Well alright, I'm bad, but then you're no prize either

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    Ministero della Magia
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    « No, ascolta, questo cesto sistemalo così, che altrimenti quel coglione di Douglas si mette a fare storie, e poi chi lo sente a quello. » Capitava di rado che Nate si presentasse alla serra molto prima dell'orario lavorativo. Era sempre stato fiscale nelle sue visite: il lunedì mattina alle nove in punto, otto e cinquanta nei giorni migliori, il venerdì pomeriggio alle diciotto, e perfino nella sua ispezione a sorpresa sapeva essere molto prevedibile - non si presentava mai, per dire, alle undici e trentacinque o alle quattordici e diciassette minuti. Gli orari che sceglieva erano sempre puliti, le dieci e mezza, l'una in punto, le diciassette. Giungere alla serra alle sei del mattino di un martedì non era una cosa preventivata nemmeno da lui, e di certo non lo sarebbe stata dai lavoratori della serra. Era stata una decisione di pancia, una di quelle che Nate non prendeva mai, dettata principalmente da una serie di sospetti che nei giorni precedenti aveva collezionato. Non avrebbe saputo attribuire ad un evento specifico quella sensazione, quanto più ad una serie di occhiate, bisbigli e movimenti circospetti che gli sembrava di aver intercettato. Poi c'era stato quel pacchetto di erba che era sparito dal suo cassetto, la sera prima: la faccenda l'aveva irritato e non poco, perché se per lui era semplice passare sopra ad una sostanza illegale come l'erballegra, non lo era altrettanto quando certi individui avevano l'ardire di prendersi gioco di lui con tanta nonchalance, sottraendo un oggetto confiscato dal suo cassetto. Una cosa inaudita. E così quella mattina aveva scelto di agire in maniera inaspettata, non tanto perché desiderasse cogliere qualcuno con le mani nel sacco - più perché non sopportava l'idea di essere preso per deficiente. Fu sufficientemente cauto da passare inosservato al gruppo di ragazzi che chiacchieravano nell'area antistante alla serra, utilizzando un'entrata secondaria. Una volta dentro, stava per avvicinarsi al corridoio principale della serra, quando udì il rumore di una serratura. Fu insolitamente repentino nel fare un passo indietro e nascondersi tra due alti scaffali, riuscendo però a mantenere una visione chiara della fonte del rumore. Una ragazza dai capelli scuri, il cui volto non gli era noto - era quasi del tutto certo non lavorasse nella serra - richiuse alle proprie spalle la porta dello sgabuzzino delle scope, prima di allontanarsi verso l'uscita a passo veloce. Nate attese qualche istante prima di uscire allo scoperto. Che deficiente, pensava, mentre con un paio di falcate furiose raggiungeva lo sgabuzzino, per spalancarne la porta, entrare e richiudersela alle proprie spalle. Che razza di deficiente, ripeteva, mentre con risoluzione puntava la bacchetta verso il nulla che aveva di fronte. Lo stanzino, piccolo e stretto, era quasi del tutto vuoto: di fronte a sé, solo un mucchio di scope impolverate e accatastate in un angolo. Tra tutte le persone, come aveva potuto proprio lui dimenticarsi che i segreti più importanti si nascondono sempre dietro uno stanzino delle scope? « Revelio. »

    Galathéa Durand di solito era la prima a giungere in serra. Quella mattina, al suo arrivo avrebbe trovato un piccolo bigliettino sulla propria postazione, con poche righe scritte in grafia elegante che la invitavano a raggiungere l'ispettore quanto prima. Una volta giunta al capanno, l'avrebbe trovato vuoto. La scrivania di Nate era ben ordinata, pochi fogli in pila e nessuno ad attendere la ragazza dall'altra parte. Galathéa avrebbe però subito notato la novità che campeggiava in quello spazio, appena qualche metro davanti alla stessa scrivania. Un baule in legno, piccolo e un poco impolverato, l'avrebbe attesa al centro della stanza, sfidandola, quasi. Era un invito ad entrare - la Durand, che quel piccolo baule lo conosceva bene, l'avrebbe capito.
    Quando l'aveva trovato, dapprima Nate aveva pensato si trattasse di un modo ingegnoso per nascondere qualche scorta in più di pozioni illegali, erballegra e vari altri materiali non concessi dal Ministero. Era stato con sua immensa seccatura, eppure anche con una punta di ammirazione, che aveva rivelato, all'interno di quel pezzo di mobilio apparentemente insignificante, un incantesimo d'estensione invisibile di fattura notevole. Quest'ultimo nascondeva una seconda serra, sensibilmente più piccola della prima, ma non per questo meno organizzata. Al contrario, in quello spazio proibito Nate aveva trovato perfino più ordine di quanto non ce ne fosse in superficie, cosa che - per ovvie ragioni - non aveva che intensificato la sua collera. Aveva esaminato i contenuti della serra per una buona mezz'ora, passando in rassegna i vari ortaggi nelle aree dedicate e le piccole aiuole con le erbe, fino a quando non aveva deciso di accomodarsi su uno degli sgabelli intorno al grande tavolo da lavoro centrale, che ospitava qualche cestino ricolmo di frutta e verdura. Attese lì, paziente, fino a quando non vide apparire dinnanzi a lui il principio di tutta la sua noia.
    Galathéa Durand si avvicinò al tavolo, ed il giovane Douglas non si preoccupò di far caso nemmeno all'atteggiamento di lei al suo arrivo, per verificare se apparisse spavalda o compunta in volto. Le iridi chiare erano fisse in un punto imprecisato lontano da sé, in fondo, ai margini di quel piccolo spazio maledetto. Un gomito puntellato sul tavolo, il mento fermo sul palmo aperto della mano, per qualche secondo fu come se non la vedesse - una parte di lui non voleva vederla. Con i polpastrelli della mano libera picchiettò tre volte sulla superficie di legno, come se suonasse un pianoforte, prima di rivolgere alla ragazza un breve cenno del capo, invitandola ad accomodarsi di fronte a lui, dall'altro capo del tavolo da lavoro, il quale, essendo piuttosto ampio, avrebbe concesso loro una distanza l'uno dall'altro di più di un paio di metri. Il che era ottimale. Solo allora puntò gli occhi in quelli scuri di lei, con un'apparente serenità che forse lasciava trasparire qualcos'altro. Inarcò appena un sopracciglio. Avrebbe avuto mille cose da dire, ma sapeva che era uno di quei momenti in cui scegliere il silenzio. « Ti ascolto. »
     
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    9 gennaio

    Alle sei e un quarto di martedì mattina Galathéa arrivò alla serra insolitamente tranquilla, ancora leggermente intorpidita dal sonno, che era riuscito a raggiungerla soltanto dopo le due, quando i treni che passavano vicino casa sua terminavano la corsa notturna, e le concedevano qualche ora di riposo. Alle cinque e trentadue ricominciavano quelle del mattino, e una volta sveglia pensare di provare a riaddormentarsi costituiva un peso maggiore dell'idea di alzarsi e arrendersi. Prima o poi ci avrebbe fatto l'abitudine, a quei rumori, e avrebbero smesso di disturbarla a tal punto, ma finché non fosse successo Théa si limitava pazientemente ad aspettare. Di tanto in tanto le veniva in mente di chiedere a Ronnie se ci fosse una qualche pozione capace di aiutarla ad addormentarsi, ma puntualmente poi dimenticava di chiederglielo. Gli effetti che le poche ore di sonno avevano sortito sul suo corpo erano comunque meno significativi di quelli che avevano generato sulla sua mente. Si sentiva sempre poco lucida, poco presente, e ogni movimento aveva la sensazione che dovesse apparire rallentato, come fosse ricoperta di uno strato denso e pesante di melassa, e quando sollevava un braccio avrebbe giurato di farlo in slow motion, e pure quando parlava. Basta solo farci l'abitudine. Non si era mai trovata a fare quegli orari, in vita sua; per quanto avesse convissuto con l'insonnia già da prima di trovarsi ad Iron Garden, c'era qualcosa di specificamente estenuante nell'avere sottratto anche il riposo dopo ore di lavori forzati, stancanti sul corpo quanto sulla mente. Era l'unico momento in cui nessuno voleva niente da lei, e non aveva tregua neppure allora.
    Con quei movimenti lenti e, in qualche modo, rassicuranti, le dita di Théa esploravano il contenuto della sua borsa alla ricerca delle chiavi per aprire la porta sul retro della serra, dalla quale entrava tipicamente. Quando le ebbe trovate, sbadigliando pigramente ne infilò una nella serratura, ma quando la ruotò per farla scattare realizzò che fosse già stata aperta. Sarà stata Ronnie. Sospirando, varcò la soglia della porta di vetro opaco, richiudendola attentamente dietro di sé, e cominciò ad accendere le luci, sollevando la leva dell'interruttore principale, di tanto in tanto sfregandosi le mani per provare a scaldarle. Stamattina era di turno? Forse avrà fatto la notte. Con la solita calma, mise a fare il caffè, nello stanzino antecedente all'ingresso vero e proprio della serra, laddove avevano sistemato alcuni scaffali riempiti di ampolle vuote o piene di pozioni da ultimare, confezioni di tè o di caffè in polvere, e tazze in ceramica grezza. Una sorta di break room, così l'aveva ideata, dove passava la maggior parte del suo tempo seduta al tavolo accostato alla vetrata, altrettanto affollato di vasi, barattoli, tazze usate e qualche scartoffia. Sapeva che non tutto fosse in ordine, in quel posto – sia letteralmente che metaforicamente. Sistemò il filtro sulla caraffa, vi dispose qualche cucchiaio di caffè in polvere, e vi versò sopra dell'acqua bollente, il pollice che al solito modo accarezzava il ditale mentre nuvolette di vapore sempre più dense si sollevavano dalla brocca. Si poggiò al bancone, le braccia conserte, e mentre aspettava che il liquido denso e scuro si accumulasse nel recipiente, si passò una mano sulla fronte. Tutto sommato, poteva ritenersi soddisfatta del lavoro svolto fino a quel punto. Con i colleghi le cose procedevano bene, e si lavorava in modo efficiente; erano finiti persino i lavori di restauro, cosicché la serra era ufficialmente del tutto attiva. Esisteva la piccola spia lampeggiante della figura del Ministero, che di tanto in tanto le sfarfallava davanti agli occhi, ma si era detta che avrebbe attraversato quel ponte quando ci si sarebbe trovata davanti. Vivere con quella spada di Damocle sulla testa non serviva a nessuno, men che meno a lei, e se per ciò che stavano facendo avrebbe dovuto pagare allora l'avrebbe fatto. C'erano momenti in cui la questione le appariva così semplice e da poco che si domandava perché Miles e Joe se ne preoccupassero tanto: in ogni caso la colpa sarebbe caduta esclusivamente su di lei, o avrebbe fatto in modo che così fosse, per cui se proprio qualcuno doveva vivere in paranoia quella persona avrebbe dovuto essere Galathéa – ma non avrebbe ceduto alla tentazione di disperare. E non cedette nemmeno quando, assorta in quei pensieri, fece vagare lo sguardo sulla propria scrivania, e vi notò un messaggio, scritto a mano, ripiegato su se stesso. Non si affrettò. Versò il caffè nella sua tazza preferita, ne prese un piccolo sorso, lo assaporò lentamente. Solo dopo il terzo sorso appuntò un messaggio per Mia o per chiunque sarebbe arrivato alla serra dopo di lei e fosse venuto a servirsi una tazza di caffè, senza riuscire a trovare né lei né l'ispettore. Torno subito – devo sbrigare una faccenda giù. “Giù” era il modo in cui si riferivano alla seconda serra. Solo a quel punto si diresse verso il capanno.
    Se avesse dovuto dirlo con una parola sola, Galathéa avrebbe scelto sollievo. Un'emozione razionalmente insensata, e pertanto una che normalmente avrebbe reputato stupida, alla palese dichiarazione che il segreto che avevano cercato di tenere nascosto per quanto più tempo possibile fosse stato scoperto; eppure quel giudizio sarebbe stato ingenuo, dettato dal fatto che in vita sua Théa non si era mai trovata a tenere un segreto del genere, per quanto spesso si fosse divertita a sfidare le regole, mai pretestuosamente, ma sempre guidata da una propria bussola morale, spesso divergente da quanto prescritto da sistemi sovraordinati. Non avrebbe potuto capirlo, prima, ma qui c'era molto di più, in ballo, di quanto non fosse sua abitudine. Stava in quella tensione, che lei poteva reggere ma che gli altri difficilmente riuscivano a gestire, e in quel senso di indefinita attesa che le cose inevitabilmente prendessero la peggiore piega possibile – perché era sempre stata una questione di quando, non di se, la parte più irritante e stancante dell'intera faccenda. Si concesse un unico sospiro, la tazza calda e confortante tra i palmi delle mani dalla quale dovette liberarsi, poggiandola sulla scrivania dell'ispettore – alla quale lui, però, evidentemente, non sedeva. La aspettava altrove, ci aveva tenuto a farglielo capire in quel modo subdolo e sfidante che aveva imparato ad associare alla persona di Nate, e lei avrebbe ottemperato a quell'invito silenzioso.
    Allungando una gamba nel baule, si aveva la sensazione di incontrare la superficie liscia di un gradino. Le era già capitato di incappare in incantesimi di estensione, ma tipicamente si era trattato di piccole borse o zaini resi appena più capienti; quello che Joe e Miles le avevano proposto, quando lei aveva pensato con loro alla possibilità di trovare un modo ingegnoso di nascondere eventuali scorte di cibo, andava oltre qualunque sua immaginazione. Aveva provato pura eccitazione, nel vedere quell'intero secondo vano crearsi all'interno del piccolo baule di legno. Entrarci era come vedere il mondo intero inclinarsi, cambiare il proprio asse e piegare la gravità per attraversare in linea retta uno spazio che avrebbe dovuto discendere verso il basso – non capiva come fosse possibile, e per questo le era piaciuto ancora di più. Mentre scendeva i gradini, si domandò se Ronnie fosse ancora lì dentro o se fosse rincasata; Nate doveva averla vista entrare o uscire quella mattina, era quella l'ipotesi più probabile. Uno come Nate Douglas in uno stanzino per le scope non avrebbe avuto alcun interesse ad entrarci – avevano sempre fatto affidamento su quel fatto certo, su quel dogma, per sentirsi più tranquilli. Doveva essersi insospettito.
    L'aveva sempre colpita, il modo in cui la stessa atmosfera potesse essere controllata, nel baule. L'aria era più leggera, rarefatta, e la luce del sole albeggiante colorava tutto di tinte rosate e azzurro pastello – tenui come il risveglio. Quello all'interno nel baule era un posto perfetto, da ogni punto di vista. Il fatto che adesso ci si trovasse l'ispettore del Ministero sembrava contaminarlo, sporcarlo. Sapeva che quello sarebbe stato un Eden destinato a decadere, e mentre calpestava la stradina sterrata maturò il pensiero che quella avrebbe potuto essere l'ultima volta che ci metteva piede, che il tempo per i nascondigli era terminato, e che le avrebbero portato via anche quell'ultima eco di illusoria libertà. Ne avrebbe trovata un'altra. Con le braccia incrociate al petto, avanzò nella sua direzione. Lo vide seduto al tavolo accanto alle scalette che conducevano al vivaio, di fronte ai campi irrigati e dolcemente rigogliosi. Tacque, riuscendo a provare soltanto tristezza per quella fine, nota e prevista, e sperò solo che non fosse portata troppo per le lunghe. Sei venuto a gongolare – altrimenti perché questo incontro? Che ti serve che ti dica? Rimasero in silenzio per qualche istante, scandito soltanto dal rumore dei polpastrelli di Nate sulla superficie legnosa. Nuovamente ubbidì, sedendosi di fronte a lui, la sedia di vimini intrecciata che appena scricchiolò sotto il suo peso. Che bel posto per cui macchiarsi di un crimine pensò mentre poggiava le mani sui braccioli e guardava l'ispettore. «Ti ascolto». Sentiva che forse avrebbe voluto che lo pregasse, che blaterasse scuse, forse chiedesse perdono, assoluzione. Che cercasse di fornire una spiegazione, come se non fosse già ovvia, guardandosi attorno. Stancamente, Théa chiuse le palpebre per qualche istante uno, due volte. «Non è già tutto chiaro?» La voce era stanca e in questo stava tutta la sua sincerità: non suonarono come parole taglienti, sarcastiche, ma disarmate, come a dire: cos'altro potrò mai dirti? «Dovevi scoprirlo, prima o poi.» Si strinse debolmente nelle spalle, schietta. Almeno erano durati fino a gennaio. Non avrebbe giocato al gatto e al topo – non stavolta. La questione era più grande di regole e trasgressioni, questo la trattenne; non era personale, non riguardava lei, l'esistenza di quella serra nascosta, così come non riguardava lui. Lei aveva assolto al suo ruolo costruendola – quello del trasgressore – e lui avrebbe assolto al suo sottraendoglielo e punendola. «Come funzionerà, ora?» La domanda era altrettanto pragmatica, mentre Théa lasciava ciondolare la testa, sorretta dal pugno chiuso, il gomito puntellato sul bracciolo della sedia. «Mi dovrai denunciare al Ministero, immagino, e poi si procederà con gli interrogatori?» Batté lievemente una mano candida e affusolata sul tavolo. «Non esiste modo per evitare che ciò accada, immagino» aggrottò la fronte, come riflettendo ad alta voce, lo sguardo puntato oltre la figura che aveva di fronte. «Fai ciò che devi e chiudiamola qui». Si strinse nuovamente nelle spalle. Mai avrebbe pregato, supplicato; avrebbe preso quanto le spettava e l'avrebbe incassato. Qualunque prezzo o tortura lui intendesse infliggerle, per quanto insensati alla radice, avrebbe dovuto accettarli, perché che altra scelta poteva avere? «Però mi chiedo anche... Che figura ci farai tu?» L'espressione ancora corrucciata, fece scivolare gli occhi dritti in quelli di lui, e lì rimasero per qualche istante, la domanda un quesito reale, non retorico, che le compariva nella mente. Te l'abbiamo tenuto nascosto per mesi... Come reagirebbe il Ministero di fronte ad una tale mancanza da parte tua?
     
