Well alright, I'm bad, but then you're no prize either

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    «Bene, parliamo» aveva ribattuto, rimanendo esattamente dov'era, Théa protesa verso di lui soltanto con il collo, mentre dolorosamente non la toccava, esattamente come lei aveva voluto, esattamente come aveva chiesto – perché era certa che Nate non avrebbe potuto sottrarsi a quell'invito a interrompersi. E non perché lo volesse, ma perché non avrebbe mai potuto ammettere di voler rimanere lì, esattamente dov'era, e continuare, così come stavano facendo, e ulteriormente approfondire; questo Galathéa lo sentiva, da qualche parte nel punto della testa in cui l'aveva tenuta saldamente fino a qualche secondo prima. E la sensazione che per proprio volere, e per suo orgoglio, lui adesso dovesse sottrarsi a quella vicinanza e che proprio in quel momento, mentre le sorrideva beffardo, si crogiolasse in quella sadica privazione, le provocò un leggero aumento del battito cardiaco, e l'esigenza di accavallare le gambe, innaturalmente serrate. Non c'era molto che Nate potesse fare, a quel punto degli eventi che si erano succeduti, che non riuscisse a catturarla, a provocarle un certo affanno, una tensione attraverso cui era impossibile respirare. «Di argomenti da trattare ne abbiamo diversi, direi». Se le inventa tutte, pensò, chinando la testa per nascondere un sorriso per l'evidente silenzio preponderante che aleggiava tra loro due, e la neanche troppo efficace ricerca di lui di qualcosa di cui parlare per assecondare quel vizioso gioco a chi avrebbe fatto crollare prima l'altro. Eppure si stupì, riuscì a trovare il tempo per farlo adesso che lo guardava, di quanto naturale per lei fosse stata quell'evoluzione, di quanto non esistessero ombre di imbarazzo nel modo in cui così evidentemente questo non costituiva altro che un naturale prolungamento dei loro battibecchi, e di come, se non fosse stato per quella fulminante elettricità, probabilmente nessuno dei due avrebbe avuto la sensazione che questa fosse la prima volta tra loro due. E continuarono in quella danza senza troppo stranirsene, dunque, perfettamente a loro agio nelle parti che avevano interpretato dal primo momento, ma stavolta, a ogni passo, con sempre più la sensazione di perdersi nel proprio personaggio, o forse di renderlo sempre più simile al vero, forse naturalmente lasciando intravedere la bestia dietro la maschera. Nate la stuzzicò tamburellando le dita sulle sua ginocchia, e Galathéa lo osservò farlo, senza dire niente, ma fu costretta a trattenere il fiato quando la sua mano fu svelta nel risalire il profilo delle sue cosce fermandosi alle anche. Théa tese una gamba, quella accavallata all'altra, sollevandola appena, abbastanza da sfiorare quella di lui, un invito ad avvicinarsi o una reazione a quel gesto, simmetrico nella propria vaghezza. Lui tuttavia si scostò, allontanandosi definitivamente da lei, la sua gamba immediatamente di nuovo a ciondolare nel vuoto. Rimase a guardarlo, in attesa della prossima mossa. «Stavo pensando – hai bisogno di qualche referenza, per Azkaban? Sai, ho dei contatti» Le mani dietro la schiena, camminava a passi lenti, in quel modo che aveva imparato a riconoscere, perfettamente ispettore. La visione la disturbò per qualche istante, e così pure quella frase, perversa a modo proprio, come aveva capito funzionare la mente di lui. E comunque se ne compiacque, la capacità di quelle labbra di ricercarla e lambire le sue dolcemente, sebbene con una certa famelicità, e poi sferzarla con schegge avvelenate. Annuì, senza dire niente, come prendendo nota di quell'informazione. Assottigliò lo sguardo mentre disse: «Ti farò sapere», rimanendo a osservare. Era il suo modo di stuzzicarla, forse, quello che credeva avrebbe funzionato – si sbagliava, ancora una volta. «Non mi hai fatto fare un giro della serra, a proposito. Avresti potuto essere più ospitale.» Adesso erano distanti un paio di metri. Sospirò rumorosamente, scivolando giù dal tavolo con un piccolo salto. Fu molto lentamente che colmò nuovamente quella distanza, abbastanza da trovarglisi di fronte, con le braccia incrociate al petto. Se era quello il gioco a cui desiderava giocare, non se ne sarebbe sottratta – del resto l'aveva cominciato lei. Quando riuscì nuovamente a percepirne il profumo – un'acqua di colonia, forse il dopobarba, si domandava di che cosa profumasse davvero Nate, quale fosse il suo odore naturale – lo guardò per qualche secondo, prima di tendere una mano, il palmo rivolto verso l'alto, nella sua direzione. Non sorrideva, Galathéa, anzi, la sua espressione appariva, per quanto serena, risoluta, ferma. «Ti faccio vedere, allora», fece, e suonò anche questo come una sfida, il gusto perverso di mostrargli fino a che punto si erano spinti a sua insaputa, per quanto non avesse mai riguardato lui, il piacere di dettagliargli quella trasgressione.
