El tango

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    Una matrioska del cazzo. Un diorama di menzogne in un loculo dalla comodità ben limitata. Questo posto profuma della merda che ci lasciamo noi auror perché se dipendesse da loro, da tutte queste bestie, beh, una piccola città come questa sarebbe una città dignitosa. Ma il proprio orgoglio, in un certo senso, lo preserva. Se ci si abitua al puzzo di merda poi si riescono persino a cogliere quelle sfumature che fanno di una casa una vera casa. Un focolare accogliente nel quale ripararsi per il coprifuoco. La comfort zone, certo, per chi, anche se volontariamente, ha finto di preferire questo piuttosto che altro. Mi sento un cazzo di Testimone di Geova con questi documenti sotto braccio. Un plico di pergamene ben lavorate affinché la verità spicchi nero su bianco. Neanche a dire che qualcuno, al Ministero, abbia davvero voglia di farci dei quadrucci con certe dichiarazioni. La fortuna di questi poveracci, è che alla prelevazione di ricordi coatta ancora non ci siamo arrivati o almeno, io non sono costretto ad andar oltre ciò che i miei colleghi fanno da prima di me. Posso ancora permettermi agio di manovra e finché questo diritto mi verrà concesso, tenterò di sfruttarlo al nostro vantaggio. E non solo perché lo devo a Raiden e alla sua famiglia, quanto perché non c'è legge che al giorno d'oggi sappia rappresentarmi. Io non sono rappresentato né difeso da nessuno. Mi tiro su da solo e l'unica preoccupazione che ho, probabilmente, è proprio quella di tenermi un lavoro come questo. Una contraddizione che non smetto di ripetermi quando mi specchio. Devo guardarmi negli occhi, sì, per ripetermi di aver sbagliato ogni cosa. Ma che nello sbaglio, ecco, cerco di ricavare il meglio. Che non tutto il male vien per nuocere anche se di questi anni si fa fatica a respirare. E qui l'aria sembra rarefatta, anche se il vento ulula di ribellione in ogni angolo. Ne conosco i cunicoli come se potessi passeggiarvi a piedi nudi. Come se stessi a casa mia anche se le mie comodità risiedono altrove. E trovo l'abitazione di Yagami perché il percorso me lo sono studiato nella mente ogni fottuto giorno che ho messo piede qui. Per capirne i punti di fuga più veloci come se una parte di me fosse pronta ad incitarli ad andarsene per sempre. Che questo concetto di ghettizzazione volontaria io non so accettarlo. Non so veder del buono in nessuno dei due schieramenti. Odio che il nostro mondo sia spezzato in questo modo.
    Ma io non sono un giudice, anche se ciò che dovrei fare è difendere la legge, farla rispettare.
    Io sono solo un uomo, un uomo che crede nella fedeltà così tanto da non potersi non preoccupare per il suo amico Raiden.
    Tanto che quasi mi dispiace arrivar qui senza aver portato alcun pensiero: ma le nostre non sono mai delle vere e proprie visite di cortesia, nemmeno quando so rincuorarmi nel sapere che la famiglia di Raiden sta bene.

    — Agente Auror Cunningham.
    Mi annuncio ancor prima di bussare. A forza di farlo mi viene in automatico. A volte non coordino più mente e corpo e non perché io abbia disimparato com'è che si fa. Forse la svogliatezza, in questo senso, sa farmi perdere il senso delle cose. Anche di quelle per cui mi prefiguro di battermi.
    E per darmi coraggio spingo la mano libera dalle pergamene contro il petto. Tasto alla ricerca della fiaschetta di whisky nel taschino interno. Sono lì anche le sigarette, qualora questo possa in un qualche modo rivelarsi un interrogatorio di piacere. Poi aspetto. Aspetto che qualcuno venga aprirmi con un sorriso che sa tirarsi sul viso solo in quel medesimo frangente. Per non essere intravisto da occhi indiscreti e nella speranza che nessuno di loro possa finire per dimenticare davvero a chi appartiene questo cognome. Potranno sentirsi al sicuro, non sarò il poliziotto cattivo quando varcherò la soglia della loro casa.



     
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    Le condizioni di vita in quel di Iron Garden erano a dir poco pessime. L'intero quartiere era evidentemente stato pensato con l'idea di frustrarli, farli sentire collettivamente una nullità, qualora i continui interrogatori, il misero compenso che ricevevano per le dure ore di lavoro e, più in generale l'impossibilità di muoversi liberamente, non fossero stati sufficienti. Ad Eriko tutto quello faceva schifo. Il piccolo appartamento che condivideva con Hanna, sua madre, era non soltanto angusto ma anche insalubre; nonostante gli inverni non fossero duri come quelli in Scozia, restava che gli ambienti fossero sempre gelidi e che il rischio muffa fosse continuamente dietro l'angolo. E se tutto quello non fosse stato sufficiente, ci si metteva anche quanto i viveri che gli venivano passati fossero scadenti, se si escludevano quelli coltivati all'interno della serra. Vogliono portarci a comprendere che siamo meno di nulla. Toglierci ogni desiderio non soltanto di ribellarci, ma anche di vivere. Vogliono accettiamo questa condizione; questo perpetuo stare a testa bassa come unico modo possibile di esistere. Questo pensava Eriko, ma era anche ben lontana dall'arrendersi di fronte alla frustrazione. Eriko Yagami non era programmata per arrendersi. E se anche lo fosse stata, si imponeva di convincersi del contrario, quantomeno per non darla vinta così facilmente a quegli stronzi che, ne era certa, non aspettavano altro che di vederla spezzarsi. Dovete ancora mangiarne, di cereali sottomarca. La più piccola degli Yagami era spesso stata sottovalutata in quanto donna - era cresciuta in una società fortemente patriarcale, dove la gente non si aspettava granché da lei. Come per ogni ragazza della sua età, le aspettative nei suoi confronti non erano nemmeno lontanamente quelle riservate ai fratelli. Se da Raiden ed Hiroshi ci si aspettavano risultati tangibili, spesso e volentieri l'eccellenza, tradizione voleva che Eriko stesse semplicemente lì. Doveva sorridere, essere carina, possibilmente trovarsi un buon marito e fare la donna di casa. Doveva avere, insomma, più o meno le medesime aspirazioni di Misa. Se le avesse avute, sarebbe probabilmente stata considerata la perfetta donna giapponese. Peccato però che Eriko non fosse mai stata questo. Desiderava fortemente l'indipendenza, non sentiva di avere meno da offrire rispetto a Hiroshi o Raiden. E si era sempre mossa di conseguenza, pur attirando commenti e perplessità da parte dei più conservatori, specialmente in terra natìa. In Giappone l'avevano spesso sottovalutata, relegandola a quel è solo una ragazza, un po' bonario ed un po' dispregiativo.
    Dalla sua, la giovane ne aveva spesso approfittato, aspettando solo il momento più propizio per dimostrare a tutti quanto potesse andare loro di traverso e quanti danni, a conti fatti, fosse in grado di fare. In Giappone l'avevano infine capito che Eriko Yagami non fosse "solo una ragazzina"; ad Iron Garden dovevano star iniziando a comprenderlo.
    Stava riordinando la cucina quando sentì una voce, poi dei colpi alla porta. « Agente Auror Cunningham » Questo, ciò che la voce ormai familiare aveva detto. La giapponese sospirò pesantemente. « Arrivo! » Annunciò. Si prese il tempo necessario ad asciugare l'ultimo piatto e riporlo nel mobiletto apposito sopra il lavello. Poi, piuttosto pigramente a dire il vero, percorse l'irrisoria distanza che separava la cucina dalla porta d'ingresso. La aprì piano per evitare cigolasse. « Agente Cunningham. » Lo accolse, soppesandone la figura con sguardo attento, inquisitivo. Non mi dirai mica che adesso ci perquisiscono anche le abitazioni, spero. « Mia madre è a lavoro, se è lei che cerca. » In realtà Eriko non era sempre così formale nei suoi confronti. Faceva un po' come le circostanze imponevano - a volte lo era, altre no. In quel momento, col fatto che l'uomo si trovava ancora sulla porta non riteneva saggio lasciar cadere la cortesia. E poi comunque serve anche a mantenere le distanze. Eriko Yagami era sempre stata una grande fan delle distanze. Soprattutto, del decidere da sé quando e se accorciarle. Era un comportamento, quello, dettato da mille fattori. Soprattutto però derivava dal fatto che Eriko, la sua fiducia, non la concedesse a chiunque. Diffidente lo era sempre stata, per carattere, e le varie esperienze di vita avevano soltanto esacerbato quel suo tratto. « Se però posso esserle d'aiuto io, entri pure. » Con quelle parole si fece da parte, lasciando che l'altro facesse il suo ingresso prima di chiudergli cautamente la porta alle spalle. Ancora una volta ne esaminò la figura, stringendo appena le labbra. « Come posso esserle utile? » Ed infatti, pur nella consapevolezza di essere sola con l'Auror, Eriko non aveva lasciato cadere i formalismi. Non sapeva ancora, d'altronde, come mai l'uomo avesse deciso di farle visita. Se in vesti ufficiali o meno. Se fosse stata la prima, sarebbe stato molto inopportuno; se invece fosse stato lì per una visita di cortesia... beh. Eriko non avrebbe saputo cosa pensarne. Era conscia del fatto che il fratello si fidasse di lui. Erano amici, a quanto sembrava. Io e Raiden però non siamo di certo la stessa persona. Vero che non hai fatto passi falsi per il momento, ma cosa mi garantisce che non ne farai? Certo, Raiden di te si fida, ed io mi fido della parola di mio fratello. Non è un idiota. Ma questo non significa che tu ti sia ancora guadagnato la mia fiducia. E chissà quanto ce ne sarebbe voluto perché potesse veramente dire di essersela guadagnata.


