capita a tutti, ci ho sguazzato anche io. Persino adesso mi sembra di star camminando su un terreno minato, tanto da star attento a dove metto i piedi. E a casa non ci torno: non sono quell’uomo che a fine turno sa rientrare al focolare. Io non ho alcun fuoco a lambirmi i lombi. Le fiamme che un tempo mi animavano adesso giacciono come piccoli fuocherelli ai lati della mia vista. A volte il loro bagliore rossastro non mi sembra nemmeno il mio. A volte ho quasi il terrore - reverenziale - di star porgendo troppa attenzione a qualcosa che non dovrei nemmeno conoscere. E sto dimenticando, sì, com’era quella passione che ha animato ogni mio respiro fino a qualche anno fa. Persino le mani faticano a riconoscere i tasti di un pianoforte. A volte ne suono di invisibili per aria. Perché le note io le ricordo: sono loro che prendono posto dei miei pensieri, ma i muscoli riconoscono solo l’azione.
    Ma che io sia felice o meno forse non è importante. Non è un argomento di cui amo parlare dinanzi ad Esmeralda e al bambino, non quando quel figlio, per me, non è altro che la boa a cui mi aggrappo quando tutto intorno a noi sembra farsi nero. E io la luce la vedo a fatica. Come un vedente che pian piano sta perdendo la vista. E se ne rende conto. Cristo se ne è fermamente consapevole.
    E non ho il coraggio, probabilmente, di tornar a casa per rendermi conto di essere finito. Di percepire la merda alle labbra, al limite dell’ennesimo respiro troppo profondo. Per questo mi nascondo in un lavoro che probabilmente sto iniziando ad odiare. Quando da Iron Garden devo allontanarmi per dedicarmi ad altre piste. E lungi da me capire cos’è che mi spinge fino a questo punto. Sempre ad un passo dal burnout con la speranza di non caderci mai dentro con tutte le scarpe. Forse sto semplicemente invecchiando, sì e allora l’unica cosa che mi resta è annichilirmi su un lavoro del cazzo. Piegarmi a sdraio contro me stesso e incassare. Incassare nella speranza, quel barlume emesso dai fuochi che non mi appartengono, che il mondo migliori. Che torni la giustizia e che questa valga per tutti. E che con l’eguaglianza arrivi la mia pace. La solitudine da espiare dinanzi a un pianoforte. Le note di Debussy tra le dita e il corpo pronto a pestarle tutte. Sino a far loro del male e a sentir a mia volta quel dolore. Perché io voglio la musica. Voglio l’arte e la capacità di goderne che spero di tramandare a mio figlio. Anche se sono un padre di merda e allora accetto un lavoro del cazzo, in un posto del cazzo, dove, tra un colpo e l’altro, io spero di ritrovare Dio.

    Ma Dio è morto e io mi tengo a stento in piedi. Per questo mi rinchiudo laddove i babbani ritrovano la vita. Perché non ho bisogno di racconti di Beda il Bardo per ritrovare la rettitudine. La morale perduta. Ho bisogno dell’innocenza. Della noncuranza. Ho bisogno dell’ignoranza di chi le cose non può comprenderle a pieno. Gli occhi chiusi dalla bellezza di un mondo che implode in luci e forme stroboscopiche. Ho bisogno di speranza. Se non estraibile da me stesso, da prendere in affitto da altri. Magari è proprio per questo motivo che stringo il libro pop up del Piccolo Principe tra le mani. Perché voglio insegnare a Nicholas la bellezza di saper aspettare la propria volpe e di prendersi cura della propria rosa. Dato che, insomma, non sono io quello a poterglielo insegnare. Io non so prendermi cura nemmeno di me stesso.
    — Aspettate! Remì, ho trovato il libro più bello del mondo. Dovresti leggerlo!
    So com’è che si chiama quel ragazzino perché gliel’ho sentito pronunciare nella testa. Quasi come ad avvalorare se stesso, in un susseguirsi, poi, di frasi tratti da tutti quei libri che deve aver letto. Remì è più grande di Nicholas, me ne rendo conto non solo dalla stazza, quanto dall’esperienza che dev’essersi già fatto. Le storie che vive leggendo, sono comunque parte del suo bagaglio culturale. E, in realtà, io non so nemmeno se abbia letto o meno il libro che sto prendendo a mio figlio, eppure ne aggiungo una seconda copia da lasciar cumulare al loro bottino. Solo così supero suo padre. Con un cenno della mano colpisco piano la parte da cui impugna la bacchetta affinché, almeno con le buone, lui possa ravvedersi e metterla giù.
    — Scusate il ritardo fingo dispiacere alla commessa — Spero non abbiate già chiuso il conto.
    Lascio scivolare 60 sterline sul bancone e sto buono sì, nell’attesa che quella si sbrighi ad incassarli.
    Poi me ne andrò. Tempo di pagare e me ne andrò senza far la ramanzina al ragazzo che accompagna Remì. Lo sto promettendo a me stesso.