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    Non che si aspettasse che Galathéa si sarebbe prostrata ai suoi piedi come uno dei suo elfi domestici; per il poco che aveva imparato a conoscerla, sospettava anche una certa resistenza, una posizione, se non sul piede di guerra, quanto meno di contrasto. E invece lo guardò coi suoi grandi occhi castani come se sapesse già tutto, come se lei in prima persona avesse organizzato quell'incontro. « Non è già tutto chiaro? » Nate accavallò le gambe sotto il tavolo, gli occhi incatenati a quelli di lei. « Lo è, molto. » Entrambi sembravano aver perso qualunque tipo di formalità, come se adesso, una volta che tutte le carte erano state scoperte, non ce ne fosse più bisogno. Erano tutti e due evidentemente stanchi di tenere in piedi una teatralità inutile, e che forse non aveva avuto ragione d'esistere dall'inizio, se non per un mero motivo d'orgoglio. « Dovevi scoprirlo, prima o poi. » Annuì, lentamente, dandole ragione. « Era inevitabile. » A onor del vero era pure un po' arrabbiato con se stesso per la propria negligenza, sapeva che se fosse stat più attento avrebbe avuto modo di scoprire quel loro segreto anche qualche settimana prima. « Come funzionerà, ora? » Si strinse nelle spalle, allargando le braccia e rivolgendole un'occhiata eloquente. « Tu che dici? » « Mi dovrai denunciare al Ministero, immagino, e poi si procederà con gli interrogatori? » Sospirò. Quella non era una parte che piaceva nemmeno a lui. « Questo sarebbe l'iter, sì. » Non aveva ancora deciso in che modalità procedere alla segnalazione. Per quanto tutti i lavoratori della serra potessero credere diversamente, a lui l'idea di metterli nei guai di certo non piaceva. Restò a studiare la reazione della ragazza a quelle parole. « Non esiste modo per evitare che ciò accada, immagino. » Tacque, inclinando leggermente il capo a sinistra, d'improvviso quasi disinteressato alla conversazione che stavano tenendo. La vide corrugare l'espressione, mentre tentava di riflettere, ragionare sulle mosse successive. Fredda e imperturbabile. In un angolo dei suoi pensieri aveva quasi sperato, Nate, di strapparle una lacrima, o anche una semplice smorfia di fastidio, e ora si trovava semplicemente disorientato di fronte a quella creatura che gli sembrava di vedere per la prima volta. In quella sua inattesa dignità, nell'impalpabile grazia con cui muoveva le mani sul tavolo e si accarezzava i capelli scuri, come se quella fosse una conversazione da niente. « Fai ciò che devi e chiudiamola qui » Quelle parole ebbero un che di definitivo, quasi solenne. Galathéa era appena stata colta in fallo, rischiava ripercussioni assai gravi da parte del Ministero, ma si sarebbe presa l'ultima parola. « Cos'altro posso fare? » le chiese, questa volta con voce quasi flebile, una punta di amarezza che traspariva dalle sue parole. E intanto la guardava, con la stessa curiosità e sgomento di uno spettatore teatrale che si è appena imbattuto nel colpo di scena dell'opera, che esamina ciò che ha dinnanzi mentre in un angolo dei suoi pensieri sta ripercorrendo a ritroso l'intero spettacolo, mettendo solo ora insieme i pezzi di ciò a cui ha assistito. La vide abbassare lo sguardo, e fu attraversato dal desiderio fulmineo di sfiorarla anche solo con un dito, cogliere una ciocca dei suoi capelli castani e percepirne la consistenza sotto i polpastrelli, per accertarsi che fosse reale. « Però mi chiedo anche... Che figura ci farai tu? » Quelle parole, e quell'interrogativo diretto alla sua figura, furono capaci di risvegliarlo da quel torpore. Si schiarì la gola, e portò le iridi chiare sulla superficie del tavolo, improvvisamente cosciente della fatica che provava nel sostenere lo sguardo di lei. Con il pollice fece roteare l'anello dorato che portava al mignolo, quasi stesse cercando qualcosa che lo ancorasse alla realtà. « Quella di uno che fa il proprio lavoro » disse, il capo chino, gli occhi distratti dalle venature del legno del tavolo. Si morse il labbro inferiore, mentre cercava le parole giuste per proseguire il proprio discorso. Sospirò. « Io sono stanco, Galathéa » ammise, abbassando le spalle, mentre con le dita sfiorava appena gli aculei affilati di una pianta grassa dinnanzi a lui. « Sono stanco di fare l'ispettore delle verdure e di star dietro alle vostre trovate. » Accarezzò la pianta più da vicino con i polpastrelli, fino a pungersi l'indice di proposito. « Hai fatto una cosa molto pericolosa - non so fino a che punto te ne sei resa conto. Ci andranno di mezzo tutti i tuoi colleghi - c'è anche una madre con un bambino piccolo, tra loro. » In realtà le madri sarebbero anche due. « Il Ministero non ha intenzione di prendere alla leggera questi atti di trasgressione. Sì, ci sarà un interrogatorio. Sì, qualcuno pagherà per questa cosa. » Era suo dovere metterla al corrente dei fatti: il Ministero non avrebbe lasciato passare una faccenda così grave tanto facilmente. « Mi chiedi se posso evitare che tutto ciò accada. » Tornò a guardarla. Scosse piano il capo, ed emise un profondo respiro. « Certo, che potrei. Ma a che prezzo? » Si strinse nelle spalle. Avrebbe voluto che anche lei, anche se solo per un momento, provasse a mettersi nei suoi panni. Quale prezzo avrebbe potuto pagare uno come lui per una scelta del genere? « Comprendi che non è un'alternativa per me? » La guardò, speranzoso - non avrebbe saputo dire nei riguardi di cosa.
     
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    Il crollo della tensione estenuante che si era generato tra lei e Nate sembrava essersi verificato con la stessa rapidità di un castello di carte su cui venga soffiato un colpo d'aria. La calma prima della tempesta, o forse subito dopo, una delle due, sembrava circondare le due figure sedute l'una di fronte all'altra al tavolo di legno accanto all'orto. Le parole di Nate facevano eco alle sue, sia nel loro contenuto che nel loro tono secco e pratico, eppure lasciavano intuire una certa rassegnazione, forse addirittura riluttanza. Senza quel segreto, Nate e Théa sembravano trovarsi al punto di non aver più bisogno di utilizzare formalità, la conversazione straordinariamente paritaria, concorde, conforme negli intenti. Due persone che parlavano della questione e del da farsi come se non li riguardasse personalmente. Questo finché Nate non le chiese: «Cos'altro posso fare?» E Galathéa ne fu così confusa che per qualche secondo non registrò cosa effettivamente lui le stesse chiedendo. Simmetricamente, rispecchiandola nel suo sottrarsi ad un copione, al ruolo del topo inseguito dal gatto, l'ispettore non aveva affondato gli artigli, né era rimasto a leccarsi i baffi, pregustandosi il banchetto, la sua preda che così facilmente, adesso, gli si arrendeva davanti. E per qualche motivo, quella reazione, quando riuscì a registrarla, poco dopo averla confusa la irritò. Non rispose a quelle iniziali parole, deglutendo, il labbro superiore, color cremisi, arricciato leggermente, impercettibilmente, da una sensazione molto simile all'insofferenza. Perché lo chiedeva a lei? Per quanto potenzialmente retorico (sperò con tutta se stessa che non stesse sinceramente chiedendo alla persona a cui avrebbe senz'altro rovinato la vita “cos'altro posso fare”, come se non avesse scelta, come se l'alternativa dovesse trovargliela lei) era comunque un momento di debolezza, così la vide, un'incrinatura che lei non avrebbe voluto vedere, perché non avrebbe voluto doversene sentire responsabile, in alcun modo. Quella non era una disdetta per lui – lo era solo ed esclusivamente per lei, e per tutti i suoi colleghi. Probabilmente ci avrebbe fatto la figura del cretino, al massimo avrebbe perso un po' di credibilità. Ma niente gli dava il diritto di mostrarsi vulnerabile con lei, proprio qualche secondo prima di lasciar cadere l'accetta sul suo collo. Nessuno vuole un boia che piange, o che esiti, o che ti guardi negli occhi. «Quella di uno che fa il proprio lavoro.» E quindi fallo. Che vuoi che ti dica? Voleva il suo benestare? Inclinando la testa, la fronte ancora corrugata, Galathéa non rispose, scrutando quanto sorprendentemente stesse accadendo di fronte ai propri occhi. Il cuore prese ad accelerarle appena nel petto, e il ritmo della sua respirazione aumentò impercettibilmente. Non faceva che rendere tutto ancora più difficile, così irrazionalmente patetico da sconcertarla. La stessa persona, questa, che l'ultima volta che si erano ritrovati a parlare le aveva intimato di astenersi dal suggerirgli proprio questo, come fare il suo lavoro. La rottura in quella maschera di imperitura fierezza nell'essere chiamato a svolgere il proprio lavoro, nient'altro che questo, l'orgoglio con cui rivendicava la sua mancata presa di posizione – ecco che adesso la intravedeva, scorgeva il costo che Douglas stava pagando per quella mancata scelta, per quel suo opporsi ad un mondo fatto di bianco o di nero. E adesso veniva a lamentarsene da lei? La stessa persona che poi, alla fine, sarebbe stata denunciata e punita senza alcun dubbio da lui? Avrebbe preferito uno spietato ad un indeciso, tutta la vita. Anche se questo significava una punizione più dura, qualunque essa fosse, almeno non avrebbe dovuto addossarsi il peso soverchiante di quell'intravista umanità. Per questo era sempre stato più semplice giudicare l'ispettore per il proprio ruolo e farlo equivalere alla sua persona – certo che era più semplice. Semplice euristica. C'erano stati dei momenti in cui ne aveva voluto sondare la sostanza, sotto la superficie di marmo intagliato in quelle linee così raffinate, e si era domandato di che tipo di materia fosse costituito il suo corpo e di cosa fosse riempita sua mente, se davvero operava pedissequamente, se non era altro che una marionetta, o se dietro quegli occhi grigi c'era un bambino vero. E ci si era sporta, per qualche breve istante, dalla piccola finestra che aveva lasciato aperta inavvertitamente durante la loro ultima conversazione, e aveva avuto come la sensazione di poter allungare la mano e sentirla, appurarla finalmente, ma immediatamente quello spiraglio si era richiuso, prima che potesse darsi una risposta. Ogni provocazione aveva teso esclusivamente a sedare quella sete di curiosità, il motore che l'accendeva ignoto e poco importante; cosa pensi, davvero?, cosa vuoi, davvero?, cosa scegli? Quelle erano domande determinanti, perché la stoffa di cui eri fatto, per Galathéa, era definita solo ed esclusivamente dalle decisioni che eri capace di prendere, e l'idea che lui si illudesse di potersi sottrarre a certe regole universali non era soltanto inconcepibile, era vergognoso, era il riflesso di una persona che non riteneva, in sé, alcunché – non un bambino vero. «Io sono stanco, Galathéa. Sono stanco di fare l'ispettore delle verdure e di star dietro alle vostre trovate.» Tra tutti i momenti in cui decidere di far sciogliere la pietra, di tracciare una linea tra l'uomo e il funzionario ministeriale, Nate aveva scelto quello imminente alla presa di posizione alla quale era stato forzato, con proprio sommo disappunto. Se questo fosse un modo per crearsi un alibi, o chiedere preventivamente assoluzione, a Galathéa interessava poco. Lo sapeva, perché ciò stesse accadendo adesso: semplicemente, perché prima di ora Nate non aveva dovuto trovarsi di fronte all'impellenza assoluta di scegliere, e aveva potuto procedere per convenienza personale, stringendosi nelle spalle, tornando nel proprio comodo appartamento di Londra, immaginava. Anche allora aveva compiuto una scelta, ma al negativo. Ora doveva sbilanciarsi molto di più: lui sarebbe stato noto come il funzionario ministeriale che li aveva denunciati tutti, dal primo all'ultimo, e consegnati a Minerva, incolpati di aver avuto troppe bocche da sfamare, troppi corpi da curare. «Hai fatto una cosa molto pericolosa - non so fino a che punto te ne sei resa conto. Ci andranno di mezzo tutti i tuoi colleghi - c'è anche una madre con un bambino piccolo, tra loro.» E tu stai per denunciarla, e in questa posizione senti che ti ci abbia messo io. Aveva capito. «Il Ministero non ha intenzione di prendere alla leggera questi atti di trasgressione. Sì, ci sarà un interrogatorio. Sì, qualcuno pagherà per questa cosa.» «E quindi fallo» le uscì fuori dai denti, quasi, gli occhi castani che tracciavano il perimetro dei suoi lineamenti, la pietra che si colorava di carne fastidiosamente reale, morbida. «Mi chiedi se posso evitare che tutto ciò accada. Certo, che potrei. Ma a che prezzo?» «Il prezzo che equivale allo schierarsi.» Dal ruolo del topo inseguito dal gatto, adesso Théa si sentiva sospinta verso una nuova veste, quella della martire, che accarezza il viso stanco del proprio aguzzino e gli solleva la coscienza. Il prezzo che avrebbe dovuto pagare Nate, qualunque fosse stato l'esito di quella situazione, sarebbe stato esclusivamente suo, non era suo compito alleggerirgli il fardello che avrebbe dovuto portare con sé, quando fossero usciti da quel giardino. «Comprendi che non è un'alternativa per me?» Alzò il mento, impercettibilmente, come in attesa, mentre lo guardava inscalfibile. Ovviamente non lo comprendeva. Più di tutto, per quella domanda, per quella delegazione, qualunque fosse la richiesta che le stava rivolgendo e della quale la voleva rendere partecipe, lo disprezzava. «Mi stai chiedendo se comprendo? Se ti confermo, come ti racconti, che hai le mani legate?» Galathéa poggiò lo sguardo sulle braccia di Nate, le mani poste inermi sulla superficie del tavolo, e li rimase per qualche secondo. «Hai sempre detto di essere libero, di poter prendere decisioni autonomamente, scevro da qualunque condizionamento. E adesso ti rendi conto che non è così, e che la scelta che hai ritardato a prendere ti ha raggiunto.» Si strinse nelle spalle, semplicemente. Non gli avrebbe impartito alcuna morale, alcuna lezione di vita, non le interessava aiutarlo – perché lui non avrebbe aiutato loro. Non era così arrogante da illudersi di poter avere una reale influenza sulla persona che le stava davanti adesso e sul passo che avrebbe compiuto, perché per quanto l'esito la riguardasse in prima persona, non era un compito che spettava a lei. E sebbene avrebbe voluto quantomeno provarci, suggerirgli di tendere una mano verso di lei, e verso tutti loro, e aiutarli, qualcosa dentro di lei, forse quella materia, le impediva intrinsecamente di pregare per poter ricevere concessioni. «Adesso devi scegliere, e devi convivere col peso di ciò che sceglierai tu, perché sei stato tu a metterti in questa posizione, esattamente come mi ci sono messa io. E non sto chiedendo a te di aiutarmi a riparare ai danni che le decisioni che ho preso lungo il cammino hanno causato, né di comprendere perché ciò che ho fatto per me era l'unica alternativa, perché non lo era. Ho scelto di disubbidire alle regole del Ministero in nome di qualcosa in cui credo.» Perché questo ci definisce come esseri umani, ci dà materia, anima corpi di marmo. «Pagherò, se devo pagare. E tu farai lo stesso. Non aspettarti assoluzioni, io non ne chiedo alcuna.» Deglutì, prolungando quel contatto visivo, e una profonda tristezza le si espanse nella cassa toracica, come fumo nero che le raggiungeva la gola, perché sentiva di sapere dove quella conversazione sarebbe andata a parare, e che cosa lui le avrebbe risposto. E, suo malgrado, per quanto strenuamente vi ci si opponesse, ne sarebbe lo stesso rimasta delusa. Nate non sapeva vivere senza assoluzioni, si disse, bastava guardare come stava reagendo adesso. Non sapeva combattere per ciò in cui credeva, se questo poteva esporlo al rischio di venire scalfito, punito, messo a rischio. Ma anche quella sarebbe stata una scelta, a modo proprio. Inspiegabilmente, guardandolo adesso, Théa si domandò che tipo di bambino fosse stato Nate Douglas, crescendo. Quali giocattoli fossero i suoi preferiti, quali storie preferisse farsi leggere alla sera, prima di andare a dormire. Dove fosse, dentro di lui, ciò che lo componeva. «Tu in cosa credi?»
     