     
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    « Ti farò sapere. » Aveva capito ormai, Nate, che non c'era modo di trovare alcun tipo di soddisfazione nelle provocazioni fatte a Galathéa. Eppure le sue risposte pronte non mancavano di stupirlo di volta in volta, come se non potesse ritenerla sufficientemente sagace da tenergli testa in quel modo. Se ne compiaceva, però, perché una battaglia vinta in partenza equivale ad una battaglia persa. La guardò scivolare lentamente giù dal tavolo, alla sua successiva provocazione, per avvicinarsi a lui con una flemma insostenibile. Era quella lentezza, quel continuo tergiversare con cui si torturavano a vicenda che accelerava il battito nel petto di Nate, tanto che si chiedeva se lei non potesse sentirlo, quando gli era vicino, se fosse in grado di comprendere cosa fosse in grado di scatenare. Ma non si trattava di lei, si disse, mentre gli occhi chiari ne seguivano i movimenti, come incantato - non da lei, no: erano le circostanze, era quel segreto, quella proibizione, era quella serra. Gli porse la mano, e in quella espressione seria Nate riuscì a leggere un che di sfidante, ma a questo era preparato. D'altronde il continuo testare l'altro era diventato il loro gioco preferito, qualcosa di cui probabilmente non sarebbero riusciti a fare a meno. Fu con un sorriso a labbra strette che pareva calmo, sereno, che accolse quella sfida, per tornare a sentire la morbidezza della sua pelle contro la propria. Lasciò che le loro mani congiunte scivolassero verso il basso, esattamente a metà fra i loro corpi, un filo sottile che teneva insieme due macigni. Con un breve cenno del capo indicò lo spazio di fronte a sé, alle spalle della ragazza. « Dopo di te » la invitò a fare strada, e dunque attese che lei si voltasse per dargli le spalle e condurlo verso il fondo della serra. Mentre incedevano lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo, le dita di Nate scivolarono a trovare gli spazi tra quelle di Galathéa, i polpastrelli che casualmente ne carezzavano le nocche, il pollice che disegnava figure immaginarie sul dorso della sua mano. Era indispensabile, per lui, sentirla sotto la pelle, percepire la vita del suo battito, avere contezza della sua vicinanza. Ora che non aveva più gli occhi di lei addosso a richiamarlo all'attenzione, gli parve un buon momento per perlustrare quello spazio con attenzione, studiarne i limiti, scroprirne nuovi dettagli. Eppure provava una strana fatica a concentrarsi, mettere a fuoco una pianta o un particolare specifico. Tutto ad un tratto lo spazio intorno a sé pareva quasi nebuloso. Circondati dal verde di quelle piante, da profumi nuovi e indistinguibili, in quel luogo dalla luce dorata e in qualche modo artefatta, era semplice perdersi. Nate si chiese se non lo stesse facendo. Da quanto tempo era lì? Una rapida occhiata all'orologio da polso gli confermò che i minuti erano trascorsi molto più in fretta di quanto non avesse percepito, e che presto il resto dei collaboratori della serra sarebbero giunti a lavoro. Quando fu certo che Galathéa non potesse vederlo, gettò un'occhiata rapida alla porticina sul tetto della serra, e rivolse verso quel punto un secondo colpo di bacchetta, per tenere a bada quella sua piccola paranoia. « Allora? » domandò, curioso, quando Galathéa si fermò in un punto preciso, sul limitare della serra. « Da dove vuoi cominciare? » Le si avvicinò, senza accennare a sciogliere l'intreccio delle loro dita. « Come si chiamano questi? » chiese, avvicinandosi ad un cespuglio di fiori biancastri. « Non sono mai stato una cima in Erbologia » osservò, con un'apparente punta di dispiacere nella voce. « Ero molto meglio in Pozioni. » La guardò, a quel punto, finalmente intrecciando di nuovo i loro sguardi, mentre un mezzo sorriso gli piegava le labbra piene. Era compiacimento, il suo, ma era anche frustrazione. Possiamo andare avanti per sempre, parve dirle, con lo sguardo, mentre una piccola stretta alla sua mano volle dare conferma a quella comunicazione non verbale. Una minaccia? « E tu invece, dove hai imparato a curare le piante? » Per sempre.
     