    Edited by masterm#nd - 23/1/2024, 12:51
     
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    — In realtà cercavo proprio te, Eriko Yagami. Posso? mi diverte non sapere ancora come inquadrare tua sorella, Raiden. Non sapere da quale parte iniziare se non metto in gioco la legilimanzia. Mi diverte, quando invece dovrebbe spaventarmi, ritrovarmi a camminare sempre e soltanto su di un campo minato. Rischiare di calpestare una bomba ad ogni passo e poi ritrovarmi a saltare in aria solo io. Mi diverte l'incertezza, il modo - che io trovo stupido - in cui giochiamo al gatto e al topo. A chi sta sopra e a chi sta sotto. Sotto di me non c'è mai nessuno: non sono il tipo che bracca gli altri senza motivo. E quelli che sono sopra di me invece, beh, quelli sì che mi spaventano. Forse io sto così tanto nel mezzo da rischiare ogni fottuta cosa. Forse un giorno qualcuno mi punterà la bacchetta alla schiena. A forza di ripetermelo, dovrò iniziare a togliere il "forse" dall'inizio di ogni frase. Perché la merda l'attiro da me: non è una questione che può essere affidata ciecamente al caso. Il caso, in certi casi, non esiste. Esiste la lungimiranza. Il fottuto raziocinio che di tanto in tanto ripiego come un occhiale all'interno del taschino della giacca. Non me ne faccio un cazzo, solitamente. Non con loro, almeno.
    Perché di base sono qui per un concetto di reciprocità. Devo tanto a Raiden e a prescindere da questo, mi sono promesso di non venir mai meno a ciò che mi prefisso. Ho giurato presenza e allora eccomi, Eriko: sono qui perché della vostra famiglia voglio quantomeno occuparmene direttamente e non com'è che ci si aspetta dagli altri stronzi che portano il mio stesso nome comune.


    — Sono qui per farti alcune domande riguardo Raiden Yagami ovviamente sto scherzando: so cos'è che sono soliti chiedere i miei colleghi, tanto da farmi sentire un coglione in certe circostanze. Non è propriamente così che si indaga su qualcosa. Si può essere meno ridondanti e spiacevoli, ecco. Soprattutto quando si entra a casa di qualcuno che non si conosce. Porto rispetto persino io che, insomma, almeno ho suo fratello tra la schiera dei "pochi amici ma fidati".

    — So che lo segui su wiztgram. A me viene già da ridere così. Ma io sono io. Sono anche un po' boomer, se è per questo. A modo mio, certo, ma comunque uno con un umorismo un po' del cazzo. — E volevo chiederti, prima di tutto, se per te é normale che non aggiorni in alcun modo le sue pagine.
    Non so neanche com'è che funzioni, in realtà: io uso witzgam solo per pubblicare foto di Nicholas e per provare i filtri con lui. Ma insomma, la storia è sempre la stessa: io sono io. — Insomma, potrebbe pure lasciarsi geolocalizzare da qualche parte oso avvicinarmi a lei e poggiar così la spalla contro l'uscio della porta della cucina.

    — Me lo offriresti un tè? le sorrido con dolcezza, soprattutto ora che la porta è finalmente chiusa alle mie spalle. — Come ve la passate?



