nowhere to stand and nowhere to hide

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    Il freddo di metà gennaio si faceva sentire nelle strade deserte della periferia lonidinese; si trattava di un freddo pungente, che si insinua tra i mattoni grigi degli edifici circostanti, saltuariamente accompagnato da brevi raffiche di vento che facevano svolazzare i fogli di giornale abbandonati sul marciapiede. Avvolta nel pesante mantello di lana nera, June si strinse nelle spalle, nel tentativo di trattenere il calore corporeo. Sollevò appena la manica della giacca per gettare una rapida occhiata all’orologio da polso e, in un gesto vagamente impaziente, sfregò tra loro le mani guantate. Le tre e quarantadue del mattino. Esattamente otto minuti in anticipo rispetto all’orario concordato con Eliphas e, soprattutto, diciotto minuti esatti dal momento in cui la passaporta illegale li avrebbe trasportati nelle Isole Faroe. L’orario in cui si erano dati appuntamento non era certo dei migliori ma, complice la taglia che ricadeva sulla testa di entrambi, il viaggio che li attendeva si preannunciava più lungo e faticoso del normale e l’oscurità avrebbe limitato le possibilità di essere riconosciuti. Una volta giunti a Tórshavn, la capitale dell’arcipelago, avrebbero dovuto procedere a piedi lungo il terreno scosceso, fino ad una seconda passaporta nelle vicinanze del faro di Argir. Da lì, sarebbero giunti nei pressi di Hvannhagi, dove una barca li avrebbe condotti fino alla destinazione finale di Lìtla Dìmun. Viaggiare direttamente da Londra a Hvannhagi sarebbe stato più semplice ma, al contempo, potenzialmente più rischioso. Gli stranieri che si addentravano nell’arcipelago erano rari, soprattutto nelle cittadine più piccole e rurali, in cui mancavano i presupposti per il commercio o il turismo vero e proprio. Non a caso, June era riuscita a organizzare quell’intricato itinerario unicamente con l’aiuto di Leif, un mago danese che aveva conosciuto durante la sua permanenza tra i Maridi e che, come abitante del posto, li avrebbe aiutati a passare il più possibile inosservati – o, se non altro, avrebbe loro fornito un minimo di copertura.
    Udendo un leggero rumore di passi provenire dal vicolo, June si sporse appena oltre l’androne di un palazzo in cui si era momentaneamente rifugiata per ripararsi dal freddo. Solo quando la figura in avvicinamento fu abbastanza vicina da permetterle di riconoscere il profilo di Eliphas, avanzò in strada per andargli incontro. Accennò ad un sorriso e, nonostante l’ora tarda, gli occhi chiari brillarono nell’oscurità. « Hey, buongiorno. » Esitò un istante, osservando il cielo completamente buio. « O forse sarebbe meglio dire buonasera. » Affondò le mani nelle tasche e lo studiò per qualche istante, le iridi che corsero immediatamente allo zaino che il demonologo portava in spalla. Durante l’organizzazione del viaggio, aveva stilato una lista di ciò di cui entrambi avrebbero avuto bisogno: indumenti termici e resistenti alle basse temperature, scarponi da trekking, delle torce babbane, cibo da viaggio, riserve di acqua e qualche pozione ed erba d’emergenza. « Sei riuscito a trovare tutto il necessario? » Gli domandò, leggermente nervosa. Mentre parlava, il fiato caldo si condensò nell’aria in una piccola nuvoletta di vapore. « Io ho portato anche un thermos di caffè caldo, ma credo sia meglio berlo dopo la passaporta. » Ci manca solo che iniziamo il viaggio vomitando l’anima. Solo allora parve ricordarsi di qualcosa di estremamente importante, tanto che si bloccò sul posto, scoccando un’occhiata incerta in direzione di Eliphas. « Hai mai usato una passaporta? » Gli domandò, sperando vivamente che la risposta fosse affermativa. O per lo meno, dimmi che non sei debole di stomaco.