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    La serra era incantata in modo da dare l'illusione di espandersi oltre la foresta, ma in realtà, avvicinando la mano al limitare della zona, si avrebbe avuto sotto i polpastrelli la sensazione di trovarsi di fronte ad una parete. Sembrava un luogo infinito, dove il cielo era fatto della stessa materia di quello all'esterno, e l'aria soffiava allo stesso modo, anzi, era più rarefatta, più fresca, ma non di meno assolutamente reale. Galathéa non capiva se fosse un'illusione, come fosse possibile contenere lo spazio senza che questo fosse artificiale, senza crearlo da zero – qualcosa con cui era molto più familiare. Faticava a comprendere certe modalità della magia tradizionale, ma cercava di non fare troppe domande, per non sembrare una stupida e perché non amava porre domande che non fossero necessarie, votate ad un qualche specifico obiettivo o questione pragmatica. Così, le ci era voluto del tempo per fidarsi che ciò che sarebbe cresciuto in quella seconda serra sarebbe stato reale e tangibile esattamente come il cibo coltivato in superficie, che non si sarebbe dissipato appena riemersi dal baule; che il terreno era lo stesso, ma solo più controllato, e che per quanto ciò che la circondava fosse frutto di un incantesimo non vi fosse niente di falso in ciò che poteva toccare e sentire con le mani. Tutto tranne i confini dello spazio. Erano in un'area liminale – una zona alla soglia della coscienza e della percezione, non del tutto reale, non del tutto illusoria. Ed era liminale anche quel loro modo, adesso, di tenersi per mano, Nate che non aveva potuto esimersi dall'accettare l'invito di lei a cingergli la propria, e il fatto che le dita di lui fossero andate a riempire gli spazi tra quelle di lei, e le fantasie invisibili che tracciava col pollice. Come camminare il punta di piedi attorno al confine senza del tutto valicarlo, in uno stato sospeso tra le entità – e ancora una volta Théa si trovò costretta in quello spazio grigio, ancora una volta obbligata alla confusione di ciò che non può essere del tutto definito, del tutto inquadrato. Solo che stavolta le piaceva di più, destreggiarsi tra un opposto e l'altro, tra la materia e la completa assenza di corporeità, tra il bene e il male. Teneva le dita intrecciate a quelle di una persona che detestava, e ne desiderava la vicinanza, la più assoluta, e pure la disperazione, che lui la pregasse, di smettere o di continuare. Quella confusione la preoccupava, e contemporaneamente la faceva sentire più libera che mai – in questo stava la sua pericolosità. Tacendo, Galathéa condusse Nate su per le scale del vivaio, simile rispetto a quello in superficie ma più piccolo e più nuovo. Al centro, una piccola fontana rotonda poggiava su delle mattonelle chiare, l'acqua all'interno era verde smeraldo, su cui galleggiavano quiete delle ninfee rosa. In lontananza qualche uccellino cinguettava tranquillo; insieme al fruscio della fontana a Galathéa sembrò di trovarsi dentro un ricordo, e per qualche secondo dubitò che non fosse realmente così. Avrebbe potuto tranquillamente esserlo. «Allora?» Non aveva prestato attenzione a dove si era fermata, non aveva davvero intenzione di mostrargli alcunché – questo doveva essere chiaro anche a lui. Ma come un bambino lui continuava con quella recita stupida, quel gioco che tanto lo divertiva, senza leggere davvero cosa nella persona di fronte a