     
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    Avevo detto che pensavo non ci fosse nessuno. Che mi ero guardato bene intorno per accertarmi che niente interrompesse "i miei modi". Anche se a Remi non piace troppo quando lo faccio, mi perdona perché so spiegarli che è a fin di bene. Ma non lo ricatto mai. Mio figlio non lo ricatto, non gli dico che se non facciamo così e qualcuno mi becca, lui torna dritto in una casa famiglia ed io perdo il diritto di averlo con me, nel migliore dei casi. Nel peggio io-... non voglio pensarci. Non posso permettermi errori ma non posso neanche strisciare nel fango per mettergli nel piatto qualcosa che non sia una mela di merda o un arancia. Un ragazzino ha bisogno di tante cose per vivere ed io voglio dargliele tutte. Finché avrò vita.
    Ma - appunto - non sono stato attento come credevo: mi è sfuggito un uomo, e non uno qualunque. Me ne accorgo quando il manico della bacchetta è quasi del tutto fuori dalla mia schiena, e la voce dell'uomo ci blocca.
    Chiama Remì e d'istinto io mi volto, come fa mio figlio. Mi volto e guardo l'estraneo stringendo la spalla di Remì perché sia il segnale di restarmi molto più vicino.
    Non è qualcuno di cui posso fidarmi, e lo capisco troppo tardi che cazzo vuole fare.
    Il suo solo avvicinarsi mi allarma, tende i miei nervi e taglia il respiro, ma non muovo un cazzo di muscolo perché mi ha già incastrato. Non posso negare, perché non ho soldi per pagare e mi ha già fatto capire che la bacchetta l'ha vista. Che sa che cazzo è, e questo è ancora peggio. Un mago, quante cazzo di probabilità c'erano che girasse qui adesso, ed è pure un moralista del cazzo. Se me l'avesse lasciata obliviare avrebbe portato a casa il suo libro a zero sterline.
    E invece no, perché non posso infrangere lo statuto con un testimone davanti. E, a giudicare dalla sua stazza, raggiungergli le tempie senza che se ne accorga è matematicamente impossibile.
    Bene. Cristo, bene un cazzo.

    E so che libro è, Remì ne ha già una copia, diversa, ma so che gli piacerebbe anche quella. Lo vedo che con la coda dell'occhio, seppur nel suo sospetto, guarda quest'uomo con interesse e quel libro con fame.
    Ma sia io che lui stiamo in silenzio, seppure a me parte un cazzo di ringhio in gola. Lascio la presa sulla bacchetta e riporto anche la seconda mano sulle spalle di Remì.
    La donna è ovviamente estasiata di ricevere i suoi sessanta bigliettoni senza emissione di fiato.
    A me la carità fa girare il cazzo, soprattutto se è rivolta a noi, e Dio se ho un "me la cavo benissimo da solo" fermo in gola, come legge che scivola fino a gonfiare il petto.
    Aspetto solo che la stronza muova il culo a farci il conto.
    Mentre io penso solo a come cazzo fare a non farmi denunciare. Ed è allora che i miei occhi cercano il suo profilo. I battiti accelerano fastidiosamente, e sono sicuro che sia solo rabbia la mia, quella in cui nasci e che non ti puoi strappare via di dosso.
    Rabbia quando qualcuno non mi permette di agire come vorrei.
    Rabbia quando sono un topo in trappola, che non può scamparla con il bene comune se non assecondando il volere degli altri.
    È per questo che non sono bravo a fare la puttana nei vicoli, io non riesco a venderlo il mio corpo per vivere, ed allora faccio solo quello che mi riesce bene.
    Come adesso mi riesce bene guardare il nostro mecenate con sospetto, con un ringhio che già mi mette con le spalle al muro, come ha fatto questo sconosciuto in due parole.