    […] Tutto ciò che June riuscì a vedere, una volta trasportata in territorio danese, fu l’oscurità. Istintivamente, puntò la bacchetta davanti a sé per controllare l’atterraggio ma, non ancora abituata all’assenza di luce, si ritrovò ad inciampare nei suoi stessi piedi e ricadere carponi. Starnutì, avvertendo l’odore intenso di erba, salsedine e terra bagnata impregnarle le narici, e rotolò maldestramente di lato. Per qualche istante rimase lì, sdraiata sul terreno umido, stordita dalla sensazione di vertigine e dalla forza con cui il vento le schiaffeggiava il viso. Infine, si alzò cautamente a sedere, scrutando l’ambiente attorno a sé. « Eliphas? » Chiamò, alzando la voce per sovrastare il fischio del vento. « Tutto bene? » Strizzò gli occhi, nel tentativo di mettere a fuoco la figura del demonologo. Sopra di loro, il cielo era tempestato di nuvole talmente fitte da bloccare la luce della luna, un'oscurità così profonda da sembrare quasi palpabile. Anche con l’aiuto di una bussola magica, orientarsi non sarebbe stato semplice e avrebbero dovuto avanzare cautamente per evitare spiacevoli incidenti. « Non siamo stati fortunati con il tempo. » Figurati. Soffocò un sospiro, stringendo appena le labbra per non lasciar trasparire la propria frustrazione. Si rialzò rapidamente si pulì le mani sul mantello, prima di allungarne una in direzione del warlock per aiutarlo a rialzarsi. « Se non altro siamo ancora tutti interi. » Scherzò, cercando di alleggerire la situazione, mentre ruotava cautamente su sé stessa; le raffiche fredde la investirono con forza, facendo ondeggiare i lunghi capelli scuri e sbattendo il mantello contro il suo corpo esile. Il paesaggio attorno a loro era selvaggio, fatto di roccia scura, sabbia e ciuffi d'erba. Accompagnato dal vento, l'odore del mare permeava nell'aria, in un misto salmastro di alghe e salsedine che si mescola con il profumo della terra. In lontananza, appena visibile come la debole fiamma di una candela intenta a spegnersi, si staglia un agglomerato di luci tremolanti. « Quella è Tórshavn. Il che significa che dobbiamo andare da questa parte. » Istintivamente, si voltò fino a dare le spalle alla città; sfilò una torcia babbana dalla tasca laterale dello zaino e l’accese, illuminando un sentiero aspro ed accidentato che si stagliava davanti a loro. Affondò la mano guantata nella tasca del mantello e, con un luccichio, controllò l’indicazione riportata sulla bussola magica. « È la direzione corretta. » Allungò il piccolo oggetto in direzione di Eliphas affinché anche lui potesse controllare e fece per cedergli la torcia. Complice la luce artificiale, il volto di Eliphas appariva pallido e tirato, le ombre che danzavano sulla pelle chiara accentuandone i lineamenti ed il segno, appena più scuro, delle borse sotto gli occhi. D’un tratto le parve più stanco, o forse solo preoccupato. Esitò per un istante, la mano ancora chiusa attorno al manico della torcia. « Puoi tornare indietro, se vuoi. » Pronunciò le parole con voce calma, stranamente confortevole, mentre la fronte leggermente increspata non riusciva a nascondere un sentore di preoccupazione. La presenza di Eliphas sarebbe stata un vantaggio non da poco dal punto di vista diplomatico eppure, sebbene June comprendesse le ragioni del suggerimento di Tris, non riusciva a scacciare la fastidiosa sensazione di averlo messo in una posizione in cui gli sarebbe stato impossibile tirarsi indietro. « Apprezzo che tu abbia accettato di venire con me, ma non devi farlo solo perché hai promesso il tuo aiuto. So come arrivare a Argir e da lì ci sarà Leif ad accompagnarmi, perciò posso anche cavarmela da sola. » Sarebbe più facile da credere se lo avessi detto in un vicolo di Londra rispetto alla Terra di Mezzo, ma il succo non cambia. « Se vuoi tornare indietro puoi ancora farlo. La passaporta si dovrebbe attivare di nuovo tra circa sette minuti. » L’aveva programmata apposta, nel caso di un imprevisto – e, un po’, anche nell’eventualità in cui il ragazzo avesse deciso di cambiare idea. Dopotutto, il cammino che li aspettava era tutto fuorché confortevole; non lo avrebbe certo biasimato se avesse preferito tornare indietro.
     
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