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    Nate detestava sentirsi spaesato. Non esisteva sensazione peggiore, per una persona che trascorreva buona parte della propria esistenza a riflettere, prevedere, immaginarsi ogni possibile esito rispetto a ciò che avrebbe potuto accadere. Scoprì quella mattina di detestare ancor di più la condizione di essere spaesato a causa della persona che aveva di fronte. Si disse che certamente aveva sottovalutato Galathéa Durand, e l'aveva fatto con la leggerezza di chi si convince di aver capito di che pasta sia fatto il proprio interlocutore, e di non aver bisogno di indagare oltre. Forse avrebbe dovuto farlo dall'inizio, sondare il terreno con maggiore accuratezza, forse avrebbe scoperto quello che gli pareva di vedere solo ora. « E quindi fallo » Avevano l'effetto di fastidiosi spilli sulla pelle, quelle provocazioni, eppure questa volta si accorse di provare una sorta di piacere masochista nel sentirla affondare il coltello nelle sue ferite. Il mondo non era fatto di carnefici e martiri, ma Galathéa e Nate sembravano divertirsi ad essere tutto quanto, insieme, sempre. Danzavano intorno a quei ruoli fino a confonderne le linee, spiandosi a distanza per anticipare l'uno le mosse dell'altro. E poi si ritrovavano sul centro del ring, a guardarsi sfiancati dopo aver trascinato l'altro verso il proprio limite; era successo l'ultima volta, nel capanno degli attrezzi, e stava succedendo anche ora. « Mi stai chiedendo se comprendo? Se ti confermo, come ti racconti, che hai le mani legate? Hai sempre detto di essere libero, di poter prendere decisioni autonomamente, scevro da qualunque condizionamento. E adesso ti rendi conto che non è così, e che la scelta che hai ritardato a prendere ti ha raggiunto. » La odiava. Odiava quelle labbra piene, il modo ipnotico in cui si muovevano per pronunciare le
    Sj5zd
    parole più affilate, odiava quello sguardo invadente, quella smorfia piena di supponenza. Odiava vederla e sapere che si sentisse migliore, perché non lo era, e di questo lui ne era certo. Odiava che l'avesse colto in fallo e che ora se ne stesse beando, tronfia della sua presunta superiorità morale. Incrociò le dita sul tavolo, concedendosi un lungo sospiro. « Adesso devi scegliere, e devi convivere col peso di ciò che sceglierai tu, perché sei stato tu a metterti in questa posizione, esattamente come mi ci sono messa io. E non sto chiedendo a te di aiutarmi a riparare ai danni che le decisioni che ho preso lungo il cammino hanno causato, né di comprendere perché ciò che ho fatto per me era l'unica alternativa, perché non lo era. Ho scelto di disubbidire alle regole del Ministero in nome di qualcosa in cui credo. Pagherò, se devo pagare. E tu farai lo stesso. Non aspettarti assoluzioni, io non ne chiedo alcuna. » Sostenne il suo sguardo, mentre gli parlava, le labbra leggermente dischiuse in un'espressione assorta, quasi confusa. Più osservava la ragazza che aveva dinnanzi a sé, e meno la capiva. Per qualche motivo si ritrovò a pensare a quando, da bambino, insieme a Thomas si divertiva a lanciare detonatori abbindolanti dal parapetto delle scale interne dell'Arcadia, che si affacciava sulle cucine. Ricordava che entrambi vivevano per l'eccitazione di quei pochi secondi d'attesa, in cui l'oggetto precipitava nel vuoto, e nessuno dei due sapeva se si sarebbe azionato, una volta raggiunto il pavimento, scatenando il putiferio tra gli elfi domestici. Quei secondi di fiato sospeso li ricordava come i momenti più elettrizzanti della sua infanzia. Non riuscì a comprendere a pieno quell'associazione che il suo corpo stava creando - ma avvertiva una sensazione che non avrebbe saputo paragonare ad altro. Era inflessibile nelle parole, Galathéa, eppure Nate aveva la sensazione di poter leggere nei suoi occhi qualcos'altro, come se esistesse una pericolosità celata dietro a quelle iridi cangianti, la stessa di un detonatore che viene lasciato viaggiare nel vuoto. « Non mi serve una tua assoluzione. » Si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo da lei, e lasciandolo vagare per lo spazio verde intorno a loro. « Ho fatto di peggio e sono sopravvissuto anche senza » mormorò, una piccola confessione che si concesse mentre ripuliva la manica del proprio maglione da un piccolo pelo, coadiuvato dal silenzio profondo di quel piccolo angolo di paradiso, forse anche spinto dai suoi pensieri che avevano cominciato a vagare. Non ho mai chiesto assoluzione. Nemmeno quando ho denunciato al Ministero la mia migliore amica, nemmeno quando ho messo tutti i miei compagni in pericolo e ho causato la morte di una persona. Nemmeno quando quella persona è misteriosamente tornata in vita e si è autoproclamata "Messia", nemmeno allora l'ho chiesta, e non lo farò con te. « Tu in cosa credi? » All'udire quelle parole, il suo petto fu scosso da una risata sommessa, mentre si passava una mano sul volto, accarezzando con il palmo il sottilissimo strato di barba che ne adombrava i lineamenti. Trovò divertente come quella domanda lo perseguitasse, negli ultimi tempi; come tutte le persone che lo circondavano, e le circostanze in cui si ritrovava, lo istigassero a darvi una risposta - e perché, di rimando, lui si sforzasse tanto di evitarla. Lo fece anche questa volta - non seppe spiegarsi perché, vi fu semplicemente portato naturalmente dai propri istinti, da un comportamento ormai fossilizzato nel suo modo d'essere. « Sei di nuovo qui a chiedermi la stessa cosa dell'ultima volta » osservò, tornando a guardarla negli occhi, a quella distanza che ora gli pareva quasi eccessiva. « E io ti risponderò allo stesso modo - anche se tu credi che la mia sia ignavia, o codardia, come preferisci. » Si strinse nelle spalle, come se quella, per lui, fosse una questione di importanza minore. « Per la cronaca - siamo in camera caritatis qui, no? - non ho mai creduto fosse giusto quello che sta accadendo ad Iron Garden. Non credo che il Progetto Minerva sia formato da persone competenti. Ugualmente, credo che non sia altrettanto giusto attaccare e far saltare in aria una scuola, mettendo in pericolo centinaia di ragazzini, per un mero ideale, come hanno fatto i Ribelli - perché tu eri una di loro, giusto? » Inarcò il sopracciglio, inclinando leggermente la testa di lato. « Come ti ho detto, per me il mondo non è bianco né nero, e c'è sempre - sempre - una terza alternativa; soprattutto alla violenza. Chi si schiera in dualismi come quelli che si stanno venendo a creare, semplicemente è troppo stupido per vederla. Questo è quello in cui credo. » Sospirò, concedendosi una pausa per osservare la reazione della ragazza. « Farò una scelta, questo è chiaro » disse, distendendosi meglio sullo schienale dello sgabello. « Ci tenevo solo che tu sapessi che mi hai reso questo compito un inferno, Galathéa; che non è stato piacevole né facile star dietro alle tue trovate, l'ultima delle quali, te lo concedo - e qui si guardò intorno, accennando col mento allo spazio che li circondava - è impressionante. Ma probabilmente a te, sapere che mi hai messo così in difficoltà, farà soltanto piacere. » Era questo quello che volevi, no? Crearmi impedimenti sin dall'inizio. Tacque, dunque, e decise di prendersi del tempo per guardarla. Il mento poggiato sui pugni chiusi, la osservava con la stessa curiosità di un visitatore all'interno di un museo che si dedica con passione allo studio di un'opera d'arte, scrutandone i punti di luce, analizzando ogni pennellata per scoprire la materia prima di tanta sontuosità; per svelare i segreti dell'autore. Allo stesso modo, Nate desiderò poter svelare i segreti di Galathéa, ciò che la rendeva così fiera e imperturbabile, come se niente - nemmeno lui - riuscisse a scalfirla. « Non hai paura? » le chiese ad un tratto, spinto dalla più pura curiosità. Perché non hai paura? « Tu e i tuoi compagni potreste rischiare Azkaban, per questa storia. » Si strinse nelle spalle. Non era ancora chiaro il grado di punizioni che avrebbe impartito il Ministero per violazioni del genere, non essendovi grandi precedenti - probabilmente questo sarebbe stato il caso zero. Assottigliò lo sguardo, concentrandosi sul viso di lei. « Tu ci sei mai stata ad Azkaban, Galathéa? » Fece una pausa. « Io sì » continuò, lapidario, mentre spostava lo sgabello all'indietro e tornava all'impiedi. Vagò per il piccolo spazio qualche istante, apparentemente senza una meta, per poi raggiungere un piccolo cespuglio di camelie, in un angolo. Ne raccolse una, per esaminarne il disegno dei petali sotto la luce, per poi tornare a guardare la ragazza, con un sospiro. « Fa freddo, molto più freddo di quello che c'è qui ad Iron Garden. E poi piove sempre - è frutto di un incantesimo, per far sì che i prigionieri non vedano mai la luce del sole. » Si rigirò lo stelo del fiore tra le dita, mentre, quasi distrattamente, compiva qualche passo nella direzione della ragazza, senza mai perderla di vista. « Alcuni impazziscono dopo solo qualche mese. Altri vengono confinati in celle d'isolamento per le disobbedienze minori. » Perché non hai paura? « Certo - ora che Minerva ha il controllo della struttura, immagino abbiano messo a punto una sezione a parte per le creature anche lì. » E chissà che succede lì dentro. « Capisci il rischio che state correndo, tu e i tuoi compagni? » Capisci il peso che stai mettendo sulle mie spalle? « Saresti pronta a subire le conseguenze delle tue scelte? Saresti pronta a mettere in pericolo la vita dei tuoi compagni della serra? Perché di questo si tratta, Galathéa. Non riguarda più solo te. »
     