     
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    « Sono qui per farti alcune domande riguardo Raiden Yagami. » Il capo appena inclinato di lato, la giapponese inarcò elegantemente un sopracciglio, un'espressione neutra in viso se si ignorava il principio di un barlume divertito nello sguardo. Non ci voleva un genio a cogliere, dalla disposizione generale del suo ospite, che quello fosse il principio di un'osservazione ironica. « Effettivamente oggi non me ne ha ancora fatte, agente. Mi sembrava avessimo balzato il nostro appuntamento giornaliero. » E, come a rafforzare il concetto, la mora annuì appena. Sembrava seria, posata, quasi si aspettasse davvero un interrogatorio in una location differente. Ma era una caricatura, quella situazione, di un'esperienza vissuta troppe volte. D'altronde entrambi i partecipanti di quella conversazione sapevano benissimo che quello non fosse luogo per un incontro ufficiale, ed entrambi conoscevano il copione a menadito. Li trovava quasi divertenti, Eriko, gli interrogatori in generale, per quanto sbagliato potesse suonare. Ma dalla sua sapeva di essere una tomba e, a dire il vero, era esilarante risultare frustrante agli occhi di quegli Auror che non sapevano bene come approcciarla, quale bottone premere affinché cedesse e si lasciasse infine sfuggire quell'informazione di troppo. I più stupidi ai suoi occhi - come il povero Foster - pensavano addirittura di poterla intimidire. Alla fine è una ragazzina, pensavano con ogni probabilità. Ma lo era davvero, solo una ragazzina? Non solo Eriko era vissuta sotto dittatura, non solo aveva un passato nell'esercito, ma Eriko aveva anche vissuto con un vero e proprio tiranno in casa. Questo significava che, seppure non ne fosse mai stata il bersaglio diretto, non c'era nulla che sapesse fare meglio del non permettere fughe di informazioni. Era imprevedibile, Eriko, e forse era questo a renderla maggiormente un osso duro. «So che lo segui su wiztgram. » A quelle parole, che riprendevano un po' una situazione già vissuta, la Yagami portò lo sguardo attento sulla propria controparte. « Ah. La voce è giunta fino a lei? Brutta storia. » Commentò, in un sussurro mentre l'angolo della bocca scattava verso l'alto. « E volevo chiederti, prima di tutto, se per te é normale che non aggiorni in alcun modo le sue pagine. Insomma, potrebbe pure lasciarsi geolocalizzare da qualche parte. » Eriko, che aveva cominciato a spostarsi in direzione del piccolo cucinino, facendogli strada, lanciò un'occhiata oltre la propria spalla.
    leejieun_hdl_04-117
    « Potrebbe. » Rispose con una certa pacatezza. « Però, agente Cunningham, farsi geolocalizzare suona come un'operazione così complessa. Nulla toglie che possa non esserne capace. Io che ne so, d'altra parte, dei mille impedimenti di mio fratello? Sono qui e lui, fino a prova contraria, no. » Disse, fattuale e leggera. Chissà che pensano i suoi colleghi - se io sia impertinente, stupida o solo stronza. Magari non l'hanno ancora scelta, una categoria. E va benissimo così. Le faceva solo comodo che, chiunque si trovasse dall'altra parte, si sentisse estremamente confuso dal suo atteggiamento. Soprattutto se in ballo c'era la sicurezza dei fratelli, che era la sua assoluta priorità. Il Ministero britannico non poteva nemmeno immaginare quante ne avesse passate il trio composto da Raiden, Hiro ed Eriko, e di conseguenza non aveva idea del punto dove la giovane si sarebbe spinta pur di proteggerli. Ma in famiglia va così. Si vive in formazione a testuggine - sempre e comunque. I tre si erano sempre guardati le spalle a vicenda. Era sempre stato così. E adesso che non siamo più solo tre, vale lo stesso. La più piccola ci aveva messo un po' ad accettare l'entrata di Mia in quello che aveva sempre reputato uno spazio solo loro, ma alla fine l'americana il suo posto se l'era guadagnato. Ed ora era di famiglia anche lei. Il che si traduceva sì in più persone da proteggere - lei ed il nipote - ma pure più persone pronte a farlo. Erano un meccanismo talmente ben oliato che, Eriko ne era sinceramente convinta, non sarebbero bastate decine di Auror appositamente formati per comprometterlo. «Me lo offriresti un tè? Come ve la passate? » La ragazza gli scoccò uno sguardo che si collocava a metà tra lo scettico ed il divertito, prima di fargli cenno di accomodarsi al vecchio tavolo da cucina. Aprì la piccola dispensa, per osservare ciò che si trovava al suo interno. « Devi volerti proprio male, agente, per farti offrire del tè ad Iron Garden. » Pescò comunque qualcosa dal mobiletto, per tornare a guardarlo. « Dunque, la casa offre té verde, nero, oppure tisana alla melissa. » Una pausa dove sulle labbra piene della giapponese si dipinse un sorrisino sarcastico. « Scegli pure. Tanto nove su dieci sapranno comunque tutte di acqua sporca, indipendentemente. » E questa non era una conclusione dettata unicamente dal fatto che Eriko provenisse dal Paese del Sol Levante, dove il tè era cultura, dove la bevanda faceva parte di una tradizione centenaria. C'entrava anche il fatto che la qualità di quel tè fosse in sé pessima - questo passava ad Iron Garden. Forse potrei suggerire di piantarne un po' in serra. Ma non è un bene essenziale, quindi ne varrebbe davvero la pena? « Però non ti preoccupare - l'acqua è potabile da quel che dicono. » Lo era, ma era anche vero che avessero dovuto lavorare per renderla tale, perché quando erano arrivati lì, il quartiere era ancora più degradato. Gli rivolse un sorriso - il classico gentile, di chi lavorava col pubblico - poi mise su il bollitore. « Ce la caviamo. Il lavoro nobilita ad Iron Garden, e tutte quelle cose lì. Come saprai, si lavora sempre un sacco. Sia mai che non ci sia niente da fare - non possiamo rischiare di perdere la nobiltà una volta che l'abbiamo tanto faticosamente acquisita, no? » Nel tono leggero si era intrufolata una corrente lievissima di sarcasmo, leggera come una brezza, lo sguardo più sottile. Si voltò per recuperare due tazze dal ripiano dove avevano ordinatamente riposto piatti e stoviglie puliti. Le mise sul tavolo. « Gradisci altro col tè o preferisci mangiare qualcosa che abbia un sapore degno di tale nome, di solito? » Un altro sorriso speculare a quello precedente mentre attendeva una risposta. « Sì, comunque benone. Sempre detto che la piena libertà fosse un concetto un po' sopravvalutato. Soprattutto per soggetti pericolosi - si sa che mordono, no? » Un ulteriore principio. « Lei, invece, agente? Come va? » Ed ecco che con quell'ultima battuta aveva recuperato - seppur con un principio di ironia - le distanze precedentemente accorciate. Classic Eriko.


    Edited by masterm#nd - 23/1/2024, 12:54
     
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    Quello che so chiedermi è se la sua è un'impostazione alla Yagami o se il motivo di tale pokerface è l'essere giapponesi. Divertendomi, ovviamente, perché queste non possono che far parte di quelle stupide domande che uno è solito farsi tra sé e sé. Non le pone pubblicamente e per un verso, ne rimane persino geloso. Magari, nel mio caso, è che mi vergognerei di essere tanto cristallino. Non sono un bambino, non più, tanto da sapere come e dove porre dei limiti. I miei, ad esempio, ho imparato a conoscerli davvero molto, molto bene. Per questo mi limito ad ascoltarla: non perché non saprei cosa dirle, ma perché mi fa sorridere il modo con cui mi risponde. Mi tiene in un certo senso sulle spine e non riesco a capire né come né perché. Forse, star qui, sa darmi l'impressione di essere il baby sitter di turno. Sono divertito, come dicevo, attento e decisamente intenerito. Sarà che non so darle una connotazione minacciosa, anche se conosco buona parte della sua persona, della storia che ha scritto.

    — E per fortuna che noi maghi non abbiamo bisogno di mandare dei fax, sai come si complicherebbe la situazione? Toccherebbe spedire Raiden ad un corso di informatica o chissà che altro. Ho sentito di babbanologhi che di fax e stampanti non ci hanno mai capito molto. Fortuna vuole che nessuno di noi ha bisogno di quel tipo di "corrispondenza".

    — Sono uno di quelli che apprezza il pericolo. Oggi il tè qui, domani il paracadutismo da chissà dove. Sono solo step, Eriko. Partiamo da qualcosa di più piccolo per arrivare alla montagna più alta e imponente del mondo, a proposito... mi avvicino a lei sfilando la bottiglia di whisky dalla tasca della giacca. Incantesimo di estensione irriconoscibile. Non dico sia super affidabile, ma almeno è comodo. Comodo, sì, ma capace, comunque, di farmi fare il culo se scoperto.

    — Correggilo con questo, non è di chissà quale annata, ma almeno da sapore all'acqua sporca.
    Le giro intorno, senza toccare però nulla del mobilio. Questa casa non mi appartiene e dovrei in un certo senso sentirmi privilegiato nel metterci piede dentro. Onorato, ecco, come se stessi camminando a piedi scalzi in un tempio sacro.

    — Il lavoro, come si dice, nobilita il lupo...o era l'uomo? sorrido, seguendola non più solo con i piedi, ma anche con lo sguardo. Lo sa che non è questo ciò che penso o almeno, posso pensarlo di me: il lavoro mi nobilita, mi regala uno status, delle soddisfazioni personali, ma questo non vale per tutti e lavorare sotto sforzo, perché si deve, beh, è male. Il lavoro, seppur in modo utopico, dovrebbe essere piacevole. Non dovrebbero vivere per lavorare.

    — No no, ti ringrazio. Il tè basta e avanza. Alla fine, comunque, oso prendere posto su una delle sedie della cucina. Per tirar fuori sempre dalla stessa tasca un taccuino di pelle scura e una penna a china. Poso tutto sul tavolo, stiracchiandomi piano. Le vertebre scrocchiano appena, ma il loro è solo che un rumore leggero.

    — Piuttosto dimmi, oltre ai soldi, ovviamente, di quali beni primari avete bisogno? La bottiglia di whisky possono tenersela, per quanto mi riguarda. — Posso cercare di recuperarvi tutto il possibile in settimana. Ho persino trovato un obliviatore, magari così riuscirò a muovermi in queste zone più agilmente e - frequentemente. Ci penso, però, prima di rispondere alla sua domanda. Sospiro piano, come se avessi paura, in un certo senso, di scoprirmi al punto da restare completamente nudo dinanzi al suo sguardo.

    - Io sto bene. Mio figlio ha imparato da poco ad andare in bici e la cosa sembra piacergli molto. Magari presto lo useremo come corriere per il contrabbando, sia mai che il Ministero decida di prendersela anche con i bambini. suvvia, amici di Auror, minervini, sto scherzando.