    — Chiunque cazzo tu sia, devi stare fuori dalla testa di mio figlio. Perché li conosco gli stronzi come te, e no, non so dirti grazie per aver fatto qualcosa che avrei benissimo fatto da solo. Spingo questo ringhio appena usciamo dalla libreria. E' solo un punto che devo precisare perché poi riprenderò la mia via. — Non ci serviva il tuo aiuto. Mento, i muscoli si tendono, lo guardo.




     
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    Io non sono il poliziotto cattivo. Lo sa bene Eriko, se lo tiene bene a mente Raiden. Ma a volte pecco di entusiasmo. Credo sia una questione di deformazione professionale. Quella degli ultimi anni, che ci vede impilare scartoffie su qui qualche stronzo ha messo giù domande altrettanto di merda. Io lo chiamo speed date, perché anche se questo non è stato ben regolamentato, comunque ogni interrogatorio necessita del suo giusto minutaggio. E in quei cazzo di minuti interminabili devi fare entrare tutto il pacchetto: una bella presenza, giocare di persuasione e trovare una posizione comoda su una sedia del cazzo. Con la penna magica che scrive cose per conto suo e allora tu devi tenerla ben stretta per le piume se non vuoi che appunti proprio tutto tutto. Va peggio quando puntano su di te perché sanno di che pasta sei fatto. E seppur io sia rimasto scottato da diverse cose, poi sono quello che la mente la sa scavare bene. Sono il gelataio del cazzo di ogni ricordo e presto, probabilmente, qualcuno sin renderà ben conto di come cerco di fotterli un po' tutti. Che la situazione è sempre la stessa: lo è con Eriko quando, a rotazione, riesco ad occuparmi io di lei. Allora le sorrido, siedo poggiando le braccia allo schienale della sedia e le chiedo com'è che è andata la sua giornata. Dovrei chiederle cosa ne sa di Raiden e di Hiro. Cos'altro potrebbe ricordare dopo giorni passati a farle le stesse domande sino allo sfinimento, poi però la situazione cambia, allora lascio che sia lei a far le domande a me. Le lascio chiedere tutto ciò che ha intenzione di sapere: divento io quello che sta dall'altra parte del tavolo. E lo sappiamo entrambi che ogni informazione va centellinata per bene. Per questo poi mi congedo chiedendole una verità. Una soltanto, per poi passare alla prossima tenda.

    Adesso potrei muovermi nel medesimo modo. Partire da un come ti chiami per poi passare ad un cosa ci facevi qui? e perché stavi impugnando la bacchetta dinanzi ad una babbana in un posto che pullula di babbani? e giusto per una questione di proforma. Solo per non ritrovarmi a leggergli la mente e così ritrovarmi a giocare da solo.
    Ma non so se, in effetti, questa cosa possa stuzzicarmi o meno. So solo che li supero prima di uscire e che un occhiolino a Remì glielo concedo. Non sono cattivo, sono anche io un padre e quel libro pop up del Piccolo Principe è davvero suo.
    Lo è anche se non voglio alcun ringraziamento, non me lo aspetto. Non come invece sa restarmi in mente l'espressione di suo padre. So che mi fermerà non appena varcheremo la soglia di questa libreria. Una parte di me lo desidera ardentemente. Perché sì, io torchio, anche se non lo faccio con cattiveria. Io faccio domande, perché mi impongono di farle. Poi però non ascolto davvero la risposta, non quando posso ricavarla da me. Per questo mi lascio sfuggire un sorriso sincero. Il libro per Nicky lo metto nella tasca interna della giacca, mi serve per far vedere al padre del bambino che una bacchetta la ho anche io. Anche se non serve.