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    «Non mi serve una tua assoluzione. Ho fatto di peggio e sono sopravvissuto anche senza.» Ancora una volta, Théa si sentì confusa, la motivazione alla base di quella conversazione che le sfuggiva. Cosa voleva da lei, esattamente? Se non le stava rivolgendo alcuna richiesta, perché si legittimava di mostrarsi così vulnerabile davanti a lei, facendole quel tipo di confessioni? Non vuoi assoluzioni eppure mi racconti i tuoi peccati. Emise un sospiro leggero, chinando un po' la testa, e lasciandosi chiudere gli occhi per qualche secondo. Non c'era un motivo: l'ispettore non stava ragionando. Era caduto preda del panico. Espirò ancora una volta, e sollevò nuovamente il mento, pronta per ascoltare cos'altro avesse da dirle prima di arrivare al punto, e finalmente prendere una decisione netta. «Sei di nuovo qui a chiedermi la stessa cosa dell'ultima volta». Era vero: in qualche modo tornavano sempre a quel discorso; e di cos'altro avrebbero mai potuto parlare se non di quella gigantesca voragine che li separava? In quale altro modo avrebbero potuto porsi se non tenendo a mente i presupposti alla base di ogni loro incontro, e cioè che lui lavorasse per il Ministero, e che lei ne fosse considerata il nemico? E di cos'altro, se non di quell'irritante tendenza che Nate aveva a desiderare di approfittare di tutti i benefit del lavorare per chi è al potere, rifiutando però qualunque dottrina, opinione, e di quell'assordante silenzio che Théa avrebbe voluto che riempisse semplicemente ammettendo la propria ipocrisia, o rinunciandovi in nome di un credo – uno qualunque? «L'ultima volta non mi hai dato una risposta.» Non una degna di questo nome, non sapendo ciò che sai adesso. Ora le cose sono diverse per te, non potrai credere davvero di riuscire a nasconderti dietro un qualche insulso principio di neutralità e superiorità che hai inventato per non ammettere che hai paura. «E io ti risponderò allo stesso modo - anche se tu credi che la mia sia ignavia, o codardia, come preferisci.» Eppure continuava a cercare di spiegarsi. Per quanto Galathéa insistesse, per qualche motivo non riuscendo ad accettare che chi era messo lì a farle da cane da guardia lo facesse ritenendosi superiore alle regole che egli stesso subiva, lui ubbidiva, e vacillava, e in quell'ennesima concessione stava quello strano meccanismo che si era stabilito tra di loro, per cui a lei sembrò che lui non riuscisse ad esimersi dal reagire al suo tocco, dal piegarvisi, e più lo osservava sensibile più affondava il dito, più la fame cresceva. Di cosa, non avrebbe saputo dirlo. Forse in lei c'era solo un malato desiderio di distruzione, di vedere l'altro esposto nelle proprie debolezze e per questo giudicato come un miserabile. Forse allora avrebbe potuto sentirsi sua pari. «Per la cronaca - siamo in camera caritatis, qui, no? - non ho mai creduto fosse giusto quello che sta accadendo ad Iron Garden. Non credo che il Progetto Minerva sia formato da persone competenti.» Sollevò le sopracciglia, quell'ultima parola che l'avrebbe fatta sorridere, in un altro momento. Competenti. Si tratta di incompetenza, è questa la causa della distruzione di Inverness e della persecuzione dei lycan e di tutte le creature magiche – inadeguatezza al ruolo, per te. Forse cominciava a capire. «Ugualmente, credo che non sia altrettanto giusto attaccare e far saltare in aria una scuola, mettendo in pericolo centinaia di ragazzini, per un mero ideale, come hanno fatto i Ribelli - perché tu eri una di loro, giusto?» Un mero ideale. E stavolta un angolo della bocca di Galathéa si piegò davvero in un sorriso, e poco dopo emise uno sbuffo dal naso. I maghi non avevano una conoscenza del mondo che fosse equiparabile a quella degli warlock, ancor di meno a quella dei lycan; e Théa lo sapeva, e lo immaginava ogni qualvolta Nate apriva bocca per schernire lei e la sua gente (per quanto poco le piacesse pensare a loro in questi termini), che quelle offese fossero soltanto il frutto di un'abissale ignoranza, una di cui lui non era neanche lontanamente consapevole, e quindi della peggior specie. Ma non immaginava che fosse così profondamente all'oscuro. Il paradigma da cui lui guardava il mondo era così semplice da apparirle ridicolo. Lavorava per delle persone di cui non sapeva niente, e probabilmente neanche cercava di capire il senso di certi ordini, forse persino di fronte alla confusione preferendo chiudere un occhio invece di porsi le domande giuste. Chissà quanti agivano come lui. Non poteva prendere una decisione perché non conosceva la partita a cui tutti loro stavano giocando. Non vedeva che le mosse, e si illudeva di poterle giudicare. «Come ti ho detto, per me il mondo non è bianco né nero, e c'è sempre - sempre - una terza alternativa; sopratutto alla violenza. Chi si schiera in dualismi come quelli che si stanno venendo a creare, semplicemente è troppo stupido per vederla. Questo è quello in cui credo». Se solo sapessi quanto poco sai delle cose che contano davvero. Batté le palpebre lentamente. Pur volendo assecondare il suo ragionamento, qual era la terza opzione che stava considerando? Qual era l'alternativa non violenta, l'alternativa migliore? Non esisteva, perché le zone grigie non esistevano che nella teoria; la pratica, la realtà, era composta di assoluti, di zero o di uno, e ogni scelta è un fatto assoluto e concreto. Sì o no. «Farò una scelta, questo è chiaro. Ci tenevo solo che tu sapessi che mi hai reso questo compito un inferno, Galathéa; che non è stato piacevole né facile star dietro alle tue trovate, l'ultima delle quali, te lo concedo, è impressionante. Ma probabilmente a te, sapere che mi hai messo così tanto in difficoltà, farà soltanto piacere.» Le spalle di Théa crollarono sono il peso di quelle parole così distanti dalla realtà dei fatti, e per l'ennesimo discorso vacuo, che serviva probabilmente soltanto a lui, per qualche motivo che non le era del tutto chiaro. Eppure lo concesse, e ascoltò, per quanto tutto ciò non facesse che aggiungere pesantezza, per quanto avrebbe dovuto essere lei a disperarsi e a chiedere comprensione. «Non mi ha fatto piacere, Nate» disse piano. «Che ti sorprenda o meno, io non ho mai agito in funzione tua. Non è per creare
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    problemi a te che ho scelto di mettere a repentaglio la mia libertà e quella dei chi collabora con me.»
    Si passò una mano tra i capelli mossi, e lo guardò sincera, qualcosa nel suo sguardo che era mutato, perché comprendeva che chi aveva di fronte non avesse le armi per combattere alla pari con lei, in quella battaglia. Tra vincitori e vinti, Nate non era che una vittima. E ora probabilmente l'avrebbe denunciata, e anche allora lui si sarebbe soltanto comportato da carnefice, ma non avrebbe mai potuto esserlo davvero. Adesso capiva che avrebbe dovuto smettere di chiedergli di esserlo, per quanto le circostanze avessero assegnato loro quei ruoli, e ci si aspettava che fosse così. Aveva cercato strenuamente di capire come fosse possibile che lui rifiutasse la responsabilità delle proprie azioni, ma ora era chiaro che lui non ne avesse alcuna, non perché esistessero alternative, come si raccontava lui, ma perché quella nonchalance che si era concesso nel proprio lavoro era dettata dalla totale inconsapevolezza. Lui pensava che lei e le sue trovate potessero essere spiegate sulla base di un capriccio, un desiderio forse recondito di indispettire lui. Ciò che più l'aveva infastidita era stato quel suo modo di provare a far conciliare un atteggiamento collaborativo ed educato al fatto stesso che esistesse un lavoro come l'ispettore di una serra in un ghetto urbano, il fatto che da ciò trapelasse un'ipocrisia straordinaria; aveva tentato di trovare in Nate i perché, di unire i puntini in quella contraddizione, ma lui non aveva alcuna risposta. Neanche lui aveva idea del perché, ma agiva lo stesso. Questo era triste e scoraggiante, ma non faceva di lui un lupo che si finge agnellino, come aveva pensato. Semmai il contrario. «Nate, le persone ad Iron Garden muoiono di fame, in alcuni casi letteralmente. Sono persone senza alcuna colpa, che fino a qualche mese fa avevano una casa, ad Inverness, che è stata distrutta in un giorno solo.» La voce di Galathéa si era addolcita, come se stesse spiegando un fatto importante ad un bambino che non avesse capito la serietà della situazione. Le dispiacque per lui. «In cosa c'è incompetenza, qui?» Inclinò la testa, aspettandosi una risposta, per quanto la domanda suonasse retorica. «In cosa c'è incompetenza, nell'approfittare di eventi di cronaca – veri o falsi che fossero – per giustificare la reclusione di una o più razze della popolazione magica in un posto fatiscente come questo, controllandone le risorse, provvedendo in modo estremamente limitato alla garanzia quantomeno della sopravvivenza di chi ci abita?» Tu ci lavori da mesi, qui. Non ti sei mai domandato se tutto ciò che hai visto fosse giusto? Perché venisse fatto? Perché ti viene chiesto di fare l'ispettore delle verdure? E perché Inverness è stata distrutta lo stesso giorno della resurrezione di un Messia? «Le persone hanno beneficiato in modo significativo, per il poco tempo che abbiamo avuto, dei frutti di questa seconda serra. Ci sono persone che prima di vedere il loro futuro strappato dalle loro mani erano abili pozionisti, e ora ci aiutano ad assicurarci che il Ministero non ci avveleni.» Quelle erano cose che doveva sapere, che non si sarebbe sprecata a spiegargli, ma improvvisamente temette che invece fosse necessario farlo. L'idea la deprimeva e la spolpava, per cui si limitò a guardarlo, sperando che quanto detto bastasse a far arrivare il proprio messaggio.
    «Non hai paura? Tu e i tuoi compagni potreste rischiare Azkaban, per questa storia. Tu ci sei mai stata ad Azkaban, Galathéa? Io sì. Fa freddo, molto più freddo di quello che c'è qui ad Iron Garden. E poi piove sempre - è frutto di un incantesimo, per far sì che i prigionieri non vedano mai la luce del sole.» «Mi piace la pioggia» scherzò, in quella maniera un po' perversa, rivolgendogli un sorriso stanco e rassegnato. «Alcuni impazziscono dopo solo qualche mese. Altri vengono confinati in celle d'isolamento per le disobbedienze minori. Certo - ora che Minerva ha il controllo della struttura, immagino abbiano messo a punto una sezione a parte per le creature anche lì. Capisci il rischio che state correndo, tu e i tuoi compagni? Saresti pronta a subire le conseguenze delle tue scelte? Saresti pronta a mettere in pericolo la vita dei tuoi compagni della serra? Perché di questo si tratta, Galathéa. Non riguarda più solo te.» «Non ha mai riguardato me, e non ha mai riguardato te. Forse ci siamo entrambi illusi che non fosse così.» Lo guardò a lungo, in silenzio, la sensazione che qualcosa si fosse appena concluso, con quella frase, anche se non le era ben chiaro cosa. «Fai ciò che devi fare, Nate.» Ripetè ancora una volta. «Diremo che è solo colpa mia così avrai meno persone sulla tua coscienza.» Io che non avrei voluto fare altro che renderti schiavo dei rimorsi. «Non riguarda te e non riguarda me.» Anche quello l'aveva già detto. «Il mondo non cambierà per questo. Tu rimarrai ispettore delle verdure e io rimarrò il ricordo dell'incubo che ti ho fatto passare. Non dovrai vedermi più, e forse nel frattempo potrai capire, con questa scelta, da che parte ti sei schierato, e se ne vai fiero.» Annuì alle proprie parole. «Io sì.»
     