     
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    « Sono uno di quelli che apprezza il pericolo. Oggi il tè qui, domani il paracadutismo da chissà dove. Sono solo step, Eriko. Partiamo da qualcosa di più piccolo per arrivare alla montagna più alta e imponente del mondo, a proposito... Correggilo con questo, non è di chissà quale annata, ma almeno da sapore all'acqua sporca. » Presa la bottiglia che Riley le aveva allungato, la giapponese si trovò ad esaminarla rapidamente prima di stendere un accenno di sorriso.
    leejieun_hdl_04-116
    La Yagami lo esaminò con lo sguardo mentre accettava la bottiglia che l'altro le aveva allungato. Inclinò il capo appena di lato, inquisitiva, prima di domandare: « Se sono solo step per la montagna più alta, qual è il tuo personale Everest? » Lo chiese con leggerezza, come fosse la domanda più ovvia del mondo. Lo era per un'Eriko che conosceva il proprio interlocutore solo per sentito dire, che aveva dovuto formare la propria opinione in merito basandosi solo ed esclusivamente sulle parole del fratello maggiore. Un'opinione che per lei contava moltissimo, certo, e che forse permetteva a Cunningham di non essere messo sotto scrutinio quanto un estraneo qualunque, ma che lo collocava più che altro in una zona grigia agli occhi della lycan. Non sei propriamente una minaccia, ma non sei nemmeno mio amico. E allora cosa sei esattamente? Eriko era lenta a fidarsi e, soprattutto in un ambiente come quello di Iron Garden, quella sua naturale tendenza si traduceva in un guardarsi le spalle da chiunque, quasi si aspettasse costantemente un passo falso. Forse il suo non era il metro di misura più misericordioso eppure, alla fin fine, era stata la vita a portarla ad essere così. In più i fratelli erano ricercati di alto profilo - riteneva soltanto lecito prendersi tutto il tempo necessario per farsi un'idea di chi aveva di fronte che fosse propria. Riley Cunningham era amico di suo fratello, e questa sarebbe stata una motivazione sufficiente per Eriko, se le sue esperienze di vita fossero state differenti. Ma gli amici non sono sempre così tanto amici, dico bene? Dipende molto da cosa la fonda, quest'amicizia. Cosa sta alla base. Non era stato raro, in fondo, specialmente in Giappone, che le persone si avvicinassero ai fratelli per via di ciò che i due rappresentavano - erano la compagnia giusta, un tempo, e sappiamo bene quanto conta trovarsi nei giri importanti. In molti si erano dimenticati in fretta di quella tanto decantata amicizia nel momento in cui questa era diventata sconveniente; la stessa Eriko aveva quasi perso la vita per mano di una persona che forse non era propriamente amica dei fratelli, ma che di certo non aveva mai mancato di cantarne le lodi. Finché gli è convenuto ovviamente. E forse l'agente Cunningham non aveva nulla da guadagnare in quel momento, non con Raiden ed Hiroshi ricercati e nemici dello Stato. Ma non aver niente da guadagnarci non è necessariamente sinonimo di aver qualcosa da perdere. In fondo, sebbene la situazione nel ghetto non fosse certamente ideale, per il momento era rimasta relativamente tranquilla. Non si era smosso ancora nulla perché si potesse parlare di cose in ballo e, per quanto l'attività sui social del nuovo Ordine della Fenice potesse gettare il Ministero nella confusione, era pur vero che non fosse stato fatto ancora nulla di concreto. « Quanto ce ne vuoi? » Gli domandò dunque, mentre osservava l'acqua bollire. « Acqua sporca con vago retrogusto o il contrario? » Una pausa, prima di aggiungere un'ironico. « Io andrei per la seconda, se proprio, ma l'ospite sei tu. » Si strinse nelle spalle con noncuranza: « Comunque accomodati pure. » Intanto l'acqua era arrivata a bollore. E lei, con un rapido gesto della bacchetta pescata dalla tasca, si premurò di prepararlo in silenzio e far poi fluttuare le tazze ed i piattini - chiaramente spaiati, che non facevano parte dello stesso servizio, una roba troppo lussuosa per Iron Garden evidentemente - fino al tavolo. Prese posto, come a dare l'esempio, su una delle due seggiole. « Il lavoro, come si dice, nobilita il lupo...o era l'uomo? No no, ti ringrazio. Il tè basta e avanza. » La giapponese, che nel frattempo stava osservando l'infusione del té fece guizzare lo sguardo in quello dell'uomo sedutole di fronte. « Qualcuno diceva addirittura che rende liberi. Mi dicono non sia finito benissimo però. » Un'osservazione colorata da una punta di sarcasmo, la sua. Una storia che, tra la passione per la storia in generale e le origini della madre, tedesca, Eriko conosceva molto bene. Probabilmente i maghi non sono stati altrettanto attenti. « Piuttosto dimmi, oltre ai soldi, ovviamente, di quali beni primari avete bisogno? Posso cercare di recuperarvi tutto il possibile in settimana. Ho persino trovato un obliviatore, magari così riuscirò a muovermi in queste zone più agilmente e - frequentemente » Di nuovo, lo sguardo chiaro di Eriko - cosa insolita per una giapponese, ennesima prova del suo retaggio - si sollevò in quello del suo interlocutore. « Beh, la situazione ad Iron Garden la conosci. In linea teorica abbiamo tutto ciò che serve, è la qualità di quel tutto che lascia a desiderare. » Altrimenti a Natale il Ministero non avrebbe indetto un mercatino dove venissero a farci la carità, ti pare? « Medicine e pozioni costano un occhio della testa. Lo stesso per qualsiasi cosa non serva a farci campare e basta. » Snocciolò, con una punta di sarcasmo. Tutte le cose utili ma non vitali, in fondo, venivano da fuori. « Le sigarette costano quel che fuori pagheresti un discreto pranzo. » Assottigliò appena lo sguardo, comunque, e gli domandò diretta: « Perché me lo chiedi? » Una pausa dove si umettò le labbra, inclinando appena la testa di lato nell'esaminare il volto di Riley. « Non fraintendere - immagino ci sia dietro un desiderio di dare una mano. Ma da cosa deriva? » E di conseguenza, quanto è solido? Sei il tipo da fare niente per niente? Lo fai in nome della tua amicizia con mio fratello? « Come funziona questo scambio? » Poi però, mentre toglieva la bustina di té dalla tazza - visto che il tempo di infusione era terminato - e si premurava di correggerlo, la sua attenzione parve essere attratta da ancora un altro dettaglio. « Un Obliviatore, addirittura. Misura preventiva o le cose si stanno mettendo molto male? » Una domanda fattuale, calcolata, quella di Eriko. Improvvisamente pareva forse anche più adulta nonostante la giovane età - negli occhi lo sguardo di chi ne aveva viste e vissute di ogni. o sto bene. « Mio figlio ha imparato da poco ad andare in bici e la cosa sembra piacergli molto. Magari presto lo useremo come corriere per il contrabbando, sia mai che il Ministero decida di prendersela anche con i bambini. » A quelle parole, Eriko stirò un sorriso a metà tra il genuino e l'amareggiato. « Finché è nelle schiere giuste, dubito fortemente tuo figlio corra alcun rischio. Alcuni, però, a quanto pare sono più pericolosi di altri, tipo quelli che dai dormitori sono stati spostati nelle celle sotterranee, ad Hogwarts. O quelli che vengono tenuti qui. » Scosse la testa, forse intristita da quella realtà, punta sul vivo. « Non sapevo avessi un figlio, comunque. Come si chiama? » Quello, d'altra parte, era uno dei pochi soft spot di Eriko. Le erano sempre piaciuti i bambini, forse anche per via della scelta obbligata di dover rinunciare al suo. Sentiva un'affinità particolare con loro, mista ad una nostalgia che non sapeva spiegarsi.


    Edited by masterm#nd - 23/1/2024, 12:55
     
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    Non dovrei dare per scontato di piacere anche a lei, ma per un momento succede e basta. Prendo posto a sedere, mi convinco di essere in una zona potenzialmente neutrale per me e poi finisco per rendermi conto di non poter rilassare minimamente in muscoli. Non ci sarà mai, un momento, per far sì che questo possa succedere. E io come uno stolto me ne convinto, ci sguazzo e finisco per non sapere più a cosa cazzo stessi pensando all'inizio. Poi tiro su col naso, mi concentro sulle mie abitudini e tutto il mondo torna al proprio posto. Anche in questo buco di culo. Anche quando la prossima decisione più importante sarà scegliere quale acqua più schifosa e diluita bere. Ma le buone maniere, per un certo verso, non me le lascio mancare. Così come il sorriso che, comunque, a modo suo serve a regolare meglio i rapporti sociali.