    — Aveva apprezzato la vita da un lato più feroce; aveva combattuto, aveva affondato i denti nella carne del nemico ed era sopravvissuto. E tutto questo gli aveva dato un portamento più baldanzoso, con un tocco di sfida per lui nuovo. Zanna Bianca, il sorriso mi si distende rilassato e sornione sul viso. Sono libri importanti questi. Libri che un bambino della sua età magari non dovrebbero leggere senza essere fiancheggiati da un adulto. Mi cullo nel piacere di sapere Remì stretto al petto di suo padre. Non conosco questo uomo, ma in lui ho l'impressione di rivedere l'amore per il piccolo. Lo stesso amore che mantiene in vita me. Quello per cui mi ritrovo a galleggiare, a vivere per il mio Nicholas. — È un libro meraviglioso, terribilmente importante. Non considerarlo come un aiuto, più come un piacere sorrido ancora, dolcemente, mentre con una mano frugo nella tasca dei jeans alla ricerca del pacchetto di Marlboro. Porto una sigaretta alle labbra, l'accendo. Non mi preoccupo di fumare vicino ad un bambino: suo padre puzza a sua volta di fumo. — Difendo semplicemente l'interesse per la lettura e la ricerca della conoscenza, anche se questo non giustifica la violazione dello statuto di segretezza. Come ti chiami, Papà? Papà è come lo chiama Remì, ovviamente, per questo ancora mi sfugge il suo nome.




     
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    Ho detto che leggere non è "il mio", ma Zanna Bianca lo avevo divorato così tante volte da saperlo a memoria. Mi ci sentivo anche io, quel lupo che nel terreno di merda trova la sua casa, che è costretto a combattere per imparare che niente può davvero piegarlo, e che se è - beh si tratta solo di un cazzo di momento, un periodo che poi si risolleva perché, perché se nasci lupo non puoi essere altro, neanche quando di qualcuno ti fidi al punto da lasciarti guidare fuori dalla merda.
    Io forse quel qualcuno non l'ho mai avuto, non ho mai potuto far altro che lanciarmi nei miei combattimenti di merda e passare solo da un miglior offerente all'altro, finché non sono cresciuto. Ora le cazzo di zampe nella neve le metto io per primo, e così sollevo un ringhio avvicinandomi all'uomo che ci ha fermati. Non ho mai paura di mostrare i denti, né di far vedere quanto cazzo di gelo può esserci nel mio sguardo. Gli ho detto una cosa, voglio che sia chiara, perché se non è un legilimens è uno che mi segue, che si è già fatto i cazzi miei per aver sentito come chiamo mio figlio. In ogni caso non lo voglio ad un palmo dal mio naso, eppure gli vado sotto lasciandomi Remì dietro le spalle di un passo o due. Al sicuro, che se devo gli faccio da scudo anche solo respirando. Anche le mie zanne son bianche.
    — Era una malinconia prodotta dalla fame, crudele come le sue zanne e spietata come il gelo.
    Che se è una cazzo di gara di citazioni, allora la mia è una minaccia, una che non distendo restando esattamente dove ho deciso di essere. Anche se questo avvicinarmi ha fatto impazzire il cuore, non so che cazzo sia, è come una bussola che ha smesso di puntare a Nord ed invece si abbatte impazzita contro il vetro.
    Ma non è paura, perché la paura la conosco, so come aggredirla, come trascinarla nell'ombra con me e distruggerla sbranandola morso dopo modo. E questo stronzo lo guardo comunque, ché io odio quando si impongono così, quando credono che ci si possa avvicinare a me e Remì entrando con una cazzo di donazione. Noi non abbiamo bisogno di nessuno, ed anche se questo non è vero, io ci credo fermamente.
    E combatto anche adesso, con la sensazione di merda di volerlo spingere in un vicolo buio e giocare con quanto mi dice il cervello. I miei fottuti ormoni hanno un problema adesso, ce l'hanno se gli guardo il viso in questo modo e quello che immagino è solo una mano che gli si stringe in gola, ma non minacciosa come dovrebbe.
    Ma so che non può entrarmi nella testa, non è quello che sta facendo, quindi cosa cazzo è?