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    « Non mi ha fatto piacere, Nate. Che ti sorprenda o meno, io non ho mai agito in funzione tua. Non è per creare problemi a te che ho scelto di mettere a repentaglio la mia libertà e quella dei chi collabora con me. » C'era un tono diverso, in quelle parole. Era come se Galathéa si fosse rassegnata ormai a qualunque destino il fato le avrebbe riservato, come se non volesse più lottare. Tutta la caparbietà che aveva mostrato nel capannone era scivolata via con quel cambio di circostanze e ora i suoi occhi scuri parevano spenti, stanchi di quel contraddittorio. In un altro momento probabilmente Nate avrebbe apprezzato quella piccola vittoria, che ora, però, aveva un sapore amaro; non era il modo in cui avrebbe voluto vincere, questo. « Nate, le persone ad Iron Garden muoiono di fame, in alcuni casi letteralmente. Sono persone senza alcuna colpa, che fino a qualche mese fa avevano una casa, ad Inverness, che è stata distrutta in un giorno solo. » Nate non registrò subito quelle parole. Era intento a osservare il cespuglio di margherite che decorava uno dei grandi vasi ai suoi piedi, e sulle prime si lasciò accarezzare dal suono della sua voce, ammorbidito da un'inflessione meno acuta, ora più caldo e accogliente, come quello di una madre col proprio bambino. Galathéa non si era mai rivolta a lui con quel tono, quello fu ciò che notò subito. Era la cosa che più si avvicinava alla voce con cui l'aveva sentita cantare, quella volta a Flindrinkin. Poi, con qualche istante di ritardo, Nate comprese le parole che gli aveva appena rivolto; ma lei stava già andando avanti, e fu troppo tardi per reagire. « In cosa c'è incompetenza, qui? » Le rivolse un sorriso confuso, mentre tornava tra i vivi, prima di scuotere leggermente il capo. « In cosa c'è incompetenza, nell'approfittare di eventi di cronaca – veri o falsi che fossero – per giustificare la reclusione di una o più razze della popolazione magica in un posto fatiscente come questo, controllandone le risorse, provvedendo in modo estremamente limitato alla garanzia quantomeno della sopravvivenza di chi ci abita? » La guardava, a distanza di qualche metro, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e l'espressione quasi affascinata. Spogliata da qualunque strategia, intento o dietrologia, Galathéa gli descriveva ciò che avevano intorno, parlava di quello che era con il candore di una bambina, si spiegava affinché lui capisse. Avrebbe dovuto odiarla, quella sua pretesa didattica - normalmente così sarebbe stato - e invece vi assistette in silenzio, con apparente interesse. « Le persone hanno beneficiato in modo significativo, per il poco tempo che abbiamo avuto, dei frutti di questa seconda serra. Ci sono persone che prima di vedere il loro futuro strappato dalle loro mani erano abili pozionisti, e ora ci aiutano ad assicurarci che il Ministero non ci avveleni. » Annuì, lento, senza interrompere il contatto oculare con lei, per poi sospirare pesantemente. Incrociò le braccia al petto, serrando le labbra in una smorfia incerta. « Sembra che tu non ti sia ancora messa d'accordo con te stessa: sono spietato o sono un idiota? » Ridacchiò, con leggerezza. Come al solito, la risposta non è nessuna delle due, anche se ti ostini a non volermi credere. Si strinse nelle spalle. « È mia abitudine, quando converso con persone che reputo essere al mio livello, tralasciare informazioni che ritengo superflue, ovvie in qualche modo. Ma ho fatto un errore di valutazione. Noi non ci conosciamo, Galathéa, ed evidentemente per te è importante ciò che penso, dunque sì, quello che sta facendo il Ministero alle creature è qualcosa di crudele. » Contenta, ora, che l'hai sentito da queste labbra? « Qualunque persona con un minimo di istruzione deve pensarlo, immagino. » Si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo per un attimo da lei. « Per il resto, c'è incompetenza perché tutto questo non è destinato a durare. » Mentre parlava, accennò con l'indice allo spazio che li circondava, compiendo un altro passo nella sua direzione. « Non siamo nella Germania nazista degli anni '30, un regime di questo tipo è stupido provare anche solo a metterlo in piedi. Voi Ribelli state già rispondendo a tono. » Inarcò entrambe le sopracciglia, con ovvietà, mentre allargava le braccia e accennava allo spazio che li circondava. Questa stessa serra è la testimonianza che Iron Garden ha i mesi contati. « C'è incompetenza perché chi è al potere lo sta gestendo in una maniera schizofrenica e poco lungimirante. » E anche dissennata, avrebbe voluto aggiungere, ma si arrestò. « Dunque posso confermarti che non sono né spietato, né un idiota che non è in grado di accorgersi di quello che gli succede intorno. » Questa, era stata la sua accusa: come se non avesse mai messo piede per le strade, come se non potesse vedere la gente morire di freddo o di fame. Sospirò, stancamente. « Credi che non abbia anch'io delle persone care qui dentro? » si lasciò sfuggire, il tono più morbido, scoccandole un'occhiata. Percy l'aveva visto poco e di sfuggita, ma quasi lo sorprendeva che Galathéa non avesse mai colto la sua vicinanza a Freya; vero era, d'altronde, che lui e la Thysen avevano concordato di non entrare troppo in contatto all'interno della serra, per evitare eventuali ripercussioni nei riguardi di entrambi.
    C'era un che di definitivo nell'aria. Il modo in cui Galathéa e Nate si guardavano, in cui si scambiavano le ultime battute, perfino qualche innocente risata che smorzava la tensione, tutto suggeriva la fine di qualcosa. E più la fine si avvicinava, più Nate osservava Galathéa appassionato, gli occhi verdi che non perdevano un battito di ciglia, uno spostamento di capelli, un sospiro più pesante, nella speranza di cogliere sconfitta, rassegnazione, rimorso. Paura. « Mi piace la pioggia. » Ma lei paura non ne aveva, e anzi rideva di fronte a quella prospettiva, perché era il suo destino, così lo stava definendo, era parte del suo essere. Fece qualche altro passo nella sua direzione, per poi, quando le fu più vicino, posare il fiore di camelia che aveva sottratto al cespuglio proprio sotto gli occhi di lei, sul tavolo, in maniera quasi casuale. Perché non piangi? Cos'avrebbe dato, per vederla piangere. Un compiacimento riprovevole, il suo, eppure quello si ritrovò a pensare. Un sogno estetico, quei pozzi neri ricolmi di lacrime, che le sarebbero sgorgate incontrollabili sulle guance morbide, spezzando la perfezione del suo viso, e lui si sarebbe beato di quella visione onirica. Ma Galathéa non gli avrebbe concesso neanche questa soddisfazione. « Non ha mai riguardato me, e non ha mai riguardato te. Forse ci siamo entrambi illusi che non fosse così. » C'era qualcosa, nell'aria, che sapeva di chiusura ma anche di sgomento. Era quel guardarsi ad un passo di distanza e il percepire chilometri a separarli, era l'incredulità per qualcosa di incomprensibile, inaspettato, grande. Era la confusione di un'equazione senza soluzione, la rassegnazione per una partita persa senza gloria. Nate deglutì. « Forse sì » concordò, sostenendo lo sguardo di lei. « Fai ciò che devi fare, Nate. Diremo che è solo colpa mia così avrai meno persone sulla tua coscienza. Non riguarda te e non riguarda me. » Ridusse gli occhi ad una fessura, mentre restava in ascolto. « Il mondo non cambierà per questo. Tu rimarrai ispettore delle verdure e io rimarrò il ricordo dell'incubo che ti ho fatto passare. Non dovrai vedermi più, e forse nel frattempo potrai capire, con questa scelta, da che parte ti sei schierato, e se ne vai fiero. Io sì. » E in quell'istante, Nate, tornò ad odiarla. Ne odiò il candore, la fierezza con cui rivendicava il proprio sacrificio. Gli aveva promesso che non sarebbe stata una vittima, ma in ciò si stava elevando, offrendo se stessa in onore di una causa, un'idea in cui credeva. La odiò per la sua purezza, la stessa che Nate non poteva permettersi nemmeno d'invidiare per sé. E la odiò per la sua pelle bianca, per il modo in cui lo guardava senza ritrarsi mai, per le sue mani che non tremavano. La guardò, e vide che non aspettava altro che il suo giudizio, quella spada di Damocle che lui si era divertito a mostrarle da tutte le angolazioni, affinché vedesse quanto era affilata, pericolosa, letale. Ma Galathéa avrebbe accolto la propria fine con onore, in nome dei suoi compagni, di ciò che credeva giusto. La guardava, Nate, in silenzio, e solo allora le parve di vederla finalmente. Era Antigone, sulla soglia della grotta, pronta ad accettare il proprio destino senza opporvisi. E lui sarebbe stato Creonte, l'avrebbe condannata alla sua fine e, nel farlo, anche lui avrebbe perso ogni cosa.
    « Bene » disse, dopo molti attimi di silenzio, mentre un colpo di bacchetta faceva apparire al cospetto di Galathéa un foglio ed una penna, che cominciò a muoversi in autonomia per scrivere alcune righe. "Io sottoscritta, Galathéa Durand, dichiaro di essere l'unica e la sola responsabile..." « Prenditi il tempo che ti serve per leggerlo » disse, poco più tardi, quando la penna, concluso il proprio lavoro, si era posizionata sul tavolo, accanto alla mano destra di Galathéa. Quello che la strega si sarebbe ritrovata davanti era una dichiarazione di colpa, in sostanza una confessione nero su bianco, in cui la stessa avrebbe ammesso di aver portato avanti una serra illegale e di averlo fatto in completa autonomia, senza l'aiuto di nessun proprio collaboratore. « Ho bisogno che firmi in calce, senza inserire la data, per cortesia. » Attese che la ragazza ebbe finito, e poi con un altro colpo di bacchetta ripiegò il foglio in quattro, e lo richiuse in una busta sigillata, che volò di fronte al viso di Galathéa, per poi atterrare nelle mani di Nate. Il moro ne carezzò la superficie liscia della carta con il pollice, un pesante sospiro che gli scuoteva il petto. Ancora una volta, avrebbe scelto di essere egoista. « Non verrò più a fare ispezioni settimanalmente » disse, dopo diversi momenti, tornando a guardarla negli occhi, in cui ora, da vicino, riconosceva delle venature verdastre. « Diciamo che le mie visite erano abbondanti. » Diciamo che l'obbligo per gli ispettori sarebbe stato una volta al mese, ma io volevo strafare. Si era convinto che, seguendo il progetto da vicino, monitorandolo tre volte a settimana, l'avrebbe portato a termine in tempi record, e così il Ministero l'avrebbe presto riassegnato ad un nuovo ufficio. Col tempo aveva capito che non era quello il caso. « Mi troverete qui una volta al mese. La visita sarà, come sempre, a sorpresa. » Mentre parlava ne studiava i lineamenti, cercava di capire se avesse già capito. « Non so per quanto ancora sarò assegnato alla serra. È probabile che il Ministero comincerà a fare una rotazione di ruoli, tra i vari ispettori. » Per evitare situazioni come questa, appunto. « Quando accadrà, vi consiglierei di fare più attenzione. Non tutti sono disposti a credere alla discalculia del tuo collega. » Sorrise, scuotendo leggermente il capo, al ricordo di quante volte era stato costretto a fare orecchie da mercante, in quella serra. « Compilali tu, quei moduli, piuttosto. E la vostra amica, quella coi capelli scuri, che viene al mattino... Anche lei dovrebbe fare più attenzione. » Sospirò, prima di porgerle la busta, contenente l'autodenuncia che lei stessa aveva appena compilato. « Quando ti scopriranno - perché ti scopriranno, prima o poi - consegna loro questo documento, senza rispondere alle domande di nessuno. È redatto in modo da evitarti i capi d'accusa peggiori, ma... » si strinse nelle spalle. Di questi tempi non si sa mai. « Non è detto, ecco. »
     
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    All'interno della serra artificiale, per così dire, il tempo sembrava come sospeso. La sensazione che pervadeva Galathéa continuava ad assomigliare ad una strana leggerezza, al piacere profondo della chiarezza, della trasparenza, che non aveva soltanto a che fare con questioni prettamente concrete, al non dover più preoccuparsi della segretezza di quel posto che avevano tenuto celato per tutti quei mesi, ma con il gusto proibito della sincerità, del guardarsi e lasciarsi vedere. Le venne in mente quando Kundera aveva scritto che esistono quattro diversi tipi di persone: quelle che desiderano gli occhi degli sconosciuti, quelle che desiderano quelli delle persone che conoscono, coloro che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata e infine la categoria di chi vive sotto lo sguardo immaginario di persone assenti. Non aveva mai capito a quel gruppo appartenesse lei, ma sapeva che, in quel momento, sentiva addosso gli occhi di Nate, e che questo non fosse necessariamente un dispiacere, perché in quell'incontro sentiva di star capendo qualcosa, di sé stessa e di lui. In retrospettiva, non avrebbe neanche saputo dire come mai la faccenda in sé e per sé non l'avesse turbata troppo: probabilmente era l'abitudine, la sensazione che le regole dello Stato Inglese in qualche modo la toccassero soltanto superficialmente, lo scudo protettivo che appartenere a tutti i posti e a nessuno nello specifico contemporaneamente garantisce, permettendole di tenere la testa alta di fronte a certe imposizioni. Galathéa aveva sempre saputo che le cose sarebbero andate esattamente così, che lei si sarebbe presa la colpa, quando il momento di farlo sarebbe arrivato, e forse era stato anche grazie alla inconfessabile delusione per il comportamento della Congrega che si era sentita coinvolta in ben altre considerazioni circa la propria lealtà ad un organo governativo. Si sentiva come una figlia di nessuno, un'orfana che non debba rispondere ad autorità alcuna, se non alla propria morale. Se il Ministero inglese l'avrebbe vista come una ribelle, come un gesto di insurrezione, questo non l'avrebbe interessata, sarebbe stata una sua interpretazione dei suoi gesti; e ugualmente, se disubbidire la rendeva una compagna dei Ribelli, ai loro occhi, anche quella sarebbe stata un'euristica che non le apparteneva, una deduzione circostanziale. Galathéa aveva voluto dare una mano perché aveva pensato che fosse l'unica cosa che la condizione in cui si trovava le concedeva di fare, di decidere, determinare, scegliere. Non era stata una mossa politica o una provocazione. A quel punto della vicenda, disubbidire a quel modo alle regole del Ministero inglese non era certo una sua battaglia. «Sembra che tu non ti sia ancora messa d'accordo con te stessa: sono spietato o sono un idiota?» Sollevò lo sguardo, Théa, per seguire Nate muoversi attorno allo spazio del tavolo. E quella era una grande verità: l'aveva reputato il simbolo carnale dell'egoismo e del marciume che dilagava indisturbato in quei territori, e l'aveva detestato per questo. Aveva cercato di affondare le mani in quella carne per comprendere se oltre alla forma ci fosse anche della sostanza, se fosse disposto ad ammettere che cosa lo componeva, in quell'estenuante sforzo maieutico, e aveva deciso che fosse troppo stupido per capirlo egli stesso, in primo luogo. Adesso, guardandolo inclinando leggermente il capo, era giunta alla conclusione che se proprio doveva rappresentare qualcosa, allora Nate fosse il feticcio dell'ignoranza e dell'egoismo, un fantoccio infuso solo di uno spirito di autoconservazione che non tenda a nulla di più grande di sé. Non avrebbe saputo dire se questo faceva di lui uno spietato o uno stupido, perché entrambi quei termini sottendevano una dimensione di giudizio. Per la prima volta, se ne rendeva conto adesso che si era messa a parlare con lui a quel modo aperto e privo di qualunque richiesta, sospendeva un'opinione netta, lasciava che fossero le sue parole e le sue azioni a illustrarle la materia che lo componeva, e non necessariamente il lavoro che, consapevolmente o meno, si era scelto. E forse, anche qualora questa fosse stata riprovevole, a Galathéa non sarebbe importato più così tanto. Non riguarda te e non riguarda me – non è mai stato personale. Ti ho disprezzato dal primo momento per il solo fatto di essere un ispettore ministeriale, chi tu fossi davvero non è mai stato così importante, neanche quando mi convincevo che fosse fondamentale scoprirlo. Era difficile da spiegare, quella curiosità che la figura di Nate le aveva acceso dentro; forse era la pulsione a risolvere una contraddizione – come può una persona non schierarsi pur facendolo? – o forse era la necessità di risolvere la propria, cadere nella biblica ricerca della pagliuzza altrui. Forse Nate le aveva mostrato una strada inedita, e questo imprevisto inconciliabile le aveva suggerito qualcosa di troppo sconvolgente per non correre alle armi e cercare di combatterlo a tutti i costi: la possibilità di coesistere, di vivere in un'aria grigia, di non sottostare ad alcun giudizio. E non era forse esattamente la stessa cosa che lei aveva sempre fatto, che stava facendo in quello stesso momento? Non era forse lo stesso identico richiamo verso la libertà, a qualunque costo? Lo fissò rapita, ritrovandosi ad aspettare cos'altro avrebbe detto. «È mia abitudine, quando converso con persone che reputo essere al mio livello, tralasciare informazioni che ritengo superflue, ovvie in qualche modo. Ma ho fatto un errore di valutazione. Noi non ci conosciamo, Galathéa, ed evidentemente per te è importante ciò che penso, dunque sì, quello che sta facendo il Ministero alle creature è qualcosa di crudele. Qualunque persona con un minimo di istruzione deve pensarlo, immagino». Ma come fai? Come fai a dire che è crudele e continuare comunque ad applicare le leggi di un governo crudele e ingiustificabile – visto che manco sai perché queste leggi esistono? Si avvicinava sempre di più al nodo principale, tendendo il filo sempre di più, una linea quasi invisibile che parve tirarla a lui, al sentire quelle parole, bisognosa che continuasse a tirarlo, fino a farlo spezzare. «Per il resto, c'è incompetenza perché questo non è destinato a durare.» E invece l'aveva mollato, ed era tornato sui propri passi, e ne aveva fatto di nuovo un discorso di politica, e non di etica. Quasi Théa stessa fosse sospesa da fili, come una marionetta, le spalle le si afflosciarono, e chinò appena la testa. «Non siamo nella Germania nazista degli anni '30, un regime di questo tipo è stupido provare anche solo a metterlo in piedi. Voi Ribelli state già rispondendo a tono.» Sapeva che cosa Nate, senza dubbio, le avrebbe risposto, e nonostante ciò – o forse proprio in virtù di ciò – Galathéa non perse il tempo necessario per dirgli, non avendolo fatto precedentemente: «Io non sono una Ribelle.» E quindi siamo pari. E quindi non ho diritto di giudicarti. Non agisco per una causa superiore, esattamente come non lo fai tu. Seguo la coscienza, ciò che per me è logico, il rigore di una bussola morale di cui non posso fare a meno. Ma tu – tu, in cosa credi? La restante parte del discorso la ascoltò superficialmente, perché Nate non sapeva di cosa parlava, e mancava il punto, il centro della questione, solleticandone i bordi con la punta del dito, in un cerchio concentrico snervante e insoddisfacente. «C'è incompetenza perché chi è al potere lo sta gestendo in una maniera schizofrenica e poco lungimirante. Dunque posso confermarti che non sono né spietato, né un idiota che non è in grado di accorgersi di quello che gli succede intorno.» Ma Nate – tu non lo sai davvero cosa c'è attorno a te. Non vedi oltre la superficie, oltre i meccanismi stupidi degli umani, oltre il potere dello Stato e i giochi per bambini che lo compongono. Tacque, stringendo le labbra tra di loro, lasciando che le parlasse come se fosse lei quella che non sapeva di cosa stesse parlando, tra loro due. Non sarebbe stato un suo compito iniziarlo a quella conoscenza di terz'ordine, come si usava definirla. Non lo reputava rilevante, in fondo. Quando Nate lasciò cadere il fiore di camelia davanti a lei, Galathéa lo poggiò sul palmo della mano. Ne accarezzò i petali, lasciandoli scorrere tra indice e pollice, la consistenza vellutata così piacevole al tatto. È questo ciò di cui sei fatto anche tu?, sembrava chiedersi mentre fissava un punto indistinto, assorta. Ugualmente distratta, sollevò il fiore tenendolo per lo stelo, e se lo passò leggero sulle labbra schiuse, un riflesso dell'età infantile, quando portiamo tutto alla bocca, per conoscere meglio gli oggetti, per sondarne più accuratamente la consistenza.
    Sollevò la testa soltanto quando Nate le fece comparire davanti una pergamena bianca. «Bene» aveva detto, mentre le parole prendevano forma da sole. Théa lo guardò con solerzia, annuendo una volta sola, le mani intrecciate incastrate tra le cosce, per riscaldarle, o forse per imporsi quel contegno fino alla fine. «Bene» gli fece eco, per poi far scorrere lo sguardo sulle righe di inchiostro. «Prenditi il tempo che ti serve per leggerlo». Così aveva acconsentito a fare in modo che fosse soltanto lei l'unica responsabile, così le aveva garantito almeno quel desiderio. Avrebbe voluto sapere perché, cosa fosse stato a far pendere l'ago della bilancia da un lato invece che un altro, ma tacque, corrugando la fronte. «Ho bisogno che firmi in calce, senza inserire la data, per cortesia.» «Perché non devo inserire la data?» Disse sottovoce, mentre questionava anche il modo in cui quel documento veniva redatto – come se fosse una confessione, come fosse lei a consegnarsi al Ministero. «Non verrò più a fare ispezioni settimanalmente» Non l'avrebbe denunciata. Inarcò le sopracciglia, guardandolo mentre l'aspettava senza dire niente. «Nate – perché lo stai facendo?» «Diciamo che le mie visite erano abbondanti.» Batté una mano sul foglio. Non voleva più arrivare lei ad una conclusione, riempire gli spazi vuoti con inferenze semplici quanto fallaci. Voleva sentirlo da lui, stavolta. «Non voglio pietà, Nate» assottigliò lo sguardo, sentendolo, che quello non fosse il punto, ma non riuscendo a sottrarvisi. Ma lui continuava a non darle soddisfazioni. « Mi troverete qui una volta al mese. La visita sarà, come sempre, a sorpresa. Non so per quanto ancora sarò assegnato alla serra. È probabile che il Ministero comincerà a fare una rotazione di ruoli, tra i vari ispettori. Quando accadrà, vi consiglierei di fare più attenzione. Non tutti sono disposti a credere alla discalculia del tuo collega. Compilali tu, quei moduli, piuttosto. E la vostra amica, quella coi capelli scuri, che viene al mattino... Anche lei dovrebbe fare più attenzione.» Per cui sapeva tutto. Quello non era mai stato un tema preoccupante: lei non credeva che Nate fosse stupido, non l'aveva mai reputato un ingenuo, sapeva che lavorasse in modo attento, al massimo peccando di arroganza, di tanto in tanto; non le serviva una dimostrazione di magnanimità, di superiorità morale – tutt'altro, la fece sentire piccola, meschina. «Quando ti scopriranno - perché ti scopriranno, prima o poi - consegna loro questo documento, senza rispondere alle domande di nessuno. È redatto in modo da evitarti i capi d'accusa peggiori, ma... Non è detto, ecco.» Galathéa guardò la busta che le era volata davanti agli occhi finire nelle mani di Nate. «Che significa? Perché?» Ripetè, determinata a non fare lo sforzo di arrivarci da sola. Si era guadagnata quella punizione, l'aveva richiesta, e adesso le veniva sottratta in virtù di cosa? Qualche conversazione sull'etica, sul prendere posizioni, a cui conseguiva una reazione del genere? Era bastato così poco? No, sicuramente aveva saputo sin dal primo momento che non l'avrebbe denunciata. Senz'altro aveva voluto sventolarle davanti la possibilità, minacciarla al punto da farla sentire che sarebbe successo, farle recitare le sue ultime preghiere e magari sperare che avrebbe pure supplicato, per poi giocarsi la carta del misericordioso. Dimmi perché, non farmi giungere a conclusioni. Serrò la mascella, tirandosi in piedi, la sedia che stridette contro il pavimento di pietra. Il respiro di Galathéa, appena più pesante, era chiaramente udibile da entrambi, a quella distanza e in quel silenzio. In piedi accanto a lei, dove l'aveva vista firmare quell'accordo prima di comprendere fino in fondo che cosa esso sancisse, Nate non le era mai stato così vicino. Sollevando appena la testa per incontrarne gli occhi chiari, così stupidamente tronfi, così ridicolmente saccenti, Théa rimase in silenzio, attendendo una risposta, il petto che si gonfiava con frequenza appena maggiore. Non avrebbe accettato alcun debito nei suoi confronti, nessun gesto di carità, nessuna possibile arma che avrebbe usato nei suoi confronti in futuro; era ignorante ed egoista se non era stupido e spietato, e tanto bastava a dirle che non facesse mai niente per niente.
     