    — Devo ancora trovarlo il mio personale Everest, intendo — Per questo mi getto a capofitto nelle cose: perché, ancora per poco, ho il privilegio di poter sbattere la testa. Il che è potenzialmente vero, certo e non sono nessuno io per dover fingere del contrario. Non devo rispondere alla pietà con la pietà, né omettere la verità in virtù di un'illusione migliore. Non voglio che il mondo possa vivere nella menzogna. Per questo sono duro, per questo finisco per non piacere a nessuno. Perché la verità mi si legge in faccia. Perché le informazioni, quando devo, le nascondo solo ai cattivi.

    — Ma mi premurerò di farti sapere la risposta, quando questa giungerà. Tiro fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni -questa volta- e lo lascio scivolare dinanzi a noi. Che se ne serva, se vuole. D'altronde gli Auror sono sì, dei cani, ma non da tartufo. Non correranno in casa perché capaci di fiutarne a distanza l'odore. Questi dettagli, solitamente, non interessano a nessuno.

    — Vada per la seconda opzione, comunque. L'acqua è un bene primario, lo lascerei a voi. Sono ironico, ma riconosco quando una battuta sa essere piacevole e quando no. So che questa è pungente, ma ci arrivo solo troppo tardi a capire che forse ha risuonato proprio di merda. Ma non mi scuso. Non sono bravissimo a farlo. — Beh, sì aggiungo dopo un lungo momento di pausa, appuntando ogni cosa che dice come se non ne conoscessi alcuna. Come se fossi così estraneo da non poter minimamente capire. Per questo oso interromperla o almeno, mi infilo di scarto in quello che sembra essere un vero e proprio flusso di coscienza. — Lo hai detto, so come funziona qui. Il fatto è che sto chiedendo a te cosa vuoi. Cosa volete tu e la tua famiglia. Di tornaconti personali non ne ho. Odio dovermi spiegare, ma ci sta, ha senso, d'altronde è normale diffidare l'uno dell'altro. — Devo solo molto a tuo fratello, tutto qui. Quindi...prego, l'obliviatore mi serve per evitare che qualcuno possa rendersi conto di questa gentilissima concessione. Sorrido mesto, portandomi la sigaretta alle labbra — Posso? agito l'accendino come per farglielo vedere meglio.
    — Comunque Nicholas. Mio figlio si chiama Nicholas e ha quasi cinque anni.



     
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    « Devo ancora trovarlo. Per questo mi getto a capofitto nelle cose: perché, ancora per poco, ho il privilegio di poter sbattere la testa. Ma mi premurerò di farti sapere la risposta, quando questa giungerà. » Tutto e niente, in pratica. Non c'era vera e propria cattiveria dietro quel pensiero della giapponese che, d'altra parte, non si era certamente aspettata una risposta più specifica. Eppure, a guardarlo così, Eriko non vedeva del desiderio di evitare la sua domanda, dell'evasione, in quelle parole di lui. Più un'espressione di una ricerca vera e propria, un'insoddisfazione di fondo forse. Si chiese, per un attimo, se gli avesse posto un quesito troppo ambizioso; si domandò se qualcuno conoscesse davvero il proprio personale Everest. In fondo, per quanti piani si possano voler fare, la vita sembra sconvolgerli di continuo. Lei ne era la prova vivente, come lo era la sua famiglia nella propria interezza. Bastava prendere come esempio Mia e Raiden che si erano tanto impegnati per iniziare a costruirsi una vita tranquilla, che con tanta dedizione avevano fatto di tutto per costruirsi un presente sereno. Questo però non ha impedito loro di trovarsi separati, di doversi vedere di nascosto. Pur avendo un'idea di ciò che voleva, la faccia di Raiden è comunque finita sui manifesti. L'impegno non è bastato. Lo sguardo della ragazza cadde quindi sul pacchetto di sigarette - il bene non primario che lei stessa aveva appena menzionato.
    leejieun_hdl_04-125
    « Posso? » Chiese comunque, nonostante la posizione stessa del pacchetto fosse di per sé un invito a chiare lettere. « Per inciso, Raiden non ha idea che io fumi. E se ce l'ha, è molto bravo a far finta di no. » Un implicito invito, insomma, a non farne parola col maggiore. Non che, all'attuale, l'Auror avesse più mezzi di lei per farlo in ogni caso. Però non si è mai abbastanza cauti. E comunque quella famosa fiducia sta anche in queste cose, no? E tu, mi pare di capire, stai cercando di guadagnarti la mia. « Vada per la seconda opzione, comunque. L'acqua è un bene primario, lo lascerei a voi. » Aspettò di correggergli la bevanda, Eriko, sia per tornare effettivamente a guardarlo che per allungarsi e prendere una sigaretta. Si stava rigirando il bastoncino tra le mani quando sorrise: « Gentilissimo. » Osservò con una punta di amara ironia. « Me ne ricorderò se mai le sorti dovessero ribaltarsi. » L'aveva reputato effettivamente offensivo, la giapponese? No. La sua intendeva essere una maniera per fargli capire che prima o poi le sorti si sarebbero effettivamente ribaltate? Nemmeno. Eppure trovava estremamente triste, umiliante persino, che quel genere di ragionamento si applicasse ad una situazione reale, la sua, e che fossero infine davvero giunti al punto in cui dovevano centellinare forse non proprio l'acqua, ma i beni primari in sé. « Beh, sì. Lo hai detto, so come funziona qui. Il fatto è che sto chiedendo a te cosa vuoi. Cosa volete tu e la tua famiglia. Di tornaconti personali non ne ho. » Eppure quello che stai facendo alla mia famiglia lo è per definizione, un favore personale, perché mi fa un po' strano che tu non abbia proprio alcun tornaconto. Era malpensante, Eriko? Forse sì. Eppure, nell'ambiente in cui si trovavano era difficile, se non impossibile, non diventarlo. In più, comunque, la sua esperienza le aveva insegnato che difficilmente le persone facessero niente per niente. «Devo solo molto a tuo fratello, tutto qui. Quindi...prego, l'obliviatore mi serve per evitare che qualcuno possa rendersi conto di questa gentilissima concessione. » A questo era già più disposta a credere. Probabilmente avrebbe in seguito indagato anche con Raiden - per essere proprio sicura - di cosa legasse i due. Di cosa, esattamente, il fratello avesse fatto per guadagnarsi la sua lealtà. Più che altro dubitava Riley sarebbe stato schietto in merito - o forse sapeva che non gli avrebbe del tutto creduto. Comunque, per il momento, si limitò ad annuire. « Beh, qui dentro c'è anche mio nipote. » Introdusse la giapponese, constatando probabilmente l'ovvio. Riley doveva sapere di Haru così come sapeva di Mia, anche soltanto perché era amico di Raiden. « Non fraintendere - facciamo tutto ciò che possiamo perché stia bene. Tutti. » Che in quel "tutti" fosse incluso anche il padre del bambino era scontato, come era scontato che ognuno di loro facesse qualunque cosa potesse per garantire al cucciolo di casa una vita dignitosa. Eppure, Haru era per Eriko particolarmente importante. Le veniva naturale, istintivo, renderlo la sua priorità più assoluta nel momento del bisogno. Forse era invadente, talvolta, ma proprio non riusciva a curarsi di una piccolezza del genere nella situazione in cui si trovavano. « Però se si potesse garantirgli qualcosa di ancora migliore, senza contare che comunque non si è mai abbastanza in campana coi bambini, soprattutto qui, tra influenze ed altro, sarebbe ottimo. » Aggrottò appena la fronte, pensosa. « Dipende anche, ovviamente, da quanto e cosa puoi fare. Obliviatore o meno, immagino tocchi essere molto cauti con le richieste. Quindi ti chiedo - quali sono le tue possibilità? Realisticamente. » Perché se c'era una cosa che si poteva dire di Eriko Yagami è che non era tipa da voli pindarici. E soprattutto, per quanto la prospettiva di dover appoggiarsi a qualcuno che conosceva poco non l'entusiasmasse, non intendeva approfittarsene. Un po' perché sarebbe stata una mossa molto incauta ed un po' perché non era lei ad avere il coltello dalla parte del manico, in quelle circostanze. « Posso? » Annuì con una certa noncuranza, aspettando che accendesse la propria, di sigaretta, per chiederglielo a sua volta in prestito e fare lo stesso. O più aprire la mano ed aspettare che glielo porgesse. « Comunque Nicholas. Mio figlio si chiama Nicholas e ha quasi cinque anni. » Sorrise, Eriko, stavolta genuina. « Piccolo. Sa già leggere? » Chiese. « Comunque, stavo pensando - questo obliviatore è affidabile? Non è che domani si sveglia e decide di vendere il tuo culo? » Una pausa. Eriko non intendeva tanto mettere in dubbio le scelte dell'uomo, quanto fargli sottilmente capire che non si era mai abbastanza sicuri, nella vita. Lei lo sapeva bene, questo. « Malfidata e impertinente, lo so. Purtroppo mi disegnano così. »