    —Non mi frega un cazzo di cosa ti fa piacere. Ringhio con più durezza, e le zanne le mostro sul serio, sì finché non mi si blocca il discorso in gola. L'aria si incastra nei polmoni e smette di uscire, e credo che si veda dal sospetto che mi anima lo sguardo. Non so che cazzo me lo dica, ma il modo in cui tira in ballo lo statuto adesso non mi piace. E' un discorso da Antimago di merda, e forse io sono uno stronzo ad essergli arrivato così vicino. Ma non posso neanche arretrare ora.
    — Non ho violato un cazzo, quella donna non ha visto niente, e non hai visto niente tu. Che non so quanto sia convincente, ma quando mi chiama "Papà" ho un cazzo di tremolio in petto.
    Io sono troppo invischiato in tante cose, e per questo la mia mente ha un fottuto sigillo e non basta guardarmi perché si pieghi, io ho cose da nascondere e adesso non possono uscire tutte assieme.
    Remì me lo chiamo vicino - mentre ancora guardo l'uomo - solo per allungare una mano dietro di me affinché la prenda lui. — Ringrazia il signore, ti ha regalato un bel libro e noi dobbiamo andare adesso. E non stacco per un secondo gli occhi dal nostro cazzo di benefattore.


     
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    Mi conosco quanto basta per sapere che quel che cerco io, in realtà, è una via di fuga travestita da buone intenzioni. Una corsa all'ultimo respiro avvalorata dalla difesa costante di una giustizia traballante. Che con lei, in effetti, mi rendo conto di vacillare anche io. Persino quando metto un piede dopo l'altro con la sicurezza di chi sa tenersi su. Di chi non le piega mai le ginocchia dinanzi a qualcuno.
    So, quindi, di aggrapparmi a qualche stupido cavillo solo con l'intento di stringermi alla vita di questo ragazzino piuttosto che ritrovarmi a pensare a tutto il resto. Perché c'è una parte di me che gongola nel fare il proprio lavoro mentre l'altra, beh, è solo figlia di una disperazione che non può trovare appiglio nella cocaina. Allora si addormenta, è disattenta, in perenne astinenza. E io non conosco altri modi per placarla. Posso solo chiudere l'occhio interiore e far finta di nulla o concentrarmi su altro. Trovare nuovi interessi, un po' come sto facendo adesso. Tanto che mi sta bene, sì, sentir il padre di Remì ringhiarmi contro come se fossimo due bestie pronte a sbranarci. Io posso divorarlo, ma non è esattamente questo il bisogno che sa farsi impellente adesso.
    A me non porta niente rovinare la vita agli altri, allo stesso tempo, però, so sentirlo quel prurito che sa portarmi al cospetto della legge. E io voglio che la conosca anche lui, che ci si inginocchi come non faccio più da tempo. Che la veneri e che ringrazi me, ecco, per avergli ricordato come cazzo funzionano le cose al mondo. O per avergli dato una speranza, più che altro. Una speranza che sa scostarsi dalla merda incoerente in cui siamo bellamente sommersi. E io non so se ho ancora la voglia di far il sommozzatore per un altro paio d'anni. Me ne andrei in pensione, probabilmente, se la mia testa non entrasse in confusione al minimo momento di pace e serenità. Se non ho la cocaina ad inibirmi i pensieri, allora devo stancarmi affinché anche i pensieri possano sentirsi in altrettanto modo distrutti. Faticare, soffrire, affinché non ci sia spazio per la noia

    — Già, tecnicamente non hai violato un cazzo perché uno stronzo è venuto ad evitartelo non posso dargli contro. D'altronde la verità non deve necessariamente essere soggettiva. Anzi. Io patteggio per l'oggettività. Per quella natura che è nuda e cruda. Che è viva e che risplende mostrandosi per ciò che è. Non come un diamante artificioso dalle molteplici facce. Non come un dado da gioco. Non sono il tipo della casualità. Io esigo una coerenza ed una sincerità che sia unica per tutti.