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    Dell'esito della questione, Nate non era certo contento. Avrebbe preferito di gran lunga poter adottare una soluzione più pulita e con meno incognite: per quanto stesse tentando di pararsi le spalle il più possibile, nulla gli garantiva che la ragazza, una volta scoperta (e dunque con più nulla da perdere), non l'avrebbe venduto al Ministero, magari nella speranza di una riduzione di pena. Nulla gli garantiva che non si sarebbe confidata con una sua amica sull'accaduto. Le variabili erano molteplici, e le probabilità che questa decisione gli si ritorcesse contro ben più di una. Il suo era un rischio calcolato, certo, era fiducioso che avrebbe tranquillamente saputo difendersi da qualsivoglia accusa di fronte al Ministero - ma in questi casi era sempre meglio non avere rogne. Galathéa e la sua serra erano state una rogna dall'inizio alla fine, e ora che quella piccola parentesi delle loro vite si chiudeva, era inevitabile avvertire un briciolo di amarezza nell'aria. Non era per nulla soddisfatto, Nate, e questo probabilmente era facilmente percepibile dalla mascella serrata, e dallo sguardo immerso nel vuoto, perso a calcolare rischi e pericoli di questa sua mossa tanto avventata quanto inevitabile. Ignorò completamente le proteste della Durand, almeno fino a quando il suo colpo secco sul tavolo non lo distolse dai propri pensieri. « Che significa? Perché? » Fermo accanto a lei, mentre la guardava leggere il documento, Nate alzò gli occhi al cielo, evidentemente esausto di quella discussione. Perché? Sospirò. « Perché ho deciso così » rispose, secco, come un padre intransigente che non ha voglia di fornire spiegazioni troppo approfondite ai propri figli - o, semplicemente, come uno che preferisce deviare quelle curiosità un po' scomode. Quando Galathéa si alzò, quasi di scatto, strisciando con il proprio sgabello, Nate fu coperto da un'ondata del suo profumo, e scoprì allora di non averla mai avuta così vicina. Notò che aveva il respiro corto. Inspirò a propria volta, nel tentativo di distinguere le note floreali di quella fragranza che l'aveva investito con quella ventata quasi aggressiva - era qualcosa di dolce, rose, si disse, o forse perfino camelie. S'inumidì leggermente il labbro inferiore, gli occhi chiari che accarezzavano con cura i lineamenti di Galathéa: il profilo perfetto, i muscoli rigidi del collo, le spalle tese. Fu rapito dagli affanni di lei, che le scuotevano il petto ad un ritmo ipnotico e riempivano quello spazio, nel silenzio, di rumori quasi evocativi per le sue orecchie. I piedi piantati per terra, Nate non accennava a muoversi, per dar spazio né a se stesso né a lei. Spostò il peso sulla gamba sinistra, e allargò entrambe le braccia, poggiando il palmo sinistro contro la superficie del tavolo, mentre le dita della mano destra accarezzavano quasi distrattamente il bordo dello schienale della sedia dalla quale Galathéa si era appena alzata. Chiusa in quella piccola gabbia immaginaria formata dalla sedia, dal tavolo e dal corpo di Nate, Galathéa non avrebbe avuto via d'uscita - forse era questo l'intento del giovane. O forse era quello di non darla a se stesso. « Sei agitata » osservò, calmo, le pupille attente che si spostavano dal petto di lei alle sue labbra piene, ancora mosse da quei sospiri conturbanti. Perché sei agitata? La guardava curioso, Nate, come avrebbe guardato un'opera d'arte di difficile comprensione, alla ricerca di significati nascosti. Perché non sei contenta? Galathéa lo guardò, e in quella nuova vicinanza lui scoprì un coltello a doppia lama, capace di fendergli il respiro al giusto momento. « Ti assicuro che non ho intenzione di fare alcun doppio gioco. Se avessi voluto metterti nei guai, questa sarebbe stata l'occasione giusta. » In questo modo, quello che rimane scoperto e può finire nei casini, sono proprio io. « E non è pietà » ci tenne a precisare, distogliendo lo sguardo per un istante, mentre i polpastrelli picchiettavano distrattamente sulla superficie del tavolo. Semplicemente mi hai fregato, Galathéa. Quello pensò, guardandola, e quella sarebbe stata la risposta più calzante alla curiosità di Galathéa, ma l'orgoglio gli avrebbe permesso di risparmiarle quella verità. Eppure la reazione di lei non poteva fare a meno che stonare con ciò che si sarebbe immaginato - ancora una volta, reagiva in un modo incomprensibile e inaspettato, e lui la studiava incerto, nella speranza di venirne a capo. Una piccola illuminazione lo raggiunse qualche istante più tardi, mentre guardava le sue labbra e si chiedeva se non fossero più vicine di qualche secondo prima. « Speravi nel Lupo Cattivo, non è vero? » Un sorriso sornione gli piegò le labbra, prima che la sua voce fosse spezzata da una risata leggera. E invece ti è capitato il Cacciatore, che all'ultimo risparmia Biancaneve e uccide il cinghiale al suo posto. « Volevi davvero andartene ad Azkaban? » La provocò, sorridendo malignamente, le dita affusolate che si chiudevano sullo schienale della sedia, l'unica cosa a cui avrebbe potuto appigliarsi. Abbassò leggermente il capo, per guardarla meglio negli occhi, tanto da riuscire a specchiarsi nelle pupille di lei, e ammirare le venature verdastre delle sue iridi cioccolato. « Lasciatelo dire » le soffiò sul viso, mentre il respiro caldo di lei gli restituiva quel buon odore di fiori, e lui continuava a non capire quali fossero. « Sei proprio petulante, Galathéa. »
     
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    «Perché ho deciso così» fu capace di farle contorcere lo stomaco come la più oscena delle atrocità. Non esisteva limite che non andasse sfidato, non esisteva confine non andasse tastato, non esisteva regola che cadesse dall'alto senza venire messa in discussione, senza essere sminuzzata, e quindi masticata, e poi, soltanto alla fine, digerita. Non esistevano perché sì o perché no. La rabbia che la accese, la sensazione di venire ridotta a un essere che non meritava neanche spiegazioni, inerme alla mercé di chi decide per lei, le agitava il corpo più di quanto si aspettava, e laddove la perdita del controllo sopraggiunge in momenti di ira accecante le persone si dividono in due: in chi scappa, necessita di allontanarsi per recuperare la calma, la visione della fonte di quella frustrazione troppo grande per poter essere sostenuta; in chi si avvicina, in chi tocca, picchia, spinge, morde, in chi reagisce non riuscendo a guardare altrove, in chi ci vede rosso, come un toro impazzito. «Sei agitata» e Galathéa si avvicinava ancora di più, ancora di più le sembrava inimmaginabile andare via, recuperare la calma, e ancora di più cadeva nel suo tranello, la rete di ragno che le intesseva intorno, la vedeva, se ne rendeva conto. Chi sei? Sei tutto ciò che odio, la personificazione degli aspetti più ributtanti dell'essere umano? Strisci, questo fai: sei rettile, sgusci via, ti divincoli ad ogni tentativo di avvicinarti. E poi serri nella tua morsa, senza lasciare via di scampo. E così fece, come potesse sentirne i pensieri, cingendola in uno spazio confinato delimitato dalle sue braccia, tra il tavolo e la sedia che si era spinta alle spalle. Che cosa sei? «Ti assicuro che non ho intenzione di fare alcun doppio gioco. Se avessi voluto metterti nei guai, questa sarebbe stata l'occasione giusta.» E perché non vuoi? Gli occhi castani di Galathéa setacciavano i lineamenti del viso dell'ispettore, distanti non più di una mano; quella faccia che da sola comunicava qualcosa di profondamente dissonante da ciò che poi fuoriusciva dalle labbra che la componevano. Era un volto che era inutile scandagliare, una maschera fatta di ceramica, ed era quello a rendere quello spettacolo ancora più curioso; le sculture le ammiriamo per la loro bellezza estetica, per l'abilità di scalfire la pietra fino a rendere l'illusione della morbidezza, della realtà, è la più grande illusione che l'essere umano ha creato, quando ha imparato a dare a oggetti inanimati sembianze così realistiche da farle sembrare vive. Tu sei vivo, lì sotto la maschera, pensò osservando il petto di Nate dolcemente gonfiarsi e sgonfiarsi, in un ritmo che pareva simmetrico al suo, similmente cadenzato. Guardiamo una scultura per risolvere l'enigma di quell'assurda fantasia che ciò che ci sta davanti nasconda altro, e speriamo che ci parli, che la pietra intagliata ci dica qualcosa, ci riveli un sentimento, un'intenzione. Ma tutto ciò che vedremo è stato messo lì di proposito, inciso perché gli occhi sembrassero esattamente così sereni, e perché l'arco di cupido tracciasse esattamente quella curva perfetta, tradendo la parvenza di un tremore. «E non è pietà» «Che cos'è» venne fuori in un sussurro, quasi, e uno spasmo muscolare, forse, per la tensione che viaggiava nel corpo di Théa, le inarcò le sopracciglia, per qualche istante, cosicché quella domanda suonò come una richiesta personale, come se non fosse neanche rivolta solamente a lui, ma pure a se stessa. Che cos'è? Abbassò appena la testa, che a quel modo aveva dritto nel proprio campo visivo soltanto la seconda metà del viso di Nate, e si lambì il labbro inferiore con gli incisivi, inumidendolo. Poco dopo, allungò una mano verso lo schienale della sedia, dove Nate teneva le dite avvolte attorno al legno. Guardandolo, muta, poggiò la mano sulla sua, per tenersi stabile, perché non ci fosse spazio in quell'angolo invisibile che lui aveva ritagliato che lei non potesse occupare. La sua pelle era calda, molto più rispetto alle mani fredde di Galathéa. Avvertì come un groppo in gola, come quando stai per vomitare, o come quando hai talmente fame che ti sale la nausea. «Speravi nel Lupo Cattivo, non è vero?» Si passò la lingua sui denti, schioccandola con disappunto poco dopo, spostando leggermente la testa verso destra, ma rinsaldando la propria presa attorno al bordo della sedia. Le sue dita scivolarono tra gli spazi lasciati dalla mano aperta di lui, ed ebbe come la sensazione che fossero intrecciate, a quel modo. Ma non si sarebbe mossa. «Volevi davvero andartene ad Azkaban?» Era la confusione, la cosa che la indeboliva più di tutto nella sua vita; Galathéa aveva sempre un'idea chiara su più o meno tutto. Ma il fatto che lui fosse così opaco, che ogni volta che aveva deciso di averlo afferrato poi se lo ritrovava a scivolarle tra le dita come polvere, non smetteva di tormentarla, di renderla vulnerabile. «Sono pronta a pagare il prezzo che devo per ciò in cui credo» mormorò, convinta ma vagamente stordita. «Lasciatelo dire. Sei proprio petulante, Galathéa». Lei inclinò la testa, le palpebre che parvero chiudersi a rallentatore mentre Théa alzava la mano che aveva tenuto intrecciata a quella di lui e la avvicinava con delicatezza al suo volto. Con il dorso di due dita, indice e medio, ne accarezzò la guancia, come rapita, inquisitiva, ignorando completamente quell'ennesime parole vuote. Non è questo ciò che vuoi dire. La fronte corrugata, Galathéa lo guardava assorta, ed era come se avesse potuto romperla, quella maschera di ceramica, se l'avesse toccato con più forza. Si avvicinò ancora un po', un'espressione che pareva malinconica al punto da diventare quasi assente. Gli sfiorò la guancia anche con l'anulare, disegnando delle linee avanti e indietro, e poi fu senza malizia alcuna, o almeno senza che ne fosse consapevole, che allungò l'indice verso la carne rosea delle sue labbra. Ne tracciò il confine piano, mentre pensava a ciò che quelle labbra erano capaci di pronunciare, scandire, a quante volte l'avevano insultata, offesa, e a tutte le volte che avevano mentito – l'ultima qualche secondo prima. La punta del dito si soffermò nello spazio leggermente schiuso tra le labbra di lui, e vi rimase solo per qualche istante, prima di interrompere quel contatto, gli occhi come ipnotizzati su quel punto. E subito dopo, la sensazione di quel tocco ancora sul polpastrello, Galathéa si portò le mani alla bocca semi aperta, e lievemente ne pizzicò la carne, tra pollice ed indice. «Che cos'è» ripetè, senza fiato.
     