lui stesse succedendo. Lui doveva andare avanti. «Come?» Fece, senza distogliere lo sguardo da una delle ninfee sullo specchio d'acqua increspato. L'attenzione di Galathéa non era più unicamente su di lui. «Da dove vuoi cominciare?» Théa si strinse nelle spalle, incerta, mentre finalmente tornava su loro due, qui, ora, e guardava quell'intreccio tra le loro mani, in quel solito modo vagamente inquisitorio, perplesso, assente. «Come si chiamano questi? Non sono mai stato una cima in Erbologia» continuò, e lei si fece condurre verso il cespuglio di biancospino. Distrattamente tese la mano libera verso i petali del fiore, per qualche secondo imprudente nel dimenticarne la natura spinosa. Neanche ci fece caso al pizzicore delle dita punte, una gocciolina di sangue che macchiava la corolla pura. «Ero molto meglio in Pozioni». Avrebbe voluto liberare la propria mano da quell'intreccio. Sentiva che Nate volesse portare avanti quel gioco più di quanto non interessasse più farlo a lei – le sarebbe piaciuto farlo, normalmente, ma c'era qualcosa di quei commenti vuoti che cominciava quasi ad annoiarla. Fissò la macchiolina cremisi per qualche istante prima di portarsi l'indice alle labbra, e avvolgerlo con la lingua – la stessa con cui aveva sfiorato quella di lui. Il suo sangue si mischiava così all'essenza di Nate, pensò distrattamente, e quell'idea la portò a succhiare leggermente laddove la ferita pungeva di più. «E tu invece, dove hai imparato a curare le piante?» Finalmente ne ricambiò lo sguardo, il dito ancora tra le labbra schiuse, prima di rimuoverlo con uno schiocco. Lo guardò per qualche secondo, in bocca il sapore ferreo. Liberò la propria mano dalla stretta di lui proprio quando si fece appena più serrata, sciogliendola morbidamente. «È biancospino» disse quasi bisbigliando. L'atteggiamento sfidante di qualche momento prima era scomparso, e probabilmente questo perché Nate non sembrava all'altezza delle provocazioni di Théa. Si crogiolava troppo nella propria abilità all'abnegazione, alla rinuncia, al desiderio esibizionistico di dimostrarlo a lei, e non le lasciava lo spazio per intravedere il suo bisogno, né di avvertire il proprio. Quelle dita intrecciate erano troppo poco per ricordarle quanto male avesse fatto vederlo allontanarsi soltanto qualche secondo prima. Forse lo faceva perché voleva provare di saper essere instancabilmente frustrante, ma la sfida che lanciava in questo modo era esclusivamente a se stesso, non a lei. Si era forse sbagliata? Era forse un avversario deludente? È tutto qui? «Non ho propriamente imparato» rispose lo stesso, in un sospiro leggero. «Sai com'è, sono metà ondina e metà warlock elementale. Era difficile che non andassi d'accordo con le piante, Nate». Liberata dalla presa, compì qualche passo verso il resto della vegetazione, il rumore delle scuole delle scarpe sulla pietra asciutta. «Ho sempre pensato che le pozioni fossero degli artefatti un po' subdoli – non parlo di quelli a scopo medico, naturalmente. Trovo che i veleni siano tra le forme più riprovevoli di attacco, se si può definire tale.» Si mise a sedere sul bordo della fontana, accavallando le gambe. Se lui voleva parlare di coltivazione e pozioni, avrebbero parlato di coltivazione e pozioni, per quanto le riguardava, per quanto infinitamente tedioso. China in avanti, poggiò il gomito sulla coscia, e si sorresse il mento con il pugno. Assecondava, attendeva, temendo che dall'altra parte di tutto quel tendere la fune e tergiversare non vi fosse alcunché. E forse non sarebbe stato poi così male: forse sarebbe stata l'opzione migliore, aver sondato quella strada proibita ma terribilmente desiderata, pretesa, per poi realizzare che non costituisse minaccia alcuna. Almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi.