    — Ma come ogni curiosità umana vuole, mi chiedo cosa sarebbe successo se fossi rimasto al reparto dei libri per bambini. Quale maledizione senza perdono avresti usato su di lei. L'avresti obliviata? L'ultima parola mi giunge in gola senza preavviso. Come se qualcosa in tutti questi pensieri me l'avesse in un qualche modo suggerito. Oso pronunciarla anche se non sono sicuro della sua fonte, giusto per vedere che tipo di reazione fisica sa innescare nel ragazzo. Basterebbe il minimo contorcersi dei connotati del viso per metterlo in trappola. E non importa, insomma, di non aver il diritto, almeno ora, di arrestarlo. A me importa, semplicemente, di aver ragione. Di averne la conferma, ecco.

    — Merlino caro, spero non schiantata. Attaccare una vecchia babbana sprovvista di bacchetta è... da bastardi, certo. Non che la cosa riesca in un qualche modo a colpirmi direttamente: non empatizzo più con certi concetti, anche se su un punto, comunque, finisco per soffermarmici. Penso a Zanna Bianca e poi ad una frase stupida. Cane mangia cane. Non so cosa cazzo voglia dire adesso, ma ci penso e mi dico che, evidentemente, per ritrovarsi a compiere un atto tanto meschino, Papà, deve aver avuto i suoi motivi. E anche se sono il primo a voler di tutto per mio figlio, il mio mettermi nei suoi panni inizia e finisce qui.
    Alzo una mano in cenno di saluto a Remì. Non voglio spaventarlo né mostrarmi ostile nei suoi confronti. Io non ce l'ho nemmeno con suo padre, a dirla tutta, anche se gesta del genere non mi piacciono. Così come non mi piace il suo carattere fumantino. Che stia nascondendo qualcosa è palese: nessuno morde per niente.

    — Tra tre giorni al Cherry Pie, giusto? azzardo di nuovo. Questo l'ho letto di nuovo da Remì. Ma non posso farci niente: che se ne dica, i suoi pensieri sono interessanti, quasi divertenti, per un certo verso. Mi avvio verso l'uomo e gli porgo la mano libera. — Non credevo di essere davanti al leader dei Morgana. È un piacere conoscerti, Joshua Çevik non ho mai sentito i Morgana, so, per una questione di informazioni raccolte in giro per altri motivi diversi da questo, che suonano una musica che a me nemmeno interessa. Ma incontrare un artista è sempre una bella cosa. Mi fa emozionare come fossi io il bambino in questione, adesso.
    Sto pensando se presentarmi o meno in qualità di Auror. Non riesco a capire se il mio bisogno è utile e sincero o se l'unica cosa che mi viene da fare adesso è il calzone. Quello che mette su una gara a chi ce l'ha più duro. — Io sono Riley. Riley Cunningham è un modo gentile di presentarsi. Un modo gentile di passargli un'informazione. Che ci faccia un po' il cazzo che gli pare, tanto sta lì. Io non sono un segreto. Le cose che faccio, beh, dovrebbero esserlo, ma questo non fa di me l'uomo del mistero. Sarebbe facile risalire al mio fascicolo e, in quel caso, non gli farei nemmeno una colpa. A me starebbe bene.
    Comunque questo non mi fermerà di andare al Cherry Pie per sentire un po' di musica a - capire.
    Capire, sì, cos'è che ha spinto un personaggio del genere a tirar fuori la bacchetta in un posto pieno di babbani.