    Edited by masterm#nd - 23/1/2024, 12:56
     
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    In realtà apprezzo il modo in cui sa muoversi con cautela. Come quello che sembra essere un palo al culo, poi si rivela una misura preventiva a far sì che niente possa crollare di nuovo. E loro, la merda, l'hanno vista fin troppo da vicino. Ancora ne sentono l'odore nel naso e quello basta ad obnubilare tutti gli altri sensi. Persino il cibo sa far schifo in una condizione del genere e per quanto io voglia far del mio meglio per evitare tutto questo, poi mi rendo conto di essere semplicemente una goccia dell'immenso oceano in cui tutti, nessuno escluso, ci ritroviamo a galleggiare. E a volte la mare è così alta che non ci basta sapere come restare fermi con l'acqua alla gola. A volte i cavalloni ci travolgono e allora ci insegnano come trattenere il respiro. Come far scorta di tutto ciò che abbiamo a disposizione: ad allentare i polmoni, ad esercitare la pazienza.
    Annuisco, però, quando la vedo accettare la mia offerta taciuta. In un sorriso che mi si fa paterno in viso quando mi fa l'appunto su suo fratello. Sono un padre, un auror, un ragazzo che ormai va verso i quarant'anni, ma non un cane.

    — Certo, fa pure. Sarà un segreto solo nostro. Mi batto il pugno in petto proprio come fa mio figlio quando si diverte a giurarmi qualcosa. Quando gli piace il cameratismo che si forma in casa - e, ovviamente, solo per gioco -
    Poi non aggiungo altro, in realtà ci sono momenti e momenti per essere leggeri e questo, per quanto sia nella mia premura forzarlo come tale, poi finisce per non essere adatto allo scopo. E sono serio, sì, quando le chiedo cos'è che vuole, perché so, bene o male, di cos'è che ha bisogno una famiglia, soprattutto laddove c'è un bambino. Dettagli che Eriko si premura di ricordarmi velocemente.
    Accendo anche io la sigaretta insieme a lei, mentre con gli occhi resto a leggerle le labbra. Non perché non riesca a sentirla, quanto per imprimere meglio i messaggi che ci stiamo mandando. Ci riflesso su solo così. Solo quando so di potermi aggrappare a qualcosa di fisico e tangibile.

    — Non lo so, è una prova anche questa. Ovvio che non potrò scaricarvi bancali di farmaci e sigarette, ma così com'è entrato il whisky, una confezione o due di antibiotici ci riesce in altrettanto modo. Magari vengo una volta a settimana se c'è bisogno di fare carichi più piccoli. Una volta al mese, invece, se mi rendo conto di poter portare più cose senza farmi scoprire. Trattengo una boccata di fumo tra le labbra. La mando giù nei polmoni, lascio che si rimescoli per poi scappar via dalle narici. E mi rilasso così, con la schiena che premo contro lo schienale della sedia e le gambe che stiracchio, allungandole fin sotto al tavolo.

    — L'obliviatore è importante e per ora sembra ok, ma non mi fido nemmeno io, ovviamente. sorrido quando mi chiede di Nicholas. Non so perché, ma questa mi sembra la domanda più importante di tutte. — Sta imparando adesso, un po' in anticipo rispetto agli altri, ma va bene così. L'altro giorno gli ho comprato il libro pop up del piccolo principe: non importa che ci siano su le figure, quelle poche parole che fanno da sfondo, lui sa leggerle. Non le capisce, ma sa di poter chiedere a me ogni cosa.

    — Comunque tornando a discorsi più utili, s'intende — Proprio perché non mi fido ho comprato questo e le faccio vedere il taccuino che ho tirato fuori prima. — Voglio chiederti il favore di riportare, nella tua lingua, le mie memorie, così da poterci tornare qualora succeda qualcosa di brutto. Fumo ancora, cercando con lo sguardo una finestra. — Ogni volta che verrò qui lo porterò con me. Quando avremmo finito, lo chiuderò e questo tornerà al Moon, il locale queer babbano che sta a Camden Town. Lo ripeto ad alta voce proprio per capire se tutto questo ragionamento sa ancora filare bene per me. — Qualora dovessi vedermi strano o non sapere il motivo per il quale vengo qui ogni settimana o ogni mese, ricordami che " la mia follia sta sulla luna". Io chiederò all'obliviatore di cancellare solo quei pensieri che portano al bene di questa famiglia e delle altre, ma se dovesse fottermi, beh, avrò bisogno di ricordare chi sono, dove vivo e gli occhi di mio figlio. Magari sono troppo drammatico, chissà.
    — Secondo te ti sto chiedendo troppo?