     
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    I don't know how the feeling ended
    but I know being reckless and young
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    Gli occhi di Nate percorsero la figura di Galathéa, curiosi, attenti ad ogni sua reazione e movimento. Per un attimo le parve più sfuggente, quasi concentrata su altro, e allora le strinse leggermente la mano, nel tentativo di riportarla accanto a sé. Era calato una specie di silenzio ingombrante tra loro, intercalato da quelle battute disinteressate, che però erano troppo distanti tra loro, concedendo ai pensieri lo spazio per vagare indisturbati. Mentre lei si concentrava sulle ninfee che adornavano lo specchio d'acqua chiaro, gli occhi di Nate tornavano automaticamente a quella porticina in legno, ora fattasi più lontana, nella mente di nuovo le immagini di ciò che vi era oltre, il suo capannone, la scrivania, i lavoratori con le loro mansioni, Iron Garden, Londra. Ripensò a quelle cose reali e a come fosse stato possibile che gli paressero così distanti per quei pochi attimi con Galathéa. Ora però erano di nuovo lì con loro, a fissarlo con apprensione nella forma di quella minacciosa porticina arrugginita. « È biancospino. » Fu distratto da quei pensieri solo quando nel suo campo visivo la ragazza allungò una mano verso la pianta, per poi pungersi con una delle spine. La vide portarsi il dito ferito alle labbra, le stesse che lui continuava a desiderare come prima, a discapito di ogni richiamo esterno. Ne ricercò gli occhi scuri, ma di rimando avvertì le dita di lei scivolare via dalle proprie, per poi vederla allontanarsi ancora di più e prendere posto sul bordo della fontana. « Non ho propriamente imparato. » Nate piegò il capo leggermente verso sinistra, curioso. Fu attento non tanto alle parole di lei, quanto al tono con cui venivano pronunciate, a quei leggeri sospiri distratti, ai suoi occhi sfuggenti. « Sai com'è, sono metà ondina e metà warlock elementale. Era difficile che non andassi d'accordo con le piante, Nate. » Lo avvertì di nuovo, quel tono perentorio con cui Galathéa soleva dargli le sue piccole lezioni, fare appunti sulle sue osservazioni e correggerlo laddove lo trovava impreciso. Assottigliò lo sguardo, registrando il tono secco con cui gli si era rivolta, e quella ripetizione finale del suo nome, in cui gli parve di leggere una nota di stizza. « Hai ragione. Me ne ero dimenticato, Galathéa » e ripercorse il suo nome con la medesima cura, la lingua che si soffermava su ogni sillaba di quella parola tanto dolce e melodica quanto sfuggente. « Ho sempre pensato che le pozioni fossero degli artefatti un po' subdoli – non parlo di quelli a scopo medico, naturalmente. Trovo che i veleni siano tra le forme più riprovevoli di attacco, se si può definire tale. » Inspirò profondamente, gonfiando il petto, mentre le mani scivolavano nelle tasche dei pantaloni scuri. Si chiese come fossero giunti a quella conversazione, a quella distanza. Gli occhi chiari percorsero lo spazio che lo separava da Galathéa, e osarono oltre, transitando nuovamente sui loro passi, fino al tavolo, ormai distante, dove si erano incontrati quella mattina. Come ci sei arrivato fino a qui? Gli parve di percepire solo allora il peso di quella realtà che li sovrastava, e di colpo quello che fino a pochi attimi prima era parso ineluttabile si tramutò in qualcosa di sciocco, in qualche modo scongiurabile. Emise l'ennesimo sospiro, e nel riportare gli occhi su Galathéa ne vide finalmente le insidie, che incombevano dietro ai suoi occhi scuri come ombre malevole che si sfregavano le mani dinnanzi