     
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    Mettermi all'angolo non è mai la risposta giusta, non è neanche una cosa da fare se sei un fottuto sconosciuto. Ancora meno se la tua è una ricerca che scava nella mente di mio figlio. Che Remì lo tengo più al sicuro adesso, perché ciò che pensa non può essere usato contro di me. E non è colpa sua, lo guarderei se non fosse che quest'uomo non intendo perderlo di vista neanche per un istante.
    E sono un cane, lo sono sempre stato, non smetterò di esserlo adesso solo perché ho molto di più da perdere. Ho imparato a chiuderla la mia mente, affinché nessun fottuto stronzo avesse intenzione di entrarci. Nemmeno un moralista di merda che finisce per farmi la carità. Ha poco da mascherarla come "protezione dello statuto", io non so credergli fino in fondo. Ed è il problema di chi mi sembra sincero: io ringhio.
    Io non mi sposto da dove sono, e se posso faccio ancora mezzo passo avanti, perché è troppo facile scavare in mio figlio. Ho bisogno che veda che sono io quello in prima linea.
    Anche se, da così vicino ho un fottuto problema. Il suo profumo si pianta in gola come se lo stessi respirando direttamente io. I miei nervi non sono proprio in forma questi giorni, ma cazzo-
    Irrigidisco la mandibola, stringo i denti, se fossi un animale avrei il pelo irto lungo la schiena e le labbra si sarebbero già sollevare per mostrare i canini.

    — Il cazzo di processo alle intenzioni non funzio- na. Non funziona, mh? In realtà io non lo so che cazzo funziona. Della legge mi sono interessato solo quel tanto che bastava a capire in che punti ciechi nascondermi, e vivo così da sempre cazzo. E lui lo sa. Non so come cazzo faccio a dirlo ma lo sa, sa che cosa avrei fatto se mi avesse lasciato andare.
    Non sono una merda tale da schiantare una vecchia solo per derubarla, io non sono un ladro. Io rendo solo ciechi davanti all'evidenza sbagliata, mi prendo cura di me e di mio figlio così, da sempre.
    Non vado a scavare nel passato, non vado a chiedermi se siano stati questi i veri insegnamenti di mio padre, ma d'altronde a spendere per rimedi che non hanno mai funzionato è stato sempre lui. Io ho-... io ho fatto altro, forse qualcosa di peggiore, ma di cui ora non so pentirmi.
    Eppure davanti a questo sconosciuto ho la sensazione che il suo indagare non sia per niente casuale, e quando parla dell'Oblio, il mio sguardo cambia.
    Se prima ero in cane pronto a mordere, ora sento che abbaierei soltanto. Qualunque cazzo di cosa abbia capito, io non gliela posso confermare. Sono un obliviatore ufficiale, è vero, il ministero lo sa che cazzo faccio... non sa tutto quello che però io non registro. Non sa delle persone che vengono da me ad implorarmi di cancellare il ricordo di un crimine, o qualunque cosa non vogliono che i legilimens leggano. Tu, Riley, sei un segugio, non è così?

    — Non schianto le persone davanti a mio figlio che forse è una delle poche cose vero, ma so che per mentire bisogna sempre lasciare un fondo di verità. Ed è ciò che faccio. — E ti ho già detto che devi stare fuori dalla sua testa questo invece lo sibilo con il sottofondo di una minaccia che non lascia spazio neanche alla sua gentilezza. Ché così sa giù troppo di me, è un cazzo di buco nella mia sicurezza. Remì non sa chiudere la mente e non è colpa sua, ma quando sento il mio nome chiudo gli occhi mezzo secondo: palesemente colpito in pieno, esposto.
    Faccio un passo indietro, e lo guardo meglio ora che forse senza questi battiti a cazzo di cane, posso capire. Ho le dita gelide, ma non posso davvero aver paura per questo. Vero? Cazzo.
    Deglutisco piano, me lo studio anche se il suo nome lo conosco: una grazia per una grazia, a quanto pare. Non ho pensato a questo, non ho pensato che - anche se la mia mente è schermata - si possono trovare informazioni su di me negli altri. E Remì è innocente, almeno sono bravo abbastanza da non esporlo volutamente a tutto ciò che di male faccio. Tre giorni, al Cherry Pie.