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    Quando Galathéa sovrappose la propria mano a quella di Nate, le spalle del giovane s'irrigidirono in un riflesso quasi involontario. Gli occhi fermi in quelli nocciola della ragazza, si costrinse a non posare lo sguardo in quella zona, lì dove le dita di porcellana di lei trovavano gli spazi vuoti tra le sue, e sfioravano il dorso della sua mano con delicatezza e casualità, quasi. Nate assottigliò lo sguardo e scrutò l'espressione di lei, quasi volesse decifrare il significato di quella mossa; ma cominciava a diventare un'impresa trovare i significati di qualcosa che lentamente perdeva logicità, come un lampione notturno la cui luce si faceva pian piano più fioca, fino a spegnersi completamente - allo stesso modo la loro vicinanza perdeva di un senso, diventava sempre più immotivata, fuori contesto. Fu assalito da qualcosa di simile all'apprensione nel vederla rispondere con risolutezza ai suoi sguardi, nel suo non accennare a indietreggiare, e, al contrario, rincarare la dose. « Sono pronta a pagare il prezzo che devo per ciò in cui credo. » Non era tanto il contatto fisico a spaventarlo, quanto quelle parole, e la determinazione con cui le ripeteva, con gli occhi puntati nei suoi come se dovesse testimoniare una verità assoluta. Non puoi essere così vera. Avrebbe voluto distruggere quelle labbra, che si onoravano ancora di quel sacrificio, e di quella purezza così perfetta da non avere un principio, che provavano a farlo sentire piccolo. E avrebbe voluto squarciarle il petto, per scoprire il mostro che le si nascondeva in seno, dietro a quel candore - assicurarsi che ve ne fosse uno. Eppure la sentiva sulla propria pelle, Galathéa era reale, come lo era il suo respiro caldo che s'infrangeva sul suo viso, come lo erano i suoi occhi ipnotici. Senza preavviso, spostò la mano da quella di Nate e lo lasciò così, a serrare il pugno con vigore, a cercarla nei vuoti tra le proprie dita, come l'ennesima cosa che si sarebbe lasciato sfuggire. E poi con quelle stesse mani gli sfiorò la guancia, fermandogli il respiro. Mi sfuggirai?, si domandava guardandola, immobile, quasi avesse paura che un suo movimento anche insignificante potesse spaventarla e mandarla via. Tratteneva il fiato mentre avvertiva le sue dita, delicate come gocce di rugiada, attraversargli la guancia per raggiungere la bocca e percorrerne la lunghezza con dolorosa lentezza. La guardava in silenzio, Nate, come un bambino a caccia di farfalle che ha appena trovato l'esemplare più bello, e lo osserva cauto, mentre sbatte le ali colorate, a debita distanza e senza fare rumore, col timore che possa volare via da un momento all'altro, proprio sul più bello. « Che cos'è. » Completamente ipnotizzato dai suoi movimenti, gli furono necessari alcuni istanti prima di registrare quella richiesta. La prima volta che gli aveva fatto quella domanda, una parola chiara e immediata si era materializzata tra i suoi pensieri: rimorso. Non è pena, è rimorso. Era rimorso per qualcosa che aveva già vissuto, delle pene che aveva già scontato. Capire che anche Galathéa l'avrebbe trascinato in un vortice simile non era stato difficile, ma ora - ora la richiesta di lei era ben diversa. Che cos'è. Gli occhi verdi incollati sul suo viso, non pensava più ad altro. Che stiamo facendo. « Non lo so » si arrese così, un sospiro leggero che ne tradiva tutta l’esasperazione ed il desiderio ormai malcelato, ora che non gli restava altro che colmare la distanza ormai irrisoria che li separava. Hai vinto tu, Galathéa. Sei contenta, ora? Delicatamente, lambì la bocca di lei con la propria, per poi catturarne il labbro inferiore per un istante appena. Non si concesse il tempo di assaporarlo. Fu un bacio breve, casto, leggero - quasi calcolato. « Questo cos'è? » disse, ora più distante di qualche millimetro a mala pena, le labbra che sfioravano quelle morbide di lei in maniera quasi casuale, mentre si muovevano per pronunciare quelle parole. Ancora una volta, le ribaltò la sua domanda, fedele a quella loro piccola tradizione di fuggire da ogni risposta. La punta del suo naso si mosse contro la guancia di lei, mentre la mano destra cercava spazio tra i suoi capelli sottili; la posò delicatamente sul suo collo caldo, il pollice che si ritrovò a percorrere il profilo della clavicola, per poi soffermarsi nell'incavo del collo, lì dove poteva sentire il sangue pulsare.
     
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    La pelle del viso di Nate a lei era morbida, e sorprendentemente liscia, ben rasata o forse indisposta a crescere una barba vera e propria. Théa sembrò registrare quella ed altre informazioni, come sorpresa dalla minuzia con cui Nate era stato creato, e dal fatto che sembrasse essere composto di carne, esattamente come lei, esattamente come chiunque altro. Di nuovo, una strana fame sembrò montarle dallo stomaco fino alla gola, qualcosa che avvertiva come distante nel tempo, ma in una cronologia che non le apparteneva, lontano ontologicamente, perché primario, primitivo. Qualcosa la spingeva ad una sorta di voracità, sostanzialmente conoscitiva alla base, che nella propria irruenza conteneva contemporaneamente l'amore e la violenza. Galathéa era sicura di disprezzare la persona che le stava di fronte, così vicino da poterne sentire il respiro sulle labbra, ed era certa che non esistesse un modo logico di spiegare perché con la stessa intensità con cui desiderava respingerlo necessitava di colmare qualunque distanza, in un qualche modo, forse, addirittura compenetrarsi a lui, come un istinto perverso a gettarsi nel fuoco, come il pensiero intrusivo che suggerisce di distruggere un castello di carte, costruito meticolosamente, un esempio maestoso di equilibrio e dedizione. Era la pulsione di morte, di negazione, non era il gusto per il semplice proibito in quanto tale, era il gusto per ciò che sai essere sbagliato e perverso e malato e che ti piace per questo. Non riguardava interamente Nate: la malattia, per così dire, l'errore, lo sporco e il cattivo risiedevano in lei, che desiderava con così tanta forza qualcuno che contemporaneamente disprezzava; era a lei che apparteneva la pulsione, e non era certo lui, la morte, ma solo un modo per impartirla a se stessa, un'opportunità per compiere la scelta sbagliata, venire divorata e divorare, dopo tanto combattere contro ciò che reputava giusto, dopo tanto preservarsi, in fondo non era più facile cedere? «Non lo so». Si era già sentita così con lui, prima, domandandosi se fosse possibile che il modo in cui lo ritenesse spregevole non facesse che aumentare il desiderio di fare esattamente ciò che ora si era concessa di fare, e cioè toccarlo con mano, con la vera punta delle dita, sapendo che non sarebbe stato sufficiente, e che se avesse cominciato avrebbe voluto poterne attingere a piene mani, della sostanza che Nate portava dentro di sé e che lo rendeva ciò che era. Qualcosa non va in me fu la naturale conclusione nel sentire la voce bassa e sottile di lui, così pericolosamente vicino, e appurare l'effetto che aveva sortito in lei quell'ammissione di incertezza, confusione, simmetrica alla propria, finalmente quelle labbra color malva che scandivano parole sincere, giuste – forse davvero il modo migliore per conoscerlo e capirlo davvero era questo. Deglutì, mentre le sue ciglia gli sfioravano le guance, e il respiro accelerava, perché oltre al desiderio esisteva la paura, consapevole o anzi ricercata, insita nella consapevolezza di ciò che l'aspettava dall'altra parte, o forse addirittura dal contrario, dall'ignorare interamente quale sarebbe stato il prossimo passo, come sempre, con lui. Non lo so e le sue labbra si posarono su quelle di lei soltanto per un doloroso istante, talmente breve da far male, talmente breve da portarla a inclinarsi leggermente in avanti, quando il fiato le mancò e lui interruppe quel contatto. Talmente breve da lasciarla a bocca aperta, a desiderarne di più, e tutto il corpo parve pizzicarle, come avvolto dalle fiamme, o trafitto da una miriade di spilli. «Questo cos'è?» Galathéa non rispose, gli occhi ancora chiusi, mentre passava la lingua sulle labbra, dove Nate aveva lasciato un po' del proprio sapore. Non lo guardava, mentre lui rimaneva esattamente dov'era, e anzi, per la prima volta le sue mani la toccavano, si insinuavano tra i suoi capelli, e lei rimaneva ferma, con gli occhi chiusi, muovendo soltanto la testa, che con un movimento impercettibile quanto rivelatore si sollevò, al sentire il pollice di lui delicatamente premere contro il suo collo. Espirò lentamente, l'aria calda che le sfuggì dalle labbra, lì dove Nate poteva udirla perfettamente, ascoltare l'effetto sortito da quel tocco, e fu questo pensiero a bloccarla, serrando la bocca immediatamente, affondando i denti nella carne. Non puoi. E quel pensiero, che lui non avrebbe dovuto sapere quanto invece lei volesse, non faceva che aumentare la sua voglia di mostrarglielo, per quel meccanismo contorto per cui con lui era vero tutto e il contrario. Così Théa girò la testa, verso la mano di lui, e abbassò il mento, così da trovarsi il suo palmo a coprirle la bocca, e solo allora lo guardò, da quell'angolazione inclinata, e si lasciò per qualche istante sorreggere da quella mano grande, i capelli scuri che le ricadevano sul viso. Così, in quella che era diventata una carezza, Galathéa tese nuovamente una mano verso di lui, e fece lo stesso, infilando le dita tra i capelli scuri e mossi di lui, sentendone le fibre, finalmente concedendosi quell'insinuazione. Lo guardò senza fretta, con il pollice che tracciava archi invisibili lungo la linea della sua mascella, fino a raggiungere nuovamente la linea delle sue labbra; ma stavolta non era curiosità a spingerla, o forse c'era anche quella, ma si leggeva un'intenzione diversa, negli occhi di Théa. Era talmente vicina che il pollice era tutto ciò che separava quel contatto tra loro, e così solo dopo qualche secondo lo spostò, come prima di buttarsi in acqua gelida ci si concede qualche momento per abituarsi alla temperatura. Galathéa gli accarezzò le labbra con la punta della lingua, che ritrasse subito, come un animale che assapori la preda prima di divorarla. Fu in una frazione di secondo che finalmente lo baciò, l'altra mano che correva a raggiungere l'altra attorno al volto di Nate, cosicché le parve di tenere quel groviglio contorto e oscuro che era la sua testa ancora più saldamente, per quanto leggero fosse il suo tocco, mentre ricambiava la sadica delicatezza con cui l'aveva baciata lui, per poi affondare piano i denti nella carne del suo labbro inferiore, come una sorta di do ut des, in cui lei rincarava la dose di poco, ma abbastanza da volerne di più. Con la punta del naso sfiorò la sua, come a incitarlo ad andare avanti, a continuare quell'ennesima sfida che avevano trovato il modo di lanciarsi a vicenda.
     