alle sue debolezze. Erano lì per tentarlo, quegli occhi, e coglierlo in fallo - e in buona parte avevano avuto successo. Non seppe liberarsene del tutto, tanto che si ritrovò, come una biglia di ferro in un campo magnetico, a camminare fino al bordo della fontana, fino a lei, per sentire ancora una volta il suo profumo vicino, per cadere di nuovo nella sua trappola. « Non sono d'accordo » disse, la voce bassa, i palmi delle mani che si appoggiavano al davanzale della fontana sul quale lei si era accomodata, appena al suo fianco, ma sufficientemente lontano da non sfiorare il suo braccio con il proprio. « Trovo che il veleno sia un'arma molto intelligente. Subdola, certo, ma può essere utilizzato soltanto da una mente sopraffina. E personalmente ho sempre avuto un debole per ciò che è sinonimo d'intelligenza. » Le lanciò un'occhiata fugace, prima di tornare a posare lo sguardo verso l'ampio spazio della serra, di fronte a sé. « Non so se lo definirei riprovevole, addirittura. Se un giorno mi dovessero avvelenare, non avrei che da fare i complimenti al mio avversario. » Complimenti dunque a te, Galathéa. Alzò la mano sinistra dal davanzale, ruotando il busto di novanta gradi, così da poterla fronteggiare. Erano di nuovo vicini, ora, e a lui venne in mente che forse l'odore di lei era proprio quello di biancospino, ma non ne aveva la certezza e non avrebbe indagato oltre. Le dita della mano ferma sul davanzale si chiusero intorno alla pietra bianca, mentre costringeva la mano sinistra a tornare nella tasca dei propri pantaloni, una piccola punizione per quanto stava per concedersi. Con un sospiro sconfitto si avvicinò al suo viso per indugiare ancora su quelle labbra, volendole assaporare di nuovo. Fu un bacio diverso dai precedenti, meno timido e non più vorace, quasi dolce; un commiato. Avrebbe voluto accarezzarla ancora, sentirne il calore della pelle sotto i polpastrelli, ma fu facile per lui comprendere che quella era una dose che non avrebbe sopportato. L'antidoto di molti veleni comuni, d'altronde, era la somministrazione di una piccola dose che ne garantisse l'immunità - ma era essenziale essere cauti. Nate aveva esagerato, in quella serra, e Galathéa era stata pronta ad approfittarne, forse anche per il proprio tornaconto. Forse era alla ricerca di un complice, si domandò il giovane, mentre lambiva il labbro inferiore di lei con le proprie labbra, e chiudeva così quel bacio, esattamente come tutto aveva avuto inizio. Sospirò di nuovo, l'evidente fatica di quel distacco che s'infranse nel breve spazio che li separava sotto forma di quel respiro caldo; Nate chiuse allora gli occhi per un istante e, raccolto il proprio autocontrollo, fece un passo indietro. Cercò gli occhi scuri di lei, allora, e la guardò con un'aria vagamente perplessa. Il peso di quell'errore così evidente ora palpabile nell'aria. « Posso evitare di obliviarti, giusto? » un sorriso amaro comparve sulle sue labbra, che ancora recavano il suo sapore, mentre si concedeva quella battuta innocente, la quale, però, lasciava intendere le sue intenzioni. Quello che è successo non può uscire di qui. E per quanto avesse provato a mascherare quel pensiero come una battuta ridicola, che dipingeva una situazione limite, evidentemente assurda, una parte di lui, anche solo per un istante fugace, aveva realmente considerato quell'ipotesi. Quella di costringerla a dimenticare quegli ultimi minuti, e cancellare quella versione di sé dal registro della sua mente. Non esistere, agli occhi di lei, se non con le regole che avrebbe dettato lui stesso.
     
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