     
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    « Certo, fa pure. Sarà un segreto solo nostro. » Stese un sorriso millimetrico, la giapponese, guardandolo con occhi attenti. Raiden dice che sei una brava persona, pensò, nell'ispirare la prima boccata di fumo. Chissà perché. Eriko si fidava del giudizio del fratello, come già detto; allo stesso tempo, però, sentiva sempre fortissima la necessità di toccare con mano, capire da sé che tipo di persona avesse, esattamente, davanti. Su Riley Cunningham - che comunque si stava dimostrando corrispondente alla descrizione del maggiore degli Yagami - non aveva ancora un'opinione propria. Si muoveva, nei suoi confronti, come si farebbe in un terreno sconosciuto. Certo, poteva sembrarle tranquillo e privo di trappole - ma non era forse un ragionamento, quello, applicabile anche alle sabbie mobili? Non era forse proprio perciò che queste ultime risultavano tanto letali? Non avrebbe risolto quell'arcano quel pomeriggio, la lycan, di questo era piuttosto certa. Aveva bisogno di tempo. Perché solo il tempo potrà dimostrarmi davvero di che pasta sei fatto, Riley. « Non lo so, è una prova anche questa. Ovvio che non potrò scaricarvi bancali di farmaci e sigarette, ma così com'è entrato il whisky, una confezione o due di antibiotici ci riesce in altrettanto modo. Magari vengo una volta a settimana se c'è bisogno di fare carichi più piccoli. Una volta al mese, invece, se mi rendo conto di poter portare più cose senza farmi scoprire. » Annuì piano, a segnalare che stesse seguendo il suo discorso. Solo una volta esalata la boccata di fumo dopo un ulteriore tiro gli parlò di nuovo.
    leejieun_hdl_04-121
    « Beh, chiaro. » Cominciò in tono sicuro e risoluto. « Devi valutare cosa ti crea meno problemi - se venire qui più spesso oppure se far entrare più roba. » Fece una pausa - era evidente stesse soppesando le due opzioni. « Personalmente penso la prima. Se dovessero trovarti qualcosa addosso, alla fine, potresti giustificare il tutto dicendo che sia roba tua. Non c'è mica scritto da nessuna parte che non puoi avere con te cose che ti servono. » Asserì risoluta, prima di inclinare il capo leggermente di lato. Con la mano libera appellò un piattino affinché i due potessero utilizzarlo come posacenere. Vero che questo tavolo non è dei più nuovi, ma non mi pare il caso di infierire e sporcarlo anche. « So che i visitatori ed i residenti vengono perquisiti sia all'entrata che all'uscita da qui. » Riley doveva sapere dove stesse andando a parare. Ed infatti, dopo aver dato un leggero colpetto alla sigaretta per liberarla dal tocco di cenere che vi si stava formando, risollevò lo sguardo sull'uomo. « Sulla carta varrebbe anche per voi... » Una breve pausa, dove gli occhi svegli della Yagami cercarono quelli del suo interlocutore. «... quanto sono ligi al dovere i tuoi colleghi, Riley? » Era un'ovvietà quella che gli stava chiedendo. Un'ovvietà, sì, ma che comunque serviva a capire quanto potesse chiedergli. Cosa, esattamente, potesse entrare all'interno del ghetto senza destare sospetti o creare problemi all'Auror. In fondo qui non mancano soltanto medicine e sigarette. E mio nipote non vede della carne degna di tale nome da troppo tempo. « In ogni caso non serve nemmeno che cerchi scuse per venire qui ogni volta. Sai dove lavoro. Finché si tratta di far scivolare la mano, di cose piccole, c'è sempre il Rusty Rose. » Abbozzò un sorriso sarcaastico. « E per te il limite di consumazione nemmeno esiste, quindi... » L'alcol che smerciamo è robaccia - e quella era la parte divertente - ma non verresti nemmeno lì per bere. Quindi. Quello che Eriko stava facendo, era aiutarlo a costruire un piano solido per avviare quelle loro collaborazioni - e coi piani, la giapponese, era piuttosto brava. Se non lo fosse stata, d'altra parte, non sarebbe stata seduta a quel tavolo a parlare con il suo improbabile ospite. In Giappone Eriko Yagami era a lungo stata sottovalutata - ridotta alla sorella di Raiden ed Hiroshi - e questo, molto a lungo, le aveva bruciato incredibilmente. Tuttavia, oltre l'indignazione personale, il venire sottovalutata perché donna - quindi in teoria piccola, carina e soprattutto innocua - le tornava piuttosto utile. Per quanto potesse non piacerle quel ruolo, Eriko sapeva stare dietro le quinte. Ci si sapeva destreggiare, muovercisi agilmente.
    Annuì un paio di volte, sorridendo appena alle informazioni di Cunningham circa suo figlio. Tuttavia, quando l'Auror le fece una richiesta un po' particolare, lo sguardo di Eriko si fece più serio ed attento: « Voglio chiederti il favore di riportare, nella tua lingua, le mie memorie, così da poterci tornare qualora succeda qualcosa di brutto. Ogni volta che verrò qui lo porterò con me. Quando avremmo finito, lo chiuderò e questo tornerà al Moon, il locale queer babbano che sta a Camden Town. » La giapponese inclinò appena la testa, osservandolo con ancora più minuziosità. « Qualora dovessi vedermi strano o non sapere il motivo per il quale vengo qui ogni settimana o ogni mese, ricordami che " la mia follia sta sulla luna". Io chiederò all'obliviatore di cancellare solo quei pensieri che portano al bene di questa famiglia e delle altre, ma se dovesse fottermi, beh, avrò bisogno di ricordare chi sono, dove vivo e gli occhi di mio figlio. Secondo te ti sto chiedendo troppo?» La giovane si umettò le labbra, osservando il proprio interlocutore con sguardo indecifrabile. « Senti. » Asserì decisa. « Non penso che tu sia un idiota, no? » C'era una tale fattualità nella domanda di Eriko che non solo era evidente non stesse cercando di offenderlo - e se sei così sensibile affari tuoi, francamente - ma che la domanda fosse anche retorica. Un antefatto alle sue parole successive: « Vero che non sei in una posizione ideale, ma immagino che ti accorgeresti se le cose stessero per prendere una brutta piega. Se fossi un cretino, d'altronde, Raiden non avrebbe così tanta stima di te. » Una breve pausa in cui la mora lo guardò negli occhi, seria, ad accertarsi che stesse seguendo il suo discorso. « Proprio per questo, se dovessi renderti conto che le cose si mettono male per te... piuttosto parlane. » Glielo disse con la sua solita schiettezza. « Questo non vuol dire, ovviamente, che io mi stia tirando indietro dal prendere le precauzioni che servono. Se pensi fare questa cosa posa essere utile - scriverò quello che devo. Non solo in Giapponese, ma in Kansai-ben. Stretto. Così siamo, eventualmente, in campana. » Un tiro ancora prima di pronunciare. « Però due cervelli ragionano meglio di uno, quando la situazione si fa brutta. E l'eroe solitario è accattivante solo nelle storielle per tredicenni. Quindi, se ti rendessi conto che la situazione si fa brutta, o che ti osservano, dillo chiaramente per favore. Prima di arrivare ad un punto di rottura. »
     
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    Non mi rendo conto, anche se a volte è tanto istintivo, di lasciarmi guidare dalle loro gesta. Che se fumano in un modo io tendo ad assimilare quel modo. Che se parlano con un tono, allora io cerco di fare altrettanto. Non mi rendo conto e forse va bene così, di aver mantenuto ben salda quella capacità bambina che porta alla formazione. Sto crescendo anche adesso, sì, che di anni ne ho forse tanti in più di lei e le rughe d'espressione sul viso sanno farsi un po' più accentuate di prima. Forse ora me ne rendo conto di più. Forse, mi dico, la stanchezza sta prendendo il giusto sopravvento sulla carne. Ma questa casa profuma di porto sicuro. Nonostante la scomodità delle sedie e l'impressione più che veritiera di essere braccati e tagliati fuori dalla società.
    Una parte di me invidia questa controversia possibilità ma, d'altronde, sono solo un uomo stanco e stanchezza vuole che io finisca per pensare ciò che è impensabile e ad agire nel senso di un'utopia folle.
    Così torno a fumare quando fuma lei. A muovere le dita quando le muove lei. E l'ascolto come se le sue parole fossero mie e allora i suoi ragionamenti potessero in un qualche modo formarsi nella mia testa. L'abbraccio come meglio posso e solo così sento di poterle dimostrare tutto il mio sostegno.

    — Ligi secondo la loro idea di giusto. Mastico piano, incastrandomi la guancia tra due denti.
    — Se non avessero già messo occhio su parte della mai natura, forse non avrei nemmeno il terrore di dover essere tanto attento. Sto solo riflettendo ad alta voce, quindi se queste parole non dovessero aver senso, beh, presumo che mettendole insieme riusciremo a ricavarne qualcosa di buono. — Diciamo che ogni informazione che trovano è utile a renderli un po' più reattivi. Sono ligi con me perché infastiditi dal 1/4 di veela, ma morbidi, quando si rendono conto che la veela è un vecchio ubriacone. Faccio cenno col capo verso la fiaschetta di whisky. — Non sono nemmeno sicuro che vadano esattamente così le cose. Probabilmente è proprio l'ignoto a rendermi stupido e paranoico. Quindi sì, eviterei di non pensarmi un idiota: sono un uomo, sono fallimentare come tutti gli altri uomini che finirai per conoscere. Cerco con lo sguardo un bicchierino di plastica da riempire con un po' d'acqua per così gettarci il mozzicone di sigaretta. Lo faccio ascoltando ciò che ha da dirmi sul Kansai-ben, che immagino debba essere una qualche forma dialettale del giapponese o roba simile.

    — Sì, stai tranquilla. Sbuffo piano, ma non per dimostrarle noia o fastidio. È solo che sto pensando e questi pensieri, beh, non sono poi così tanto felici. — Ho la legilimanzia dalla mia...almeno credo. Sorrido. Perché sì, sono un uomo e in quanto uomo, sono fallimentare. È una di quelle leggi filosofiche dette da qualche stronzo che adesso nemmeno ricordo.