    — Fai un po' come cazzo di pare, Riley soffio, come un fottuto gatto randagio, perché non mi resta che quello, la sensazione di aver un punto scoperto in piena luce, ma mostrarlo così è da coglioni. Dio se Aslan ha ragione. — Sai già dove sarò, visto che ci sei, ordinami anche da bere



     
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    Una volta la legilimanzia mi piaceva. Mi stuzzicava. Sapeva dare un senso a quei momenti di vuotezza che non potevo riempire con la musica. Mi dava un certo tono e magari, in effetti, è stato proprio grazie a quello che i miei superiori hanno ricercato in me qualcuno di cui fidarsi. Per quella, forse, ho lavorato. Non tanto per gli studi da Auror, quanto perché, volendo, sapevo torchiare gli altri con gentilezza. Che l'intrusione mentale è una carezza se si sa come farla. Per questo Remì sta bene: perché non ha sentito nulla se non una pacca sulla spalla e c'è una parte di me che sa bene di non voler spingere troppo il dito nella piaga. Non voglio che per una goliardia tutta mia Joshua Çevik possa rimproverarlo una volta rientrato in casa. Se potessi prevederlo probabilmente saprei bene come muovermi, ma non sono un veggente. Sono solo uno stronzo annoiato.
    E la legilimanzia mi annoia più di tutto il resto. Perché anche se i primi anni è stato divertente, adesso non è altro che il mezzo con il quale tiro avanti: non mi fa conoscere davvero la gente. Mi permette semplicemente di passar i loro pensieri in rassegna come se fossi dinanzi al catalogo di Netflix. Mi annichilisce, ecco, tanto da aver bisogno di qualche secondo in più per leggere i comportamenti di Joshua senza ricorrere al suo utilizzo. I suoi muscoli rigidi io li sento, così come mi sembra di percepire l'odore del suo sudore. O forse la mia è solo una sensazione. Quelle cose di cui mi convinco perché so com'è che dovrebbe funzionare il corpo umano in certe circostanze. E io so di averlo messo al muro anche se lui ha il coraggio di trovarci della comodità.
    Per questo mi lascio sfuggire un sorriso mentre parla, perché ci sto provando, davvero a divertirmi un po', anche se poi l'attenzione scema di nuovo su suo figlio e allora mi chiedo quanto sia importante il suo intento se, ad ogni modo, si sarebbe ritrovato a fare il tutto solo per lui. E anche io, sì, farei il possibile per Nicholas. Lo farei, se Esmeralda ed io fossimo così poveri da non potergli permettere nulla. E questi due, da quel che posso provare a leggere, sanno darmi l'impressione di non avere niente. Non hanno nulla, sì, ma Remì ama così tanto suo padre che il cuore gonfio di felicità sa farlo sentire anche a me. Quasi mi fa male il petto.
    E ci provo, sì, a scindere il lavoro dal piacere. Ci provo a non scandagliare l'archivio della mia mente alla ricerca di un suo fascicolo. Secondo me, al Ministero si può trovare qualcosa sul suo conto. Joshua Çevik ho tre giorni pieni per cercare di approfondire la questione.

    — Vada per del buon whisky, allora sorrido. In realtà non mi dispiace andarlo a sentire. La musica è sempre musica e per quanto a me possa non piacere ciò che produce, non è detto che il divertimento non mi sia assicurato. Magari chiederò ad Esmeralda di venire con me, anche se dubito che il Cherry Pie sia quel tipo di locale che potrebbe piacerle.

    — Ciao ciao Remì scuoto di nuovo una mano verso di lui — Leggi tanto, mi raccomando, che venerdì chiedo a papà dov'è che siete arrivati. Joshua gli legge i libri, Merlino santo come vorrei sedermi in poltrona con Nicholas adesso. Quanto cazzo mi manca quel marmocchio.

    — A venerdì allora, bello. Non lo so, mi usciva così con Spadino.





     
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