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    Se insieme Nate e Galathéa avevano stabilito che nero e il bianco non esistevano, quel momento al primo dei due appariva tutto fuorché grigio. Non c'era una giustificazione per quegli sguardi, per quella vicinanza, per la prepotenza con cui si toccavano, come non esistevano giustificazioni per l'esistenza stessa di quella serra, o per la lettera che Nate aveva redatto poco prima, o ancora per la sua remissività. Quella che stavano esplorando non era un'area indefinita, opinabile, una situazione "limite", per così dire. Probabilmente lo era anche stata fino a quel punto, quando avevano accettato entrambi di tuffarsi in acque insidiose malgrado ogni segnale esterno suggerisse diversamente. Nate, che per sua natura era avverso al pericolo, avvertì quella contraddizione dapprima come un pugno allo stomaco, capace di contorcergli le viscere; notò anche qualcos'altro, però, al di là dello sgomento - qualcosa di simile ad una scarica elettrica, una trepidazione inattesa che gli provocava un formicolio sulla punta delle dita e alla bocca dello stomaco. Come dopo uno strappo che avviene all'improvviso, o un vaso di cristallo che s'infrange sul pavimento, l'aria di quel momento era pregna dell'inesorabile: e ora Nate e Galathéa si guardavano, colpevoli come due bambini dopo un gran pasticcio, forse non pienamente consapevoli di quello che li aspettava. Percepì le mani di lei sul proprio viso e sentì di volerne ancora, più vicino, non è abbastanza. E lo baciò ancora, ripagandolo con quella sua stessa crudele moneta, concedendogli appena qualcosa in più ma mai a sufficienza. Avvertì il sapore dolce delle sue labbra, la violenza di quella piccola aggressione mentre, quasi a farvi da contraltare, la porcellana delle sue dita distribuiva carezze sulle sue guance.
    Un sospiro sottile lasciò le labbra di Nate, gli occhi appena socchiusi, mentre veniva colpito dalla fatalità di quei gesti. E così tornò al proprio Rubicone personale, quelle labbra piene dal sapore zuccherato che continuavano a tentarlo con perfidia. Le divorò avidamente, schiudendo le proprie, questa volta noncurante della misura; come un digiuno che si concede dapprima un piccolo pezzo di cioccolata e poi, risvegliatasi in lui l'ingordigia, trangugia l'intera tavoletta, allo stesso modo Nate ricercava il disordine, perché la bocca di Galathéa gliene aveva concesso troppo poco, appena una punta - e quando si deroga dalle regole è bene che lo si faccia in abbondanza, senza sconti. Se il dado era tratto, se ormai si era rovinato, Nate sarebbe andato a fondo, permettendosi quella singola, memorabile, eccezione. Con la lingua percorse lentamente lo spazio tra le labbra di Galathéa, prima d'insinuarsi oltre, nell'impazienza di approfondire quel contatto, e sentirla più vicina di quanto non fosse stata fino ad ora. Più reale. Distinse un leggero sapore di caffè sulla lingua, insieme a quella indefinita fragranza floreale. Fu lento, accurato, quasi volesse esplorare ogni millimetro della sua bocca con minuzia, come se non ci fossero altre occasioni. La mano ferma sul suo collo scivolò a carezzarle una guancia, mentre l'altra si muoveva distrattamente tra i lunghi capelli lisci. Gli piacque toccarla, sentirne il calore della pelle contro il palmo della mano, e poi le nocche, e sciogliere i nodi della sua chioma tra le dita - scoprire che fosse vera, che avesse un corpo oltre le parole che aveva detto, oltre le occhiate saccenti e il palese disgusto che gli aveva riservato. Gli piacquero i suoi sospiri leggeri, che forse testimoniavano il contrario di quello che tendeva a dare a vedere.
    Si allontanò appena un momento, qualche istante più tardi, il respiro ancora pesante sulle labbra di Galathéa, mentre la mano destra scivolava via dalla sua guancia per raggiungere la propria tasca dei pantaloni. Frugò per qualche secondo, con la bocca ancora pigramente a lambire quella di lei; una volta estratta la propria bacchetta, la puntò verso l'alto, quasi senza guardare, quasi più attento ai propri polpastrelli sul collo della ragazza. Un piccolo fascio di luce fendette l'aria fino a colpire quella piccola porticina di legno lontana, sopra le loro teste, chiudendo definitivamente il coperchio del baule dall'interno. Scostandosi appena dal volto di lei, piegò il capo all'indietro, e gli occhi verdi corsero sul soffitto ad accertarsi che l'incanto avesse funzionato. Una precauzione che, anche nella libera accettazione di quel caos, Nate non avrebbe rischiato di non prendere.
    Quando i suoi occhi tornarono su di lei, nessuno poté esimersi dal guardare le pupille dell'altro, e fu allora che Nate soffocò una risata leggera. Forse fu la tensione, o il paradosso del momento. Si concesse un passo in avanti, l'ultimo che gli sarebbe stato possibile fare, e stavolta la costrinse tra il proprio corpo ed il tavolo. « Perché non parli più? » le soffiò sulle labbra, sorpreso solo in quel momento da quella piccola quanto spiritosa realizzazione: probabilmente era appena trascorso il periodo più lungo in cui avesse visto Galathéa Durand tacere. Sfiorò le sue labbra con le proprie un'ultima volta, prima di deviare, e insinuarsi con il viso fra i suoi capelli, fino a raggiungerne il collo. Posò un bacio delicato appena sotto il lobo dell'orecchio, lì dove poco prima con le dita aveva sentito le vene pulsare. « Di solito sei così loquace » fece, senza voler perdere la propria insolenza. Quasi insopportabile, aggiunse mentalmente, sorridendo contro la sua pelle, le fila di denti che la sfioravano quasi per caso.


    Edited by stupor mundi. - 29/1/2024, 20:25
     
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    Esattamente come per le loro sfiancanti conversazioni, che miravano sempre a provocare, tastare l'altro metaforicamente alla ricerca del suo punto debole e affondare il dito laddove si percepivano più sensibili, Nate e Galathéa portavano avanti quel gioco perverso, probabilmente molto meno consapevoli di starlo facendo, ma non di meno colpevoli di quella loro natura crudele. Ogni sospiro di Nate sembrava nutrirla dell'ulteriore desiderio di continuare, approfondire, in un impulso che poco aveva a che fare col volergli dare piacere, con la dolce tenerezza del percepire la vulnerabilità altrui, e che invece era macchiata da tinte di euforia al pensiero di poterlo spogliare, metaforicamente, di poter raggiungere posti dentro di lui che sfuggivano al suo controllo. Probabilmente, se fosse stata più malata, l'avrebbe capito subito, che il modo migliore perché lui le si mostrasse per ciò che era, in tutta la propria umana natura, era proprio attraverso il canale della fisicità, invece che quello dell'intelletto. Lì poteva difendersi, schermarsi, costruire e proiettare. Ma adesso che lentamente Théa lasciava andare la carne delle sue labbra dalla leggera presa dei propri incisivi, lo poteva udire, quel sospiro, per quanto silenzioso, e suo malgrado era certa che lui potesse sentire quelli di lei – come se non fosse sufficientemente chiaro che cosa dovessero star provando entrambi, come se le loro azioni, i loro corpi vicini, non bastassero a testimoniarlo. Voleva vederlo. E se lo concesse, nell'attimo in cui si distaccò da lui, di guardarlo, di sondare l'effetto che riusciva a sortire su di lui, e ne osservò gli occhi socchiusi, e il bisogno che lo spinse subito dopo ad attirarla nuovamente a sé. Qualunque cosa io stia sentendo devi sentirla anche tu. Il bacio che seguì i primi due fu diverso nella propria irruenza e nelle promesse che sembrava suggerire. A Galathéa piacque sapere che questo era il modo in cui Nate baciava, il modo in cui rispondeva, il modo in cui si decideva a prendersi ciò che gli veniva lasciato ciondolare sadicamente di fronte al viso. Le piacque il fatto che le parve si fosse spazientito, che avesse allungato un artiglio per prendersi quanto desiderava. E ciononostante la baciò lentamente, addirittura con cura, in un movimento sincronizzato al proprio, mentre dalle labbra di Théa fuoriuscì un minuscolo gemito soffocato, e lei lo attirava a sé ancora di più, il viso di lui tra le mani che non poteva essere abbastanza vicino neanche così. Persino il modo in cui la baciava era insensato, perché avrebbe dovuto essere diverso, più feroce, più disperato, e invece era preciso, forse calcolato anche questo, l'ennesimo imprevisto, l'ennesima incongruenza. E questo fatto la fece arrabbiare, la fronte che si corrugava appena mentre indietreggiava verso il tavolo, dietro di sé, e affondava nuovamente le mani tra i suoi capelli, accarezzandogli la nuca calda, e ripiegando le dita per stringere appena più forte. Vi fu un breve istante in cui lo schiocco prodotto dal contatto di quelle labbra affamate riecheggiò nello spazio che li circondava, e lei ebbe il tempo di rendersi conto che tutto ciò stesse succedendo, che l'ispettore che aveva detestato per mesi adesso premeva il proprio corpo contro il suo, ed era un corpo vero, che aveva guardato con disprezzo, la cui presenza aveva detestato, mentre ora non esisteva distanza che non desiderasse venisse colmata da quelle stesse membra. Tutto era cambiato, eppure niente era mutato.
    Fu qualche istante dopo che Nate fece richiudere il baule. Senza fiato, tollerò quella breve distanza, mentre lui alzava la testa per controllare la volta artificiale sopra di loro. Théa fece ricadere le proprie mani lungo i fianchi, il cuore impazzito di un'euforia che non avrebbe più potuto tenere nascosta, era ben oltre quel punto. Ma ci avrebbe provato. E così, dopo averne seguito la traiettoria dello sguardo, Galathéa rimase a cercare di recuperare fiato, mentre sentiva gli occhi di lui su di lei. Avrebbe dovuto fermarsi? E perché avrebbe dovuto? I suoi occhi castani saettarono a destra e a sinistra, pensierosa più che a disagio. Lo sentì ridacchiare, e solo allora tornò a guardarlo, e quella vicinanza nuovamente le creò un groppo alla gola, l'incapacità a proferire parola. «Perché non parli più?» Premuto contro di lei, Théa avvertì il corpo andarle a fuoco, le braccia ancora inermi lungo i fianchi. Pensava, vorticosamente, ma non avrebbe saputo riportare a parole neanche una considerazione di senso compiuto, se non una: Nate stava gongolando. Si passò la lingua sulle labbra, lui nuovamente e dolorosamente vicino al punto da poter ricominciare, se avesse voluto. Quando affondò il viso tra i suoi capelli, e le lasciò un bacio sul collo, fu una reazione riflessa quella di alzare il mento verso l'alto, e chiudere gli occhi. Aveva trovato un punto sensibile, e le ci volle tutto l'autocontrollo di cui era capace per non darlo a vedere, per cui serrò la mascella, le sopracciglia leggermente inarcate. «Di solito sei così loquace» aveva continuato, rimanendo fermo dov'era, cosicché Galathéa fu capace di combattere i brividi che le attraversavano il corpo per piegare la testa su quella di lui, e cingergli il viso con una mano, in modo da sollevargli il mento, e riportarlo su, al livello dei propri occhi. «A me sembriamo piuttosto loquaci» bisbigliò, gli occhi fissi sulle sue labbra schiuse, e poi incrociati ai suoi, affamati, che ne analizzavano le espressioni. Con l'aiuto di entrambe le mani, ma con movimenti lenti e calcolati, si issò sul tavolo dietro di sé, il corpo che si scostava finalmente da quello di lui ma la testa che pendeva in avanti, affinché quel contatto visivo non si interrompesse. Si limitò a guardarlo, le loro gambe che ancora si toccavano, consapevole che avrebbe dovuto separarle per permettergli di tornarle vicino come poco prima. «Ma se preferisci... Parliamo» fu accompagnato da una smorfia che doveva assomigliare ad un sorriso, un angolo della bocca leggermente sollevato. Le gambe penzolavano nell'aria sotto al tavolo, e lei le faceva dondolare piano, i palmi attorno alla superficie del tavolo, mentre continuava a rimanere leggermente sporta in avanti.
     
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    And the first time that you kissed me
    I drank dry the River Lethe


    Era evidente che Galathéa non volesse dargli troppe soddisfazioni. Da quella distanza, con i suoi capelli sottili a sfiorargli le guance e la sua pelle calda a contatto con la propria, Nate credeva di poter percepire certi sospiri trattenuti, certi momenti in cui la mascella di lei s'irrigidiva, per lo più in concomitanza con i suoi tocchi. Lo fece di nuovo, quando le baciò il collo, e lui fu certo di percepirla ritrarsi, quasi. Fu quel genere di reazioni che lo spinse a provocarla - per quanto una parte di lui immaginava già che Galathéa avrebbe risposto a tono. E infatti lo allontanò, per guardarlo negli occhi con quella sua solita sfrontatezza. « A me sembriamo piuttosto loquaci. » Un bisbiglio sensuale, il suo, capace far percepire a Nate una scarica elettrica in tutto il corpo. Restò a guardarla, stregato dai suoi movimenti magnetici mentre si allontanava ancora di più da lui, issandosi a sedere sulla superficie del tavolo. Ora tutto ciò che restava a contatto con il corpo di Nate non erano che le ginocchia della ragazza, che gli solleticavano l'addome oltre la camicia chiara, mentre le gambe di lei si muovevano lentamente a penzoloni nel vuoto. Gli occhi verdi caddero per un momento sulle gambe di lei, fasciate dai jeans scuri, e poi ritornarono sul suo viso, lo sguardo che si assottigliò leggermente. « Ma se preferisci... Parliamo. » Fu quasi compiaciuto, Nate, nel registrare che non era cambiato nulla; che oltre ai sorrisi maliziosi che ora si ritrovavano a scambiarsi, lui restava lui e lei restava lei. E lui continuava ad odiarla come prima, per quel suo costante atteggiamento di sfida che non sapeva cedere alle sue provocazioni, per le sue certezze scolpite nella pietra, per la sua impossibile esemplarità. La odiava perché gli aveva appena impedito di tornare dove più desiderava, perché ribaltava ogni scambio, perché gli aveva mandato il petto in fiamme. « Bene, parliamo » fece, apparentemente calmo, guardandola negli occhi scuri, un angolo delle labbra che si piegava in un mezzo sorriso. Sorrideva a lei ma anche alla propria superbia, quella che che l'aveva spinto pochi istanti prima a pronunciare quella battuta di scherno, la stessa superbia che non gli avrebbe concesso di essere il primo a riavvicinarsi a lei. « Di argomenti da trattare ne abbiamo diversi, direi. » Mentre parlava, picchiettò distrattamente con le dita sulle sue gambe, all'altezza delle ginocchia. Si ritrovò subito dopo a far scorrere entrambe le mani sulle cosce di lei, partendo dalle ginocchia fino ad arrivare alle anche, in una carezza più decisa, quasi volesse distendere al meglio il tessuto dei suoi jeans, eliminarne ogni piega. Ripeté quel gesto un paio di volte, fino a quando non decise di fare un passo indietro, e troncare questa volta ogni tipo di contatto con lei. Ne osservò la reazione, mentre iniziò a passeggiare in quel piccolo spazio senza una meta precisa, le mani ora congiunte dietro la schiena. « Stavo pensando » disse, dopo diversi secondi di silenzio « hai bisogno di qualche referenza, per Azkaban? Sai, ho dei contatti. » Si strinse nelle spalle, tornando a guardarla. Era chiaramente sarcastico - l'opzione che Galathéa finisse davvero ad Azkaban era chiaramente quella più remota e tragica, ma quell'immagine lo divertiva. Soprattutto, l'aveva divertito la freddezza con cui lei aveva affrontato l'argomento, come se fosse già pronta a tutto. « Non mi hai fatto fare un giro della serra, a proposito. Avresti potuto essere più ospitale. » Erano parole vuote, quelle, era evidente. Nate dava fiato alla bocca per non avvertire il caos che aveva nel resto del corpo, per distrarsi da quella piccola tortura autoinflitta. Galathéa era ancora ferma al suo posto e lui avrebbe potuto, avrebbe voluto, raggiungerla, ma non poteva permetterselo - non per una seconda volta. Dunque la guardò da lontano, il desiderio di averla vicino ben evidente nelle sue iridi chiare, mentre, sovrappensiero, passava indice e medio sul proprio labbro inferiore, a sfiorare tutto quello che ora gli restava di lei.

     
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