     
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    « Ligi secondo la loro idea di giusto. » Ne hanno una, Riley? Un concetto che non si prese il disturbo di esprimere ad alta voce, ma che si riflesse comunque nel lungo sguardo che rivolse al proprio interlocutore. « Se non avessero già messo occhio su parte della mai natura, forse non avrei nemmeno il terrore di dover essere tanto attento. Diciamo che ogni informazione che trovano è utile a renderli un po' più reattivi. Sono ligi con me perché infastiditi dal 1/4 di veela, ma morbidi, quando si rendono conto che la veela è un vecchio ubriacone. » Il tempo che Riley Cunningham aveva impiegato ad esprimere quel concetto, Eriko l'aveva apparentemente impegnato per fare l'ennesimo tiro da quella sigaretta che si stava lentamente consumando tra le sue dita esili. Esalò una nuvoletta di fumo bianco, inclinando la testa appena di lato. « Allora non fargliene trovare. » Stava constatando l'ovvio, la giovane lycan? Si poteva dire fosse troppo dura, poco duttile nei confronti delle persone circostanti? Magari si dimostrava poco comprensiva, poco incline ad esplorare gli anfratti dell'animo umano, quasi non gliene importaasse niente. Eppure non era esattamente così. La giapponese poteva non commentare, talvolta non dare segno di reagire ai particolari di cui gli altri la rendevano partecipe, eppure ne prendeva comunque nota. Come in quel frangente specifico, dove parve osservare il proprio ospite per una frazione di secondo di troppo. « Non sono nemmeno sicuro che vadano esattamente così le cose. Probabilmente è proprio l'ignoto a rendermi stupido e paranoico. Quindi sì, eviterei di non pensarmi un idiota: sono un uomo, sono fallimentare come tutti gli altri uomini che finirai per conoscere. » La giovane inclinò il capo di lato, lo sguardo fisso sul viso dell'altro, sbattendo le palpebre prima di schioccare la lingua contro il palato. Scosse piano la testa nello sbuffare una leggera risata dal naso.
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    « Non sono d'accordo. » Disse piano. E quando mai si poteva affermare che Eriko Yagami fosse assolutamente d'accordo con un qualsiasi concetto che qualcun altro le sottoponeva? Uno dei motivi per i quali Eriko non stava bene in Giappone e del perché venisse considerata una personalità piuttosto particolare, addirittura difficile, era che non aveva peli sulla lingua. Non le mancavano le definizioni formali dei concetti di gerarchia o di ciò che era educato fare, ma era solita scegliere in maniera molto arbitraria quando rispettare sia l'uno che l'altro. Nel Paese del Sol Levante, ed in realtà non solo lì, vedersi contraddire tanto spesso quanto lei faceva con le persone circostanti, di certo non contribuiva a creare l'immagine di una giovane donna posata. « Sì, sei fallimentare perché lo siamo tutti. Ma la paura dell'ignoto non ti rende paranoico - si definisce paranoia uno stato psicologico di delirio, non una piega reale che la situazione potrebbe prendere. Tu stai rischiando e vuoi essere cauto. Ci sta. » Si strinse nelle spalle come avesse detto qualcosa di estremamente ovvio, distogliendo lo sguardo per osservare la sigaretta che si consumava. In realtà, che Riley volesse prendere tutte le precauzioni del caso era un ottimo segno. Significava che fosse attento. Certo, questo si rivelerebbe essere un problema enorme nel qual caso scegliessi infine di giocare per il nemico perché fare il buon samaritano non ti conviene più, ma in ogni caso, almeno, so che tipo di individuo ho di fronte. « Io ti stavo soltanto dicendo di non prendere sulle spalle più di quanto le stesse non possano sopportare. Sono due questioni un po' diverse. » Lei, d'altra parte, con quel tipo di persone ci era cresciuta. Tra i due fratelli non sapeva chi avesse maggiormente quella tendenza - se Raiden o Hiroshi. Probabilmente, in maniera del tutto inconsapevole, anche lei finiva per assumersi più responsabilità di quante non le spettassero. Forse era proprio per questo che aveva aperto quella parentesi in primo luogo - perché sapeva in prima persona quanto facile fosse pensare di potercela fare per conto proprio. « Sì, stai tranquilla. Ho la legilimanzia dalla mia...almeno credo. » A quelle parole Eriko stirò un mezzo sorriso senza dire niente. Restò in silenzio per qualche istante, poi prese l'ultimo tiro di sigaretta e spense il mozzicone nel piattino.
    « Ti è mai capitato di farti un giro nelle teste dei tuoi colleghi? » Gli chiese ad un certo punto, un'espressione imperscrutabile in volto. Lo sai che tipo di persone sono? Come ci vedono? Il pensiero corse alla questione del Pulse. Lo sai che a quanto pare ad Iron Garden non è tutto così regolare come sembra? « Secondo me potresti scoprire un sacco di cose interessanti sul genere di individui che ti circondano, se lo facessi. » Troppo enigmatica? Forse. Eppure, come già detto, Eriko era il tipo di persona che giocava con le distanze. E non solo quello - le piaceva portare il proprio interlocutore ad esaminare, dubitare, porre e porsi domande. Per esempio le sarebbe risultato innaturale sottoporgli direttamente la questione del Pulse, però se fosse stato lui a venirne a conoscenza - o esserlo di suo - non avrebbe esitato a sfruttare la cosa. « Comunque, Riley. Definiamo un altro aspetto di tutta questa storia. » Sorrise, tamburellando le dita contro la superficie del tavolo. « Poniamo che io abbia bisogno di uscire di qui senza che si sappia. Potrei contare sul tuo aiuto o preferiresti restarne fuori? »

     
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    Vorrei rivalutare questi colloqui tanto da arrivare a considerarli come piacevoli. Ma piacevoli non lo sono mai, nemmeno quando ho la fortuna di trovare qualcuno come Eriko e allora posso concedermi una mezz'ora di vera pausa. Un momento in cui tener i muscoli rilassati perché sono mosso dalla fiducia e allora anche un posto come la casa in un ghetto sa sembrarmi un posto felice.
    Vorrei sapermi resettare del tutto, come se mi fosse facile ricominciare da zero. O mi fosse concesso da chi, su di me, comunque cerca di mantenere il controllo assoluto di ogni pedina. D'altro canto non sono nient'altro che questo: la pedina di una scacchiera che conosco solo perché mi è stato fatto percorrere casella per casella un centinaio di volte. Conosco la strada, sì, le sue varie inclinazioni più o meno naturali, ma non come finirà la partita. Sono solo un paio di gambe, non un gran cervello. Di solito eseguo, non mi è concesso alcun estro creativo. E sarebbe così persino in questo istante se non mi fossi convinto ad andare oltre e allora sono arrivato qui con le idee più o meno chiare.
    Ma questo può significare poco e niente. So di star rischiando molto, ma d'altro canto è il rischio stesso parte del mio mestiere. O di ciò che sono. Ciò che deve aver fatto innamorare Esmeralda almeno per quella notte in cui ci siamo ritrovati a metter al mondo nostro figlio.
    Non dico di essere un uomo giusto, immagino solo di starci a provare. Di impiegarci più o meno tutto me stesso, senza troppe scuse e con tutti quei pochi mezzi che ho a mia disposizione. E rido, quando Eriko puntualizza il significato della paranoia. Non so perché mi sfugge, mi convinco solo che sono istanti come questo a rendere la situazione ancor meno formale. Dovrei ammorbidirmi, più di quanto già non abbia fatto, anche se so che il mio tempo qui sta scadendo.

    — Allora ti ringrazio per il consiglio e no, di diciamo che se posso evito di farmi sentire così tanto. Comunque la legilimanzia potrebbe lasciare tracce ed è nei miei intenti lavorare in modo pulito. Ma è quando mi alzo e faccio per sistemarmi i pantaloni sulle ginocchia che mi fermo. Non so nemmeno perché, ma mi rendo conto di come il mio sia un continuo rimbalzare tra cosa vorrei fare e cosa non posso. La legilimanzia la uso solo quando necessario, per lavoro, quando serve, ma mai per sport. Ricordo quando sono stato tentato con Nathaniel e ricordo com'è che sono andate le cose. A volte so bene di dovermi ritenere tanto fortunato: perché per come sono forse non avrei motivo di essere qui. Forse la bravura non reggerebbe un temperamento del cazzo. Forse, più mi sforzo di far sì che questo sia il mio lavoro più finisco per allontanarlo da me. Allora questo ruolo finisce per non appartenermi più. Così come non mi appartiene questa pelle, questo mondo.

    — Puoi contare su di me. Lo so, lo voglio, non saprei rispondere diversamente. D'altronde vivo di incoerenze e di alti e bassi. L'alto di oggi è fare il possibile al costo di tutta una carriera lavorativa e peggio.

    — Ma prima che vada dimmi dov'è che andresti. Non mi sembra una domanda illegittima. D'altronde abbiamo posto questi accordi sulla base della sincerità e non la pongo per farmi i suoi affari quanto per sapere quanto e cosa devo proteggere. Sono domande che servono all'oggettività della questione. — e salvati il mio contatto, così puoi rintracciarmi anche quando non sarò nei paraggi.




     
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